La locandiera, a. I, scena IX; La serva amorosa, a. I, sc. XIV; a. III, scena ultima. Il
ritorno dalla villeggiatura, a. I, sc. V; a. II, sc. VII (a partire da “nell‟agitazione in ...
INTRODUCTION A LA LITTÉRATURE ITALIENNE MODERNE
1748-1900 FONTI Carlo Goldoni La locandiera, a. I, scena IX; La serva amorosa, a. I, sc. XIV; a. III, scena ultima. Il ritorno dalla villeggiatura, a. I, sc. V; a. II, sc. VII (a partire da “nell‟agitazione in cui era”), a. II, sc. XI; a. III, sc. XII Vittorio Alfieri Vita scritto da esso, Epoca III, capitoli XIII-XV Ugo Foscolo 1) Da Ultime lettere di Jacopo Ortis: a) lettere del 13, 14 e 15 maggio; b) lettera da Ventimiglia, 19 e 20 febbrero, a partire da: “Alfine eccomi in pace!” 2) Da Poesie: sonetti “Alla sera”, Non son chi fui, Solcata ho fronte, Nè più mai toccherò, Un dì, s’io non andrò, Che stai Alessandro Manzoni Da I promessi sposi: capitoli IX (a cominciare da: “Le donne si sarebber trovate ben impicciate; oppure dall‟inizio del capitolo) e X; capitoli XX e XXI; capitolo XXII (fino a: “dove si trovava il cardinale”), e cap. XXIII, fino a: “povera nostra travagliata” [edizione Oscar Classici Mondadori con le illustrazioni originali di Gonin; le storie della Monaca di Monza e dell‟Innominato] Giacomo Leopardi 1) Da Operette morali: Dialogo della natura e di un Islandese, Dialogo di Cristoforo Colombo e Gutierrez. 2) Da Canti: Alla luna, L’infinito, Passero solitario, Canto di un pastore errante, A se stesso. La Scapigliatura Cletto Arrighi, “Suicidio”; Arrigo Boito, L’Alfier nero Giovanni Verga 1) Da Vita dei campi: Fantasticheria, Cavalleria rusticana, L’amante di Gramigna 2) Da I Malavoglia: prefazione.
CRITICA Romano Luperini, Pietro Cataldi, La scrittura e l’interpretazione. Storia della letteratura italiana nel quadro della civiltà e della letteratura dell’Occidente, Palermo, Palumbo, 1999, vol. II, Dal Manierismo al Romanticismo, pp. 411-1020; vol. III/I, pp. 1-248, 307-320.
CALENDRIER (COURS MAGISTRAL)
I: Introduzione alla cultura e alla letteratura dei Lumi II: L‟Illuminismo italiano. Il teatro e Goldoni. III: Trasformazioni e crisi dei Lumi IV: “Le tournant des Lumières” in Italia: Alfieri V: Foscolo VI: Introduzione al romanticismo europeo VII: La letteratura italiana nell‟età del Romanticismo. Manzoni e il romanzo storico VIII: Leopardi prosatore e poeta IX: Introduzione alla cultura del secondo Ottocento X: Introduzione al positivismo e al naturalismo europeo XI: La scapigliatura XII: Il verismo in Italia: Verga
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Lezione I Introduzione alla cultura e alla letteratura dei Lumi
I. In termini molto generali, il XVIII secolo è il secolo dei Lumi (Lumières, Illuminismo, Aufklärung, Enlightenment, Ilustración). Ma che cos‟è l‟Illuminismo? In senso molto generale, l‟Illuminismo asserisce che l‟espansione e la diffusione dei Lumi (lumi dell‟esperienza, della ragione, della filosofia) aumenta la “felicità” degli individui e delle nazioni. Per “felicità” il filosofo illuminista intende pace, “ricchezza”, prosperità. Egli probabilmente allude anche a un senso di maggiore sicurezza di fronte alle forze ostili della natura (catastrofi, epidemie, ecc.). In particolare, la diffusione dei Lumi dovrebbe rendere possibile la promulgazione di leggi sagge, moderate, equee, che contribuiscano alla pace fra gli individui e fra le nazioni. Definizione di Kant (nel saggio Was ist die Aufklärung?, 1784): “L‟illuminismo è l‟uscita dell‟uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l‟incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. È questo il motto dell‟illuminismo.” Concretamente, quali sono i grandi temi del pensiero illuminista? 1) la critica della superstizione e del pregiudizio, cioè l‟esame critico (compiuto appunto con gli strumenti dell‟esperienza e della ragione) di quelle opinoni che sono basate non sulla ragione e sulla natura, ma su passioni irrazionali, difficilmente giustificabili, come la paura del castigo, il timore della vendetta divina, il rispetto di autorità ritenute senza motivo infallibili. 2) la critica del principio di autorità, cioè l‟esame critico di quei poteri e di quelle opinioni espresse da autorità la cui legittimità non riposa su un consenso universale fondato sulla ragione e sulla natura. Fra le autorità così contestate figurano il principe (che in genere nel Settecento è sovrano assoluto), la nobiltà, le diverse chiese e i loro rappresentanti terreni (teologi, sacerdoti, “Immam”, “preti”), i libri sacri delle diverse religioni (la Bibbia, il Corano), i misteri e i dogmi di queste religioni (la trinità, l‟incarnazione, l‟eucaristia), le opere dei grandi filosofi antichi (Aristotele, Platone) e le opinioni che ne sono state dedotte (per esempio l‟opinione secondo cui la terra è al centro dell‟universo, le stelle sono fatte di una sostanza diversa da quella terrena, la Bibbia è una fonte di conoscenza storica infallibile, ecc.) 3) la convinzione che i sensi, l‟esperienza e la ragione (nella misura in cui appunto elabora i dati dell‟esperienza) siano i nostri principali strumenti di conoscenza. Sono questi strumenti naturali, insiti nella natura umana e presenti in ogni individuo, non facoltà soprannaturali, straordinarie, frutto di rivelazioni particolari. 4) L‟idea che il progresso tecnico (nei campi della medicina, dell‟industria, dell‟agricoltura, della scienza economica e sociale), reso possibile dallo sviluppo delle moderne scienze
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sperimentali, sia un‟importante fonte di prosperità e felicità per il genere umano (ragione strumentale o utilitaria). 5) l‟idea che l‟uomo sia un essere naturale, fatto di sensi, affetti e ragione, che cerca il piacere e la felicità nella sua esistenza materiale e corporea, in quanto individuo e in quanto membro della società, attraverso il commercio con altri individui. In questo senso si parla a proposito dell‟Illuminismo una “riabilitazione della natura umana”, di quella natura che il cristianesimo in senso lato condannava o riteneva parte inessenziale dell‟uomo. 6) un altro importante motivo dell‟illuminismo è il cosidetto “deismo”, o religione della ragione. Per capire che cos‟è il deismo, bisogna contrapporlo ai dogmi, ai riti, alle pratiche delle diverse religioni “rivelate” o istituzionali (ebraismo, Islam, cristianesimo e all‟interno del cristianesimo, cattolicesimo, calvinismo, ecc.). Per il deismo, Dio è creatore onnipotente e architetto dell‟universo, e deve essere “adorato” in quanto principio della nostra esistenza e della nostra felicità. Dotandoci di sensi e ragione, Dio ci ha fornito i mezzi per acquistare la conoscenza di una legge morale destinata a regolare i rapporti fra gli uomini e a procurarci la felicità. Per il deismo legge morale e legge divina coincidono. Dio vuole il nostro bene e la nostra felicità, e ci comanda solo quelle azioni che possono contribuire all‟acquisto della felicità. È invece superstizioso credere che Dio esiga dall‟uomo penitenze e mortificazioni (atti di cieca devozione e sottomissione) al solo scopo di manifestargli la propria autorità e il proprio illimitato potere. Uno dei corollari del deismo (in quanto religione della ragione) è che il suo trionfo metterà fine alle guerre di religione. Per il filosofo illuminista queste ultime sono guerre particolarmente incomprensibili e irrazionali in quanto spingono, in nome della divinità, a commettere delitti e peccati contro di essa. 7) un‟altra idea tipica dell‟Illuminismo è che lo Stato, le sue leggi e l‟autorità del sovrano dovrebbero essere basati sul consenso generale (il cosidetto “contratto sociale”) e sulla costante ricerca dell‟utile collettivo. 8) il pensiero illuminista asserisce infine con molta frequenza che la società e lo Stato dovrebbero essere riformati e “rigenerati” in base ai principi della natura e della ragione, principi che per tanti secoli sono stati trascurati o dimenticati per influenza del caso, della superstizione, di molti poteri arbitrari e illegittimi. Fra le riforme che vengono proposte nel corso del diciottesimo secolo vi sono: la limitazione del potere del principe (in altre parole, anche il sovrano dovrebbe essere sottoposto alle leggi da lui promulgate, e quindi è necessaria una qualche forma di divisione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario); l‟applicazione del principio della sovranità popolare (attuato per esempio attraverso l‟elezione di un corpo legislativo da parte del popolo); il riconoscimento del diritto degli individui e delle nazioni alla libertà (libertà di movimento, libertà d‟opinione, scioglimento da vincoli feudali o altri, ecc.) ; l‟abolizione dei privilegi feudali e ecclesiastici; l‟abolizione della schiavitù della gleba [servitude]; l‟abolizione della tortura e della pena di morte, la riforma del sistema fiscale (ai fini di renderlo più equo e efficiente e di accrescere le entrate dello Stato); la riforma dell‟amministrazione, l‟istituzione di scuole pubbliche (statali) e di università finanziate dallo Stato; una riduzione della miseria e dell‟ineguaglianza economica. A causa del potente impulso riformatore che caratterizza tutto il diciottesimo secolo, uno dei grandi storici di questo periodo ha coniato l‟espressione di “Settecento riformatore” (Franco Venturi). Il periodo durante il quale si costituisce e diffonde l‟Illuminismo viene in genere fatto coincidere con gli anni 1680-1715, gli anni della cosidetta “crise de la conscience
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européenne” (Paul Hazard), durante i quali sarebbe avveuta la transizione dalla visione del mondo cristiana a quella illuminista, moderna e scientifica. Più tardi, a partire dagli anni ‟70, con la rivoluzione americana, ma poi soprattutto con la Rivoluzione francese (che è un grande esperimento politico compiuto sul corpo di una nazione), l‟Illuminismo, da riformatore diventa rivoluzionario, e si tenta un‟applicazione diretta e globale delle sue idee. Le traversie della rivoluzione francese e le situazioni inedite che vengono in tal modo a crearsi mettono definitivamente un termine all‟età dell‟Illuminismo. Ma già dalla metà del secolo (con Rousseau, d‟Holbach e altri) e poi soprattutto in Germania a partire dagli anni ‟70, l‟Illuminismo si era trasformato e radicalizzato e per molti versi era entrato in crisi. Come si vedrà in seguito, l‟evoluzione della letteratura europea nella seconda metà del Settecento (da Rousseau in poi) è un eccellente testimone di queste trasformazioni. Ma alcuni dei grandi temi dell‟Illuminismo rimangono vivi almeno fino alla fine del secolo, e continueranno a vivere in forme diverse anche dopo. Un breve riferimento a alcuni nomi e a alcune opere dell‟età illuminista permetteranno di dare un senso più preciso e concreto a quanto detto finora in termini molto generali. Ricordiamo in particolare gli autori e le opere seguenti: Abbé de Saint-Pierre, 1708, 1737 (vedi specchietto cronologico); Buffon, 1744, Histoire de la terre; La Mettrie, 1745; Montesquieu, 1748; Voltaire, 1759, 1763, 1764; Evangile de la raison, 1764; Rousseau, Discours sur les sciences et les arts (1750), Discours sur l’origine de l’inégalité (1755), Le contrat social (1762), Emile (1762); Diderot, 1751-1772, Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers. II. Veniamo ora a qualche considerazione su alcune delle istituzioni culturali, su alcuni aspetti storici e sociologici dell‟età dell‟illuminismo: 1) Il 1748 è l‟anno della pace di Acquisgrana che mette fine alle guerre di successione. È inoltre l‟anno in cui comincia il lavoro redazionale dell‟Encyclopédie e in cui è dato alle stampe L’esprit des lois. 2) il Settecento è il secolo della rivoluzione agraria (realizzata in parte anche nella valle del Po e nell‟Italia settentrionale): si intensifica il processo delle enclosures o recinzioni; si diffonde la conduzione capitalistica e il lavoro salariato agricolo; si mette fine ai pascoli comuni; si espande la superficie coltivata; sono introdotti il mais e la patata. Fra gli anni Quaranta e Ottanta si sviluppa inoltre l‟industria cotoniera, che tende a sostituire la filatura della lana. Negli ultimi due decenni del secolo si ha in Inghilterra la rivoluzione industriale. L‟Italia resta divisa non solo dal punto di vista politico ma anche economico (in almeno tre regioni diverse, nord, centro e sud) 3) Uno degli aspetti importanti della prima metà del secolo (su cui qui non ci soffermeremo) è la società cortigiana francese, società soddisfatta di sé e del grado di civiltà che ha raggiunto (Voltaire, in Le mondain, del 1736, scrive “le Paradis terrestre est à Paris”), e che si esprime attraverso una viva curiosità per il presente, un edonismo frivolo e leggero, una cura per le occasioni gradevoli della quotidianità, il tepore piacevole di salotti e giardini, fra damine incipriate e cavalieri imparruccati. Mi riferisco alla cosidetta civiltà rococò (da rocaille, “decorazione minuta di roccia artificiale, fatta di sassolini e conchiglie, termine diffusosi dopo il 1730; di Rococò si comincerà invece a parlare con accezione solo negativa verso la fine del secolo). Come tendenza artistica, e come riflesso di questa civiltà, il rococò si esprime nei quadri di un Watteau o di un Boucher (in Italia Giambattista e Giandomenico Tiepolo, il Canaletto, Pietro Longhi).
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Un approssimativo equivalente italiano del rococò è la civiltà dell‟Arcadia, accademia fondata a Roma nel 1690 con intento di reazione al barocco e diffusasi poi in tutta Italia. I maggiori poeti dell‟Arcadia (Rolli, Vittorelli, ecc.) celebrano il corpo femminile, i suoi ornamenti e i suoi vezzi in quadretti miniaturistici, a un tempo sensuali e mondani. Un altro tipico esempio di questa civiltà settecentesca, edonistica e frivola, è il cicisbeismo, l‟istituzione del cavalier servente, corteggiatore, servitore, amatore se non amante, che accompagna la dama nei suoi spostamenti nel corso della giornata, e la cui posizione particolare (con i suoi diritti e doveri) sono a volte fissati addirittura nei contratti matrimoniali. La figura del cicisbeo è spesso rappresentata e ridicolizzata dagli autori del Settecento, per esempio in molte commedie di Goldoni, e nel capolavoro di Giuseppe Parini, Il giovin signore. 4) In Italia nella prima metà del secolo il 60% dei letterati italiani (tutti praticamente membri dell‟Arcadia) sono nobili ed ecclesiastici. Nel Settecento abbiamo l‟importante figura dell‟abate (dall‟aramaico av, padre; nel medioevo superiore di un monastero), titolo onorifico per chi gode di benefici ecclesiastici o per chi vestendo l‟abito ecclesiastico si distingue per particolari meriti culturali (Metastasio, Galiani, Cesarotti, Parini). Altra tipica figura della cultura settecentesca, soprattutto italiana, è l‟erudito: direttore di una biblioteca (Magliabechi), studioso di storia, filologo, ricercatore di documenti, catalogatore di dati (Antonio Muratori, Scipione Maffei, Girolamo Tiraboschi). 5) Altro importante fenomeno del Settecento è la diffusione delle gazzette e dei giornali. Le gazzette (spesso controllate dal governo) erano fogli volanti in cui si dava notizia di avvenimenti importanti, avevano cioè funzione di informazione politica. I giornali avevano invece obiettivo di informazione culturale e libraria. Era chiamato giornalista chi scriveva in questi giornali letterari, dei quali esistevano diversi tipi: a) il giornale erudito, secondo il modello del Journal des Savants francese (1665-), che conteneva estratti di libri e memorie scientifiche. Le Nouvelles de la République des lettres di Pierre Bayle, stampato in Olanda, presentava un carattere non solo informativo ma anche polemico e personale. In Italia i più importanti furono il Giornale de’ letterati d’Italia pubblicato a Venezia fra il 1710 e il 1740, e il fiorentino Novelle letterarie (1740-); b) in Inghilterra, con l‟abolizione della censura (1695) si diffonde il giornale politico: The Review (Defoe), The Tatler [Il chiacchierone] (Steele), The Spectator, di Addison e Steele, fondato nel 1711 (arriverà a vendere 20.000 copie al giorno). In Italia, più tardi, appaiono giornali di impronta polemica e critica, e di attualità non solo erudita: La frusta letteraria di Baretti (63-65), Il caffé dei fratelli Verri (64-66), primo giornale politico-culturale in Italia, l‟Europa letteraria che poi diventa il Giornale enciclopedico di Domenico Caminer e della moglie Elisabetta, 1768-1797. Il sociologo e filosofo tedesco Habermas teorizza a partire da questo fenomeno che nel Settecento nasce una nuova tipo di spazio pubblico, basato su un‟etica della discussione. 6) importante nel Settecento è la diffusione della nuova scienza fisica, e in particolare della teoria newtoniana, basata sulla legge della gravitazione universale, attraverso opere di divulgazione scientifica come quelle di Fontenelle (Entretiens sur la pluralité des mondes, 1686), Voltaire (Eléments de la philosophie de Newton, 1736) e Algarotti (Il newtonianismo per le dame, 1737). 7) importanti nel Settecento sono l‟esperienza e il viaggio, non per motivi mercantili o d‟affari, ma per conoscere i luoghi e i costumi. Gentiluomini e letterati compiono un viaggio di formazione in Europa e in Italia, il grand tour, che incoraggia una delle tendenze tipiche dell‟epoca, il cosmopolitismo. Berkeley, Montesquieu, De Brosses inviano dall‟Italia lettere
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familiari come resoconto di viaggio (1716, 1718, 1739). Algarotti scrive i Viaggi in Russia, Baretti le Lettere familiari, Goethe il Viaggio in Italia [Italienische Reise, 1786-88). 8) Nel Settecento abbiamo un‟estensione dell‟alfabetizzazione che verso la fine del secolo raggiunge il 52% dei maschi in Francia, il 65% in Inghilterra. Come conseguenza nell‟editoria si sviluppa un moderno sistema imprenditoriale (sempre in Inghilterra), che comincia a tutelare i diritti degli editori e degli autori e organizza la diffusione del libro. La vendita dei romanzi concede a un autore come Fielding l‟autosufficienza economica. Si diffondono così la saggistica e il romanzo e si diffondono nuovi modi stilistici, legati a nuovi intenti didascalici e all‟intrattenimento di un pubblico più vasto di quello tradizionale: il modo patetico-sentimentale (nel melodramma, nel dramma borghese, nella commedia lacrimosa, in romanzi come quelli di Richardson); e quello ironico-parodico (che ritroviamo nel poema didscalico, nella satira, nel saggio, nel romanzo filosofico o umoristico). Si afferma anche il romanzo psicologico (soprattutto attraverso il romanzo epistolare: Marivaux, Richardson) e viva è la tendenza all‟autobiografia. Centrale il teatro come già nel Seicento: ma diventa sempre meno teatro di corte e sempre più teatro cittadino, a pagamento. Si afferma il melodramma, a cui Apostolo Zeno e Metastasio cercano di dare dignità, associandovi un elemento eroico (opera seria). Ma presto prevale l‟elemento sentimentale e comico: l‟opera buffa nata nel 1733 con La serva padrona del Pergolesi si diffonde in tutta Europa e prende il sopravvento sull‟opera seria. L‟opera buffa si rivolge a un pubblico più popolare, i libretti sono scarni e aperti a influssi gergali, i cantanti e gli orchestrali sono di levatura più modesta, ma proprio il ridimensionamento del virtuosismo canoro sviluppa uno spiccato senso teatrale, una gestualità quotidiana, la rappresentazione di conflitti generazionali e sociali, la rappresentazione di sentimenti e tenere passioni. 9) Il Settecento segna la fine della figura dell‟intellettuale cortigiano, dipendente dalla nobiltà e al suo servizio (come indizio di questa transizione si pensi al disprezzo manifestato da Alfieri nei confronti di Mestastasio, “poeta cesareo” alla corte di Maria Teresa d‟Austria). Cresce inoltre sensibilmente la presenza del terzo stato, della borghesia nella cultura: in Francia 70% dei collaboratori dell‟Encyclopédie provengono dal ceto borghese ( avvocati, insegnanti, commercianti, medici, funzionari). Anche in Italia alla fine del Settecento il 70% degli intellettuali sono estranei alla borghesia. Nella seconda metà del secolo l‟intellettuale tende a diventare polemista, giornalista, pamphlettista, legislatore e riformatore della società (vedi il famoso libello di Beccaria). La figura del letterato cade in discredito, i Philosophes e verso la fine del secolo gli idéologues si riuniscono in salotti o in caffé, e si organizzano in società molto più libere delle tradizionali accademie. 10) Il fatto culturale e editoriale più importante del Settecento è l‟Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, che cerca di combinare la forma del dizionario di Bayle con la forma più scientifica e enciclopedia promossa da Bacone. La trattazione è condotta per voci alfabetiche (oltre 60.000) e mira a organizzare tutto il campo del sapere: suo fine è la “pubblica utilità”, “la felicità”, “l‟interesse generale”. Diderot alla voce “arte” distingue fra arti liberali e meccaniche, e esalta le seconde per la loro maggiore utilità (e perché realmente si sforzano di renderci felici). Premesse teoriche sono una concezione empirica e eclettica, che rifiuta ogni visione totalizzante e sistematica (un piano divino dell‟universo), e prende atto della relatività della prospettiva umana. 11) Il teatro del Settecento (suo contributo alla costituzione di uno spazio pubblico e di un‟etica della discussione): come vedremo in modo più specifico, riguardo all‟Italia, con Goldoni, in tutto il teatro del Settecentovi è una tendenza a eliminare la distinzione fra teatro
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accademico, erede del teatro di corte, riservato a un pubblico di elevato livello sociale, e teatro “popolare”, povero nei costi di produzione e fruizione, privo di ambizione culturale, legato al modello unico della commedia dell‟arte. Come conseguenza di questa tendenza, le categorie di tragico e comico, mutuate dalla classicità e di impostazione classista, sono messe in discussione mentre si profilano soluzioni alternative: tragedia borghese, commedia lacrimosa, dramma domestico. In tutto il teatro del Settecento si insiste sulla funzione morale e pedagogica del teatro, teorizzata da d‟Alambert, Diderot, Lessing, e sul suo ruolo di riflessione sulla società contemporanea. Nel Settecento abbiamo inoltre dibattiti su spettacolo, allestimento scenico, recitazione. In Italia riforme che hanno per artefici Metastasio (preceduto già in parte da Apostolo Zeno), Goldoni, Alfieri: è loro precisa volontà, restituire dignità al genere teatrale, riqualificare il ruolo dell‟attore, ristabilire la definizione dei vari generi. In Francia i teatri parigini sono sempre più affollati (Comédie française, théâtre italien, Opéra), vi sono inoltre i teatri di corte per la nobiltà (Versailles, Fontainebleau, Tuileries) ma anche sale a gestione privata. In Germania si aspira a un teatro nazionale. Ovunque si rappresentano opere in musica italiane, su libretti verseggiati in lingua italiana. La scuola italiana del “bel canto” fabbrica ugole prodigiose, grande motivo di richiamo per il pubblico. Nel secolo precedente era preminente il ruolo dell‟apparato scenico, di stupenda magnificenza, ora invece è il canto a appassionare il pubblico più di ogni altra cosa. Le spese maggiori dell‟allestimento sono assorbite da assunzione di evirati e virtuose. I cantanti virtuosi hanno un‟invidiabile forza contrattuale, che irrita profondamente Goldoni. Il dramma in musica perde così la sua specificità teatrale per trasformarsi in vero e proprio recital, concerto vocale del virtuoso. Abbiamo allora il despotismo e i capricci del cantante, che indossa stravaganti costumi e disprezza l‟azione scenica. Questa tendenza è però contrastata dall‟esigenza illuminista di riformare i costumi, di fare del teatro un luogo di dibattito culturale, di critica sociale, di riforma morale e civile. Importante da questo punto di vista Diderot, che pone l‟esigenza di rappresentare in scena l‟uomo medio, e insiste sull‟ambientazione sociale della vicenda. Le sue più chiare formulazioni si trovano nell‟Entretien sur “Le fils naturel”, in appendice alla commedia che porta questo titolo. Diderot insiste sull‟importanza di trattare soggetti quotidiani, lontani dal genere astratto della tragedia, all‟interno di un genere mediano, il dramma borghese, a metà fra il genere comico e tragico. Riguardo alla tecnica recitativa Diderot insiste sull‟importanza di un tono quotidiano e non declamatorio, arrivando addirittura a sostenere, nel Paradoxe du comédien, che l‟attore dovrebbe mantenersi estraneo alle passioni. D‟Alembert nella sua voce Ginevra dell‟Enciclopedia insiste sulla funzione educativa del teatro, scuola di virtù e costumi. Nella sua risposta Rousseau condanna il teatro, che vede come veicolo di corruzione per la pubblica morale (Lettre à d’Alembert, 1758). Per lui l‟unica forma di spettacolo degna di una società di uomini liberi è la festa, in cui tutti i presenti sono contemporaneamente attori e spettatori. Cerca così di ricuperare l‟originale valore ecclesiale del teatro e fornisce la base teorica per quelle che saranno le feste rivoluzionarie dopo il 1789. In Lessing abbiamo la chiara affermazione di una recitazione a misura d‟uomo, e di una drammaturgia legata alla realtà contemporanea, etica borghese e moderna coscienza nazionale. Nella volontà di ristabilire un nesso fra teatro e letteratura l‟aveva preceduto Gottsched. A naturalezza e verosimiglianza nella recitazione mira anche Konrad Ekhof, maggiore attore tedesco del tempo, che introduce lo studio dell‟arte scenica nella sua accademia teatrale. Lessing nel 1667 prende la direzione di un nuovo teatro a Amburgo, nel ruolo di dramaturg, cioè responsabile della scelta dei testi da mettere in scena. Fra il 67 e il 69 scrive la sua Drammaturgia d’Amburgo, nella quale teorizza il nuovo ruolo del pubblico, chiamato a elaborare un giudizio criticamente attivo sullo spettacolo, in relazione con la funzione pedagogica dell‟evento scenico, in rapporto diretto con la realtà economica, politica
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e intellett contemporanea. Si ha quindi svalutazione di artifizi scenici e dello sfarzo di allestimenti che miravano soprattutto a entusiasmare lo spettatore. Importante invece destare nel pubblico un atteggiamento di realismo critico. Quanto all‟Italia possiamo ricordare lo schietto interesse degli Arcadi per il teatro in reazione agli eccessi spettacolistici del teatro barocco: esigenza di rinnovamento che si riflette nelle opere di Gravina, Muratori, Martello e Maffei, tutti e quattro mossi da propositi di riforma. Contro la concezione dello spettacolo come puro divertimento (importanza della scenografia e della dimensione spettacolare o puramente allegorica nel 600) nasce l‟idea di un teatro sociale. Benedetto Marcello nel suo Il teatro alla moda (1720) accusa compositori e cantanti di non capire neppure il testo che dovrebbero interpretare [virtuosismo versus interpretazione espressiva]. Esige buongusto, decoro e razionalità nella scelta dei libretti da musicare. Metastasio vuole riconciliare testo poetico e testo musicale, cerca il delicato equilibrio fra esigenze dello spettacolo (quale inteso dal pubblico e voluto dai cantanti) e adeguazione del melodramma alle ragioni del decoro poetico e della dottrina aristotelica della tragedia. Esige adeguazione di scene e costumi al contesto dell‟azione. Prima di lui Apostolo Zeno (1668-1750), poeta cesareo a Vienna e autore di 62 componimenti drammatici per musica aveva cercato di ridonare autonomia drammatica e dignità artistica al libretto. A tal fine proponeva soggetti di intento moraleggiante, tratti da episodi della storia greco-romana (Griselda, Merope, Mitridate), riteneva necessario ridurre le arie, ampliare i recitativi, ricondurre il testo alle misure auree della metrica classica. Successore dello Zeno sarà Metastasio (Didone abbandonata nel 24, musicata da Domenico Sarro, con tono decisamente tragico). Ma successivamente nell‟Olimpiade, nel Demofoonte, saldo equilibrio fra elmenti patetici e eroici. Secondo il modello dei tragici francesi incentra l‟attenzione dello spettatore sul contrasto fra passione e dovere. L‟eroe si dibatte fra sentimenti di opposta natura, ma il conflitto si scioglie in un gusto patetico-sentimentale e alla luce di un sereno buon senso. Ranieri de‟ Calzabigi insiste con vigore ancora maggiore sulle esigenze di verità, semplicità e naturalezza, il suo Orfeo e Euridice è musicato da Gluck (1762). Calzabigi sopprime i personaggi secondari, elimina equivochi e agnizioni. Per quanto riguarda la recitazione nel teatro non musicale, Luigi Riccoboni (16761753) è considerato precursore della riforma goldoniana. Fra il 1728 e il 1738 varie opere miranti a una riforma del teatro, ritorno al buon gusto, moderna tecnica rappresentativa basata su buon senso e decoro. Si presta alle sperimentazioni di Maffei e Martello e propone una sintesi fra tecniche dell‟improvvisa e tradizione letteraria. Questo è il contesto in cui, come vedremo, si colloca la riforma goldoniana. Quando Goldoni si accosta al mondo delle scene il teatro di prosa è in piena crisi, per la concorrenza musicale e per la decadenza della commedia dell‟arte. Da qui l‟esigenza di un‟estesa riforma, che modifichi sia le abitudini del pubblico che i caratteri del teatro. Goldoni si fa difensore della interpretazione premeditativa, ma senza rinunciare all‟esperienza e a alcune tecniche della recitazione all‟improvviso. Induce però gli attori a adottare uno stile familiare e naturale che rifugga dall‟ipertrofia verbale e gestuale della tradizione Improvvisa. D‟altra parte la commedia rimane viva e costituisce un‟esperienza teatrale autentica grazie alla continua interazione fra l‟autore (Goldoni) e i comici. Nello stesso tempo opera di rieducazione nei confronti del pubblico. Tra gli anni Trenta e Sessanta lo spettacolo si trasforma completamente: si costituisce la triade autore-attore-spettatore.
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Lezione II L’Illuminismo italiano. Il teatro e Goldoni In Italia, nel corso del Settecento, i principiali centri della cultura sono Napoli, Roma, Firenze, Venezia, Milano e Torino. A Roma la presenza della curia e del papa impedisce che la città diventi un centro di rinnovamento e di sviluppo del pensiero illuminista. Ma non si deve dimenticare che è a partire da Roma che si irradia all‟inizio del secolo il fenomeno dell‟Arcadia, la principale accademia e il principale luogo di produzione poetica nel Settecento italiano. Roma è inoltre costante meta dei pellegrinaggi letterari e eruditi di filologi, archeologi, artisti e poeti europei (da Winckelmann a David a Goethe). A Roma, potremmo dire, è elaborato quel “mito” dell‟arte , e poi anche della poesia e della civiltà antica, che va sotto il nome di “neoclassicismo”, di cui parleremo fra poco. In Toscana il pensiero illuminista è eminentemente tecnico-scientifico o storicogiuridico e tende alla soluzione di problemi specifici e concreti. Ma nella seconda metà del secolo la Toscana è un luogo di relativa libertà e di riforme giuridico-costituzionali per cui scrittori come Alfieri la sceglieranno ripetutamente come mèta dei loro viaggi culturali o addirittura come patria d‟elezione o sede appropriata alla pubblicazione delle proprie opere. Napoli era fin dalla fine del Seicento un centro di diffusione del cartesianesimo e di dottrine materialiste “epicuree” di provenienza francese. Un esame critico dei fondamenti del diritto e del primato della religione cristiana era cominciato con Pietro Giannone all‟inzio del Settecento. È a Napoli poi che si elabora la straordinaria avventura erudita e filosofica costituita dalla Scienza nuova di Vico (vedi cronologia). Vico costruisce in solitudine la prima filosofia della storia, con mezzo secolo d‟anticipo su Herder, Lessing e Kant, precursori di Hegel. Egli è anche uno dei primi a constatare che le civiltà umane non avrebbero potuto mai svilupparsi senza le pulsioni più irrazionali e anche più immorali dell‟uomo (l‟ambizione individuale, la paura superstizioza della divinità, la fantasia dei popoli primitivi che proietta nella natura le facoltà umane e crea esseri immaginari, gli dèi e gli eroi della “mitologia”). Di lui ci citeremo un unico passo, il settimo degli assiomi (o “degnità”) che egli pone a fondamento della propria teoria: “La legislazione considera l‟uomo qual è, per farne buoni usi nell‟umana società: come della ferocia, dell‟avarizia, dell‟ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sì la fortezza, l‟opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l‟umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità. Questa Degnità pruova esservi provvedenza divina e che ella sia una divina mente legislatrice, la quale delle passioni degli uomini, tutti attenuti alle loro private utilità, per le quali viverebbono da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatto gli ordini civili per gli quali vivono in una umana società” (VICO, Opere, I, Scienza nuova, § 132-133) Ma a Napoli abbiamo anche la figura brillante e eccentrica del‟abate Ferdiando Galiani (1728-1787), economista originale e amico di tutti i philosophes di Parigi (dove risiedette a lungo), oltre all‟insegnamento universitario di Antonio Genovesi, che lasciò una fitta schiera di allievi. Nel Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (1753) Genovesi dichiara la sua adesione alle posizioni degli enciclopedisti francesi circa il ruolo dell‟intellettuale e il suo impegno civile. L‟anno dopo avviò l‟insegnamento di Commercio e Meccanica (cioè di scienza economica) all‟università di Napoli (prima cattedra universitaria di questo tipo in Italia). Tenne le lezioni in italiano, invece che in latino, per affermare il carattere pubblico e di pubblica utilità della dottrina economica. Sviluppò con determinazione
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le teorie liberiste e sostenne la necessità della libertà dei traffici. Criticò gli abusi della feudalità e si battè per la formazione di una media borghesia che limiti il latifondo. Fra i suoi allievi Francesco Maria Pagano autore di Saggi politici di orientamento democratico, fu fra i protagonisti della Repubblica romana e poi di quella partenopea e fu fatto impiccare dai Borbone nel 1799, insieme agli altri capi della repubblica. Principale allievo di Genovesi fu Gaetano Filangieri (1752-1788) autore di una Scienza della legislazione (1780-85) in cui afferma il diritto alla scuola pubblica, combatte i privilegi padronali e propone la più rigorosa codificazione scritta delle leggi. In questa ultima esigenza si riflette un motivo tipico del pensiero illuministico, per il quale solo leggi scritte accessibili a tutti, e processi pubblici, a cui tutti i cittadini possono assistere garantiscono la giustizia e l‟eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. La segretezza dei processi e delle deliberazioni era invece un procedimento tipico dei tribunali dell‟Inquisizione e di altre corti di giustizia negli stati assoluti. La capitale italiana dell‟Illuminismo è però Milano. Dalla metà del Settecento in poi tutti i movimenti più innovatori della cultura italiana, almeno fino alla fine dell‟Ottocento, nasceranno a Milano: il cenacolo illuminista del Caffé, il movimento romantico del Conciliatore, la Scapigliatura e lo stesso verismo. La Lombardia era una delle regioni dove l‟agricoltura si stava rapidamente modernizzando. Maria Teresa d‟Austria e il suo ministro Kaunitz erano aperti ai progetti riformisti. E poi Milano, geograficamente, non è particolarmente lontana né da Parigi, né da Vienna né dalla Svizzera, rifugio di molti liberi pensatori. Negli anni Sessanta Milano è però appena agli inizi del suo rinnovamento culturale, come risulta per esempio da una lettera di Beccaria al suo traduttore, il francese Morellet (1766): “Il paese è ancora sepolto sotto i pregiudizi ereditati dagli antichi padroni. I milanesi non perdonano a coloro che vorrebbero farli vivere nel secolo XVIII. In una capitale popolata di 120mila abitanti, vi sono appena venti persone che desiderano istruirsi, e sacrifichino alla verità e alla virtù. [...] Coltiviamo in silenzio e in solitudine la buona filosofia, qui temuta e disprezzata. Credete, signore, i filosofi francesi hanno in quest‟America una colonia e noi siamo loro discepoli, perché siamo discepoli della ragione.” (Da: La scrittura e l’interpretazione, pp. 40-41) Ma che le cose stessero cambiando lo dimostrano l‟Accademia dei Pugni, animata da Pietro Verri, la rivista Il caffé, fondata dallo stesso Verri, e il libello Dei delitti e delle pene, scritto da Beccaria, ma frutto maturo delle riflessioni dello stesso gruppo di intellettuali che si riunivano intorno al Caffé e all‟accademia dei Pugni. A prova dell‟immensa novità che rappresentava la pubblicazione di un simile libro in Italia, riportiamo ciò che scriveva Melchior Grimm il 1 agosto 1765 nella sua rivista manoscritta, riservata a poche teste coronate in Europa, la Correspondance littéraire, testimone fra i più vivaci della temperie illuminista: “Un petit livret, intitulé Dei delitti e delle pene [...] vient de faire beaucoup de bruit en Italie. Ce livre est de M. Beccaria, gentilhomme milanais, [...] un des meilleurs esprits qu‟il y ait actuellement en Europe. Voilà donc la fermentation philosophique qui a franchi les Alpes, et qui approche du foyer de la superstition. L‟empire de la superstition menace ruine de tous les côtés; si la raison pouvait enfin prendre sa place, il faudrait s‟affliger d‟être venu trop tôt au monde. [...] C‟est un spectacle assez curieux que de voir la philosophie, en ces derniers temps, passer la Manche et le Rhin, se répandre en France, malgré les efforts de la superstition, et refluer de là dans toute l‟Europe.” (Dei delitti e delle pene, a cura di Franco Venturi, pp. 315-316) Nella scheda dedicata a Beccaria troviamo citazioni di alcuni dei brani che esprimono con più vigore la sua concezione della giustizia e la sua critica della tortura e della pena di morte. L‟ultima di queste citazioni mostra che se Beccaria, Verri e i loro compagni (Carli, Frisi, Lambertenghi, ecc.) hanno idee audaci, non sono però dei rivoluzionari ma dei riformatori, persuasi di poter convincere i sovrani d‟Europa a realizzare le trasformazioni sociali e economiche da loro raccomandate. E non a caso essi cercano infatti di inserirsi
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nell‟amministrazione pubblica per promuovere le loro proposte. Pietro Verri scrive le Considerazioni sul commercio nello stato di Milano in cui propone lo smantellamento di un sistema fiscale fondato sull‟appalto delle imposte ai privati, e poi entra a far parte della commissione per la riforma fiscale. Più tardi è anche nominato membro del Supremo consiglio dell‟economia (di cui faranno poi parte anche Beccaria e altri suoi amici). L‟altra grande figura della cultura milanese settecentesca è Giuseppe Parini. La sua biografia (vedi scheda) mostra chiaramente il disagio, il malessere inerenti alle relazioni da lui intrattenute per tutta la vita con la nobiltà e con il potere politico milanese. Le sue origini modeste, le difficoltà economiche di cui non si liberò mai in modo definitivo riducono la sua libertà di manovra e lo costringono a compromessi più dolorosi e difficili (e in ogni caso diversi) da quelli che contraddistinguono la biografia di un Alfieri o di un Verri. Parini è precettore in casa Serbelloni: egli dunque conosce dall‟interno, ma non da protagonista, bensì da testimone in posizione subordinata (nelle sue mansioni di precettore) i diletti, i lussi, i capricci, i liberi costumi sessuali, e fra l‟altro anche gli svaghi intellettuali di una nobiltà che può pure invaghirsi delle idee innovatrici e egualitarie che vengono dalla Francia ma senza per questo cambiare costume, senza rinunciare ai propri privilegi e alle proprie ricchezze. Il giorno (che racconta, o meglio avrebbe dovuto raccontare, se fosse stato completato, un giorno interno della vita di un “giovin signore”, di un “cicisbeo”) riflette bene l‟ambiguità di questo rapporto. Da un lato Il giorno è satira, severa critica, censura morale degli ozi frivoli, dei vizi, della vita licenziosa e della pochezza morale dei nobili milanesi. A questa profonda corruzione morale e civile Parini contrappone in filigrana di volta in volta la vita laboriosa e utile dei contadini che nelle campagne coltivano i campi e producono gli alimenti necessari al sostentamento dei loro padroni, oppure i costumi degli antenati dei nobili oggi sfaccendati, austeri soldati e proprietari terrieri che provvedevano con le armi alla protezione dei propri sudditi dalle minacce esteriori, e amministravano la giustizia. Nell‟episodio forse più famoso e più amaro del poema un servitore è licenziato e gettato con la famiglia in miseria per aver dato un calcio alla cagnetta della padrona (“la vergine cuccia”) che gli aveva morso la caviglia. Così recitano i versi che chiudono l‟episodio, versi dove vediamo la famiglia disperata implorante il perdono, e la cagnetta paragonata a una divinità feroce che esige vittime umane: [...] Il misero si giacque Con la squallida prole, e con la nuda Consorte su a lato su la via spargendo Al passeggiore inutile lamento: E tu vergine cuccia, idol placato Da le vittime umane, isti superba. Notiamo inoltre che secondo uno dei frammenti dell‟ultima parte il poema avrebbe potuto concludersi tragicamente, con la morte del protagonista, durante la notte. Sarebbe così stata punita, almeno simbolicamente, la sua esistenza insulsa e vacua, come nell‟epilogo del Don Giovanni. Ma d‟altro lato contraddistingue Il giorno una scrittura cesellata, raffinatissa, di un classicismo controllatissimo, di un miniaturismo rococò, di un edonismo estetico che smorza la virulenza dei toni polemici, e che in un certo senso riproduce, o addirittura accarezza, sul piano stilistico, i valori che pure nello stesso tempo condanna. Del resto, anche Parini, come Verri e Beccaria, e come ci confermano le sue stesse idee, è un riformatore e non un
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rivoluzionario, che accoglierà con prudenza la Rivoluzione francese e ne condannerà la violenza e gli abusi. Ma nello stesso tempo Parini difende la propria dignità e indipendenza di letterato al servizio della verità e della virtù. Negli ultimi anni della sua vita scrive varie odi neoclassiche, di squisita eleganza, e in una di esse, La caduta, egli risponde sdegnosamente al passante che dopo averlo aiutato a risollevarsi dal fango milanese in cui è scivolato durante una delle sue sortite a piedi, gli consiglia di andare a bussare alle porte dei ricchi signori perché gli offrano una carrozza. Attraverso questa orgogliosa affermazione della propria libertà di letterato, che preferisce imbrattarsi gli abiti nel fango, piuttosto che andare a adulare i potenti, si costituisce l‟immagine di Parini che sarà tramandata dalla cultura italiana dell‟Ottocento, e in primo luogo da Foscolo, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Un altro importante centro culturale nell‟Italia del Settecento è la Repubblica di Venezia, con i due poli complementari di Padova e Venezia. Città di grande tradizone culturale, sulla Terraferma, ma a pochi chilometri da Venezia, è Padova, sede di un‟importante e antichissima università (dove fra l‟altro insegnò Galileo), centro di erudizione e cultura sin dall‟inizio del Settecento (per esempio con Scipione Maffei). Nella seconda metà del secolo, vi primeggia la figura di Cesarotti, traduttore italiano dell‟Ossian e autore di importanti studi di poetica, di linguistica e di filosofia del linguaggio. Ma nonostante la decadenza della sua economia e il declino politico che ne causerà il crollo alla fine del secolo, Venezia rimane la capitale culturale della repubblica. Nel Settecento si accelera il declino di Venezia come centro di commercio e di traffici. Anche l‟agricoltura nella terraferma è in crisi. Nel quartiere di San Barnaba vivono molti nobili rovinati, a spese della Repubblica, i cosidetti Barnabotti. Ma alcune famiglie dispongono ancora di straordinarie ricchezze e le usano per farsi costruire palazzi sfarzosi, decorati con estrema raffinatiezza (per esempio la ca‟ Rezzonigo). A Venezia lavorano nel Settecento artisti (Canaletto, Guardi, i Tiepolo) e musicisti (Benedetto Marcello, Vivaldi, Scarlatti, Cimarosa) di immenso talento. Fra l‟altro proprio la crisi dei traffici e dei commerci favorisce la riconversione di molte imprese, che investono in nuove attività produttive, come la stampa (di cui Venezia resta a lungo una delle capitali europee; e a Venezia saranno ampiamente diffuse molte delle opere clandestine dei philosophes) e, appunto, il teatro. Attorno al teatro si sviluppa un vero e proprio mercato, con concorrenza fra iniziative diverse, investimenti, profitti o perdite. Non a caso si parla di imprese teatrali, e impresario è definito l‟affarista che investe i propri capitali organizzando spettacoli a pagamento. Grazie al carnevale e al teatro, grazie ai suoi spettacoli musicali e drammatici, Venezia è inoltre nel Settecento una capitale del turismo, che attira numerosi stranieri. Una delle caratteristiche di questa diffusa civiltà teatrale a scopo di lucro è l‟allargamento delle basi del pubblico, non più ristretto al ceto aristocratico e neppure alla nascente borghesia, ma in cui sono ben rappresentate anche le classi più umili. Nelle capienti sale gestite a scopo imprenditoriale può entrare un numeroso pubblico pagante. L‟aristocrazia e l‟alta borghesia prendono posto in palchetti di proprietà, indipendenti fra loro, mentre la media e piccola borghesia e il popolo rimangono in piedi o si siedono su panche situate nella platea. La vita sociale prosegue nei ridotti nobili, dove ci sono bottiglierie, salottini appartati. Il palcoscenico tende a ampliarsi. Che un pubblico pagante sempre più vasto assista agli spettacoli è essenziale per il tornaconto economico atteso dalle attività teatrali. Come conseguenza certi generi hanno più successo di altri: l‟opera seria scompare progressivamente o è relegata nelle corti. Hanno invece particolare successo i generi popolari come la commedia e l‟opera buffa. Le rappresentazioni avvengono in un clima di vivace concorrenza fra le varie sale e i vari spettacoli, ed è in questo contesto che si devono situare anche le polemiche e le competizioni per l‟accapparramento del pubblico che contrappongono Goldoni
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prima all‟abate Chiari e poi a Carlo Gozzi, autore di fiabe teatrali che avranno più tardi un certo impatto sulla storia del romanticismo europeo. Il maggiore autore di teatro nella Venezia del Settecento è appunto Carlo Goldoni. La sua posizione sociale è degna di nota. Goldoni, come Parini, è di estrazione borghese. Suo padre era un medico e forse solo un ciarlatano. Inoltre, a differenza di Metastasio e di Apostolo Zeno alla corte di Vienna, egli non è tutelato dalla protezione imperiale e dalla raffinatezza culturale del proprio pubblico aristocratico. A differenza dell‟aristocratico Carlo Gozzi, che vive di rendita, egli non può difendere un‟idea disinteressata e superiore dell‟arte. Egli è “uno dei primi intellettuali di estrazione borghese che vivono della propria professione”. Per sopravvivere egli deve dunque patteggiare continuamente con i gusti del pubblico, e tener conto delle esigenze degli imprenditori e dei capocomici. Ma nello stesso tempo egli ha anche l‟ambizione di plasmare questi gusti, di istruire il suo pubblico, di correggerne i vizi e consolidarne le virtù, di offrirgli dei modelli di comportamento socialmente utili, nella famiglia e nel lavoro. La difficoltà di conciliare i bisogni alimentari con le proprie ambizioni di riforma e i gusti spesso facili e volubili del pubblico, spiega in gran parte anche le traversie personali di Goldoni. Come mostra la sua biografia, Goldoni esita per tutta la vita fra la professione di autore teatrale,e altri mestieri (avvocato, ambasciatore, precettore o cortigiano). (vedi scheda biografica). Anche la sua battaglia per la riforma del teatro dura lunghi anni e non è mai definitivamente acquisita, si scontra infatti contro le resistenze degli attori, dei capocomici, degli impresari, del pubblico. Goldoni rifiuta un teatro che si rivolga soltanto al raffinato pubblico delle corti, come l‟opera seria, e che abbia come unico scopo il diletto dei ceti superiori e la celebrazione del loro potere (come avveniva nel teatro di Apostolo Zeno e di Mestastasio). Egli rifiuta inoltre uno svago volgare e popolaresco come quello della Commedia dell‟Arte, che nel Settecento (dopo aver perso il pubblico delle corti) era in piena involuzione. Secondo i modi della Commedia dell‟arte gli attori impersonano caratteri fissi (Arlecchino, Brighella, Pantalone) e recitano secondo un copione interamente scritto. Lo svolgimento dell‟azione è affidato a canovacci che riportano lo sviluppo generale dell‟intreccio, mentre le battute di dialogo, i monologhi e i lazzi (cioè la gestualità, le scene di pantomima, le vere e proprie gag comiche) sono affidate all‟estro individuale dell‟attore. Da qui il rischio, che si concretizza con crescente frequenza nel Settecento, di moduli sempre più ripetitivi, che involgariscono e banalizzano le diverse situazioni sceniche, e in cui in ogni caso l‟intento spettacolare e l‟effetto comico sono ottenuti a scapito di quello che potrebbe essere un approfondimento psicologico o un intento di analisi sociale. Goldoni reagisce a questa situazione di crisi (aggravata dalla predilezione che mostra il pubblico per il melodramma e l‟opera buffa) proponendo progressivamente il ritorno a un commedia regolare, in cui in un primo tempo la parte del protagonista, e poi successivamente quelle di tutti i personaggi, siano scritte interamente dall‟autore e recitate fedelmente dagli attori. Goldoni cerca in tal modo di attuare un‟aspirazione che è di tipo ideologico-culturale ma che nello stesso tempo non è, almeno idealmente, in contraddizione con esigenze di tipo commerciale e professionale. Goldoni vuole scrivere commedie che possano essere godute (nella stessa sala, simultaneamente) sia dal popolo che dai ceti medi e superiori, e che contengano per ciascuno di questi gruppi sociali una lezione di morale individuale e civile. Il desiderio di compostezza, ordine e semplicità propri della cultura arcadica e illuministica spiega l‟insofferenza di Goldoni per gli arbìtri degli attori e per l‟approssimazione letteraria dei testi messi in scena. Ma d‟altra parte l‟amore per la naturalezza, e gli stessi limiti della sua cultura, lo distolgono da ogni tentazione intellettualistica o letteraria, e lo spingono a proporre come pilastri della propria poetica quelli
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che egli stesso chiama “i due libri del Mondo e del Teatro”, in cui si riassume la sua poetica (vedi la prefazione all‟edizione Bettinelli delle sue commedie). Entrambi questi termini devono essere presi in senso anti-libresco e anti-classicistico: In primo luogo, Goldoni vuole rappresentare il mondo (cioè la società) – in questo senso il suo progetto è realistico – e non imitare i classici, come facevano tradizionalmente la maggior parte dei letterati italiani. Egli deve inoltre tener conto del teatro, cioè del pubblico, dei suoi gusti, delle sue esigenze, delle tecniche che permettono di tenere vivo l‟interesse degli spettatori. Ma per far questo non può basarsi soltanto sulle opere del passato, sull‟esperienza degli autori di teatro nel corso dei secoli. Egli è infatti profondamente convinto che le esigenze, i gusti, le aspettative del pubblico, la sua psicologia e sensibilità varino a seconda dei tempi e dei luoghi. La tecnica teatrale può quindi essere acquistata solo attraverso l‟esperienza personale (parola chiave dell‟Illuminismo), attraverso la pratica del teatro, attraverso lo studio attento delle reazioni del pubblico. Goldoni è dunque prima di tutto un uomo di teatro, e niente affatto uno drammaturgo o un commediografo a tavolino, come sarà invece in gran parte Alfieri. Goldoni è inoltre un figlio dell‟illuminismo nella sua volontà di rappresentare la società in tutte le sue stratificazioni e sfaccettature, dai ceti più umili (servitori, pescatori, caffettieri) a quelli più nobili (anche se a Venezia la rappresentazione a teatro del clero e dei gentiluomini era vietata), e in tutte le varietà individuali che offre una città pittoresca e variopinta come Venezia. Nelle più di 200 commedie di Goldoni abbiamo quindi una gran varietà di individui, e non solo tipi eterni come in Molière (l‟avaro, il malato immaginario, ecc.). Di nuovo, anche da questo punto di vista, bisogna ripetere che argomento del teatro di Goldoni è il “mondo”, cioè la società. La sua arte è figlia dell‟esperienza e mira a comunicare questa esperienza agli spettatori. Nelle commedie di Goldoni incontriamo mercanti onorati, negozianti laboriosi, filosofi, scienziati, medici, sagge vedove che conservano la propria indipendenza o scelgono con previdenza un compagno di qualità, donne sposate che amministrano con oculatezza e saggezza i capitali familiari. Sono questi i personaggi che Goldoni vuole proporre come modelli, essi incarnano le virtù e i ruoli sociali in cui egli si riconosce e che maggiormente rispetta (non principi e eroi come nell‟opera seria di un Metastasio). Ma nel suo teatro troviamo anche pescatori, gondolieri, servitori e serve, popolane dei quartieri più poveri di Venezia, con i costumi e i comportamenti propri del ceto, fatti parlare nel gergo proprio del loro mestiere o del loro campiello. Goldoni rappresenta infine una gran varietà di scapestrati, sperperatori, bugiardi, vanitosi, puntigliosi, ostinati, giocatori, sognatori, avventurieri, “rusteghi” e tiranni familiari di entrambi sessi e raggiunge così simultaneamente due obiettivi che a taluni sono sembrati contraddittori ma che in realtà sono perfettamente complementari (anche se non sempre, ovviamente, sono rappresentati in modo soddisfacente): (1) destare la curiosità e l‟interesse del pubblico, che trova noiosa e monotona la virtù, e chiede intrecci pieni di suspense, battibecchi, conflitti, colpi di scena. (2) dare al pubblico una lezione di morale, renderlo consapevolmente critico dei propri difetti, mostrandogli le sventure a cui porta il vizio, ma facendogli anche intuire, attraverso l‟ineliminabile lieto fine, come egli possa vergognarsi, pentirsi, redimersi, come il vizio possa trasformarsi in virtù, o perlomeno possa concedere alla virtù la vittoria, come attraverso lo scambio sociale, attraverso un‟“etica della discussione” messa in scena concretamente l‟individuo possa superare le proprie fisime, le proprie fissazioni o manie personali e essere condotto a riconoscere che solo nell‟interesse collettivo troveranno piena soddisfazione anche le sue ambizioni private. Per Goldoni infatti il teatro è specchio in cui lo spettatore deve potersi riconoscere al fine di correggersi e migliorarsi. In tutte le commedie di Goldoni troviamo tracce evidenti e a volte anche irritanti di quell‟ottimismo bonario, di quel didatticismo, di quel moralismo e utilitarismo, di quella fiducia nella vittoria del buon senso e della ragione, che sono tra i dati più costanti della
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cultura del Settecento, e del teatro di Goldoni in particolare. Le sue commedie sfociano quindi inevitabilmente in un lieto fine che sancisce la vittoria della prudenza, dell‟intelligenza, della modestia, dell‟onestà, della moderazione sopra i vizi e i difetti contro cui si erano prima scontrate. Ma nelle commedie più impegnate c‟è anche un forte pathos polemico, un intento di denuncia morale e di satira sociale, il quale deriva anch‟esso chiaramente dallo spirito dell‟illuminismo di cui Goldoni è impregnato, e che può portarlo a disegnare quadri di truce pessimismo, a assumere toni satirici di rara virulenza, come avviene per esempio nella trilogia della villeggiatura. La critica propende di volta in volta per il Goldoni ottimistico, bonario e sorridente, oppure per quello caustico e nero, senza a mio parere rendersi conto che fondamentalmente si tratta sempre dello stesso Goldoni. In ogni commedia di Goldoni c‟è infatti la critica del vizio ma anche la speranza (o addirittura la convinzione) che ragione, saggezza, virtù, buona volontà dovrebbero alla fine poter trionfare. Riassumendo possiamo dunque dire che Goldoni, attraverso la sua riforma, vuole realizzare un teatro diverso da quello di corte e da quello popolaresco della commedia dell‟arte: egli si rivolge prevalentemente ma non esclusivamente al ceto medio lavoratore (artigiani, mercanti di stoffe, caffettieri, locandiere, ma anche pescatori medici, filosofi, scienziati), ha un intento edificante, morale, didattico, di riforma dei costumi (tendere agli spettatori uno specchio dei loro vizi e difetti per correggerli e ravvederli), vuole divertire istruendo, propone un ideale di individualismo onesto, operoso, moderato, sobrio e risparmiatore, integrato nella cornice familiare, rispettoso delle convenzioni. Questo è appunto l‟ethos mercantile e borghese che nel passato ha fatto la ricchezza e la potenza di Venezia, e che ora è in crisi per il declino economico e politico della repubblica, ma nello stesso tempo è anche (in forma idealizzata) l‟ethos borghese che andrà per la prima volta al potere con la Rivoluzione francese e che poi progressivamente si diffonderà nel corso dell‟Ottocento. A esso anche altri autori e teorici del teatro del Settecento danno crescente spazio. Nonostante il lieto fine obbligato, e l‟ottimismo programmatico del teatro di Goldoni, abbiamo quindi delle opere che non hanno scopo celebrativo e encomiastico, oppure solo di evasione e di svago. Il teatro di Goldoni è un teatro impegnato, critico, che addita i vizi e vuole correggerli (incorrendo quindi il rischio del conformismo normalizzatore), che denuncia le piaghe della società e ne conosce i conflitti anche se costantemente vuole anche offrirci l‟immagine di un loro possibile e armonico superamento. Il relativo pessimismo delle commedie scritte negli ultimi anni veneziani, la visione sempre più nera e dicotomica (passioni sregolate da un lato, fredda ragionevolezza dall‟altro) che molti critici hanno rilevato in queste ultime opere, ha tuttavia reso possibili letture moderne e attualizzanti, in sintonia con le principali tendenze del teatro o del romanzo del XX secolo. Le pagine selezionate per la nostra piccola antologia, pagine che mostrano il personaggio di Giacinta nell‟epilogo della Trilogia della villeggiatura, sono da questo punto di vista particolarmente emblematiche: ci permettono infatti di cogliere la complessità e la coerenza del progetto teatrale goldoniano, quale lo abbiamo appena delineato. Alla fine del primo episodio della trilogia Giacinta si fidanza con Leonardo (i due cioè firmano un contratto matrimoniale che li impegna a un prossimo matrimonio) in quanto il fidanzamento è diventato ormai l‟unico modo per non annullare la villeggiatura attesa da tempo da tutti con grande impazienza. Per un perdere un mese di svago, Giacinta impegna insomma tutta la propria esistenza. Durante la villeggiatura essa si invaghisce di Guglielmo, giovane aggraziato, elegante, gentile, ma di cui conosce in cuor suo i difetti e la superficialità. Guglielmo tuttavia, per sua istigazione, si fidanza con Vittoria, sorella di Leonardo, che pone ormai tutte le sue speranze di felicità in queste nozze. Al ritorno dalla villeggiatura si scopre che Leonardo è sull‟orlo del fallimento a causa di un livello di vita superiore ai suoi mezzi,
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Giacinta potrebbe legittimamente annullare il contratto matrimoniale che la lega a Leonardo e sposare Guglielmo (come quest‟ultimo appunto desidera), abbandonando al suo destino Vittoria. E tuttavia non lo fa: lei così vanitosa, egoista, orgogliosa e dominatrice fino a quel momento, accetta una vita di lavoro e di stenti accanto a una persona per cui prova simpatia e forse stima, ma non amore (Leonardo) e la cui serietà e integrità non è ancora pienamente provata. Perché? Per quanto la critica goldoniana si sforzi molto spesso di occultarla, la risposta è chiara: Giacinta prende coscienza dei propri errori passati, e vuole ripararli nella misura del possibile, pagando il prezzo delle leggerezze commesse. Giacinta è volitiva (come un eroe alfieriano) e ha un senso del dovere in cui si può vedere anticipata la più rigorosa e severa morale kantiana. È trascinata da affetti, passioni, vanità e gelosie, ma nel momento decisivo (così Goldoni ha voluto rappresentarla) ragione, volontà e senso del dovere prevalgono. Essa ritiene proprio dovere sacrificare il tornaconto personale (che forse è solo vano capriccio) all‟interesse e alla felicità di Vittoria (con cui fino a quel momento si era trovata impegnata in una perfida e gratuita competizione imperniata sul lusso, la moda e la seduzione). Essa preferisce cioè mantenere la parola data (anche se l‟aveva data per le ragioni più frivole, per capriccio e puntiglio, senza matura riflessione) piuttosto che servirsi di un facile pretesto per annullare l‟impegno preso e soddisfare la propria momentanea passione. Nelle ultime scene della trilogia Giacinta acquista insomma dimensioni eroiche. Eroina della vita domestica e quotidiana, essa dimostra che anche nella vita di tutti i giorni sono possibili abnegazione e virtù. Giacinta è forse la più bella fra le tante magnifiche figure femminili messe in scena da Goldoni nel suo teatro. Essa non sceglie la morte, il martirio, come una Virginia o una Lucrezia, è un‟eroina della ragione, spassionata e lucida, che trionfa sulle passioni e l‟orgoglio, che sceglie con coraggio di costruirsi una vita domestica di lavoro e di affetti, rinunciando a più vaghe e indeterminate speranze.
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Lezione III Trasformazioni e crisi dei Lumi. Abbiamo visto nelle due lezioni precedenti come nella filosofia dell‟illuminismo ci siano due tendenze complementari ma potenzialmente contraddittorie. Da un lato l‟illuminismo afferma in modo generale la superiorità dei tempi moderni su quelli antichi e esprime la propria fiducia nel progresso dei Lumi, in un avvenire anche prossimo di felicità e prosperità. Ma d‟altro lato l‟illuminismo si presenta come una critica delle superstizioni, dei guasti, delle ingiustizie che caratterizzano il tempo presente, come un‟esigenza di riforma o addirittura di rifondazione dello Stato e delle relazioni umane su basi più razionali. Mentre nel corso del Settecento l‟Illuminismo in senso lato si diffonde e raggiunge fasce sempre più vaste della società, nello stesso tempo la sua componente critica diventa più radicale, la sua polemica contro l‟ordine sociale esistente diventa più aspra, e in certi casi porta a mettere in discussione alcune delle sue stesse premesse fondamentali. Questa radicalizzazione coincide in gran parte con la critica della cultura rococò, della civiltà mondana, salottiera e edonistica in cui era nato il primo illuminismo e di cui esso era espressione. Facciamo qui una breve lista dei movimenti, delle correnti, delle nuove tendenze in parte fra loro contraddittorie che contribuiscono da angolature diverse a mettere in crisi il sistema illuminista quale lo abbiamo descritto all‟inizio della prima lezione: 1) Già fra i deisti inglesi dei primi anni del Settecento alcuni forse (John Toland in particolare) erano materialisti e atei, anche se non lo dichiaravano pubblicamente. È certo comunque che i nemici dei deisti li accusano di essere atei mascherati. È ancora più certo che in Francia nella seconda metà del secolo una importante cerchia intellettuale evolve verso posizioni di materialismo ateo: così Diderot (i cui primi testi erano invece dichiaratamente deisti), così d‟Holbach intorno a cui si raccolgono vari filosofi da cui poi nascerà la corrente degli idéologues. D‟Holbach e i suoi compagni sono razionalisti convinti che una morale utilitaria (per la quale l‟interesse dell‟individuo e quello della collettività coincidono) e una società orientata verso l‟utile comune, possano essere fondate in modo soddisfacente su una conoscenza oggettiva della natura e dell‟uomo. È un fatto però che questa loro morale non è giustificata dalla misericordia e dalla provvidenza divina. Li aveva preceduti in questo il materialista e epicureo La Mettrie, e si associano a loro o li seguono, ma giungendo a conclusioni molto più radicali, l‟autore di Thérèse philosophe (Boyer d‟Argens?), Laclos, e soprattutto Sade, secondo il quale l‟unica legge della natura è la perenne distruzione e rigenerazione di tutto ciò che esiste. Per Sade, il filosofo (che egli chiama anche “libertino”) ha diritto di cercare il piacere in ogni suo atto, e in questa ricerca (anch‟essa legge di natura per tutti i viventi) ricorrerà senza esitazione alla violenza, allo stupro, all‟assassinio. Richardson aveva intitolato il suo primo romanzo Pamela or Virtue rewarded, nel suo secondo romanzo, Clarissa, la protagonista era rapita, stuprata e poi fatta morire nella disperazione dal crudele Lovelace, e tuttavia la lezione del libro rimaneva una lezione di abnegazione e virtù. Reagendo contro di lui, Sade intitola il suo primo grande romanzo Justine ou les Malheurs de la vertu e il suo seguito Juliette ou les Prospérités du vice. L‟ottimismo e il moralismo illuminista sono così rinnnegati e capovolti radicalmente. Le opere di Sade furono universalmente condannate ma ciò non toglie che furono lette abbondantemente, che ebbero un‟importante influenza sulla cultura dell‟Ottocento e del Novecento, e che portavano alle estreme conseguenze certe premesse del materialismo o del naturalismo settecentesco.
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2) Assistiamo a un‟evoluzione analoga, benché secodo linee diverse, in Voltaire. L‟ottimismo e il provvidenzialismo dei suoi scritti giovanili (per esempio Les lettres philosophiques) dove egli aderisce con entuasiasmo alla dichiarazione di Pope (“all that is is right”), cede infatti progressivamente a un fatalismo sempre più pessimistico (benché formulato spesso con distacco e ironia), che sfocia nei dubbi atroci del Candide e del Poème de Lisbonne (1755) intorno alla provvidenza divina. Nel Poème de Lisbonne Voltaire esprime per esempio il sospetto che la cosidetta felicità generale dell‟universo sia semplicemente la somma illusoria di tutte le infelicità individuali. Ogni singolo membro dell‟universo vive infatti della distruzione e della sofferenza di molti altri, e ne è poi distrutto a sua volta: Éléments, animaux, humains, tout est en guerre. Il le faut avouer, le mal est sur la terre. […] De l‟Être tout parfait le mal ne pouvait naître ; il ne vient point d‟autrui, puisque Dieu seul est maître: il existe pourtant. O tristes vérités1 ! 3) Rousseau rompe con Diderot e i suoi amici filosofi proprio perché, fra le altre cose, non è disposto a rinunciare a Dio e all‟immortalità dell‟anima. E tuttavia Rousseau è forse l‟autore che contribuisce in modo più radicale a sovvertire le premesse del pensiero illuminista. In primo luogo, per lui, la civiltà e il sapere sono le due principali cause di ineguaglianza, ingiustizia, asservimento e corruzione morale. L‟ineguaglianza e la miseria ci rendono infatti dipendenti da chi è ricco e potente, ci costringono all‟adulazione e alla dissimulazione, all‟apparenza e all‟inganno. Il sapere sfocia nello scetticismo metafisico, e accresce quindi la nostra inquietudine e le nostre paure, il progresso tecnico, il lusso, il benessere ci rendono fisicamente deboli e snervati. Ne risulta la corruzione di tutti i costumi, confermata dal fatto che i moderni (così pensa Rousseau) sono incapaci di affetti genuini, di virtù, di amor patrio, di sincerità. Per rigenerarli, bisognerebbe che la società fosse rifondata attraverso una manifestazione unanime della volontà generale della nazione, stabilendo leggi rigorosissime (rigorose come le leggi primitive della natura) e un‟abolizione di tutti i privilegi e le ineguaglianze, anche economico. Rousseau non è però affatto sicuro che una tale rifondazione sia concretamente possibile. In secondo luogo Rousseau è scettico sul piano gnoseologico riguardo alla possibilità di acquistare la conoscenza del bene e della provvidenza divina per via razionale. Il senso morale e la credenza nell‟ordine divino dell‟universo hanno per lui come unico fondamento la voce della coscienza, cioè un istinto che è insito in ciascuno di noi, ma difficilmente potrebbe essere giustificato con argomenti forniti dall‟esperienza e dall‟intelletto, e che ha invece come fondamento la natura intesa come un istinto, come una spontanea propensione umana alla solidarietà e alla compassione per gli altri uomini. Lo scetticismo radicale di Hume, che pur portando a rivalutare l‟istinto e l‟abitudine, non metteva però a repentaglio il primato della ragione sulla supestizione, sfocia con Rousseau in una contrapposizione dualistica fra esperienza e intelletto da un lato, voce della natura e della coscienza dall‟altro. Rousseau invoca in continuazione la voce della coscienza e la natura contro il mondo degli interessi, l‟egoismo e il potere. Infine, con Rousseau scopriamo che la contentezza, la felicità a cui l‟uomo può giungere su questa terra, non bastano per renderci veramente felici, per soddisfare il nostro indeterminato anelito all‟infinito. Sembra che nell‟uomo ci sia una vaga aspirazione a un di più, a un qualcosa di metafisico di trascendente a cui forse non corrisponde niente di 1
Voltaire, Mélanges, p. 306-307.
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oggettivo, ma che comunque niente di sensibile e materiale può soddisfare. Il naturalismo illuminista, che mirava a racchiudere l‟uomo nella sua esistenza materiale e corporea, trova così il suo limite nell‟autore che più esalta la natura e la sua bontà. In Rousseau l‟uomo non si lascia più pienamente ridurre a ciò che è, e che ci è dato conoscere per le vie dell‟esperienza e della ragione. Anche quando l‟uomo possiede tutto ciò che potrebbe appagarlo su questa terra, il suo spirito rimane inquieto, la sua immaginazione continua a vagare alla ricerca di nuovi piaceri, di nuove beatitudini: Malheur à qui n‟a plus rien à desirer! il perd pour ainsi dire tout ce qu‟il possede […] l‟imagination ne pare plus rien de ce qu‟on possede, l‟illusion cesse où commence la jouïssance. Le pays des chimeres est en ce monde le seul digne d’être habité, et tel est le néant des choses humaines, qu’hors l’Etre existant par lui-même il n’y a rien de beau que ce qui n’est pas2. 4) Kant porta alle sue logiche conseguenze le intuizioni di Rousseau quando afferma con grande determinazione che la natura umana è bicefala: da una parte l‟uomo fa parte del mondo empirico e naturale, quello di cui abbiamo esperienza coi sensi e con l‟intelletto e che conosciamo progressivamente attraverso le moderne scienze empiriche, d‟altra parte l‟uomo è libero ed è cosciente di una legge morale universale (l‟imperativo categorico) che deve rispettare in ogni suo atto. Il fatto incontestabile della coscienza morale sembra indicare che l‟uomo non è in balia delle forze materiali che operano nel mondo, e tuttavia resta un mistero, almeno sul piano teorico, come l‟uomo possa essere simultaneamente “cittadino” di questi due mondi contraddittori. 5) Nei campi più specifici dell‟arte, del romanzo, della sensibilità, dell‟estetica e in altre sfere ad esse connesse, assistiamo a altri fenomeni che contribuiscono a mettere in crisi l‟armonia, l‟equilibrio o perlomeno l‟ideale di armonia fra sensibilità e intelletto, morale e natura, che l‟illuminismo aveva almeno apparentemente raggiunto. Per esempio nello Sturm und Drang [tempesta e impeto] tedesco e in modo particolare nei primi drammi di Schiller e Goethe, e così nel Faust e nel Werther di Goethe, vediamo delinearsi un conflitto fra l‟individuo, il suo genio, il suo pathos, la sua infinita sehnsucht (brama), la sua aspirazione a una condizione di superuomo (il termine risale proprio a questo periodo), la sua insaziabile sete di conoscenza e di verità, e una realtà che non corrisponde a tale aspirazione interiore. Nasce allora uno scontro fra l‟individuo e la società, o fra l‟individuo e la natura, che si conclude spesso con la sconfitta dell‟Io, ma anche con il deprezzamento della natura. La sconfitta è spesso eroica e sublime, e sembra comunque provare che l‟individuo non può vivere in armonia con il mondo e con la natura. A differenza di quanto postulava l‟illuminismo, felicità individuale e felicità pubblica non combaciano. Le poetiche del genio, del sublime, dell‟energia, la riscoperta della tragedia, il fascino delle rovine, delle cime innevate, dei paesaggi grandiosi e selvaggi, il gusto per il primitivo, il barbarico, e il pittoresco – tutte queste tendenze della letteratura, dell‟arte e della sensibilità nella seconda metà del diciottesimo secolo – riflettono secondo modalità diverse la presa di coscienza di una discrepanza fondamentale fra l‟anima che aspira all‟infinito e la natura finita, fra le potenze infinite dell‟universo i concetti finiti dell‟intelletto, fra la libertà e l‟immaginazione insaziabili e la realtà empirica retta da leggi costanti, fra il cuore umano che rimane assetato di soluzioni assolute e definitive e la scienza empirica che progredisce a piccoli passi e rimane critica verso le sue stesse conclusioni, fra il cuore, le passioni e gli affetti che si commuovono, che presagiscono l‟infinito, l‟immenso, l‟ignoto e non potendo raggiungerlo si mettono a rimpiangere il mondo magico, incantato, superstizioso 2
J.-J. Rousseau, Œuvres complètes II, p. 693 (je souligne).
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delle civiltà antiche, oppure del cristianesimo medievale, e la ragione che vuole controllare, dominare il mondo, sciogliere tutti i segreti, aumentare il benessere materiale dell‟uomo. Alcune delle opere più originali prodotte dopo il 1760 (e in parte anticipate dall‟opera di Shaftesbury in Inghilterra, dalle nuove teorie dell‟arte, del sublime, della natura che si diffondono in Inghilterra già nella prima metà del Settecento) riflettono questo stato d‟animo, questo senso di una sproporzione fra scienza e natura, fra l‟intelletto utilitario e strumentale da un lato, gli affetti, le pulsioni, l‟immaginazione, i fantasmi, il genio creativo dell‟uomo dall‟altro, fra la natura come oggetto di una conoscenza strumentale oggettiva, e la natura come interiorità, come espressione di un senso spirituale che si manifesta attraverso gli affetti, l‟immaginazione, la poesia, il genio ecc.. Come conseguenza, sensismo, naturalismo e razionalismo entrano in crisi, e si diffondono modalità di pensiero dualistiche e antagonistiche che l‟estetica romantica, l‟idealismo tedesco, la filosofia della storia si sforzeranno di approfondire e risolvere fra la fine del Settecento e i primi anni dell‟Ottocento. È in questa prospettiva che vi propongo di studiare alcuni dei fenomeni culturali di nuova natura che emergono nella seconda metà del Settecento, in vari luoghi d‟Europa, e che si prolungano poi in parte nei primi anni del XIX secolo. 1) Il neoclassicismo. Esso viene promosso dalla nascita dell‟archeologia, dalla sensazione prodotta dagli scavi di Ercolano (1738) e Pompei (1748) e dagli scritti dell‟archeologo tedesco Johann Winckelmann (1717-1768) e presuppone chiaramente la diffidenza di Rousseau (e di altri) nei confronti della civiltà, del progresso, della scienza e della modernità. Nel termine “Neoclassicismo”, introdotto all‟inizio del XX secolo, il prefisso neo vuole indicare una differenza rispetto al classicismo dell‟età precedente, o di quella umanisticorinascimentale. Infatti ora a) l‟imitazione del mondo greco e latino si unisce al sentimento chiaro della loro lontananza e dunque a un moto di nostalgia e inquietudine, quasi nascesse il timore che la perdita sia definitiva e irrecuperabile. b) Non si mira a creare poetiche precettistiche né un canone rigido, né ci si ispira a norme credute eterne e assolute, anzi il criterio di valore è affidato al gusto, dunque è riconosciuto variabile e relativo; c) il mondo antico, quello soprattutto delle repubbliche greche e della fase repubblicana nella storia di Roma, è assunto a modello e ideale politico che interagisce con le aspirazioni dell‟Illuminismo e viene quindi a costituire parte integrante del progetto di rinnovamento morale e politico promosso dai philosophes. In una fase iniziale, compresa fra il 1748 e il 1795, prendere a modello la classicità significa rifarsi alla Roma repubblicana, mentre successivamente, in quella napoleonica, il classicismo assumerà come riferimento Roma imperiale e preferirà soluzioni meno sobrie, più grandiose e ornamentali. I principali teorici del neoclassicismo sono Winckelmann (1754, Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura; e 1764), Lessing (Laooconte, o dei confini fra pittura e poesia, 1766) e per certi versi Diderot (le voci “genio” e “bello” nell‟Enciclopedia). Per il neoclassicismo l‟arte è attività creativa, non mimetica, il bello artistico non si raggiunge riproducendo il bello naturale ma realizzando una sintesi superiore dei singoli aspetti presenti in natura. Gli ideali di grazia e armonia devono poi accordarsi a una tendenza a una “nobile semplicità” e a una “quieta grandiosità”, che ci porta chiaramente oltre i confini del sensismo e del minaturismo arcadico e rococò. Il bello neoclassico è in qualche modo soprannaturale, scaturisce però dalla natura e si manifesta nell‟opera d‟arte che la fa vivere, che ce la fa sentire. Esso può in quanto tale informare il neoclassicismo di Alfieri e quello per certi versi molto diverso di Foscolo e Leopardi. Esso presenta inoltre una carica simbolica e una dimensione culturale onnicomprensiva, visto che per Winckelmann per esempio la singola opera d‟arte è un oggetto materiale ma nello stesso tempo anche espressione della natura, del clima che ha prodotto l‟uomo greco, e attraverso di esso la perfetta armonia di un‟epoca, di una civiltà, dell‟arte in cui essa si manifesta. Così scrive
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Winckelmann nella sua famosa descrizione della statua dell‟Apollo di Belvedere, nella Storia dell’arte dell’antichità: Questa statua di Apollo supera tutte le altre immagini del Dio [...] Il suo corpo si eleva al di sopra di quello umano e la sua posa rivela la grandezza che lo pervade. Una primavera perenne, come nel beato Elisio, riveste di amabile giovinezza la sua matura affascinante virilità e aleggia con grazia delicata sulla superba struttura delle sue membra. Penetra con il tuo spirito nel regno delle bellezze incorporee e cerca di farti creatore di una natura celeste, perché il tuo spirito possa inebriarsi di bellezze superiori alla natura umana: là, o lettore, nulla vi è che sia mortale o schiavo dei bisogni umani. Non una vena, non un nervo, eccitano ed agitano questo corpo, ma uno spirito celestiale che vi si riversa come un fiume tranquillo quasi ricolma tutta la superficie di questa figura.[...] Al cospetto di questa meravigliosa opera d‟arte dimentico ogni altra cosa e mi elevo al di sopra di me stesso per contemplarla come le si conviene. [...] mi sento come trasportato a Delo e nei sacri boschetti della Licia, in quei luoghi che Apollo rendeva sacri con la sua presenza. In pagine come queste nasce la concezione dell‟arte come forma moderna di religione, come unico modo moderno di vivere un‟esperienza paragonabile all‟esperienza antica del sacro. 2) Il sublime in Burke e Kant. In seguito alla traduzione francese, ad opera di Boileau, del trattato dello Pseudo-Longino Del sublime, un ampio dibattito si sviluppa intorno a questa nozione, specie in Inghilterra, nel corso del XVIII secolo, dibattito che porta fra l‟altro a riflettere sulla differenza fra la bellezza artificiale, ordinata e geometrica, dei giardini alla francese, e quella più scomposta e selvaggia dei giardini inglesi. Ma un vero approfondimento della riflessione sul sublime avviene solo con il volumetto del filosofo e uomo politico inglese Edmund Burke (1756, vedi cronologia). Per Burke l‟esperienza del sublime, diverso in questo dal bello, implica idee come quella della forza irresistibile che suscita ammirazione, riverenza e rispetto, del terrore e dell‟oscurità impenetrabile, dell‟immenso e dell‟infinito. Egli inoltre precisa che se anche la teologia ci insegna che Dio è saggio e pietoso, la nostra immaginazione non può fare a meno di rappresentarci il divino come tremendo e feroce. Burke restituisce in questo modo un certo grado di legittimità e dignità (sul piano affettivo e estetico) a categorie (come quella della collera e del castigo divino) che il pensiero illuminista aveva condannato come superstiziose. Secondo Kant, invece, se noi possiamo conservare la serenità davanti allo spettacolo sublime delle forze della natura, è perché veramente sublime è solo la libertà umana, più potente in quanto potenza morale di tutte le potenze materiali che possono minacciarci o distruggerci. Ma nonostante la differenza fra la concezione burkiana e quella kantiana del sublime esse hanno in comune il fatto di reintrodurre nell‟esperienza umana sensibile la dimensione della trascendenza e dell‟infinito. 3) Nel diciottesimo secolo appare un nuovo genere, la cosidetta letteratura sepolcrale, e suscitano un grande interesse (sia in arte che in letteratura) le rovine e i ruderi del tempo passato. A questi due fenomeni è strettamente associata una rivalutazione della memoria che medita malinconicamente sul tempo che altera tutto. Sepolcri e rovine sono figure del tempo che passa e erode ogni cosa, ma anche figure dell‟eternità. Esse illustrano il contrasto, nell‟anima umana, fra la coscienza della sua finitudine e il suo anelito all‟immortalità, attraverso il quale i limiti della natura umana sono trascesi. E si potrebbe anche dire così: attraverso la memoria e la nostalgia, attraverso la meditazione umana sul passato e le sue rovine, la natura si fa spirito, si fa interiorità, diventa espressiva, comunica con noi.
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Non a caso in Young, autore di The complaint, or Nights Thoughts (1742-45) riaffiora il contrasto pascaliano fra la materia infinita di cui il corpo umano è un infinitesimale frammento, e l‟anima umana immortale, che contempla le metamorfosi dei corpi e dei mondi infiniti. Motivi simili saranno ripresi da Gray, Harvey, e poi in Italia, da Pindemonte, e a un livello molto più alto da Foscolo e Leopardi. 4) Il gusto per il primitivo, il barbarico e il pittoresco – ricollegabile alla critica rousseauiana della civiltà, e a un senso di soffocamento causato in molti dal sensismo, dall‟epicurismo e dal razionalismo dei Lumi – trova il suo naturale sfogo nella passione che suscitano in tutta Europa, insieme a Omero, la Bibbia, Dante, Shakespeare e Milton, i Canti di Ossian. I frammenti del “Ciclo di Ossian” furono riscoperti e utilizzati con molta libertà dallo scozzese James Macpherson (1736-1796). Essi si riferiscono a un guerriero leggendario gaelico (cioè dell‟antica Scozia) di nome Ossian, nobile bardo, cioè poeta, la cui vita è collocata nel III secolo d. C. Macpherson pubblicò dapprima anonimo un volume di frammenti tradotti, poi altri due che firma come traduttore (Fingal e Temora) e infine nel 1765 e nel 1773 un‟edizione complessiva dei Poems of Ossian. Tutte le edizioni, salvo la prima, insistevano sull‟autenticità dei testi tradotti, mentre in realtà la parte appartenente a Macpherson superava largamente i frammenti filologicamente accertati. Le vicende narrate alternano momenti di guerra e episodi d‟amore. Ovunque dominano le virtù cavalleresche, un sentimento intenso della natura, una malinconia profonda che mina ogni gesto e conquista. Gli amori infelici si collocano su sfondi naturali inquietanti: tempeste, solitudini marine o agresti, boschi misteriosi squassati dal vento. I segni dell‟uomo trasmettono il senso della vanità e della precarietà. Sul piano della forma, i testi sono svolti in una prosa ritmica semplice, energica, scarsamente letteraria, che esalta implicitamente il diritto della libertà creativa. I lettori europei, creduto il poema autentico, ne restarono affascinati, e accostarono Ossian a Omero, in Italia Ossian fu tradotto da Melchiorre Cesarotti in una prima edizione del 1763, una seconda del ‟73 e quella definitiva del 1802. Cesarotti forgiò una lingua poetica rinnovata e insieme fedele alle esigenze di decoro della nostra tradizione letteraria. I suoi endecasillabi sciolti sono estranei sia al gusto arcadico sia all‟equilibrio neoclassico. Vi è una ricerca di contrasti e accenti vigorosi fondati su sospensioni, inversioni sintattiche, apostrofi ed esclamazioni, ripetizioni, appassionate domande retoriche, enjambements densi di pathos. Nella teorizzazione neoclassica della natura, nella teoria del sublime, nel rovinismo e nella letteratura sepolcrale, nel gusto per il primitivo, il barbaro e il pittoresco, nel senso di una natura da cui sorgono e in cui si riflettono le passioni umane, assistiamo in forme diverse allo stesso fenomeno: la trasfigurazione della natura, dell‟essere, la sua trasformazione in interiorità, in umanità che soffre o gioisce, che ritrova l‟armonia o la perde. 5) nella seconda metà del secolo assistiamo in tutta Europa a un rinnovamento della tragedia e del dramma. Nella prima metà del secolo l‟Italia si era sforzata invano di raggiungere risultati paragonabili a quelli del Seicento francese, spagnolo e inglese. Il successo della Merope (1713) di Scipione Maffei era rimasta isolata, e altri tentativi come quelli di Granelli e Varano erano miseramente falliti. Anche l‟ottimismo felicitario del primo illuminismo era un ostacolo alla rinascita del più autentico spirito tragico. In virtù della musica e del canto (paragonabile ai cori dell‟antico teatro greco) il melodramma di Metastasio poteva essere considerato cone un equivalente della tragedia greca. Ma i crimini orrendi e barbari, i fati crudeli messi in scena nelle tragedie antiche (e in certe tragedie seicentesche) appaiono a Metastasio come il retaggio di una civiltà primitiva, irrazionale e immorale, assetata di sangue e violenza. Secondo lui, il teatro moderno, plasmato dalla religione cristiana (che supera il fatalismo dei greci), ingentilito e incivilito dal progresso dei Lumi, e chiamato inoltre a dare lezioni di virtù, tolleranza e moderazione, deve piuttosto rappresentare delle tragicommedie, delle tragedie a
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lieto fine, in cui il bene trionfa, in cui sono celebrate la gloria e la saggezza dei principi, le virtù più eroiche e più generose, e in cui spesso le esigenze del dovere si riconciliano con quelle degli affetti e della sensibilità. Ma nella seconda metà del secolo, la riscoperta di Shakespeare, delle sue tragedie e dei suoi drammi storici, il risorto conflitto fra l‟individuo e la natura e la società, la crisi della visione edonista, felicitaria e razionalista, porta a una riscoperta della tragedia, che diventa il luogo delle passioni irrazionali e fatali, della libertà in lotta contro il potere, contro il ferreo destino e contro gli ordini spesso immodificabili della società. In Germania abbiamo il teatro dello Sturm und Drang, che si colloca al di fuori delle norme aristoteliche classicistiche (unità di azione, tempo e luogo), nel cui ambito muovono inizialmente anche Schiller e Goethe. In Italia abbiamo il teatro neo-classico di Alfieri, di nobile semplicità e compostezza, imperniato sul conflitto fra la libertà e la tirannide, oppure sul conflitto fra opposte pulsioni di dominio e vendetta, o sulle laceranti perplessità dell‟animo umano. Seguace di Alfieri può essere considerato nella sua produzione drammatica Foscolo, il quale accentua in particolare il tema della perplessità, mentre nei drammi storici di Manzoni l‟anelito libertario di Alfieri assume una coloritura cristiana, e la stessa morte dell‟eroe (vittima della forza e dell‟ingiustizia che reggono il mondo) diventa occasione per una nuova, diversa speranza. 6) nella seconda metà del Settecento il romanzo conosce un‟evoluzione ricca e interessante. Come abbiamo già visto il romanzo si afferma già nella prima metà del secolo in Inghilterra, ma anche in Francia (Prévost) grazie alla costituzione di un pubblico borghese e di un nuovo mercato editoriale. Ma la radicalizzazione del pensiero illuminista e delle sue istanze critiche, nonché il crescente contrasto fra Io e mondo (cioè le tensioni agonistiche del pensiero della seconda metà del secolo) e la nuova concezione della natura come interiorità favoriscono il diffondersi di nuovi generi. Il romanzo di viaggio (per esempio il Robinson Crusoe, e più tardi A sentimental Journey di Sterne) e con esso il romanzo di formazione (Bildungsroman, il Wilhelm Meister di Goethe) sono frutti della cultura settecentesca dell‟esperienza. Questi stessi elementi (la narrazione di viaggi, la descrizione della nascita di una vocazione) sono spesso presenti anche nella scrittura autobiografica, che rende fra l‟altro sfumature psicologiche sempre più raffinate e sottili. Il romanzo filosofico (per esempio il Candide di Voltaire, ma già prima Les lettres persanes o i Gulliver’s travels) è un altro tipico prodotto della cultura illuministica, critica, scettica, ironica. Il romanzo epistolare evolve verso uno scavo sentimentale e psicologico sempre più approfondito col passaggio dal romanzo a più corrispondenti (Richardson, Rousseau) a quello incentrato su un unico personaggio (Werther, Jacopo Ortis). Il genere autobiografico, altro grande genere del diciottesimo secolo, conosce un‟evoluzione analoga. Può essere narrazione incentrata sul viaggio, l‟avventura e l‟esperienza, come nella Histoire de ma vie di Giacomo Casanova o le Memorie di Da Ponte, può essere confessione davanti a Dio e alla propria coscienza, rivelazione della propria affettività e dei propri conflitti col mondo, come nelle Confessions di Rousseau, può essere romanzo della propria vocazione e esperienza teatrale di tutta una vita, come i Mémoires di Goldoni, può essere romanzo di formazione, di vocazione e di “conversione” alle lettere, ma nello stesso tempo anche autoritratto eroicomico, dramma della propria solitudine e delle proprie pose prometeiche come nella Vita di Alfieri. Altre tre forme di narrativa nate nel Settecento meritano qualche ulteriore considerazione: il romanzo gotico, il romanzo umoristico, il romanzo della natura e del sentimento (Rousseau e Bernardin de Saint Pierre) e il romanzo libertino. a) il romanzo “nero” o romanzo gotico è estremamente significativo di una cultura tardo illuminista o poi chiaramente post-illuminista, in cui la superstizione e le credenze più irrazionali, bandite dai lumi, dall‟esperienza e della ragione, fanno però ritorno nelle coscienze attraverso romanzi ricchi di situazioni truculente, orrorose, soprannaturali e
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fantastiche, storie di fantasmi, vampiri o altre creature diaboliche, che si vendicano dei viventi traviandoli o terrorizzandoli in vari modi. Il primo romanzo di questo genere è The Castle of Otranto (1764) di Horace Walpole. Romanzi famosi sono The Mysteries of Udolpho e The Italian di Ann Radcliffe, che narra di un diabolico frate ai tempi dell‟Inquisizione. Notevolissimo anche The Monk di Lewis di cui è anche possibile una lettura ironica. b) il romanzo umoristico di Sterne sarà imitato da Diderot (Jacques et son maître), da Foscolo (gli abbozzi de Il terzo tomo dell’Io) che tradurrà in Italia il Sentimental Journey, susciterà l‟interesse di uno scapigliato come Dossi, sarà considerato nel Novecento un modello di letteratura sperimentale e d‟avanguardia. Sue principali caratteristiche: 1) la tecnica della digressione che interrompe continuamente lo sviluppo della trama; 2) il ricorso alla metanarrazione, cioè a commenti dell‟autore a proposito della propria scrittura; 3) l‟appello al lettore chiamato a interpretare una vicenda aperta a letture diverse; 4) la nozione di relatività di ogni posizione, giudizio o “opinione” e del linguaggio che li esprime. Originale anche l‟impostazione tipografica con pagine tutte nere e con capitoli di una sola parola, ecc.; l‟ordine cronologico è continuamente trasgredito, i capitoli si concatenano secondo il filo associativo teorizzato da Locke come principio della nostra esperienza. La parodia, la canzonatura dello spirito pedante, sistematico, gerarchico è costante. Il Sentimental Journey è costruito come una parodia del viaggio di esperienza e di formazione, il “grand tour” europeo. Una nota nuova vi è però costituita dal sentimento, proposta di una nuova morale (con indubbi elementi di pietà e commiserazione cristiana) meno oppressiva e opprimente dei vecchi valori. Valore rinnovato dunque degli affetti e del sentimento, ma che non si presenta però mai come passione ma come umore, sensibilità umbratile, umorismo e leggerezza vitale. Foscolo si ispirerà a questa sensibilità creando il personaggio di Didimo Chierico: c) La Nouvelle Héloïse è storia del conflitto fra gli affetti naturali e spontanei (quello che unisce Saint Preux e Julie) fondati nella natura, e le convinzioni, i pregiudizi, le gerarchie della società. Dopo avere amato Saint Preux Julie si sottopone alla disciplina del matrimonio impostole dal padre e sposa il signor di Wolmar, serio onesto autorevole. Saint-Preux ritorna dopo molti anni e diventa precettore dei figli, la famiglia allargata sembra aver raggiunto la perfetta serenità. Julie però si ammala e muore dopo aver tentato di salvare il figlio caduto nel lago. La sua ultima lettera rivela che essa non ha mai superato il conflitto fra passione e virtù, che non ha mai veramente cessato di amare e desiderare Saint-Preux. L‟armonia fra sentimenti, ragione, dovere, grande aspirazione della civiltà illuministica, si proclama qui sconfitta e impossibile. Il Werther e l‟Ortis declineranno in forme diverse le stesse contraddizioni. Di ispirazione rousseuaiana è inoltre Paul et Virginie di Bernardin de SaintPierre, storia dell‟amore tutto naturale e spontaneo nato fra due giovani cresciuti in un‟isola tropicale, in cui la natura può svilupparsi libera e lussureggiante. Virginie deve però recarsi in Francia per ricevere un‟educazione. Al suo ritorno una tempesta la fa naufragare, essa muore sotto gli occhi di Paolo, il senso del pudore acquistato in Europa, il timore di mostrarsi nuda a Paul, le vieta di togliersi gli abiti che appesantendola la fanno affogare. Paul non sopravvive alla tragedia. d) Nelle Liaisons dangereuses di Laclos, il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil sua ex-amante, seducono l‟uno la giovane Cécile e l‟austera presidentessa Tourvel, l‟altra il signor Prévan (poi beffato). Alla fine il visconte, nel tentativo di riconquistare la marchesa abbandona la Tourvel (di cui, secondo la marchesa, egli si sarebbe innamorato), ma la Merteuil lo rifiuta e l‟umilia. La marchesa rivela al fidanzato di Cécile, Danceny, la perversa relazione della ragazza con il visconte. Danceny sfida a duello Valmont e lo uccide. La Merteuil è sfigurata dal vaiolo, Cécile e la presidentessa Tourvel si ritirano in convento dove quest‟ultima poco dopo muore. Il romanzo può essere letto come una denuncia della cinica licenziosità dei circoli aristocratici, ma anche come un timido accenno alla potenza
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dell‟amore, nelle cui reti sarebbe caduto alla fine Valmont. La marchesa di Merteuil può apparire come la più cinica e la più vile ma anche come una donna che si difende in un mondo ostile dominato dagli uomini. I romanzi di Sade esaltano la fredda razionalità scientifica (la ragione strumentale) con cui il libertino organizza il proprio piacere: in questo senso noi possiamo allora leggerli come denuncia dei rischi a cui porta il progetto illuminista di sottomissione della natura alla volontà di potenza e piacere dell‟uomo moderno. Ma possono anche essere letti come testi metafisici, che lucidamente rivelano (senza minimanente criticarli, ritenendo anzi vana qualsiasi critica) le leggi crudeli di violenza e di schiavitù che reggono la natura e le relazioni fra gli uomini. In buona parte della lettura settecentesca la natura è norma perché c‟è la convinzione profonda che la natura è buona e saggia, retta da una forma di provvidenza divina. In Sade la natura è norma ma proprio in quanto cieca pulsione, orginaria violenza, trasgressione e delitto. Questo è infatti per Sade la natura, una divinità malefica, malefica almeno secondo i criteri della morale, della ragione e della religione tradizionale. In Sade vediamo nascere l‟idea che ciò che costituisce la positività dell‟essere non è la sua bontà, ma la sua potenza, la sua efficienza, la sua energia.
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Lezione IV “Le tournant des Lumières” in Italia: Alfieri Il quadro filosofico e storico fissato nella precedente lezione ci fornisce gli elementi critici e la griglia teorica necessaria per capire le grandi tendenze dell‟opera di Alfieri e di Foscolo. Vittorio Alfieri, quale egli si descrive nelle prime tre parti della sua Vita, è un tipico gentiluomo settecentesco, un dandy europeo, dedito al lusso, al gioco, ai viaggi, agli amori adulterini come un giovin signore pariniano (tracce residue di questo modo di vita riaffiorano perfino nelle sue tragedie). La morte in duello avrebbe potuto chiudere prematuramente la sua carriera, come quella appunto del cicisbeo pariniano. Ma nella sua cultura e formazione giovanile, nella sua stessa conversione alle lettere si riscontrano anche motivi tipici dell‟illuminismo in senso lato: Alfieri compie, come tanti altri gentiluomini, il grand tour, viaggio di formazione, dedicato allo studio dei costumi, delle nazioni, degli ordinamenti politici. Il disprezzo da lui ostentato per il codice virgiliano che gli è mostrato a Milano indica chiaramente che anche per lui, come per i Verri, Beccaria e Goldoni, il “mondo”, il libro dell‟esperienza, è più importante della tradizione letteraria italiana, monotona e pedantesca, priva di vera originalità. Anche il suo cosmopolitismo giovanile e la sua ammirazione per la civiltà e per il sistema politico inglese sono tipici dell‟illuminismo settecentesco e di quell‟autore francese che il giovane Alfieri ha più profondamente ammirato, e cioè Voltaire. Il suo pensiero politico positivo (preferenza data a regimi di tipo costituzionale, basati sulla divisione dei poteri, in parte ispirati a Montesquieu e alla sua concezione della repubblica) è a sua volta razionalista e illuminista. Tipicamente settecentesca è la sua concezione quasi esclusivamente sociale e politica delle lettere. Verità, esortazione alla virtù, eloquenza al servizio dell‟utile pubblico – è così che Alfieri concepisce il mestiere e la missione del letterato, lontano da qualsiasi prospettiva puramente estetica, ornamentale, oppure metafisica e religiosa. Ricordiamo infine il suo indubbio materialismo (niente in tutta la sua opera può indurre a credere che egli si sia nai interrogato sul problema dell‟immortalità dell‟anima o della provvidenza divina). Tali ipotesi sembrano totalmente estranee al suo modo di considerare il mondo. Da questo punto di vista, il naturalismo e il materialismo di Alfieri è molto più radicale di quello di Voltaire e dei deisti, e lo colloca in una posizione ben diversa da quella di Rousseau. Ricordiamo la centralità della nozione di “libertà” nella sua trattatistica e nella sua opera letteraria, e osserviamo che anche per Alfieri la libertà è prima di tutto una categoria politica, anche se non soltanto politica. Notiamo infine che la sua conversione alle lettere si presenta come una vittoria della ragione, della volontà e della virtù – dell‟aspirazione a un‟esistenza felice che sia nello stesso tempo utile alla comunità – vittoria dunque della ragione sopra le passioni, la vanità, la volontà di dominio. Contro questi elementi caratteristici di un illuminismo sensista, razionalista, riformista, felicitario, cosmopolita, relativista, ecc. insorgono però altri tratti della personalità di Alfieri, tratti che fanno di lui una figura tipica del tardo illuminismo energico, antagonistico e dualistico, del tipo che abbiamo delineato sul piano teorico generale nella precedente lezione. Quali sono questi tratti? 1) Prima di tutto la solitudine, la malinconia, il perenne senso di noia, di sazietà che accompagna Alfieri in tutta la sua esistenza, ma in modo particolare nelle prime tre epoche della sua vita. Durante la sua giovinezza si alternano quindi episodi di vita salottiera e mondana, a altri di solitaria chiusura, di isolamento e impenetrabile malinconia. Inoltre, durante i suoi viaggi egli intuisce in certi momenti l‟immensità sublime della natura selvaggia e indomabile, commensurabile solo al cuore dell‟uomo; 2) la perenne tendenza a considerare il mondo (la società ma anche la propria esistenza materiale in genere) come una cloaca, come una limacciosa palude, in cui affonda, che lo opprime e da cui non può sciogliersi. Il proprio corpo, le proprie pulsioni e passioni, la propria esistenza umorale gli
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appaiono a loro volta come forme di schiavitù e asservimento, come catene da cui anela liberarsi con tutte le forze. Di conseguenza, anche la fortissima aspirazione alla libertà non ha più soltanto connotati sociali e politici, ma diventa un cieco anelito a fuggire dal carcere del corpo e della natura. Da qui il cupio dissolvi, il costante desiderio di morte di Alfieri, da qui anche il fatto che la maggior parte dei suoi eroi tragici (sia i tiranni che gli eroi della libertà) lottano sì per il potere, per la vittoria, per il rovesciamento di un regime oppressivo. Ma più ancora la loro lotta è un‟affermazione di sé, una testimoniaza del proprio coraggio e della propria dignità di fronte alla morte. Mirano dunque più a un gesto sublime che a un‟azione efficace, e in fondo è solo in forma oblativa, consumando il proprio martirio (martirio laico, ma pur sempre martirio) che essi acquistano la libertà. A questo proposito si è giustamente parlato di superominismo, di prometeismo alfieriano. E così anche la Vita è ricerca e conquista di un atto di volontà che lo innalzi al di sopra della noia e delle passioni amorose di cui è schiavo. Queste ultime poi, anche se sono un segno di debolezza e di asservimento, sono nello stesso tempo sublimi per la violenza con cui lo trascinano. Quanto all‟autoironia, alla tensione satirica, allo stile eroicomico con cui Alfieri spesso guarda ai propri bollenti furori, ai suoi gesti monumentali o feroci, anch‟essa contribuisce a delineare il ritratto di un uomo che non è mai sazio della propria insoddisfazione, che continuamente si contesta e contesta le proprie autocontestazioni. Tutti gli altri grandi temi e aspetti della vita e dell‟opera di Alfieri si inscrivono perfettamente nello schema antagonistico appena delineato, schema che si limita a declinare in modo individuale, alfieriano il dualismo, l‟antagonismo che abbiamo definito come uno dei tratti più frequenti, originali e profondi del “tournant des Lumières”. Mi riferisco in particolare alla poetica alfieriana della semplicità, del sublime e dell‟energia; alla sua nostalgia per epoche barbare e energiche, quando i tiranni non promettevano benessere e prosperità come i monarchi moderni (tutti lupi ricoperti con pelle d‟agnello), quando e i cittadini, per riconquistare la libertà, non avendo niente da perdere, non esitavano a mettere a repentaglio la propria vita; mi riferisco inoltre alla definizione del letterato come colui che combatte e si oppone alla tirannide (all‟assolutismo) [vedi scheda e citazioni] quasi che l‟eloquenza antitirannica fosse l‟unica forma di letteratura possibile, l‟unica missione dello scrittore; penso anche alla ricerca accanita di uno stile inimitabile e originale attraverso una disciplina di studi che lo spinge a riattraversare indefessamente tutta la tradizione letteraria italiana; penso al perenne attivismo e volontarismo, al costante rifiuto di subire passivamente la propria sorte (vedi nella Vita l‟episodio dello sparruccamento). Da questo punto di vista, anche il neo-classicismo di Alfieri (elemento fondamentale della sua conversione alle lettere), il suo rifiuto di una letteratura moderna e di argomento moderno, il suo ritorno agli antichi, la sua volontà di confrontarsi e gareggiare con i grandi scrittori della tradizione letteraria italiana (da Dante a Torquato Tasso) è un‟affermazione di sé, un anelito di gloria e immortalità, un modo di entrare con pochi altri eletti nei campi Elisi, rifiutando nello stesso tempo una letteratura di intrattenimento e di attualità, mondana, giornalistica, commerciale. Alfieri, aggiugiamo, scrive tragedie, perché è l‟unico genere letterario italiano che non ha già dato grandi capolavori e in cui non sarà quindi costretto a ammettere la superiorità di un Dante o di un Petrarca, e considerarsi semplice epigono. Nello stesso tempo, il genere tragico gli è consono perché mette in scena il conflitto tra l‟individuo e il destino, e perché si conclude con una sconfitta dell‟individuo in cui però lo spirito, la volontà non soccombono. Ripercorrendo la biografia d‟Alfieri, leggendo alcune citazioni tratte dalla sua opera, soffermandoci su almeno un episodio della sua vita, verificheremo nei fatti e nei testi quanto qui accennato generalmente.
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Lezione V Foscolo Un discorso simile potrà essere fatto per Foscolo. Il suo punto di partenza è molto simile al punto di arrivo di Alfieri. Nel Tieste, sua prima tragedia, e nell‟Ortis, di ispirazione a un tempo alfieriana e goethiana assistiamo al conflitto dell‟individuo con la natura, con la società, con le proprie passioni, con il potere politico, con i pregiudizi e le convenzioni dell‟aristocrazia, conflitto che sfocia in una sconfitta, in un suicidio che è però anche affermazione sublime della “virtù sconosciuta”. (Si aggiunga che il conflitto non è solo fra l‟individuo e la società, ma è anche immanente alla natura e alla società, entrambe intiimtamente lacerate da pulsioni contrarie.) Le posizioni giacobine adottate durante il Triennio napoleonico, la partecipazione attiva ai sommovimenti militari e politici di quegli anni conferiscono al patriottismo italiano di Foscolo un carattere molto più concreto e più nazionale di quello di Alfieri. Con Foscolo nasce il Risorgimento e la denuncia politica della dominazione straniera. Al pessimismo di impronta alfieriana, si aggiunge però in Foscolo, a parte i disordini della sua vita privata, il pessimismo suscitato dal cinismo di Bonaparte, dall‟esperienza della guerra, della violenza, dell‟odio fra gli uomini. Foscolo muove, come Alfieri, da una concezione della letteratura come testimonianza di verità e di giustizia. Lo stile dell‟Ortis è energico, inquieto, agitato, il romanzo è (come il Werther e la Nouvelle Héloïse) romanzo del sentimento, dell‟interiorità tragica, di una natura e di un paesaggio in cui si rispecchiano gli affetti dell‟Io. Ma Foscolo supera in parte con gli anni, evolvendo verso una poetica neoclassica, l‟individualismo e il prometeismo iniziale. Il dualismo foscoliano, tipico della corrente dei tournant des Lumières a cui egli appartiene, acquista allora una forma nuova. Foscolo è materialista, e diventa nel corso degli anni, sempre più scettico e disincantato. La natura e la storia per lui sono cieca lotta per la sopravvivenza, secondo un‟arcana legge della natura (vedi scheda biografica e citazioni). L‟uomo è per lui ricerca insaziabile della felicità, e dunque egoismo, violenza, volontà di dominio. Ma questo stesso anelito alla felicità si manifesta anche come amore, ricerca dell‟armonia, creazione attraverso l‟illusione poetica di un mondo di bellezza e armonia. La poesia per Foscolo è anche inganno e illusione, sublimazione neoclassica della vita e della natura. La bellezza è una sublimazione poetica, una deificazione di ciò che è effimero e destinato a sparire. Ma questa illusione scaturisce dalle leggi stessa della natura, è produttrice di civiltà, ammansisce gli uomini e le loro passioni, crea un mondo consolatore di dissonante armonia. In tutte le opere foscoliane della maturità, ma in particolare nei Sepolcri e nelle Grazie si riafferma questa dualità profonda, questa profonda intuizione della nostra condizione umana, della nostra esperienza del mondo. Il mondo è crudele, ostile, ci tormenta e ci priva costantemente della felicità, esistiamo per correre disperatamente incontro alla morte cercando un‟impossibile felicità. Ma questo mondo è anche il mondo che amiamo, in cui ritroviamo l‟armonia e la bellezza, che ci dispensa l‟amore e rari momenti di beatitudine. Per Foscolo essere scrittore e poeta significa dire la verità ma anche dire il velo dell‟illusione, dire l‟eternità della sofferenza, ma anche l‟eternità (benché illusoria) della poesia, significa celebrare il linguaggio e la civiltà, ma ricordare anche continuamente che non c‟è civiltà senza violenza, conquista e guerra. Per il suo continuo oscillare fra questi due opposti poli, è stato rimproverato a Foscolo di non aver saputo definire con chiarezza la propria posizione e di non aver superato le proprie incertezze e contraddizioni. In realtà proprio nella consapevole dualità della sua parola poetica si manifesta la sua originale e profonda visione del mondo. Attraverso lo studio della biografia foscoliana, attraverso la lettura di alcune citazioni tratte dalla sua opera, studiando in particolare l‟episodio del bacio nell‟Ortis verificheremo nei testi quest‟interpretazione globale della sua opera.
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Riassumiamo in modo un po‟ più schematico: Quali sono gli elementi propriamente alfieriani di Foscolo? 1) approccio libertario anti-tirannico: concezione almeno inizialmente eminentemente politica della letteratura 2) poeta come testimone delle ingiustizie del mondo, che denuncia oppressione e servitù (Jacopo vittima della repressione e delle persecuzioni che hanno luogo a Venezia alla caduta della municipalità provvisoria) 3) rivendicazione della tradizione culturale nazionale (fatta risalire alla cultura classica, greca e romana, e ai valori repubblicani che in esse si manifestano). E qui bisogna aggiungere che Foscolo è greco, nato nell‟isola di Zacinto ricordata nell‟Odissea, non lontano da Citera, dalle acque del mare da cui sarebbe nata Venere secondo la mitologia greca. Il Neoclassicismo di Foscolo, attestato sia dai Sepolcri che dalle Grazie, è all‟origine di una poesia impegnativa, difficile, estremamente dotta anche se mai gratuitamente erudita 4) amor di patria, che prende un senso politico molto più concreto di quel che ha in Alfieri (e infatti i due non sono nello stesso campo durante le campagne di Bonaparte e l‟occupazione francese): vedi a questo proposito la citazione dall‟Ortis con la prosopopea della patria, benché nelle sue grandi opere Foscolo non confonda mai poesia e propaganda politica; Jacopo medita sulla guerra e sulla rivoluz piuttosto che praticarla, e parla anzi come chi è disingannato, senza speranza per l‟immediato futuro. 5) affermazione del proprio io in conflitto con la società e la natura: il sonetto VII è particolarmente rivelatore anche sul piano stilistico. 6) La morte come prova suprema dell‟uomo (vedi il suicidio nell‟Ortis) e come occasione per mettere alla prova la propria sete di libertà e di indipendenza. Jacopo che pensa al suicidio ripete fra sé e sé versi del Saul di Alfieri. 7) Fama o gloria come méta suprema del poeta, raggiunta affrontando la morte. 8) Poesia come espressione dell‟io, dell‟interiorità, del proprio genio e della propria creatività (Ortis scritto “col sangue del mio cuore”), della propria solitudine. Energia sia del carattere (animo appassionato violento combattivo) che dello stile, stile rotto concitato come quello di Alfieri (sonetto VII) gonfio di dissonanze e disarmonie nell‟Ortis, di scompensi che possono essere considerati mimesi dell‟anima dell‟epistolografo mentre scrive. E tuttavia presto affiorano elementi che lo distinguono nettamente da Alfieri: 1) Tieste, tragedia giovanile di Foscolo è da vari punti di vista alfieriana (rivalità fra i fratelli come nel Polinice, lotta fra il tiranno e l‟eroe della libertà, analogie con il Filippo di Alfieri in quanto la donna amata da Tieste è sposata a Atreo suo fratello e rivale); ma la tragedia è un genere in cui Foscolo non è riuscito a cimentarsi con successo, la sua vera vocazione è lirica e sentimentale, le sue opere maggiori sono il romanzo giovanile, le odi, i sonetti, i Sepolcri e le grazie, culto dei morti e degli eroi(e in particolare gli eroi morti per la patria, v. Sepolcri vedi pellegrinaggio alla di Petrarca nell‟Ortis), ma anche della bellezza e dell‟amore; 2) il pensiero politico di Foscolo è in fondo molto diverso da quello di Alfieri: per Alfieri libertà vuol dire libertà dalla tirannide, per Foscolo libertà dallo straniero, indipendenza dell‟Italia, della patria, e per giungere a questo scopo Foscolo è molto più disposto a patteggiare con la monarchia e con la potenza francese, molto più possibilistico e pragmatico, come si vede nei suoi numerosi scritti di carattere politico. 3) l‟orizzonte di Foscolo si allarga fino ad abbracciare la storia umana, la natura in generale, la condizione dell‟uomo in seno alla natura (vedi citazioni nella scheda). Tutto questo era, volendo, sottinteso in Alfieri, ma acquista in F una dimensione, uno spessore, un‟evidenza che non aveva ancora nell‟astigiano. Foscolo poeta dell‟infelicità e della malizia umana, della violenza, dell‟ingiustizia, e della volontà di conquista insaziabile che agita l‟uomo e da cui
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solo la morte lo potrà consolare (sonetti che dicono l‟esilio foscoliano, la sua fuga ininterrotta, propria della condizione umana in generale, l‟anelito alla morte come pace suprema). Importante in questa prospettiva accostare i sonetti che ci danno una dimensione soggettiva individuale, e poi la loro amplificazione in riflessioni generali sulla condizione umana: il sonetto VI, i sonetti IX e X ci dicono l‟inquietudine di una vita umana lacerata da conflitti e dissidi e che cerca se stessa di esilio in esilio senza mai trovare la quiete e la verità, se non nella morte. Certe pagine più filosofiche dell‟Ortis e perfino dei Sepolcri esprimono la stessa idea in forma filosofica e metafisica generale: la materia che agita tutto, il tempo e la morte leggi dell‟universo (Sepolcri); lettere del 19 gennaio e dell‟11 maggio. Ne segue una concezione della poesia tutto sommato molto diversa da quella di Alfieri. Per Foscolo la poesia non è solo o essenzialmente eloquenza libertaria, ma anche elegia, meditazione, sublimazione dell‟infelicità umana, illusione consolatrice. Vedi i versi dei Sepolcri sulla “corrispondenza d‟amorosi sensi”, sulla poesia come “armonia che vince di mille secoli i silenzi”, e dunque la poesia come memoria per i secoli futuri (chiusa dei Sepolcri), vedi anche la pagina dell‟Orazione su come l‟uomo sublimi la sua irrequietudine in poesia e religione. Per Foscolo la poesia è dunque arte sublime, superiore a filosofia e scienza, e tuttavia non solo in quanto eloquenza libertaria, ma in quanto celebrazione della bellezza e dell‟amore, in quanto rivelatrice della bellezza del cosmo. Bellezza che però esiste forse solo nell‟animo della poeta. Sono queste idee che proprio le pagine dedicate al bacio di Teresa nell‟Ortis illustrano perfettamente. Sullo sfondo del cimitero e delle sue tombe – emblema della vanità della vita umana – si svolge una scena amorosa che trasfigura la natura, la vivifica, la rende divina, senza però distruggere la consapevolezza implicita che anche l‟amore come divinità che permea il creato è destinato a dissolversi nel nulla.
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Lezione VI Introduzione al Romanticismo europeo 1) l‟età romantica o della Restaurazione deve essere prima di tutto studiata da un punto di vista economico, sociale e storico. La rivoluzione industriale, cominciata in Inghilterra intorno al 1780, si estende al Belgio e alla Svizzera entro il 1820, arriva in Francia solo negli anni Trenta, in Germania negli anni Cinquanta e in Italia verso la fine del XIX secolo. In Francia però la modernizzazione investe le campagne sin dall‟inizio dell‟Ottocento, eliminando i vincoli feudali e trasformando la terra in merce sottoposta alle regole di mercato. L‟Italia resta fino alla fine del secolo un paese eminentemente rurale, i rapporti capitalistici di produzione prevalgono solo nell‟agricoltura della valle Padana, in Toscana si mantiene il regime della mezzadria e nel Sud vigono ancora sistemi semi-feudali, con grandi “latifondi” posseduti da “baroni” assenteisti e sistemi arcaici di conduzione agricola. La produzione agricola aumenta di circa il 50% fra il 1800 e il 1850 e si ha un grande incremento demografico: la popolazione europea passa nella prima metà del secolo dal 150 a 215 milioni di abitanti. Londra passa da 500.000 abitanti a due milioni e mezzo, Parigi da mezzo milione a un milione, Berlino da 170.000 a 400.000. L‟installazione della ferrovia e la diffusione delle macchine a vapore favorisce le comunicazioni e il trasporto delle merci, e rivoluziona il modo di vivere il tempo e lo spazio. La città e il treno diventano protagonisti anche nella letteratura e nelle arti. Nelle grandi città si concentrano molti lavoratori, ma anche poveri e vagabondi, che costituiscono un rilevante problema sociale, descritto da romanzieri come Balzac e Dickens e da sociologici come Engels. Le tradizionali misure di assistenza ai poveri si rivelano inefficaci e vengono spazzate via, mentre non nascono su vasta scala nuove forme di tutela dei lavoratori e degli indigenti. I quartieri operai diventano veri ghetti di miseria, sporcizia, alta mortalità. I ritmi di lavoro sono spesso disumani (dalle 12 alle 16 ore al giorno), la disciplina della vita di fabbrica è quasi militare, le crisi di disoccupazione provocano lo scoppio di violente lotte sociali descritte anch‟esse nei romanzi. Così per esempio un operaio, Stephen, si lamenta in un romanzo di Dickens (Difficult Times) delle condizioni in cui vivono gli operai: Guardate intorno, guardate la città – ricca com‟è – e vedrete quanta gente è nata qui, per tessere, per cardare, dalla culla alla tomba. Guardate come viviamo e dove abitiamo, quanti siamo, e com‟è sempre uguale la nostra vita; guardate come le macchine vanno sempre avanti e non ci conducono verso nessun‟altra meta che non sia, sempre, di morte. [...] Lasciate sole ed abbandonate migliaia e migliaia di persone, che fanno sempre la stessa vita, tutte negli stessi guai, ed esse saranno come un sol uomo, e voi sarete come un altro, con un abisso cupo e insormontabile fra di voi, per tutto il tempo, lungo o breve, che durerà una miseria simile. [...] considerarli come pura energia, regolarli come cifre in una somma o come macchine, senza sentimenti, senza ricordi e inclinazioni, senza anime che soffrono o sperano – e quando tutto va bene, tirare avanti come se essi fossero privi di tutto ciò, e quando le cose vanno male, rimproverarli della loro mancanza di sentimenti umani verso di voi – tutto questo non andrà mai bene, signore. Romanticismo, in un romanzo “realista” come questo, vuol dire che gli operai non sono macchine e cifre, che anch‟essi hanno un‟anima, dei sentimenti, dei ricordi. Nello stesso tempo, la topografia della città cambia. Le periferie sono occupate dai quartieri operai, al centro sono invece collocati i grandi magazzini e i negozi più prestigiosi.
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Negli anni Trenta a Parigi nascono i passages, gallerie di negozi scintillanti di vetrine, templi dell‟incipiente consumismo di massa. La società cessa di essere divisa in ordini sociali, e all‟inizio dell‟Ottocento comincia a diffondersi il termine di “classe sociale”. La differenza fra le classi non è più definita dal diritto ma dall‟economia. La nuova classe emergente è la borghesia [da burgensis, colui che abita all‟interno delle mura del borgo, distinguendosi quindi da contadini e nobili], composta da ceti imprenditoriali ma anche da proprietari terrieri e professionisti (avvocati, medici, ecc.) che vivono in città. Essa si batte per ottenere la massima libertà imprenditoriale e per fare della proprietà privata la base dell‟ordine sociale. In un primo tempo il principale nemico è rappresentato dai vecchi ceti aristocratici che vivono di rendita e mantengono una serie di privilegi sociali per via ereditaria. Poi, negli anni Quaranta, comincia a profilarsi un altro nemico, “il proletariato” [dal latino proles, colui che possiede i propri figli come unico bene, e vive solo del proprio salario, non ha cioè beni mobili o immobili], con le sue organizzazioni sindacali e politiche. 2) Nell‟Ottocento si diffonde in Europa la figura del letterato borghese che vive della professione delle lettere. In Italia però in genere è ancora obbligato a una doppia professione: da un lato fa per esempio l‟insegnante o l‟avvocato e dall‟altro produce opere letterarie. Può rinunciare alla seconda professione solo se è nobile (come Manzoni) e può vivere di rendita. Leopardi è costretto a cercare impieghi presso l‟editoria, come consulente o prestatore d‟opera, con profitti inconsistenti. Già nel Settecento era nata in Europa un‟opinione pubblica, che nell‟Ottocento si identifica ormai chiaramente con il “terzo stato”, diverso sia dalla plebe ignorante e analfabeta, sia dai letterati tradizionali. Berchet chiama questo ceto il “popolo”, ed è a questo pubblico che si rivolge il romanzo storico, con i suoi contenuti politici. Ma a partire dagli anni Cinquanta si rivolgono agli strati popolari più bassi i feuilletons o romanzi d‟appendice. Il feuilleton, era un articolo che nella parte bassa di un giornale ospitava a puntate un romanzo popolare, in cui dominavano l‟intrigo, i toni forti, il linguaggio semplice e immediato, le contrapposizioni schematiche buono-cattivo, vittima-aguzzino, ricco-povero. In Francia cominciò a svilupparsi negli anni Trenta con Alexandre Dumas (1803-1870) e Eugène Sue, che avviò il filone del romanzo sociale con i Mystères de Paris (1840). Il termine italiano è romanzo d‟appendice e il suo maggiore rappresentante è il napoletano Francesco Mastriani che scrive (ricalcando Sue) I misteri di Napoli. 3) nelle università aumenta il numero di iscritti e fra gli studenti hanno ampia presa le idee patriottiche e risorgimentali: gli studenti universitari svolgeranno un ruolo di primo piano fra i volontari nelle guerre d‟indipendenza. Altro luogo di diffusione di idee è il teatro (soprattutto attraverso l‟opera in musica) e contano non poco i salotti. Servirono a creare una cultura scientifica nazionale anche i “Congressi degli scienziati”, che si tennero ogni anno, a partire dal 1839 e sino al 1847, in diverse città italiane. In essi gli scienziati italiani discutevano dei problemi dell‟irrigazione, delle ferrovie, dell‟utilizzazione del gas per l‟illuminazione, dando un notevole contributo alla modernizzazione del paese. 4) l‟editoria nell‟Ottocento in Europa è ormai un‟industria capitalistica. In Italia rimane invece la figura del libraio-stampatore che evita il rischio dell‟investimento di capitale e si limita a pubblicare su commissione. La Chiesa essendo la principale committente nel 1846 il 23% dei libri sono ancora di argomento religioso (16% di argomento letterario). Vi era poi anche il sistema della sottoscrizione preventiva. Il diritto di proprietà letteraria, sancito in Francia nel 1793, e esteso all‟Italia durante il periodo napoleonico, riconosceva agli autori il diritto di essere pagati, e vietava che l‟opera fosse pubblicata senza il loro consenso. Niente però impediva in Italia che un libro fosse ristampato abusivamente al di fuori del singolo stato
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dove i diritti d‟autore erano stati riconosciuti. La Ventisettana dei Promessi sposi fu ristampata abusivamente decine di volte fuori dal Lombardo-Veneto. Della Quarantana, stampata dall‟autore a proprie spese, furono vendute invece solo 4.600 copie sia a causa dell‟alto prezzo dell‟opera (che era di lusso contenendo preziose illustrazioni), sia perché continuava a circolare a prezzo molto più basso l‟edizione del 1827. Manzoni fece causa per questo motivo all‟editore Lemonnier di Firenze e l‟autore intervenne personalmente nel dibattito con una lettera al Professor Girolamo Boccardo sulla “questione di proprietà letteraria” (1860) in cui difese i diritti economici del letterato (al dibattito, cominciato negli anni Trenta, avevano già partecipato Tommaseo, Cantù, Tenca) . Ulteriori ostacoli alla libera circolazione del libro erano la frantumazione politica, i dazi che gravavano sui costi, l‟alto numero di analfabeti (81% secondo il censimento del 1861), la censura politica e religiosa. I principali centri della produzione libraria furono Milano (che sopravanza Venezia), Torino (Paravia, Loescher, Pomba), Firenze (Passigli e Le Monnier). Una convenzione firmata nel 1840 estese a tutti gli Stati italiani (con esclusione del Regno delle Due Sicilie) la libera circolazione dei libri e il rispetto dei diritti d‟autore. 5) In Italia, nel periodo del Risorgimento, alcune importanti riviste contribuiscono alla diffusione della cultura e delle idee risorgimentali in una versione di moderato spiritualismo, cattolico-liberale. A Milano il governo asburgico finanziò nel 1816 una rivista, la Biblioteca italiana che avrebbe dovuto incoraggiare l‟erudizione e distogliere da impegni patriottici e civili indipendentisti. Presto però i collaboratori liberali, come Borsieri, Pellico, gli stessi Monti e Giordani se ne distanziarono. Borsieri e Pellico insieme a Berchet e Visconti fondarano allora il bisettimanale Il Conciliatore (1818) il cui programma (che insiste, come già il programma del Caffé, sulla necessità di bandire erudizione pedante e gare arcadiche) era di “conciliare” ricerca tecnico-scientifica e letteratura, ma anche cattolicesimo e pensiero laico, illuminismo e romanticismo, Lombardia e Europa. Il cemento unitario era costituito dall‟intento patriottico e liberale, e questo indusse le autorità austriache a chiudere il giornale alla fine del 1819. A Firenze, nel 1821, fu fondata (e diretta fino al 1833) da GiampietroVieusseux (aiutato da Gino Capponi) L’Antologia, rivista che pubblicò soprattutto articoli originali di statistica, economia e storia ma anche di letteratura. La rivista ebbe un ruolo fondamentale nel formare una classe dirigente moderata, cattolica e liberale. Più incline al razionalismo illuministico fu la rivista milanese Il politecnico dell‟intellettuale democratico federalista Carlo Cattaneo (1839-1844), ma la sua diffusione fu limitata perché i giovani identificavano romanticismo e risorgimento. Il Crepuscolo di Tenca (1850-1859) fu inizialmente su posizione mazziniane ma poi aderì al programma cavouriano. Possiamo ora passare a considerare i contenuti della cultura e della letteratura romantica. All‟inizio del corso ci siamo chiesti, “Che cos‟è l‟illuminismo?”, ora possiamo chiedere: che cos‟è il romanticismo? 1) Da un punto di vista filosofico, la novità del romanticismo consiste nel ritorno a una concezione spiritualista dell‟uomo, che può essere in larga misura considerata come un‟espansione della concezione della natura come espressione, come interiorità in contrasto con la concezione materialista, deterministica e scientifica della stessa natura. Ciò può manifestarsi come ritorno a una concezione cristiana del mondo (come avviene per esempio con Manzoni in Italia, con Chateaubriand in Francia, con i fratelli Schlegel, con Wordsworth e altri nelle fasi più mature del loro pensiero, ecc.); come adozione di una filosofia panteista (che porta a una deificazione della natura e dell‟uomo che si fonde nella natura); come riassorbimento dell‟universo nella vita interiore dell‟Io; come affermazione dell‟unità dello
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spirito e della materia, o infine come adozione di una filosofia della storia, cioè l‟idea che la storia dell‟umanità è storia dello spirito che si dispiega progressivamente nel tempo, e i popoli, le nazioni, le diverse epoche della storia sono le entità spirituali attraverso le quali si attua la provvidenza divina. Senza una qualche forma di spiritualismo, non si può parlare di romanticismo, almeno nei primi anni dell‟Ottocento. Conseguenza di questo spiritualismo è la rivalutazione della metafisica, della fede, della religione, della “superstizione”, del rito, della tradizione, della memoria, delll‟autorità, dell‟immaginazione, del sogno, e la rinnovata ricerca di strutture organiche e teleologiche in tutto quello che esiste. Rispetto alla metafisica e al cristianesimo tradizionali vi è però una differenza fondamentale che mostra come lo scetticismo illuminista, benché deprecato, abbia lasciato una traccia indelebile. Il credente classico crede nella rivelazione cristiana, e come conseguenza compie i riti e vive secondo i precetti di quella fede e di quella rivelazione; spesso invece il credente romantico ha prima di tutto fede nella fede, nel rito, nella superstizione, ha (per motivi estetici e psicologici) nostalgia di un mondo in cui c‟erano gli dèi, o in cui c‟era la fede cristiana, in cui si credeva in autorità infallibili, e in cui, per fede, si era pronti a subire il martirio. Un mondo in cui non avveniva che tutte le opinioni fossero costantemente rimesse in dubbio e sottoposte al vaglio dell‟esperienza e della ragione. Detto altrimenti, l‟illuminista è scettico e disprezza la religione e la fede dogmatica come forme di pregiudizio e superstizione. Il romantico o il post-romantico è a volte non meno scettico dell‟illuminista, ma si addolora di non riuscire a superare lo scetticismo e a ritrovare la fede, si immerge quindi nello studio o nella rievocazione poetica e lirica delle epoche religiose e “superstiziose”. Parallelamente, egli ha spesso speranza che il miracolo avvenga e egli sia destinato a ritrovare la fede, oppure ha speranza che nascano nuove credenze e certezze grazie alle quali le generazioni future supereranno l‟inquietudine e la disperazione presente. Crede cioè nella storia come ersatz dei valori e degli ideali perduti. Così per esempio scrive Alfred de Musset ne La confessions d’un enfant du siècle: Toute la maladie du siècle présent vient de deux causes; le peuple qui a passé par 93 et par 1814 porte en coeur deux blessures. Tout ce qui était n‟est plus; tout ce qui sera n‟est pas encore. Ne cherchez pas ailleurs le secret de nos maux. [...] O peuples des siècles futurs! Lorsque, par une chaude journée d‟été, vous serez courbés sur vos charrues dans les vertes campagnes de la patrie; lorsque vous verrez, sous un soleil pur et sans tache, la terre, votre mère féconde, sourire dans sa robe matinale au travailleur, son enfant bien-aimé [...] ô hommes libres! quand alors vous remercierez Dieu d‟être nés pour cette récolte, pensez à nous qui n‟y serons plus; dites-vous que nous avons acheté bien cher le repos dont vous jouirez (37) La storia, nella cultura romantica, diventa quindi la principale categoria di interpretazione della realtà (anche per chi non formula un‟esplicita filosofia della storia), categoria indissociabile dall‟idea di progresso, ma presa in senso dialettico, nel senso cioè di progresso verso uno scopo che si realizza attraverso antagonismi e conflitti. Già nel Settecento illuminista si parlava spesso di rigenerare ragione e natura corrottesi nel corso dei secoli. Ma per il romantico anche le epoche di corruzione e degenerazione appaiono come momenti necessari, come manifestazioni della provvidenza divina. Riassumendo, il Romanticismo è spiritualista, ma il suo spiritualismo può voler dire a seconda dei casi cose diverse: 1) ritorno a una fede dichiarata nella natura spirituale dell‟uomo e nel suo rapporto con la divinità; 2) nostalgia dello „spirito‟ anche in chi è consapevole di essere fatto di materia e di essere destinato a cessare di esistere con la morte; 3) dunque, anelito all‟infinito e al divino – anelito che non necessariamente ha un oggetto e uno scopo; 4) speranza (fede) che tutti i conflitti e gli antagonismi saranno superati in un
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lontano futuro messianico. L‟uomo è destinato a ritrovare l‟armonia, l‟unità che ha perduto (armonia fra corpo e anima, fra coscienza e natura). In questa prospettiva è importante la categoria romantica della Sehnsucht, non nostalgia (Heimweh, male, cioè, desiderio del ritorno) bensì male (il termine Sucht vuol dire male, intendendo fra l‟altro mania, passione, ma per l‟assonanza con il verbo suchen ha assunto anche il significato di ricerca, di aspirazione) del desiderio, cioè mania del desiderio, desiderio del desiderio: una specie di autocompiacimento dell‟inquietudine, dell‟insoddisfazione e del desiderio (come già abbiamo visto in Rousseau, nella lettera di Julie sopra citata). Mèta del desiderio è l‟infinito, ma siccome l‟infinito è inconoscibile, irraggiungibile, l‟anelito diventa fine a se stesso. L‟infinito non è un oggetto, un ente, per esempio un Dio trascendente: l‟infinito è il movimento stesso del desiderio dell‟infinito. 2) Nel campo più specifico della teoria letteraria il romanticismo è un fenomeno vario e contraddittorio (come ha sostenuto Lovejoy), e forse può essere definito solo in via negativa. Ciò che accomuna tutti i romantici è un certo numero di rifiuti, di negazioni. (1) secondo i romantici non ci sono e non ci possono essere regole fisse per la fabbricazione di un‟opera; (2) la letteratura non è imitazione della natura e dei classici, cioè la letteratura non è imitazione di quegli scrittori dell‟antichità greca e romana che una volta per tutte avrebbero colto l‟essenza della natura e ci avrebbero insegnato con le loro opere come rappresentarla; (3) la letteratura moderna (quella che nasce con il cristianesimo, in contrasto con la letteratura classica) è essenzialmente diversa da quella classica, perché riflette un modo diverso di porsi di fronte al mondo, una diversa realtà storica e un diverso modo di viverla nella propria coscienza; (4) la letteratura deve essere moderna (e in un certo senso non può non esserlo), la letteratura è sempre letteratura del proprio tempo, in quanto riflette la coscienza di scrittori che vivono nel proprio tempo e ne sono il prodotto. Preso in quest‟ultima accezione il romanticismo può presentarsi come una letteratura “realista” e la teoria romantica può aprirsi a una “sociologia della letteratura”. Lo scrittore romantico Wilhelm Heinrich Wackenroder (1773-1798) è stato il primo a sostenere (nel 1797) l‟eguale valore di ogni stile e di ogni concezione estetica: un tempio greco non è più bello di una chiesa gotica ma esprime una diversa idea di bellezza. Il volume di Mme de Staël, De la littérature (1800) può essere considerata la prima opera di sociologia della letteratura. Ecco altri due nozioni moderne, proprie delle poetiche ottocentesche e novecentesche, che nascono proprio nel Romanticismo: (1) la concezione dell‟opera d‟arte come organismo. L‟opera d‟arte come un Tutto (creato dal poeta allo stesso modo che Dio crea il mondo) con le sue leggi immanenti e ad essa specifiche. (2) la nozione di simbolo, cioè l‟idea che l‟immagine, nella sua particolarità, possa includere in modo necessario e organico l‟universale, sia un‟intuizione sensibile, concreta, alogica, individuale del Tutto. Detto altrimenti, il segno materiale, corporeo presenterebbe un legame necessario e immanente con il senso che attraverso di esso si manifesta. In questa prospettiva, l‟opera d‟arte non è più soltanto rappresentazione di un oggetto particolare, quello che è di volta in volta imitato, ma un‟approssimazione dell‟universo e del senso dell‟essere. Essa è il senso del mondo contenuto in un grumo di suoni o colori. Merita di essere ricordata, in questo contesto, la concezione del linguaggio poetico sviluppata da August Wilhelm Schlegel. Egli pensa che sia esistito un linguaggio delle origini (identificato con l‟antico sanscrito) come entità pura e assoluta, espressione immediata dell‟ingenuità popolare. Il linguaggio moderno è invece un linguaggio convenzionale e corrotto, basata sull‟arbitrarietà dei significanti rispetto al significato (i significanti variano da popolo a popolo determinando la confusione e la reciproca incomprensibilità delle lingue). Ma proprio la poesia tende a superare tale finitezza e corruzione e ad esprimere l‟assoluta
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purezza del linguaggio originario. Nella poesia lirica fondata sulla musica significante e significato tendono a avvicinarsi sin quasi a coincidere. La poesia riesce così a attingere per via magica e intuitiva una zona originaria e primitiva e a esprimerla con un linguaggio puro e universale. In modo simile, la ricerca di Novalis è volta a cogliere il legame profondo e impalpabile che unisce in un tutto unitario la natura e l‟interiorità del poeta. L‟uomo è insomma inserito in un insieme organico di forze magiche e spirituali, che il poeta rivela per via intuitiva attraverso una rete di analogie simboliche. Si tratta di una rivelazione dell‟infinito che può darsi solo per approssimazione e che è resa possibile da una sorta di dono sacro concesso ai poeti. La loro condizione è quindi profetica e sacerdotale. A questo tipo di simbolismo romantico si ispirerà il movimento simbolista francese, dopo il 1848, a partire da Mallarmé. Così scrive Novalis: Il senso della poesia ha molto in comune con il senso per il misticismo. [...] Esso rappresenta l‟irrapresentabile, vede l‟invisibile, sente il non-sensibile. [...] Il poeta è veramente rapito fuori dei sensi; in compenso tutto accade dentro di lui. Egli rappresenta in senso vero e proprio il soggetto-oggetto, anima e mondo. [...] Il senso per la poesia ha una vicina affinità col senso della profezia e col sentimento religioso, col sentimento dell‟infinito in genere. [...] Poeta e sacerdote erano in principio una cosa sola, e soltanto più tardi li hanno distinti. Ma il vero poeta è sempre rimasto sacerdote, così come il vero sacerdote è sempre rimasto poeta. E non dovrebbe l‟avvenire ricondurre l‟antico stato di cose? Questo è il marchio di fabbrica del romanticismo: c‟è nell‟uomo, nella vita, nella realtà, una scissione che l‟uomo desidera superare, che sin d‟ora supera in certi momenti privilegiati, in certe esperienze cruciali (poesia, amore, ecc.), e che supererà forse definitivamente alla fine della storia. Anche Wordsworth, e dopo di lui Shelley e Coleridge, considera la poesia come verità, ma una verità conoscibile attraverso la forza del sentimento che essa comunica, e non propriamente e originariamente attraverso gli oggetti designati dal linguaggio. In modo simile, per Wackenroder (1773-1798) la musica è espressione diretta del sentimento, essa permette di penetrare, con la magia incantatrice dei suoni, nell‟essenza nascosta del mondo. I grandi musicisti romantici si ispirano a questo principio. Più tardi Richard Wagner (1813-1883) presenterà l‟opera in musica come genere assoluto e universale, dramma in cui si riunificano tutte le arti, teatro, poesia, danza e pittura (L’opera d’arte dell’avvenire, 1849). 3) L‟età romantica è anche un‟epoca in cui si diffondono nuovi generi e si trasformano generi già esistenti. Alla luce delle premesse teoriche appena evocate, studiamo ora alcune delle sue principali manifestazioni, in Europa e in Italia. a) cronologicamente si può far cominciare il romanticismo dagli ultimissimi anni del Settecento quando Napoleone compie il colpo di stato (il 18 di Brumaio, novembre 1799) che porterà alla nascita dell‟Impero, e quando in Germania (con la rivista jenese Athenaeum, diretta dai fratelli Schlegel) e in Inghilterra (con le Lyrical Ballads di Wordsworth e Coleridge) nascono i primi movimenti propriamente romantici. Non è però meno legittimo fare cominciare l‟età del romanticismo nel 1815, quando cade Napoleone e è restaurato l‟ancien régime, e quando il movimento romantico approda anche in Italia e poco dopo in Francia e in altri paesi. b) nel Medio Evo erano chiamate “romans” o “romanzi” narrazioni di carattere epico, in versi o in prosa, scritte in lingua neo-latina (francese, spagnolo, italiano, ecc.), cioè appunto, come
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si diceva allora, in lingua romanza (in francese “romane”). Questi romanzi si ispiravano alla storia classica (per es. il Roman de Troie) o al mondo cortese e cavalleresco (Lancelot, i romanzi di Chrétien de Troyes). Nel Seicento, in inglese, il termine “romantic” designa, in accezione negativa, la materia avventurosa e amorosa degli antichi romanzi cavallereschi. Nel Settecento esso comincia a designare positivamente il fascino della natura selvaggia, del mistero, del soprannaturale, il gusto per l‟evasione fantastica e per il lontano. In Francia il termine fu tradotto con pittoresque e romanesque e in seguito con romantique, per sottolineare il rapporto sentimentale e malinconico con la natura e il paesaggio (è usato in questo senso da Rousseau). In Italia l‟aggettivo romantico entra in uso solo a partire dal 1814. In tedesco invece il termine Romantik viene usato sin dal 1798 da F. Schlegel per distinguere la poesia inquieta e drammatica propria dei moderni, da quella armoniosa e compiuta degli antichi. Friedrich Schlegel propone anche un‟originalissima definizione della poesia romantica nel celebre frammento 116 dell‟Athenaeum (che qui riproduco in traduzione francese): La poésie romantique est une poésie universelle progressive. Elle n‟est pas seulement destinée à réunir tous les genres séparés de la poésie et à faire se toucher poésie, philosophie e rhétorique. Elle veut et doit aussi tantôt mêler et tantôt fondre ensemble poésie et prose, génialité et critique, poésie d‟art et poésie naturelle, rendre la poésie vivante et sociale, la société et la vie poétiques, poétiser le Witz [esprit], remplir et saturer les formes de l‟art de toute espèce de substances natives de culture, et les animer des pulsations de l‟humour. Elle embrasse tout ce qui est poétique, depuis le plus grand système de l‟art qui en contient à son tour plusieurs autres, jusqu‟au soupir, au baiser qu l‟enfant poète exhale dans un chant sans art. [...] Le genre poétique romantique est encore en devenir; et c‟est son essence propre de ne pouvoir qu‟éternellement devenir, et jamais s‟accomplir. Aucune théorie ne peut l‟épuiser, et seul une critique divinatoire pourrait se risquer è caractériser son idéal. Lui seul est infini, comme lui seul est libre, et il reconnaît pour première loi que l‟arbitraire du poète ne souffre aucune loi qui le domine. Le genre poétique romantique est le seul qui soit plus qu‟un genre, et soit en quelque sorte l‟art même de la poésie: car en un certain sens toute poésie est ou doit être romantique. Bisogna notare che almeno inizialmente il romanticismo (il romanticismo di Jena) non si presenta affatto come un movimento irrazionalista. Alcuni almeno dei primi romantici operano una distinzione fra la ragione (la facoltà che permette di intuire l‟infinito e il divino) e l‟intelletto (la facoltà che presiede alla conoscenza empirica del mondo sensibile) e sono convinti che nel nuovo sapere da essi promosso il contrasto moderno fra arte, mitologia, religione e ragione sarà superato. La stessa unica verità infinita o assoluta potrà allora essere conosciuta sia con la ragione che attraverso l‟esperienza artistica e religiosa. Il romanticismo è tuttavia ostile sin dall‟inizio all‟intellettualismo, all‟utilitarismo, al sensismo, al materialismo della filosofia illuminista – al suo interesse per le scienze empiriche, per la tecnica e per il benessere materiale. Il romantico inoltre muove dalla distinzione di Schiller fra “ingenuo” e “sentimentale” (a cui corrisponde quella di F. Schlegel fra “oggettiva” e “interessante”) fra un atteggiamento antico, pienamente illustrato dall‟arte e dalla poesia greca, in cui c‟è piena armonia fra l‟Io e la natura, e l‟atteggiamento moderno, derivato dal cristianesimo, per cui l‟Io anela a un infinito che non trova piena soddisfazione nel mondo finito. c) L‟individualismo antagonistico che già abbiamo visto affiorare nel “tournant des lumières” con lo Sturm und Drang, con Goethe e Schiller in Germania, con Alfieri in Italia, diventa una delle tendenze più importanti del romanticismo, benché contrastata da altre correnti
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romantiche, che mirano piuttosto a rivalutare lo spirito nazionale e collettivo. L‟individualismo romantico è di volta in volta chiamato prometeismo (da Prometeo che rubò il fuoco agli dèi per donarlo all‟uomo), superominismo, o anche titanismo. I titani sono i dodici figli di Urano e di Gea che si ribellarono contro gli dèi dell‟Olimpo e furono sconfitti da Zeus, figlio di Crono; il termine “titano” fu introdotto dallo scrittore tedesco Jean-Paul Richter che nel 1800 pubblicò il romanzo Titan, il cui protagonista Rocquairol è appunto figura romantica, nobile, sprezzante e passionale. Comincia così la storia dell‟artista moderno, storia di un‟estraneità, di un distacco dagli uomini, di una inconciliabilità con il mondo, di una scissione fra l‟ideale e il reale. Questa scissione può essere vissuta come contrasto storico (vedi il passo di Musset sopra citato) e può portare a un atteggiamento realistico, a una volontà di immettere l‟ideale nel reale e a studiare le ragioni sociali del malessere; può essere invece vissuta come dissidio ontologico, inerente alla condizione umana, e può essere studiato attraverso uno scavo dell‟interiorità e dell‟inconscio. In molti casi poi, se anche uno dei due atteggiamenti prevale, entrambi sono simultaneamente presenti. Ciò è vero in Italia per Manzoni, che colloca in un contesto storico minuziosamente ricostruito un dilemma (quello della fede cristiana) che in un‟ultima analisi è metafisico e religioso; ed è vero anche per Leopardi, il quale nel corso della sua carriera attribuisce all‟infelicità umana prima cause storiche e poi cosmiche e metafisiche. Ma c‟è naturalmente una differenza fondamentale fra la scelta manzoniana del romanzo come genere letterario in cui esprimere la propria visione del mondo, e la pratica di generi come la poesia lirica (i Canti) e l‟operetta morale da parte di Leopardi. Nel primo caso l‟Io antagonistico è esaminato a partire dalla storia e dalla società e all‟interno di essa. Nel secondo caso è lo scavo dell‟Io che lo porta a un certo punto a identificare il mondo che lo circonda e con cui è in contrasto. Anche a livello europeo abbiamo autori “romantici” che preferiscono l‟impostazione storico-realistica, come Balzac, Hugo, Dickens, e altri che prediligono invece la linea liricometafisica (Novalis, Coleridge, Wordsworth) o che comunque esplorano l‟interiorità. La stessa ricerca storica può poi portare a privilegiare il Medio Evo (spesso concepito secondo modalità leggendarie e fantastiche) come in Walter Scott o nei romantici italiani (Berchet,Grossi, d‟Azeglio e il Manzoni dell‟Adelchi) oppure può portare a identificarsi alla storia concreta di un popolo e alle sue battaglie politiche (come accade in Francia con Victor Hugo e in Italia con il romanticismo lombardo). L‟interesse rinnovato per la religione cristiana può essere a sua volta vissuto in senso rigorosamente morale, e a partire dal problema fondamentale della giustizia nel mondo, oppure in senso mistico e magico (Novalis) o in senso psicologico-intimistico (Tommaseo, Lamartine). Il tema dell‟amore è un tema universale, che ritroviamo nella letteratura di tutti i tempi e di tutte le epoche. E tuttavia si usa spesso parlare di „amore romantico‟, che se l‟amore fosse cosa tipicamente romantica e come se la letteratura romantica fosse sempre e esclusivamente una letteratura d‟amore (il che è certamente falso). Perché questo luogo comune dell‟amore romantico? La risposta a questa domanda sembra risiedere nel fatto che l‟amore pare particolarmente atto a rappresentare sia la scissione fra l‟individuo e il mondo che il suo appassionato superamento. Nell‟amore „romantico‟ due corpi, due anime si fondano e diventano un‟unica cosa. L‟esperienza dell‟amore dà un senso concreto e drammatico al desiderio di unità che è proprio del romanticismo, della sua filosofia e della sua letteratura. Non a caso quindi l‟amore romantico travalica la letteratura e le arti, diventa costume, grazie alla mediazione “popolare” rappresentata dall‟opera in musica. Il contrasto “idealereale” si presenta allora come contraddizione fra la passione amorosa, forza generosa, pura e sublime, capace di sacrificio assoluto, e la società, che privilegia l‟utile economico e le convenzioni ipocrite. Si veda a questo proposito La dame aux camélias di Dumas fils (1848) e La traviata di Verdi (1853) che vi si ispira. L‟amore di Marguerite Gautier e di Armand
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Duval fa uscire Marguerite dal mondo della perdizione e del vizio. Ma la sorella di Armand non potrà sposarsi se il fratello continua la relazione illecita con Marguerite. Il padre di Armand convince dunque Marguerite a lasciare l‟uomo amato, senza dargliene il vero motivo. Solo poco dopo, sul suo letto di morte (Marguerite era malata di tisi) Armand scopre la verità. L‟epilogo è ambiguo, perché se da un lato il padre conduce Armand da Marguerite quando ormai è oggettivamente sicuro che la loro relazione è finita, d‟altra parte la generosità e la bontà della prostituta (vera martire del romanticismo cristiano) è riconosciuta anche da chi aveva precedentemente richiesto il suo sacrificio. Notiamo a questo proposito che anche nei romanzi di Stendhal, Balzac, Manzoni e altri l‟eroe introduce nel mondo un‟esigenza di rinnovamento morale, o almeno la coscienza dell‟immoralità e del cinismo dominanti. Se passiamo ora a considerare la linea lirico-metafisica, notiamo come essa possa manifestarsi non solo in poesia ma anche in prosa e in testi di carattere narrativo: basti pensare al racconto fantastico, che esplora le fantasie notturne dell‟Io, la scissione del soggetto, la sovrapposizione inquietante di fenomeni naturali e soprannaturali. Hoffman, Mary Shelley, Poe sono alcuni dei maggiori rappresentanti di questo genere erede del romanzo gotico inglese. d) Alle luce di queste premesse possiamo fare alcune brevi considerazioni sui diversi generi letterari e sulle diverse correnti della letteratura romantica. Un primo punto importante da sottolineare è che con il romanticismo il genere cessa di essere una categoria normativa che determina la modalità di scrittura in modo precettistico e condiziona il giudizio di valore. Il carattere epico o lirico di un‟opera non dipende più dalla forma che essa assume, ma dallo spirito che la anima. I generi diventano inoltre unità relative in quanto sono studiati nel loro sviluppo storico. Legato a questa trasformazione nell‟idea del genere, vi è l‟affermazione di un genere nuovo, il romanzo, che mescola stili diversi e si sottrae a modelli precostituiti. Il romanzo e la lirica sono i due generi principali del periodo e questo corrisponde in una certa misura alle due modalità letterarie principali dell‟immaginario romantico: quella storico-realistica (che si incarna nel romanzo storico e sociale), e quella orientata verso l‟interiorità e l‟immaginazione (che trova nella lirica la sua espressione più congeniale). Di fatto si scrivono anche romanzi fantastici, e si scrivono poemi storici e realistici. Ma nella maggior parte dei casi le poetiche “simbolistiche” tendono a preferire la lirica e quelle storico-realistiche il romanzo. Anzi, è a partire dall‟età romantica che la poesia lirica comincia a diventare sinonimo di poesia. È molto importante la teoria elaborata da Hegel a questo proposito. Secondo Hegel l‟elemento lirico è il carattere tipico dell‟arte romantica e il romanzo rappresenta invece il conflitto fra la poesia dell‟anima e la prosa del mondo, fra ideale e reale, fra il soggetto e la società. La lirica rappresenta la scissione già avvenuta (nella poesia lirica il poeta canta se stesso, la propria interiorità, i propri sentimenti in modo assoluto, senza più relazioni con l‟azione sociale e con la realtà esterna); il romanzo rappresenta invece la scissione in atto, il conflitto problematico fra io e mondo. La lirica nasce dall‟isolamento e dalla perdita dei rapporti sociali, il romanzo è invece la forma moderna e borghese dell‟epica, con la differenza essenziale che nell‟epoca antica [così almeno sembra al moderno] la condizione del mondo era sentita come originariamente poetica, nell‟epoca moderna non più. Così scrive Hegel: Nel romanzo, la moderna epopea borghese, ricompare da un lato la ricchezza e la multilateralità degli interessi, delle condizIoni, dei caratteri, dei rapporti di vita, il vasto sfondo di un mondo totale [...] Quel che manca è però la condizione del mondo originariamente poetica da cui si origina l‟epos vero e proprio. Il romanzo nel senso moderno presuppone una realtà già ordinata a prosa, sul cui terreno esso [...] cerca di ridare alla poesia,
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nei limiti in cui ciò è possibile con i presupposti dati, il diritto da lei perduto. Perciò una delle collisioni più comuni e più adatte per il romanzo è il conflitto della poesia del cuore con la prosa contrastante dei rapporti e l‟accidentalità delle circostanze esterne. Si tratta di un dissidio che o si scioglie tragicamente e comicamente, o trova il suo adempimento nel fatto che i caratteri imparano a riconoscere nell‟ordine comune del mondo l‟autentico e il sostanziale, si riconciliano con i suoi rapporti e vi entrano operosamente [e dunque nello stesso tempo] sostituiscono alla prosa esistente una realtà resa affine ed amica alla bellezza e alll‟arte. Fra i sottogeneri del romanzo europeo abbiamo il romanzo storico (Scott, Hugo in Francia, Puskin in Russia), il romanzo sociale e realistico (Dickens, Balzac e Stendhal), il romanzoconfessione (Constant e Musset), il racconto e romanzo fantastico (Poe, Hawthorne, Hoffmann), il romanzo di formazione (Goethe, Stendhal, Dickens). 4) Il romanticismo tedesco nasce dal gruppo di Jena, attivo (in quanto gruppo) dal 1798 al 1805 (gli Schlegel, Novalis, Tieck, Wachenroder, i filosofi Fichte e Schelling). Un secondo gruppo agì a Heidelberger e Berlino (Clemens Brentano, Chamisso, von Arnim, von Kleist, Ernest Th. Hoffmann). In questo gruppo prevalsero posizioni nazionalistiche, il culto del Medioevo, l‟interesse per le tradizioni popolari del popolo tedesco. Il terzo gruppo (la scuola “sveva”) fu attivo dal congresso di Vienna agli anni Quaranta, con un progressivo ripiegamento su tematiche intimistiche, piccolo-borghesi, quotidiane. È questo il periodo Biedermeier dal nome di un personaggio inventato dai poeti tedeschi Kussmaul e Eichrodt. In Inghilterra una prima generazione romantica è quella di Coleridge e Wordsworth. Una seconda che emerge dopo il 1810 è quella di Byron, Shelley, Keats. Negli stessi anni nasce anche il romanzo storico. In Francia il romanticismo era stato annunciato da Chateaubriand. Le resistenze alla nuova poetica furono però forti. Esso si afferma veramente solo a partire dal 1827 con la prefazione di Victor Hugo al Cromwell che insiste sul gusto dell‟uomo moderno per la storia, per i forti contrasti, per la mescolanza di comico e tragico, per il grottesco. Altra tendenza tipica del romanticismo francese è la propensione per l‟esotico (Hugo, Les orientales, 1830). Possono essere considerati romantici i due maggiori romanzieri di questa età: Stendhal e Balzac.
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Lezione VII La letteratura italiana nell’età del Romanticismo. Manzoni e il romanzo storico 1) Quando veniamo a considerare la letteratura italiana, ci rendiamo conto che delle due modalità del romanticismo (da un lato la via simbolica-intuitiva, con lo scavo dell‟Io e dell‟inconscio; dall‟altro quella storico-realistica, con l‟esplorazione del contrasto fra “ideale” e “realtà” nell‟ambito della società) solo la seconda è stata praticata in Italia (e in Francia), e questo a tal punto che in Italia Romanticismo e poetica del “vero” (o del realismo) finiscono per coincidere. Questo non vuol dire che la scissione fra ideale e reale non sia messa in valore. Significa piuttosto che essa è soprattutto esplorata nell‟ambito della società e della storia. L‟intreccio fra Romanticismo e Risorgimento conferisce al romanticismo italiano una prospettiva civile, costruttiva, patriottica, che lo induce al recupero di molti aspetti della tradizione illuministica (istanza razionalistica, pragmatica e moralistica). Era invece estraneo all‟illuminismo il gusto per il Medioevo, il ritorno alla religione cristiana, la polemica anticlassicistica, l‟interesse per il popolo e per la storia. 2) In Italia il dibattito sul Romanticismo comincia con la pubblicazione di un articolo di Madame de Staël sulla Biblioteca italiana nel gennaio 1816 intitolato Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni. Mme de Stael aveva da poco pubblicato De l’Allemagne con cui introduceva nei paesi latini le nuove teorie estetiche provenienti dalla cultura tedesca. Nel suo articolo prendeva di mira il gusto dell‟erudizione e l‟amore per la mitologia nella letteratura classicista italiana, la scarsa conoscenza degli autori stranieri, l‟estraneità della letteratura italiana al dibattito culturale europeo. E auspicava un rinnovamento da attuarsi con la traduzione di opere dei paesi stranieri, inglesi e tedeschi in particolare. Alla de Staël risposero polemicamente i classicisti (Pietro Giordani e il giovane Leopardi), poi venne la risposta dei giovani romantici italiani (vedi Cronologia). Ecco in breve i temi del dissenso: i classici sostengono l‟eternità del bello, i romantici la sua storicità; i primi sostengono l‟imitazione degli autori dell‟antichità (e nel dramma il rispetto delle regole e unità aristoteliche nel dramma), i secondi l‟originalità; gli uni fanno ricorso a temi mitologici, gli altri a motivi cristiani e argomenti moderni, più “interessanti”. Il pubblico dei classici è ristretto a un‟élite di studiosi e eruditi, il pubblico dei romantici è il “popolo” (cioè un pubblico colto che ha anche studiato, ma che conserva una capacità di sentire e provare emozioni). La lingua degli uni è aulica, basata sulla tradizione del passato, quella degli altri moderna e basata sull‟uso comune. La risposta di Giordani ai romantici è assai coerente, egli dice in sostanza: il progresso è possibile nelle scienze, non nelle arti, non ha quindi senso pretendere che le arti si rinnovino, la bellezza è eterna: “Io dico: oggetto delle scienze è il vero, delle arti il bello. Non sarà quindi pregiato nelle scienze il nuovo, se non in quanto sia vero, e nelle arti, se non in quanto sia bello. Le scienze hanno un progresso infinito, e possono quindi trovare verità, prima non sapute. Finito è il progresso delle arti: quando abbiano trovato il bello, e saputo esprimerlo, in quello riposano.” Più complessa la posizione di Leopardi: per lui il mondo moderno, essendo basato sulla ragione e sul vero, è nemico delle illusioni e della natura. Ma solo dalla natura e dalla illusioni (che proprio la natura ci inculca) può nascere la poesia. Sia Giordani che Leopardi difendono la tradizione letteraria italiana in quanto costitutiva dell‟identità nazionale. Fra le risposte romantiche, interessante quella di Berchet, che divide in tre gruppi il pubblico dei potenziali lettori di una nazione: 1) gli Ottentotti cioè la plebe analfabeta; 2) i Parigini, troppo intellettuali e raffinati, sofisticati e eruditi, per essere ancora capaci di fantasia e di passione, e 3) il Popolo, “che comprende – scrive Berchet – tutti gli altri individui
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leggenti e ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant‟altri, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni”. I Romantici si rivolgono a quest‟ultima parte della popolazione, l‟arte romantica è dunque per Berchet un‟arte popolare. Essa inoltre si ispira direttamente alla natura e all‟animo umano, non imita attraverso i libri e l‟erudizione. La poesia classica è la poesia dei morti, quella romantica la poesia dei vivi. A proposito dei moderni poeti europei egli scrive: “Alcuni interrogarono direttamente la natura: e la natura non dettò loro né pensieri nà affetti antichi, ma sentimenti e massime moderne. Interrogarono la credenza del popolo, e n‟ebbero in risposta i misteri della religione cristiana, la storia di un Dio rigeneratore, la certezza di una vita avvenire, il timore di un‟eternità di pene”. E a proposito della poesia antica egli scrive: “Omero, Pindaro, Sofocle, Euripide, ec. al tempo loro furono in certo modo romantici, perché non cantarono le cose degli Egizi o de‟ Caldei, ma quelle dei loro Greci; siccome il Milton, non cantò le superstizioni omeriche, ma le tradizioni cristiane.” 3) Fra i diversi generi del romanzo presenti in Europa, in Italia per molti anni è praticato solo il romanzo storico. Nel 1827 escono simultaneamente in Italia, oltre ai Promessi sposi, altri quattro romanzi storici (fra i quali La battaglia di Benevento di Francesco Domenico Guerrazzi, di ispirazione democratica e mazziniana). Continuatori del romanzo storico manzoniano saranno due suoi collaboratori ed amici, d‟Azeglio (autore dell‟Ettore Fieramosca) e Grossi (Marco Visconti), che si collocano su una linea liberale, cattolica e moderata. Più tardi si scriveranno romanzi di ispirazione gesuitica e reazionaria (come L’ebreo di Verona, 1850, del padre Antonio Bresciani) e romanzi d‟appendice. Solo negli anni Quaranta e Cinquanta avremo qualche esempio di romanzo-confessione e romanzo sociale, e il romanzo fantastico apparirà solo negli anni sessanta con la Scapigliatura. Nell‟intera storia del romanzo italiano unico romanzo di formazione è Le confessioni di un italiano. Ma è proprio nel campo del romanzo storico che viene scritto l‟unico vero capolavoro della prosa italiana nell‟età romantica, appunto I promessi sposi, ed è ora quindi sul suo autore e sulla sua opera principale che dobbiamo soffermarci. Studiando Manzoni, dobbiamo prima di tutto prendere in considerazione la sua biografia. Essa ci permette di osservare i fatti seguenti: 1) Manzoni è milanese, nobile, erede e anzi discendente diretto anche in senso biologico di alcune grandi figure dell‟Illuminismo milanese (sua madre è Giulia Beccaria, suo padre naturale un Verri). Da questo punto di vista, Manzoni rappresenta un elemento di continuità e non di rottura con la tradizione dell‟Illuminismo. Importante, su questo piano, il soggiorno parigino, i contatti avuti con gli idéologues, l‟orizzonte europeo della sua cultura, che fra l‟altro contribuisce alla scelta del genere romanzesco; 2) tuttavia c‟è anche un elemento di rottura nella biografia e poi nell‟opera di Manzoni, ed è la conversione al cristianesimo. Evento privato, legato fra l‟altro a certi dati della sua psicologia (segnata da nevrosi e fobie), ma anche evento epocale, poiché come lui anche altri giovani milanesi che erano stati giacobini, democratici, e fra l‟altro allievi e ammiratori di Foscolo (Silvio Pellico) si convertono al cristianesimo e al romanticismo. Si tratta del resto di un fenomeno europeo e non solo italiano (basti pensare a Chateaubriand, ai fratelli Schlegel, ecc.); 3) Manzoni è liberale, moderato, cattolico, è raramente in prima linea nella lotta politica, ma aderisce con costanza e coerenza, senza la minima esitazione, al Risorgimento, su una linea fra l‟altro decisamente anti-clericale, fino agli ultimi giorni della sua vita. Così egli scrive nella più bella e famosa delle sue odi patriottiche Marzo 1821, asserendo con forza l‟unità della nazione italiana: Una gente che libera tutta,
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O fia serva tra l‟Alpe ed il mare; Una d‟arme, di lingua, d‟altare, Di memorie, di sangue e di cor. (vv. 29-32) 4) anche Manzoni viene dalla tradizione classicistica, la abbandona come altri nello stesso periodo e solo lentamente, progressivamente, con grandi difficoltà può approdare al nuovo genere europeo moderno, il romanzo. Se passiamo a considerare la visione del mondo di Manzoni, possiamo dire che le sue premesse sono in fondo le stesse della linea Alfieri-Foscolo (che avrà poi il suo continuatore geniale in Leopardi). Anche per lui contrasto fra l‟individuo e il corso del mondo, fra anime nobili in cui si incarna il senso della libertà, del bene e della giustizia, e la società retta dall‟egoismo, dal gretto interesse, dalla tremebonda viltà. Si pensi al contrasto fra Fra‟ Cristoforo e Don Abbondio, l‟Innominato e don Rodrigo, ecc. Inoltre anche lui condanna azioni che sacrificano gli individui, la loro felicità, la loro coscienza a gretti interessi: basta pensare a Gertrude, la Monaca di Monza, la cui libertà di coscienza è cinicamente calpestata dal padre e dai familiari. Non a caso Manzoni scrive drammi storici a esito infausto e il protagonista del più importante dei due, Adelchi, esala prima della disfatta e della morte parole che avrebbe potuto benissimo pronunciare un personaggio di Foscolo: [....] Una feroce Forza il mondo possiede, e fa normarsi Dritto: la man degli avi insanguinata Seminò l‟ingiustizia; i padri l‟hanno Coltivata col sangue; e omai la terra Altra messe non dà. (a. V, sc. VIII) È chiaro inoltre che per Manzoni, come già per Alfieri e Foscolo, come anche per Leopardi, non c‟è felicità in questo mondo. Quando l‟Innominato medita durante la notte che precede la sua conversione su ciò che ha realizzato nella propria esistenza, ciò che scopre è la vanità di una vita interamente dominata dall‟orgoglio, dalla volontà di prevalere su tutto e su tutti, dalla negazione della morte e della finitudine umana, e prova allora una sazietà, una noia, una malinconia non molto diverse da quelle che provava il giovane Alfieri nei suoi anni oziosi e mondani. Fra Manzoni e gli altri autori precedentemente studiati ci sono però anche alcune differenze importanti: 1) c‟è in Manzoni un forte interesse “storico-realistico”, tipico dell‟età romantica, per la realtà sociale, per l‟esistenza storica dell‟individuo e per la vita dei popoli; 2) se il punto di partenza di Manzoni è lo stesso di Alfieri, Foscolo e Leopardi, l‟esito è completamente diverso. Per Alfieri, Foscolo e Leopardi, l‟infelicità umana è senza rimedio. Per Manzoni, invece, l‟uomo che vede naufragare le proprie speranze, le proprie ambizioni titaniche, può trovare “refrigerio” e consolazione nella fede cristiana. Egli scopre così che il mondo non è la nostra vera patria, che siamo stranieri e esuli su questa terra; 3) la ritrovata fede non mette fine al contrasto dell‟individuo e dell‟ideale col mondo, anzi acuisce lo scontro con la “feroce forza che il mondo possiede”, ma nello stesso tempo genera un atteggiamento di pietà e compassione che può abbracciare sia gli umili che i potenti, uguali di fronte a Dio; 4) anche l‟individualismo agonistico finisce quindi col capovolgersi e assumere una nuova forma in Manzoni. In Manzoni l‟energia, che egli inizialmente ammira come Alfieri e Foscolo, si ritorce contro se stessa, abbatte il proprio orgoglio e diventa umiltà, sottomissione all‟autorità superiore di Dio; 5) fra i critici c‟è un vasto dibattito sulla natura della
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Provvidenza in Manzoni, se essa operi nella storia positivamente, venendo in soccorso ai giusti, oppure se sua unica manifestazione, interamente negativa, sia la “provvida sventura” che svela agli uomini la propria fragilità e li induce a mettersi nelle mani di Dio. I difensori della provvidenza positiva ricordano che nei Promessi sposi la peste fa fuori quasi tutti i malvagi, e sottolineano il lieto fine del romanzo. I difensori della “provvida sventura” fanno notare che il lieto fine è ironico, e che sia Lucia che l‟autore si dissociano nelle ultime pagine dall‟ottimistica fiducia di Renzo nelle lezioni impartitegli dall‟esperienza. Manzoni, come Foscolo e Leopardi, non ha una filosofia della storia e del progresso, non cede alla tentazione di divinizzare il processo storico, oppure l‟umanità e la storia delle nazioni come fanno invece in grado diverso in questo periodo sia un Hegel che un Victor Cousin o un Mazzini. Per Manzoni, che subisce l‟influenza del filosofo Rosmini, Dio è trascendente e anche la verità è trascendente, divina, assoluta (mentre per i romantici si storicizza e viene spesso a coincidere con l‟immaginazione, con la poesia, con la coscienza umana nel suo divenire storico), in netto contrasto con le “verità” e con le conoscenze umane, sempre relative e parziali. Ma almeno in senso negativo non c‟è dubbio che per Manzoni la Provvidenza opera nella storia, facendo fallire le imprese degli uomini, e spingendoli a interrogarsi sul senso della propria esistenza. Questa probabilmente è la verità che Manzoni ha voluto insegnare scrivendo un romanzo storico in cui tutti i progetti umani, siano essi cinici e libertini come quelli di don Rodrigo, o santissimi come quelli di fra‟ Cristoforo, in ogni caso miseramente falliscono; 6) è chiaro che al cospetto di Dio, per un cristiano come Manzoni, ricchi e poveri, letterati e analfabeti, filosofi e persone comuni sono tutti uguali. Da qui la sua predilezione per il romanzo, genere “popolare”, scritto in una lingua media, accessibile potenzialmente a tutti, e che può portare alla ribalta (come avviene appunto nei Promessi sposi) “gente meccanica”. Anche qui le convinzioni cristiane di Manzoni, l‟interesse romantico per il popolo, i cambiamenti economici e politici che modificano la composizione sociologica del pubblico producono significative convergenze. Con i Promessi sposi in Italia il “popolo” è per la prima volta attivamente protagonista di un‟opera letteraria, come folla fanatica in preda a un delirio omicida (come nei disordini del pane a Milano, o durante l‟epidemia di peste), ma anche come comunità dei credenti, per esempio il popolo che nel capitolo XXII accorre da tutti i villaggi della regione per festeggiare l‟arrivo del cardinale Federico Borromeo, vicario di Cristo; 7) notiamo infine la centralità della categoria della conversione nell‟opera di Manzoni. Se veniamo ora alla poetica di Manzoni quale risulta dalla lettera al conte d‟Azeglio ma anche dai testi sul teatro e sul problema delle tre unità aristoteliche, di luogo, di tempo e di azione, vediamo la sintonia di Manzoni con le posizioni principali del romanticismo italiano, e nello stesso tempo vediamo come queste posizioni coincidano, almeno nel caso suo, con un rigorismo dichiaramente cristiano. Da questo punto di vista, il romanticismo di Manzoni è certo influenzato da August Schlegel, ma risulta incomprensibile se non si tiene conto di una lunga tradizione di critica cristiana alla mitologia, alla letteratura classica, a una letteratura che faccia appello soltanto agli affetti e ai sensi. I passi selezionati nella scheda biografica enucleano rapidamente i principali temi della poetica manzoniana: 1) la critica manzoniana delle unità di tempo e di luogo si riassume sostanzialmente nell‟affermazione dell‟esteriorità dello spettatore rispetto agli eventi narrati. Secondo Manzoni se l‟azione è per noi credibile è perché i fatti sono concatenati in modo verosimile e coerente, non perché noi partecipiamo a essi affettivamente, in modo supino e passivo, al punto da credere che stiano avvenendo nel tempo presente sotto i nostri occhi. In tal modo Manzoni esprime quello che per lui è certamente un dato di fatto di ordine psicologico o fenomenologico, ma anche un‟esigenza di poetica e di morale, e cioè che lo spettatore non si lasci coinvolgere emotivamente, che non sia succube delle passioni e dei vizi che sono
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rappresentati, ma che li esamini e giudichi spassionatamente, nella prospettiva del vero e dell‟utile, cioè in una prospettiva che è in fin dei conti quella della morale e della religione. 2) Lo stesso principio presiede alla critica manzoniana (nella Lettre à Monsieur Chauvet) del sistema drammatico francese che mette sempre in scena la passione e i sensi, ciò che Manzoni chiama il romanzesco, a scapito di ciò che è veramente utile e presenta un interesse morale. A questo sistema francese Manzoni contrappone quello shakespeariano o storico, da lui adottato, sistema in cui l‟interesse per il vero e l‟utile pravale. Secondo Manzoni non è vero (come pensavano Nicole, Bossuet, Rousseau) che eccitare le passioni – col danno morale che ne segue – sia l‟unico modo per suscitare interesse. Secondo lui l‟esempio di Shakespeare mostra che il vero, e autentici dilemmi morali, possono suscitare il più grande interesse. Manzoni sostiene inoltre, sulle orme di Schlegel, che il coro potrebbe essere ripristinato come “personificazione de‟ pensieri morali che l‟azione ispira”, come “cantuccio” riservato al poeta, nel quale egli possa “parlare in persona propria”, restando all‟esterno rispetto all‟ “orditura dell‟azione”. 3) infine, le stesse premesse informano la ricostruzione manzoniana del sistema romantico. Per Manzoni, nella sua parte negativa, il romanticismo è prima di tutto rifiuto del regolismo, dei precetti aristotelici o altri, e raffermazione quindi dell‟opera d‟arte come un tutto retto da leggi interne; in secondo luogo esso è rifiuto della mitologia, dell‟imitazione dei classici, in nome del principio romantico che la letteratura deve essere “interessante”, occuparsi di problemi reali legati alla nostra condizione storica concreta, essere riflessione sul vero e sull‟utile, e non gratuito diletto o esercizio di stile. Ma questo rifiuto della mitologia Manzoni lo motiva anche con il suo rifiuto della mitologia greca, che per lui riflette (come hanno sempre detto gli apologeti cristiani più rigoristi) una visione del mondo pagana e idolatra, che esalta i sensi, le passioni, il corporeo e il sensibile, e per la quale solo la natura esiste e nient‟altro al di fuori di essa. 4) nella sua pars construens il romanticismo di Manzoni si limita ad affermare il principio del vero e dell‟utile (“l‟utile per iscopo, il vero per soggetto e l‟interessante per mezzo”, così nella redazione del 1823, ma non più nell‟edizione definitiva del 1871), cioè in senso lato una concezione realistica, didattica e morale della letteratura, che tuttavia, nuovamente, non deve essere presa in senso illuministico ma romantico e cristiano, non come trasmissione di una dottrina tutta costituita, ma come incitazione a riflettere, a giudicare spassionatamente i dilemmi morali che concretamente si pongono all‟uomo nel corso dell‟azione storica. Da tutto questo vediamo che alcuni elementi tipici delle poetiche romantiche sono presenti in Manzoni. Ciò non è però immediatamente percepibile, perché il suo romanticismo è fondato sul rifiuto totale di almeno due principi estremamente diffusi nel mainstream romantico: 1) soprattutto per il romanticismo di Jena, ma non solo per esso, il romanticismo è ricerca di una nuova unità, di una nuova sintesi di materia e spirito, sensibilità e intelletto, scienza e immaginazione, linguaggio e significato. Anche la concezione della storia come processo spirituale, che trasporta la divinità sulla terra o porta addirittura a identificarla con l‟uomo e con il processo storico di cui l‟uomo è protagonista rappresenta un tentativo di superare il contrasto fra la natura e la storia da un lato, e il Dio trascendente delle teologie tradizionali dall‟altro. Erede della tradizione cristiana giansenista e rigorista, ma anche, e non a caso, di una disengaged reason, di una ragione disimpegnata in senso cartesiano e kantiano, erede inoltre del pessimismo di Foscolo e Leopardi, ostile a qualsiasi forma di deificazione (pagana o romantica) del sensibile, Manzoni è totalmente ostile a questo aspetto di molto pensiero romantico; 2) in molti romantici (sia pur con qualche importante eccezione, F. Schlegel , Schelling, Hegel, che però non è propriamente un romantico, e anzi critica severamente l‟estetica romantica propriamente detta), la poesia romantica deve la sua
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particolare originalità e forza al ruolo che in essa svolgono l‟immmaginazione e/o il sentimento, le forze irrazionali, intuitive, magiche e mistiche dell‟anima umana. A tutto ciò è profondamente ostile o indifferente Manzoni, e in particolare egli è scettico riguardo al valore morale e conoscitivo dei sentimenti e delle passioni, in cui invece indulgeranno altri autori romantici italiani come Tommaseo, d‟Azeglio, ecc. Secondo una certa vulgata romantica (quella della Traviata per intenderci) il romanticismo è esaltazione dell‟amore, forma di passione irrazionale e di fede moderna, che calpesta le leggi, le regole e le convenzioni sociali, che disprezza gli ipocriti pregiudizi, che redime dal vizio e purifica, e a cui deve essere sacrificato ogni altro valore. È chiaro che niente è più estraneo al Manzoni di questa concezione sentimentale, patetica e passionale del romanticismo. Attraverso la lettura degli episodi dei Promessi sposi che sono stati selezionati illustreremo la poetica e la visione del mondo appena riassunta. A partire dagli anni ‟40 il romanzo storico mostra in Italia segni di stanchezza. Carlo Tenca (1816-1883) fa la parodia del genere in una novella storica La ca’ dei cani. L‟anno prima (nel 1839) Antonio Ranieri, l‟amico di Leopardi aveva scritto un romanzo sociale, Ginevra o l’orfana della Nunziata che aveva per argomento le condizioni di vita miserabili del popolo napoletano. Con Ranieri si passa al romanzo di ambientazione contemporanea, del quale possiamo distinguere in Italia le seguenti varietà: 1) il romanzo campagnolo o rusticale; 2) il romanzo storico della contemporaneità; 3) il romanzo confessione. Il romanzo campagnolo può essere detto “populista” nel senso di una rappresentazione idealizzante del popolo, visto come depositario di buoni sentimenti, della morale e della poesia. Spesso si accompagna a una morale evangelica della pietà e della rassegnazione, e a un atteggiamento di paternalismo borghese. Il principale modello dei romanzi campestri è la francese George Sand. In Italia il genere è praticato da Giulio Carcano, Ippolito Nievo e Caterina Percoto. In seguito a una lettera di Cesare Correnti, Della letteratura rusticale, Lettera a Giulio Carcano (1846) questa letteratura negli anni ‟50 e ‟60 si inserirà in un progetto filantropico mirante a fare conoscere le condizioni delle campagne ai fini di un intervento in favore dei contadini. Anche Nievo scriverà un Novelliere campagnolo e un incompiuto romanzo rusticale Il pescatore d’anime. Il romanzo storico della contemporaneità produce due romanzi di un certo valore: Cento anni di Giuseppe Rovani (1818-1874) uscito a puntate sulla Gazzetta di Milano fra il 1857 e il 1858, e le Confessioni di un italiano. Cento anni è ambientato a Milano e anticipa certi motivi della Scapigliatura milanese. Figura molto significativa è Ippolito Nievo (18311861) che già intorno al 1851 si colloca su posizioni alternative al romanticismo languido e “sfocato” di Prati e Aleardi, e al sentimentalismo allora dominante. Nella sua opera c‟è un tentativo di fondere spirito mazziniani o addirittura alfieriani e foscoliani, con concretezza e umorismo. Verso la metà degli anni Cinquanta Nievo aspira a una poesia civile di ispirazione nazionale e popolare, come mostra il suo saggio Studi sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia. Nello stesso momento comincia a cimentarsi con la narrativa sociale e scrive un romanzo storico sulla decadenza di Venezia nel Settecento (Angelo di bontà). In un saggio scritto fra il 1859 e il 1860, Frammento sulla rivoluzione nazionale, Nievo mette in rilievo l‟abisso che separa i contadini dai borghesi, e la necessità di conquistare le masse delle campagne alla prospettiva dell‟indipendenza nazionale. Fra il 1857 e il 1858 scrive le Confessioni e si arruola nel corpo garibaldino dei Cacciatori delle Alpi, poi segue Garibaldi nella spedizione dei Mille e muore nel marzo del 1861 su un piroscafo che da Palermo lo riconduceva a Napoli. Le confessioni di un italiano furono pubblicate con il titolo di Confessioni di un ottuagenario, e con numerose interpolazioni dei curatori, solo nel 1867. Il loro valore fu pienamente riconosciuto solo negli anni Cinquanta del ventesimo secolo. Nella
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linea del romanzo-confessione il più importante romanzo italiano è Fede e bellezza di Tommaseo (1802-1874), di cui forse la prima edizione, che è del 1840, è la più interessante. Anche il grande critico letterario Francesco De Sanctis può essere considerato un rappresentante della seconda generazione romantica e risorgimentale anche se la maggior parte delle sue opere sono posteriori al 1860.
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Lezione VIII Leopardi prosatore e poeta La poesia italiana dell‟età romantica non accoglie le soluzioni simbolistiche della poesia tedesca e inglese. Le uniche suggestioni d‟oltralpe che siano recepite in Italia sono il genere della ballata lirico narrativa tedesca e la mitologia dell‟eroe romantico e ribelle di stampo byroniano. Il problema del linguaggio rimane però irrisolto. La tendenza al realismo, la necessità di coinvolgere un pubblico più largo, le esigenze patriottiche esigono un rinnovamento che si scontra però con la tradizione aulica del linguaggio poetico nazionale. Non a caso quindi il maggior poeta lirico di questo periodo appartiene alla tradizione classicista (che egli rinnova dall‟interno) mentre altri due poeti di qualità (Porta e Belli) risolvono drasticamente il problema scrivendo in dialetto. L‟influenza del melodramma e la volontà di coinvolgere il pubblico producono un eccesso di declamazione riscontrabile in componimenti di tipo diverso. In tutto il periodo romantico lo stile è spesso patetico, ma il patetismo si accentua dopo la Edmengarda di Prati (1841). Insomma, in Italia tendono a dominare narratività e epica, e il livello medio della produzione poetica rimane mediocre. Nel periodo romantico-rinascimentale si succedono tre generazioni romantiche: la prima è quella del primo romanticismo lombardo (Berchet, Grossi, Pellico ma anche Porta benché più anziano). La seconda generazione (autori nati nel primo decennio del secolo) è quella di Tommaseo e Giusti; la terza generazione, quella di Prati e Aleardi, apre la stagione del “secondo Romanticismo”, (o Romanticismo “diffuso”, o “sfocato”, o “languido”). Berchet introduce la ballata romantica traducendo due ballate di Gottfried August Bürger. Le sue ballate sono di argomento patriottico e storico. Tommaso Grossi inizia la novella in versi. Egli forza in senso patetico gli schemi novellistici mutuati da Byron. Porta, nato a Milano nel 1775, fece carriera nell‟amministrazione napoleonica a partire dal 1804 e assunse progressivamente posizioni antinobiliari e anticlericali di tipo illuministico. Dal 1804 cominciò a tradurre l‟Inferno in dialetto milanese, ma la sua grande stagione poetica comincia nel 1812 con le prime Desgrazzi di Giovannin Bongee. Dopo il congresso di Vienna si avvicinò agli ambienti romantici e liberali e manifestò la sua adesione al romanticismo con il Sonettin col covon [con la lunga coda]. Il suo Romanticismo è di marca manzoniana, attento alla dimensione realistica dei rapporti sociali, estraneo al sentimentalismo. Rimane viva l‟influenza su di lui del Parini e dell‟illuminismo. Dice che la poesia è “arte del piacere”, ma che deve anche “rimescolare le passioni che abbiamo nascosto nel cuore”. Dal 1812 si muove verso la narrazione e l‟epica popolare, e punta su personaggi di dimensione intima e drammatica. I protagonisti a volte parlano in prima persona: figure di disgraziati, come il povero rammendatore Bongee, o Ninetta che fa la prostituta, o Marchionn che è un musicante sciancato. Le intonazioni cambiano a seconda delle voci narranti. Negli ultimi anni , dopo la restaurazione polemica antinobiliare e anticlericale, parla allora di una “Musa rabbiada”. Fra i poeti della seconda generazione interessante e originale Vincenzo Padula, e è interessante Tommaseo il cui problema, paragonabile a quello dei romantici tedeschi e dei simbolisti, è di superare la contraddizione tra corpo e spirito, fra amore terreno e amore celeste. Prati e Aleardi sono solo di un decennio più anziani di Tommaseo e Poerio, ma la loro poesia ha una capacità di espansione e successo maggiore, che si estenderà anche al primo ventennio dopo l‟unità. Essi rappresentano una nuova fase romantica, un secondo romanticismo, ben diverso dal primo. Si tratta di autori veneti, che abbandonano i modi popolareschi del primo romanticismo o optano per soluzioni più sostenute. I temi sentimentali del romanticismo italiano sono ripresi in direzione fantastica e irrazionale, secondo i modelli di Goethe, Byron, Heine, e Hugo. Il poeta cessa di essere all‟opposizione e celebra le nuove
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forme di potere (la monarchia sabauda). I destinatari sono ormai un pubblico di borghesi affermati e soddisfatti che si fa sospirare con vicende amorose trasgressive e poi si riconduce nell‟ambito rassicurante del conformismo morale e sociale. De Sanctis, romantico costruttivo, realista, combattivo, si oppone violentemente a questa corrente (preferirà Zola). Reagiranno contro questo secondo romanticismo soddisfatto e conformista anche gli scapigliati. L‟Edmenegarda di Prati è trasgressiva in quanto storia di adulterio ispirato a un fait divers; alla fine la donna abbandonata dall‟amante è punita esemplarmente e trova conforto nella religione. L‟ultimo Prati si avvicina a un simbolismo che sarà poi quello di Pascoli. Il vero grande poeta e pensatore italiano dell‟età del Romanticismo è però Giacomo Leopardi, che non ha veramente molto in comune con gli autori appena citati. Il suo caso è particolarmente suggestivo. Se ci mettiamo nella prospettiva italiana e risorgimentale, Leopardi è veramente una figura isolata. In una prospettiva europea, il quadro è già più sfumato. Non mancano in Leopardi spunti che rimandano alle poetiche e alla sensibilità romantica: 1) la solitudine dell‟Io di fronte al mondo (tema però già presente in Alfieri e Foscolo), cioè una filosofia dell‟insoddisfazione, della malinconia, della noia, della dolorosa frattura che separa l‟uomo dalla natura. Questo tipo di sensibilità nasce e si diffonde nell‟ultima parte del Settecento (basti pensare a Rousseau, alla popolarità del Werther di Goethe, ai drammi di Schiller, ecc.), e rimane fondamentale nel periodo romantico, anche se per i romantici è doveroso e possibile superare la condizione da essa descritta. Sul piano strettamente poetico l‟espressione di questa posizione dell‟Io è l‟Idillio definito da Leopardi: “situazione, affezione, avventura storica del mio animo”; 2) i modi eroici, titanici, energici che prevalgono in alcuni momenti e periodi del suo pensiero e della sua poesia (ma anche questi hanno il loro precedente in Alfieri e in Foscolo); 3) una poetica dell‟infinito, dell‟indeterminato e del vago (accostabile alla categoria romantica di sehnsucht), che costituisce il fascino principale della sua poesia, e che solo con lui entra veramente nella letteratura italiana (anche se un passo della Vita di Alfieri ne constituiva una significativa anticipazione); 4) alcuni passi dello Zibaldone sull‟unità di poesia e filosofia, e sulla capacità dell‟intuizione poetica e filosofica – in contrasto con il procedimento analitico delle scienze esatte – di abbracciare in un solo sguardo i più profondi enigmi dell‟universo (è però probabile che la fonte principale di questa idea sia l‟articolo Génie dell‟Encyclopédie, che si deve probabilmente a Diderot). Ma a parte questi punti di per sé molto importanti, l‟architettura generale del pensiero e della poetica leopardiana è rigorosamente ostile sia alle tesi specifiche delle poetiche propriamente romantiche sia ai grandi temi del pensiero e della poesia dell‟età romantica. Mi riferisco in particolare alle seguenti proposizioni, presenti nello Zibaldone, nelle Operette morali e nella stessa opera poetica: 1) Leopardi è antispiritualista. Cristiano nella prima giovinezza e nelle prime pagine dello Zibaldone quando egli vede nell‟infelicità e nell‟insoddisfazione dell‟uomo una prova dell‟immortalità dell‟anima, Leopardi approda molto presto a posizioni naturaliste e materialiste. Fino al 1824, il naturalismo di Leopardi implica una concezione teleologica (in parte rousseuiana) della natura, cioè l‟idea che la natura governi la sorte dell‟uomo (e più in generale l‟ordine delle cose) secondo un suo piano o “magistero finissimo”. Ma anche in questa fase la teleologia naturale non può essere considerata come una potenza spirituale, cioè come una forma di interiorità, di autocoscienza che si dispiegherebbe e si realizzerebbe attraverso i processi della natura e della materia (come per esempio in Novalis o in Schelling). Che la natura regga i viventi secondo un magistero finissimo significa semplicemente che essa ha fatto tutto ciò che era in suo potere perché gli uomini e gli animali siano felici, o meglio perché siano il meno possibile infelici. Spesso per i romantici l‟uomo è l‟essere in cui si realizza l‟unità del finito e dell‟infinito; per Leopardi invece l‟uomo è semplicemente
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(secondo i principi del materialismo sensista) un anelito inappagabile alla felicità, cioè al piacere. (In questo egli non si distingue da Condillac o da altri autori sensisti del Settecento). Dopo il maggio 1824 Leopardi arriva alla conclusione che la natura è malvagia, o se non altro indifferente alla sorte degli uomini, che essa è un ciclo impassibile “di produzione e di distruzione”, che essa è natura matrigna, indifferente al nostro destino nostra infelicità. Vedi il Dialogo della natura e di un Islandese che leggeremo insieme. 2) Per Leopardi la storia non è progresso, sia pure dialettico, e neppure aspirazione a un‟unità, a una riconciliazione forse puramente ideale, ma già adombrata nella scissione e nella miseria presente, come pensano tutti i romantici, da quelli che ne annunciano il pensierio (come Kant e Schiller) a quelli che ne producono i più alti capolavori: Hölderlin, Novalis, Schelling, Coleridge, Shelley, de Musset, Hugo. Per Leopardi la storia è invece un processo di decadenza e degenerazione. Fino al 1820-1821 egli probabilmente spera in un ritorno all‟entusiasmo religioso, come unico modo per salvare l‟umanità dall‟autodistruzione che la minaccia. In questa fase il sentimento patriottico, gli slanci eroici celebrati nelle canzoni patriottiche che aprono il libro dei Canti gli appaiono come un modo di regenerare l‟umanità moderna e ridarle quelle illusioni che costituiscono l‟unico suo nucleo di felicità e di virtù. Più tardi tuttavia, almeno a partire dal 1823, anche questa speranza di restaurare le illusioni passate svanisce, e anche l‟amor di patria perde ogni efficacia e ogni reale interesse per Leopardi. Rimane soltanto l‟idea che il processo di decadenza e degradazione è un processo in qualche modo a spirale, per cui l‟uomo pur cadendo ogni volta più in basso riesce anche ogni volta a risollevarsi in parte. 3) Per Leopardi, solo i primitivi e gli antichi erano propriamente poetici in quanto sentivano e esprimevano in modo spontaneo e immediato la natura immensa e sublime. L‟età moderna, in quanto età della riflessione, della scienza e della ragione sarebbe invece essenzialmente incapace di poesia. Non a caso Leopardi dice quindi anche di se stesso che da quando è diventato riflessivo e filosofo è anche diventato estraneo alla poesia. Questo tema è certo anche un tema romantico, che risale a Vico, a Rousseau, a Herder e che poi i romantici riprendono, abbinandolo all‟idea che la poesia moderna è diversa da quella antica, in quanto è riflessiva, e dunque più dolente e più malinconica – non pieno possesso di una natura finita, ma anelito a un infinito inconoscibile e misterioso, e che tuttavia, proprio nell‟intuizione poetica, può essere conquistato. In Leopardi tuttavia questo tema della differenza fra antichi e moderni acquista un significato diverso: per lui la poesia è ancora possibile non in quanto nuova esperienza, moderna e cristiana, dell‟assoluto, ma perché, in certi momenti, riusciamo a resuscitare (con l‟aiuto della natura) l‟illusione perduta. La poesia non è dunque conoscenza e possesso dell‟Assoluto, ma dilettevole e feconda illusione. La poesia è evocazione, vagheggiamento dell‟infinito, nostalgia della poesia, rimembranza dell‟età in cui il paesaggio, gli astri, i luoghi consueti, l‟amore, parlavano al poeta e colmavano il suo cuore di affetti. A suscitare nel lettore il sentimento poetico contribuiscono secondo Leopardi certe parole (parole rare, arcaiche, particolarmente suggestive proprio per questo), certe figure di stile (gli “ardiri”), certe costruzioni sintattiche che contribuiscono a evocare in noi il senso dell‟eternità e dell‟immensità, ciò che un critico particolarmente acuto (Luigi Blasucci) ha chiamato i “segnali dell‟infinito”. Di fronte alla natura e alla vita sono dunque possibili solo tre atteggiamenti, che ritroviamo in tutta l‟ opera di Leopardi, in forme e figure diverse: 1) l‟atteggiamento dei primitivi e degli antichi, che vivevano di illusioni, che credevano in certe “larve meravigliose” - “Gustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio” –, che deificavano le forze della natura e credevano di comunicare con esse, o più semplicemente credevano che il mondo finito fosse infinito e gli riservasse infinite delizie; 2) la condizione dell‟uomo moderno, progressivamente costituitasi sin dall‟antichità, attraverso una serie di cicli, ricadute e ripetizioni, condizione riflessiva di chi ha perduto le illusioni e contempla amaramente la verità, cioè l‟infelicità umana e
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l‟indifferenza della natura al destino dell‟uomo. Questa condizione moderna dell‟uomo si manifesta nell‟opera di Leopardi in molte vie diverse: in forma argomentativa, in forma di meditazione sulle rovine e la morte, in forma di struggente ricordo e memoria del tempo in cui la natura era ancora viva (o sembrava viva) e parlava ai mortali, in forma interrogativa, come abissale interrogazione sull‟“arcano mirabile e spaventoso” dell‟universo, o infine in forma ironica e auto-ironica, come in tante operette fantastiche che mettono in scena dèi decaduti, o animali e forze della natura che parlano fra di loro dopo la disparizione del genere umano, ecc. A volte, nelle Operette morali, tetra speculazione e disincantata ironia convivono nella stessa pagina; 3) una reazione di orgoglio, un rigurgito di energia e di vitalità, che sfocia in un grido di protesta e rivolta, oppure in un estremo slancio naturale e vitale, per cui dal fondo della disperazione e del disincanto rinascono ancora una volta le illusioni perdute, oppure una nuova estrema illusione moderna (l‟Amore), o almeno accade che l‟uomo si abbarbichi all‟esistenza pur sapendo che è necessariamente infelice, o infine gode della sua stessa infelicità contemplata senza pietà. Ripercorrendo la vita di Leopardi attraverso i fatti e le testimonianze che lui stesso ne ha dato nel corso degli anni, rileggendo inoltre alcuni campioni della sua opera, ritroveremo questi tre momenti fondamentali e cercheremo di approfondirne la comprensione.
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Lezione IX Introduzione alla cultura del secondo Ottocento Se prendiamo come termine di riferimento l‟Europa, allora il periodo di cui cominciamo a parlare ora si può far iniziare nel 1849; se invece ci mettiamo in una prospettiva italiana, bisogna prendere come data discriminante il 1861 e cioè l‟unità d‟Italia. Sul piano economico differenza fra il periodo 1849-1873, durante in quale vi è un forte sviluppo economico promosso da una borghesia che sostiene libero scambio e libera concorrenza, e gli anni 1873-1895 anni della grande crisi, che porta a una politica antiliberista e imperialistica (grandi concentrazioni industriali monopolistiche, intervento dello Stato nell‟economia per proteggere le aziende; nuova borghesia imperialistica aggressiva all‟esterno e autoritaria all‟interno). La seconda rivoluzione industriale, economica e militare, si sviluppa fra la fine del secolo e il 1910. Gli Stati proteggono le loro aziende e questo porta a conflitti che faranno poi scoppiare la prima guerra mondiale. In campo letterario naturalismo e simbolismo corrispondono ai due filoni dell‟arte romantica, realistico (romanzo) e liricosimbolico, ma presentano caratteri specifici che li distinguono da essi. Distacco scientifico e non partecipazione affettiva nel naturalismo, concezione della poesia come linguaggio assoluto e separato nel simbolismo. In Francia il naturalismo va dal 1865 al 1890 (in Italia comincerebbe solo nel 1878). Il simbolismo si può far cominciare da L’après-midi d’un faune di Mallarmé (1876). Il simbolismo è una prima reazione contro il naturalismo e nello stesso tempo una trasformazione del romanticismo o una reazione contro certi suoi caratteri. Il decadentismo nasce come poetica nel 1884 (A rebours) ma può essere poi considerato come una forma di cultura e civiltà artistico-letteraria fra il 1890 e il 1905. Parola d‟ordine del decadentismo è l‟estetismo, il culto della bellezza e dell‟arte e la convinzione che il poeta riveli una verità superiore concepita intuitivamente o misticamente, in modi irrazionali. Il decadentismo corrisponde in parte alla situazione dell‟età dell‟imperialismo, ma a partire dal 1904 comincia invece una nuova epoca, caratterizzata dal fenomeno delle avanguardie (“modernismo”). 1849-1873: anni di grande sviluppo economico, diffusione della macchina a vapore, della ferrovia. Industrie collegate: meccanica per la costruzione delle macchine, siderurgica per la costruzione delle rotaie, estrattiva per il carbone indispensabile all‟alimentazione delle macchine a vapore. Rapido decollo dell‟industria tedesca che diventa una delle prime del mondo. 1873-1895: Nel 1873 crolla la borsa di Vienna, in seguito alla guerra fra Francia e Prussia; ma la crisi ha anche cause più profonde: il settore trainante della ferrovia era giunto a saturazione; inoltre crisi agraria (prodotti concorrenziali dagli Stati Uniti). Si reagisce attraverso protezionismo, assorbimento delle aziende minori in grandi concentrazioni monopolistiche; costruzione di vasti imperi coloniali per allargare il mercato per i propri prodotti, controllare le materie prime e avere serbatoi per l‟emigrazione. Non più soltanto colonialismo commerciale ma conquista militare e acquisizione territoriale. Colonie francesi, inglesi, tedesche, belghe e portoghesi in Africa, penetrazione inglese e tedesca in Asia (ma anche giapponese), espansione degli USA verso Pacifico e Asia, egemonia economica in America Latina. Il mondo ormai diviso fra un pugno di paesi dominatori e una massa di paesi dominati. Si diffondono le ideologie sulla superiorità dell‟uomo bianco dominatore. La nascita dell‟industria elettrica e dell‟automobile prima della fine del secolo pone le basi per un nuovo sviluppo accelerato. Alla fine del secolo la luce elettrica illumina le città, le macchine a vapore declinano. Organizzazione scientifica del lavoro: da un lato operai specializzati, addetti alla manutenzione, dall‟altro operai comuni che svolgono compiti elementari e ripetitivi. Così anche in Italia.
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Sul piano politico-militare, ci sono conflitti in Europa fino al 1871, poi lungo periodo di pace e stabilità in Europa fino al 1914. Liberalismo in Inghilterra e Italia, invece tendenze autoritarie in Francia (potere personale di tipo bonapartista) e Prussia (stato militarista, emarginazione del parlamento). Instabilità dovuta alle tendenze verso l‟indipendenza nazionale e alla politica di grande potenza della Prussia. Ridimensionamento dopo il 1870 dell‟impero austro-ungarico. Nell‟Ottocento, secolo in cui trionfa la modernità, anche la natura diventa artificiale, e Baudelaire è il primo grande poeta di questa modernità. Baudelaire non canta più la natura, il suo orizzonte è quello dei grigi asfalti di Parigi e dei Passages scintillanti di luci artificiali e di merci. Si aggira estraneo e spaesato nella sua stessa città. L‟unica città italiana che può essere paragonata a Parigi è Milano, della cui frenesia parlano Verga e Capuana nelle loro lettere. Nel 1881 vi si svolse l‟Esposizione Nazionale, celebrazione dell‟industria, della tecnica, della macchina. L‟industria nascente della gomma e della chimica suscita anch‟essa entusiasmi. L‟Ottocento è il secolo della storia e del progresso, prima nella sua versione romantica e spiritualista, poi nella versione positivista. L‟idea di progresso è sia al centro della filosofia di Auguste Comte che parla di passaggio dell‟umanità da stadi teologici e metafisici a stadi positivi dominati dalla scienza, sia al centro del marxismo, sia al centro della filosofia evoluzionistica di Herbert Spencer. L‟imperialismo viene giustificato in nome del progresso, e la politica di potenza in nome della legge del più forte, della selezione naturale nella lotta per la vita. Il movimento operaio verso la fine del secolo tende a sua volta a fondere marxismo e positivismo. Il socialismo è presentato come modello di società e produzione più razionale e scientifico del capitalismo individualistico e competitivo, che conduce all‟anarchia. Ma parallelamente, e in contrasto con l‟entusiasmo per il progresso, c‟è anche una corrente di pensiero estremamente critica e diffidente: Baudelaire, per certi versi Nietzsche, Verga e poi Pirandello, guardano al progresso con inquietudine e diffidenza. Ne La bête humaine di Zola il treno è raffigurazione del dinamismo meccanico della modernità, della sua potenza inesorabile e grandiosa, simbolo positivo dello scambio dei popoli e delle merci, ma anche mostro orribile, che travolge i sentimenti, emblema della estraneità del mondo moderno al destino dei reietti. Modernità vuole dire poi anche il protagonismo delle masse con le sue espressioni politiche (anarchismo, socialismo, bonapartismo e populismo che sfocerà poi nei regimi fascisti e totalitari). Fra gli scrittori alcuni aderirono al socialismo (Zola, De Amicis, Gian Pietro Lucini), altri invece aderirono a posizioni autoritarie (d‟Annunzio, Verga). C‟è in questo periodo un grande interesse per la folla, rappresentata nei romanzi (Paolo Valera, La folla, 1801), studiata da sociologi e psicologi (Scipio Sighele, La folla delinquente, 1891; Le Bon, Psychologie des foules, 1895). E come reazione, si ha evasione nell‟esotico, in un mondo incontaminato dove la borghesia non è ancora arrivata (Gauguin che va a Tahiti, romanzi di Jules Verne, quello di Emilio Salgari in Italia, il Libro della jungla di Kipling). In Verga contrasto fra Milano e Sicilia, mondo cittadino e rurale. Nasce anche la questione femminile, le donne vengono alla ribalta nel dibattito letterario (Serao, Deledda). In Casa di bambola di Ibsen Nora lascia marito e figli non per andare con un altro uomo ma per cessare di essere una bambola, per realizzarsi in piena autonomia. Come reazione abbiamo allora una letteratura misogina, che denuncia la donna fatale e potente che diventa nemica dell‟uomo e rischia di rovinarlo: così nel Trionfo della morte di d‟Annunzio e nel libro di Weininger Sesso e carattere. Riassumendo, in che cosa consiste la novità dell‟età positivista rispetto a quella romantica? Nell‟età romantica gli ottimisti credevano in una vittoria dello spirito, dei valori universali e morali, o attraverso il processo storico, la vita dei popoli, o per il risorgere della religione, o attraverso la poesia e la vita interiore. I pessimisti contrapponevano con vigore l‟individuo, le sue ambizioni prometeiche a natura, società, materia o divinità ostile. Nell‟età positivista la storia è soprattutto progresso tecnico e materiale, a cui o si aderisce con
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entusiasmo e fiducia, certi che i conflitti del presente, la concorrenza, la lotta di classe porteranno in fin dei conti alla prosperità universale, oppure si reagisce con orrore, si fugge verso terre incontaminate o verso la parola poetica, si contrappone alla volgare cultura di massa l‟estetismo, il cupio dissolvi, il passéisme, la malattia, ecc. Aspetto quindi fondamentale dell‟età positivista è la crisi dell‟artista e dell‟aura o aureola spirituale che aveva acquistato nel periodo romantico con il cosiddetto sacre de l’écrivain (ma che già nel quadro del romanticismo ammetteva momenti di crisi, malinconia e lacerazione). Nella seconda metà dell‟Ottocento o il poeta si mette al ritmo della tecnica e del capitalismo, accetta le nuove regole del gioco, capitalistiche e commerciali, come avviene in Zola, oppure invece esperimenta la propria esclusione, esclusione a cui non può opporre la potenza invincibile dello spirito, ma il proprio soggettivo e tormentato rifiuto della cultura di massa in cui vive e di cui partecipa, da cui cerca di difendersi. Nella prefazione a Eva dice Verga che l‟arte ha perso la sua centralità in un mondo in cui contano solo le banche e le imprese industriali. Nuovi topoi [luoghi letterari, luoghi comuni] di questo periodo: assimilazione del poeta alla prostituta, alla ballerina, alla cavallerizza o al saltimbanco. L‟artista, per vendersi sul mercato, deve esibirsi in pubblico come il clown o il pagliaccio. Declassamento dell‟artista rispetto al periodo romantico. Entra a far parte dell‟immaginario collettivo la figura del poeta maledetto, reietto della società, emarginato, drogato, folle, vagabondo. I valori dello spirito che il poeta rappresenta sono calpestati e il poeta non ha più la certezza che questi valori siano destinati a trionfare, forse non sono che un‟illusione, comunque l‟oggetto di un culto puramente soggettivo, di una disciplina e abnegazione individuale. Questo già avviene in Italia con la Scapigliatura, fenomeno che non a caso si diffonde a Milano subito dopo l‟unità. Nell‟età romantico-risorgimentale l‟intellettuale aveva guidato il processo unitario; il poeta-vate aveva una precisa funzione storica; ma dopo l‟unità le esigenze produttive della società diventano essenziali, il poeta è uno scioperato, non contribuisce più al progresso (che ormai è inteso come progresso materiale), e non più, o molto più difficilmente può svolgere quella funzione didattica che gli attribuivano le vecchie poetiche settecentesche, quando la letteratura era umile ancella della verità. Ora la scienza e la tecnica sono autosufficienti, l‟arte è una religione decaduta, che piange la propria decadenza o reagisce radicalizzandosi, condannando e dileggiando il progresso, la civiltà. Il declassamento sociale dell‟artista può spingerlo ad avvicinarsi alle masse, anch‟esse in conflitto con la borghesia e il capitalismo trionfante; oppure può portare a un atteggiamento di nostalgia e rimpianto per i privilegi, di difesa del passato e di una cultura elitistica. Questa resistenza e questa nostalgia dei privilegi passati può anche assumere la forma di un recupero della tradizione e del classicismo, che nella sua versione filologica umanistica è rappresentata in Italia da Carducci, oppure può prendere una nuova forma. Si ha allora l‟estetismo, celebrazione del valore assoluto dell‟arte, sua capacità di rivelazione per via intuitiva, o mistica, magica e panica. È questa la linea del simbolismo e del decadentismo europei. L‟artista, almeno in Italia, diventa un mito che si offre al consumismo di massa ma ostenta la propria superiorità e raffinatezza rispetto alle masse (questo è in particolare il caso di d‟Annunzio). Il fenomeno sarebbe particolarmente forte in Italia proprio a causa dell‟arretratezza della cultura italiana, per cui il tentativo di restaurare l‟aureola del poeta vate trova riscontro in fasce abbastanza larghe dell‟opinione pubblica. Il contrasto fra età romantica e età positivista potrebbe anche essere formulato così: nell‟età romantica la reazione del poeta contro materialismo, utilitarismo, razionalismo illuminista corrispondeva a una vasta e diffusa esigenza di recupero dei valori religiosi, spirituali, nazionali contro l‟ideologia dei Lumi, i suoi aspetti più frivoli e mondani, il suo naturalismo esasperato e le sue sconfitte politico-sociali. Ma a partire dagli anni ‟40 e ‟50 in poi ,con il progressivo emergere del socialismo, il conflitto non è più fra materialismo e
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spiritualismo (sia pure uno spiritualismo di stampo molto nuovo, concepito come espressività della natura), ma tra capitalismo, tecnica, potenza del denaro e degli interessi da un lato, e artista declassato dall‟altro. L‟artista si presenta come difensore dei valori residui dello spirito, ma anche come denunciatore della mala fede dell‟ideologia dominante, per la quale proprio la volontà di potenza sarebbe in fin dei conti perfettamente conforme ai valori dello spirito e della morale cristiana. Lo spiritualismo radicale e rivoluzionario della generazione precedente, trasformatosi e addomesticatosi, è ormai diventato la cultura dominante, una cultura cattolica, moderata e conformista, perfettamente integrata alla pratica della concorrenza e del capitalismo. Il nuovo poeta (che potremmo anche chiamare nichilista) non difende quindi più i valori dello spirito contro il materialismo dominante, ma a seconda dei casi (1) preserva (proprio proclamandosi scettico e materialista) il ricordo, la memoria di valori spirituali forse solo illusori e perduti per sempre, mai esistiti (o forse solo in un passato lontanissimo, primitivo e arcaico) contro lo spiritualismo di derivazione romantica, perbenista, che ormai domina la scena; (2) difende una natura autentica, primitiva, arcaica, espressiva, di cui è però ormai pienamente riconosciuto (almeno in alcuni autori, i più significativi, Rimbaud, Lautréamont, Nietzsche) il carattere ambiguo, demonico, irrazionale, e quindi anche immorale almeno secondo i criteri correnti della morale (il caso più tipico, ma da cui discendono tutti gli altri, anteriori o posteriori, è quello di Nietzsche). Nei romantici deificazione della natura, fra l‟altro anche materiale, ma in quanto in fin dei conti è espressiva, realizza un pattern teleologico, provvidenziale, nei modernisti anti-romantici deificazione della natura in quanto potenza, in quanto energia, in quanto l‟energia è l‟unica divinità, non più lacerata e scissa ma proprio in quanto pre-razionale, demonica, irrazionale. [la linea da studiare in questa prospettiva è quella costituita da Sade, Blake, Schelling e la sua metamorfosi immoralista antirazionalista con Baudelaire, Rimbaud, Lautréamont, Nietzsche, Artaud, ecc.] Organizzazione della cultura: A metà secolo in Europa 60% di analfabeti, ma fra il 10% e il 30% in Inghilterra e Svezia, 40% in Francia e Austria, 90-95% in Russia, in Italia 54% al nord, 90% in Calabria, Sicilia e Sardegna. Media nazionale del 75% e si scenderà al 38% solo nel 1911. Obbligo dell‟istruzione elementare imposto dalla legge Coppino nel 1877 mentre in Prussia esisteva dal 1763. Importanza della figura del maestro e del professore delle medie. La riorganizzazione delle università, dove è garantita la libertà di ricerca e di insegnamento, serve a creare la ristretta élite dirigente e a dare impiego a filosofi, scienziati, giuristi, storici, di provenienza borghese come Ardigò, Labriola, Lombroso, Mosca, Pareto, Villari. Anche scrittori e poeti poterono diventare professori universitari, come Carducci e Pascoli, che rifiutarono consumismo e massificazione del prodotto estetico. Nel campo editoriale due sistemi produttivi: un sistema basato su storia, filosofia e religione prevale fino agli anni ‟70, poi a partire da allora sistema fondato su romanzo, teatro, letteratura giornalistica e narrativa di consumo. Il primo è promosso da ambienti piemontesi e toscani, e si trapianta poi a Roma. Il secondo ha il suo centro propulsivo a Milano (editori Treves e Sonzogno, De Amicis suo tipico autore, ma anche Verga pubblica da Treves). Non a caso polemica di Carducci contro i veristi e De Amicis. I destinatari del primo sistema sono insegnanti, studenti, funzionari dello Stato ufficiali, i destinatari del secondo un pubblico più borghese e meno intellettuale (fra cui donne, fanciulle e signore borghesi). Questa seconda editoria mira a integrare libro e giornale. La letteratura d‟appendice è del resto già consolidata, e negli anni ‟70 si consolida la pubblicazione di racconti o novelle al posto del romanzo d‟appendice (per esempio Rosso Malpelo). Sommaruga a Roma rappresenta il primo modello editoriale ma cerca di convertirsi al grande pubblico: e non a caso quindi nelle edizioni Sommaruga e nella loro rivista Cronaca Bizantina si incontrano il vecchio e il nuovo
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difensore del sublime letterario, Carducci che sostiene un programma di restaurazione classicistica, e d‟Annunzio dedito alla mitizzazione di sé (si rivolge al grande pubblico per dire: quanto sono superiore e più raffinato di voi). Si offre così agli scrittori (De Amicis, Ojetti, figura di giornalista scrittore, d‟Annunzio, ma anche Verga e Capuana che pure sono anche proprietari terrieri in Sicilia) la possibilità di vivere e mantenersi con la loro penna. La rivista e il lavoro editoriale si sostituiscono inoltre al salotto come luogo di incontro e di ritrovo per i letterati. Quando il salotto permane tende a combinare la discussione letteraria con quella politica, sociologica, giornalistica (così soprattutto a Milano). Ma la discussione tende a spostarsi nei caffé (famoso il Biffi a Milano, il Greco a Roma), l‟elaborazione delle linee di politica culturale è affidata piuttosto alle riviste. Gli scapigliati si espressero su Cronaca grigia e il Figaro, a Roma la Rassegna settimanale fu diretta da due studiosi positivisti di sociologia, Franchetti e Sonnino, che furono anche attivi nella politica toscana, e incoraggiò la nascita di una letteratura realista e verista interessata alla questione meridionale. Il Fanfulla della domenica appoggiò inizialmente il movimento verista e poi si aprì all‟influsso della letteratura decadente. A Roma il Convito (1895-1907) a Firenze il Marzocco di Angelo e Adolfo Orvieto sostennero la poetica del Decadentismo. Più tradizionali Nuova antologia e Critica sociale e La cultura, mentre a Critica sociale di Turati collaborarono De Amicis e Graf (entrambi socialisti). Fra i giornali diffusione ridotta rispetto a altri paesi europei, il Corriere della sera arriva alle 75000 copie nel 1900. Milano è la sede più avanzata dell‟editoria mentre a Roma pubblico più eterogeneo, impiegati, funzionari, ufficiali dell‟esercito, giornalisti ministeri rigurgitanti di impiegati e funzionari, aristocrazia dai costumi lussuosi che frequenta la corte. Non a caso quindi le riviste elitarie, il culto dell‟estetismo, le ideologie dell‟imperialismo si sviluppano a Roma. L‟editoria romana non mira a un pubblico medio ma al divismo, edizioni lussuose, che indichino modelli di vita raffinata per tutti: conquistare il lettore attraverso la sorpresa e lo choc. Firenze declina dopo il 1870, l‟editoria si specializza in libri scolastici, educativi, storici e filosofici. Ricca di fermenti è Napoli, vitalissimo folklore, massa popolare su livelli di vita molto bassi (vedi Fucini, Napoli a occhio nudo), classe intellettuale di sociologici, studiosi del costume, storici e filosofi. Il Corriere di Napoli di Edoardo Scarfoglio, poi Il mattino, a cui collabora dal ‟91 al ‟93 d‟Annunzio. Matilde Serao, moglie di Scarfoglio, aderisce al verismo e descrive nei suoi romanzi Napoli, il suo mondo popolare e piccolo-borghese. Raro anche a Milano che gli scrittori vivano solo del proprio lavoro, costretti spesso a un doppio impiego (per es. Amministrazione o politica). Abbiamo in Europa tre fasce di pubblico in questo periodo: la più bassa è quella popolare (operai, artigiani, piccolo-borghesi) che consumano il romanzo d‟appendice, i romanzi gialli, Doyle con il personaggio di Sherlock Holmes, Sue in Francia, in Italia Francesco Mastriani autore de I misteri di Napoli. Peggioramento progressivo della qualità rispetto a scrittori come Sue, Dumas e Dickens, che avevano dominato la scena nella prima metà del secolo. Una seconda fascia di pubblico medio legge romanzi realisti e naturalisti: in Francia Zola ha un pubblico di 50.000 lettori, Verga invece non vede più di 20.000 copie della Storia di una capinera. Il romanzo verista stenta a sfondare in Italia. Elite molto ristretta il pubblico dei poeti simbolisti (Pascoli e d‟Annunzio). In rari casi sfondamento dei confini, libri che coinvolgono tutti e tre i pubblici: così Salgari o in Francia Verne, i romanzi di De Amicis (300.000 copie in vent‟anni). In generale il romanzo diventa il genere dominante ma coinvolge altri generi, per cui anche nella poesia entrano motivi realistici: un poeta simbolista raffinato come Pascoli rappresenta le stesse situazioni campagnole del romanzo verista. E Baudelaire pone al centro della sua poesia la vita cittadina. Linguaggio mimetico che rispecchia uso comune e parlato in Flaubert, Zola e Verga. Linguaggio raffinato e analogico (non mimetico) nella poesia simbolista, linguaggio caratterizzato più dalla riflessività che
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dalla referenzialità. Divaricazione dei linguaggi, da un lato uso quotidiano della narrativa, dall‟altro uso ricercato della poesia. Invece contaminazione sperimentale e espressionista in alcuni scapigliati, come Dossi. Nel teatro predomina la messa in scena del costume borghese (famiglia, adulterio, ruolo della donna). Con la Scapigliatura e poi col verismo rinasce la novellistica in prosa. È il genere più richiesto dai giornali. Problema importante in Italia dopo l‟unità, quello della lingua che a sua volta deve essere unificata. Praticamente parlavano l‟italiano solo 600.000 persone su 25 milioni. Nel 1868 con la sua relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla Manzoni propone il fiorentino parlato dai toscani colti come lingua nazionale. I maestri dovevano essere educati in tal senso. Nel 1870 cominciò a uscire un Novo vocabolario della lingua italiana esemplato sul toscano. La prosa fiorentineggiante divenne una maniera leziosa e artificiale usata da Verga in Storia di una capinera ma abbandonata poi in Vita dei campi (1880) e i Malavoglia. Al manzonismo si opposero sia gli scapigliati sia per ragioni diverse (classiciste, elitiste) Carducci. Graziadio Isaia Ascoli con il proemio che aprì nel 1873 la nuova rivista Archivio glottologico italiano si oppose a un “bello scrivere” imposto dall‟alto e propose che si lasciasse sviluppare l‟italiano moderno dalle esigenze concrete della vita sociale e civile. La marcia verso l‟unità linguistica fu di fatto il risultato di spinte contraddittorie: da un lato la burocrazia, l‟esercito, la scuola operarono in senso coercitivo, dall‟altro le migrazioni interne e il grande successo di libri nazionali come Pinocchio e Cuore contribuirono a una unificazione ispirata a un manzonismo moderato. I giornali contribuirono anch‟essi al costituirsi di una lingua moderna, non architettata secondo i canoni della prosa classicistica. Parole straniere, ma anche parole regionali (all‟inizio soprattutto piemontesi) diventano nazionali.
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Lezione X Introduzione al positivismo e al naturalismo europeo Abbiamo visto che nella cultura e nella letteratura romantica ci sono due tendenze: una tendenza simbolista e fantastica, che si manifesta nel racconto fantastico e nella poesia soprattutto tedesca; una tendenza realistica e storicistica che soprattutto si manifesta nel romanzo. Abbiamo inoltre visto che il romanticismo è una filosofia della crisi (dominato dall‟antagonismo fra Io e società, o Io e natura o divinità) ma anche un tentativo di superare la crisi attraverso una nuova concezione della storia, dell‟umanità o anche della poesia. La frattura, l‟insoddisfazione, la miseria presente, il desiderio infinito sono al centro della cultura, della filosofia, della poetica e dello spiritualismo romantico, ma non meno viva (in molti autori romantici, se non in tutti) è la convinzione che l‟uomo è soggetto, autore e motore della storia, e che quindi per quanto infelice possa essere la sua condizione storica, questa stessa lacerazione e infelicità indica una direzione, il divenire verso un fine magari infinito ma progressivo e che si realizza essenzialmente nella storia, attraverso l‟azione dell‟uomo su se stesso e sulla natura. Vedremo presto che nella scapigliatura è presente sia la tendenza simbolista e fantastica sia quella realista. Riguardo invece agli altri due momenti della cultura romantica, la crisi e la nuova sintesi in cui essa deve scaturire, nella scapigliatura prevale il momento della crisi e del disinganno. Per lo scapigliato, come per Foscolo e Leopardi, c‟è nell‟uomo un anelito all‟infinito e all‟assoluto, ma che fallisce, si scontra sia con il mondo moderno e il suo egoismo, ma anche con la realtà ultima, spoglia di ogni finalità e spiritualità, inadeguata a ogni ideale. L‟opposizione del reale e dell‟ideale, dell‟essere e dell‟Io, è al centro della letteratura degli scapigliati (verso i quali rimane in parte debitore anche Verga, e a cui ritornerà Pirandello). Il positivismo riprende invece l‟ottimismo storicistico dei romantici, ma ne abbandona lo spiritualismo, o perlomeno lo reinterpreta in senso scientistico. Per il romantico l‟agente della storia è l‟uomo in quanto cerca la libertà, l‟armonia sociale o l‟unità con la natura. Per il positivista è invece la natura nella sua esistenza materiale che contiene un principio teleologico, che genera l‟uomo e nell‟uomo attraverso il sapere scientifico la capacità di procurarsi benessere e felicità. Per il positivismo il movente dell‟azione è sempre utilitario e materiale, il pensiero riposa su un sostrato materiale ineliminabile, la conoscenza è la conoscenza scientifica oggettiva resa possibile dalla scienza moderna. La scienza non è dunque fattore di alienazione e di disinganno, fonte di scetticismo e disperazione metafisica, ma al contrario il principale strumento di progresso e felicità per l‟uomo. Attraverso la razionalità scientifica l‟uomo può dominare le influenze nocive dell‟ereditarietà (della razza) dell‟ambiente, delle contraddizioni inerenti alle strutture materiali, sociali, politiche e economiche dell‟umanità in una data fase del suo sviluppo. Le poetiche naturaliste nascono con Zola dall‟ottimismo positivista, dalla fede positivista nella scienza e nel progresso. Altri “naturalisti”, o realisti radicali, come Flaubert, Maupassant e poi in Italia Verga, derivano invece dal modello scientifico o sociologico un metodo di oggettività e impassibilità in netto contrasto con il sentimentalismo, il patetismo romantico, ma senza condividere l‟ottimismo positivista. Verga al limite ammette la realtà del progresso, ma ritiene che l‟individuo non ne sia un beneficiario ma piuttosto una vittima. Per lui l‟uomo avrebbe ancora qualche chances di felicità, o per lo meno di non perdere l‟anima, se fosse capace di rintuzzare l‟ambizione, se sapesse resistere alla tentazione di gettarsi nella fiumana del progresso (del corso storico). Infine, veristi o realisti italiani come Capuana (e prima di lui De Sanctis, di formazione romantica e storicista) vedono perfino nel realismo più impassibile e oggettivo un‟espressione della libertà umana, dell‟immaginazione creativa, di una coscienza morale umana che anche quando crede rappresentare oggettivamente, in realtà giudica, inventa, si
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commuove, partecipa affettivamente e moralmente, cerca una nuova sintesi e una nuova armonia. Registriamo per cominciare qualche osservazione sulla nascita del positivismo e sulla sua storia. Per Comte (Cours de philosophie positive) l‟unica conoscenza possibile è quella realizzata secondo il metodo scientifico, e non è conoscenza delle cause ultime ma solo dei rapporti di causa-effetto nei fenomeni obiettivamente e sperimentalmente osservabili. L‟umanità e la scienza passano dagli stadi più arretrati (lo stadio teologico e lo stadio metafisico) allo stadio più avanzato, o positivo, che corrisponde allo sviluppo dell‟industria e della scienza moderna. Ora bisogna fondare sociologia, psicologia e filosofia, i tre campi rimasti più arretrati, più complessi perché hanno per oggetto l‟uomo, ma in cui non è stato ancora introdotto il metodo positivo. Il pensiero di Comte si pone come continuazione dell‟illuminismo e del metodo scientifico, e riposa sulla fede nel progresso, ma è solo fra 1850 e il 1870 che la filosofia del progresso prende una connotazione evoluzionistica. Tre principi fondamentali del positivismo: 1) un rigoroso materialismo, l‟uomo è un animale come gli altri; 2) determinismo: l‟uomo è determinato dagli istinti, dai bisogni materiali, dalla situazione storica in cui vive; 3) progresso fondato sull‟evoluzione, attraverso la lotta per la vita e la selezione naturale, adattandosi all‟ambiente o scomparendo se tale adattamento non riesce. Nel 1859 Darwin pubblica The Origin of Species, la cui teoria si può sintetizzare in due punti: 1) la lotta per l‟esistenza e la selezione naturale distruggono le specie più deboli ma ne creano delle nuove e rafforzano quelle che sopravvivono, rendendole più resistenti; 2) all‟interno di ciascuna specie si producono variazioni casuali, che però possono consolidarsi e vincere per via ereditaria se creano una maggiore adattabilità all‟ambiente. Nel 1871, in The Descent of Man Darwin sostiene che la specie umana deriva dalla scimmia per evoluzione e selezione naturale. La morale, la religione, il linguaggio non hanno un‟origine divina, metafisica, ma derivano dalla selezione naturale e dall‟evoluzione della specie. Spencer, filosofo di ispirazione evoluzionista, ritiene che le cause ultime restano sconosciute e misteriose per la ragione umana, e dalla sua fede nel progresso intuiamo che egli crede in una provvidenza divina da noi inconoscibile ma che opera con certezza nella natura e nella storia. Per Spencer la conoscenza è caratterizzata da un‟evoluzione da verità semplici a verità complesse, e le stesse regole dell‟evoluzione devono essere estese dal mondo naturale a quello sociale. Anche l‟organizzazione sociale va dal semplice al complesso, è evolutiva, e si serve della selezione naturale come strumento. Si tratta secondo Spencer di un‟evoluzione lenta e graduale. I problemi sociali in particolare non possono essere risolti per via rivoluzionaria o attraverso un‟azione statale ispirata da buoni sentimenti, al contrario un intervento umano in contrasto con le forze naturali del progresso rischia di rallentarlo e impedire la legittima e necessaria selezione. Si è parlato a questo proposito di darwinismo sociale, teoria che è servita per giustificare le lotte sociali, la politica imperialistica e il libero gioco della concorrenza capitalistica fra aziende e stati. L‟idea del progresso sociale si concilia con una accettazione della legge del più forte, e con una dose di rassegnazione e di fatalismo che ritroviamo er esempio in Verga). Ma se la legge del più forte è destinata a prevalere necessariamente, diventa possibile abbracciare la tesi „ottimista‟ di un progresso certo e inevitabile, in quanto le civiltà superiori necessariamente prevarranno su quelle inferiori e porteranno a forme sempre più complesse e elevate di conoscenza. Maggiore filosofo positivista italiano è Ardigò (vedi scheda). Secondo Ardigò che aderisce alla filosofia evoluzionista di Spencer l‟inconoscibile sarà reso progressivamente conoscibile dal progresso scientifico. Egli toglie ogni legittimazione alla religione. Verso la fine del secolo al‟interno del positivismo si avvia un tentativo di conciliare positivismo e idealismo, o evoluzionismo e principi del Cristianesimo. Per Wundt i principi della psiche non sono tutti riducibili agli stimoli materiali. Antonio Fogazzaro (Ascensioni umane, 1899) cerca
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di riconciliare cristianesimo e evoluzionismo: a suo avviso “nel disegno divino dell‟universo il fine della legge di evoluzione è di svolgere nelle creature intelligenza e amore onde glorifichino Iddio”. Ma in realtà alla fine del secolo si ha una radicale rottura con la cultura positivistica (che però non esclude anche elementi di continuità), rottura esemplificata dal pensiero di Nietzsche, Bergson e Freud. Quello che ci interessa in modo particolare è l‟impatto del pensiero positivista sull‟estetica e sulla letteratura. Il libro di Claude Bernard Introduction à l’étude de la médecine expérimentale (1865) fu la principale fonte di Zola per il suo libro Le roman expérimental. Lo scrittore si basa su una minuziosa documentazione e a partire da essa sperimenta con l‟immaginazione le reazioni degli individui (in funzione del loro patrimonio genetico) alle diverse situazioni in cui vengono a trovarsi in un dato ambiente sociale. L‟esperimento è compiuto dallo scrittore, per mezzo dell‟immaginazione, attraverso la trama di un romanzo, in quanto i fenomeni sociali, a differenza di quelli naturali, non possono essere verificati in laboratorio. Taine (Histoire de la littérature anglaise, 1863, Philosophie de l’art, 1865) individua in razza, ambiente e momento storico i fattori che determinano le attività umane anche più elevate, come l‟arte e la filosofia. (vedi la tesi marxista corrispondente del rapporto fra infrastruttura economica e sovrastruttura culturale o intellettuale). La vita spirituale viene ridotta alle leggi naturali, e i suoi prodotti sono sottoposti alle regole di selezione che sussistono in natura: resisteranno solo le opere d‟arte che rispondono allo spirito del tempo e al gusto del pubblico. Taine fonda così una sociologia dell‟arte, le opere d‟arte come documenti storici. Muove nella stessa direzione Jean-Marie Guyau (1889). De Sanctis, nel suo Darwinismo nell’arte, vede come positivo nel positivismo l‟invito a concretezza e ricerca sperimentale, l‟implicita polemica contro atteggiamenti retorici, formalistici, vacuamente idealistici. Al trionfo del positivismo dopo la metà del secolo deve ricollegarsi la prevalenza delle poetiche realistiche nel romanzo dell‟Ottocento dopo il 1848. Il romanzo realista si era sviluppato proprio in età romantica ma tendeva a una partecipazione affettiva del narratore alle vicende narrate (anche nei casi di partecipazione ironica e imparziale come quello di Manzoni), con il realismo post-romantico si passa invece alla descrizione (invece della narrazione) e all‟osservazione distaccata. Lo scrittore romantico narra, riconduce ogni dettaglio a un disegno complessivo (il senso della storia, la provvidenza). Il seguace del realismo descrive, osserva, mette in risalto i particolari oggettivi e li valorizza senza ricondurli a un ordine complessivo di significati. All‟interno della corrente realista si delinea e si costituisce in modo più specifico il naturalismo. Nel saggio su Balzac del 1858 Taine insiste sull‟impianto scientifico e sul carattere sistematico e ciclico della ricerca narrativa (vari romanzi collegati da una trama unitaria); sul metodo ispirato al determinismo (individuazione delle cause dei fenomeni); sulla necessità di osservare la realtà anche nei suoi aspetti più sgradevoli, bassi e inquietanti. Ma come movimento letterario il naturalismo nasce fra il 1865 e il 1860, del ‟65 è Germinie Lacerteux. Nella prefazione gli autori contrappongono ai romanzi “falsi” dei romantici il loro “romanzo vero”, costruito con scrupolo scientifico, un vero caso clinico, la serva che conduce una doppia vita, irreprensibile in casa, degradata e corrotta fuori (se pensiamo a La dame aux camélias, la mondana martire, capiamo il rovesciamento che si è operato rispetto al perbenismo patetico della letteratura romantica tardiva). Da questo punto di vista anche il naturalismo, come la scapigliatura in Italia, non cerca di occultare la frattura fra ideale e reale. I Goncourt sottolineano il nesso fra scienza medica e arte letteraria, e affermano che anche il quarto stato (poveri e diseredati) devono diventare protagonisti della letteratura moderna. Son questi punti che diventano centrali nel programma naturalista. Nella prefazione dei Goncourt ci sono però ancora spunti di generico umanitarismo, propri di una narrativa filantropicosociale. Zola dedica una recensione al romanzo, e pubblicando Thérèse Raquin si dichiara
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scrittore naturalista. Nella prefazione a La fortune des Rougon del 1871 Zola spiega come una lesione organica ereditaria interagendo con l‟ambiente determina il destino di un‟intera famiglia, ma diventa anche indirettamente storia della società francese negli anni del secondo impero. Implicitamente è suggerita l‟analogia fra la malattia di una famiglia e quella di un‟intera società, dominata dall‟autoritarismo di Napoléon III. Nel 1880 Zola pubblica Le roman expérimental le cui tesi principali sono: 1) rifiuto della letteratura romantica in quanto basata su fantasia e sentimento invece che sull‟analisi rigorosa della realtà oggettiva; 2) affermazione del metodo dell‟impersonalità, che esclude l‟intervento soggettivo dell‟autore nella narrazione; 3) rifiuto dei canoni tradizionali del bello: il vero anche se volgare, brutto ributtante è bello e morale; 4) impostazione scientifica della narrazione basata su osservazione e sperimentazione: l‟ipotesi dello scrittore, basata sull‟osservazione della realtà, è sottoposta a verifica sperimentale attraverso l‟impianto narrativo che riocostruisce artificialmente, come in laboratorio, l‟articolazione dei fenomeni nella realtà secondo i principi del determinismo. Agli inizi degli anni ‟80 il naturalismo entra però in crisi. Nel 1884 Huysmans scrive A rebours e accusa Zola di rappresentare personaggi “privi di anima, condotti alla buona da impulsi e istinti”. Anche in Bourget si delinea la crisi e il rigetto della poetica naturalista. Il naturalismo pone l‟accento sui contenuti più che sulla forma, tutti i ceti sociali devono essere rappresentati, e il realismo dei contenuti vi diventa anche realismo linguistico. In Italia l‟influenza dei naturalisti cominciò a farsi sentire fra gli scapigliati (Felice Cameroni fece conoscere Zola in Italia, Capuana fece una recensione entusiastica dell‟Assommoir nel Corriere della sera). Zola affascina anche De Sanctis, che vede nel naturalismo un modo per liberare la letteratura italiana dalla “malattia dell‟ideale”, da atteggiamenti sterilmente sentimentali e lacrimosi. Così anche Capuana mette in sordina l‟aspetto scientifico della nuova poetica, e rivaluta il ruolo della fantasia nell‟atto creativo. Ciò che lo interessa è soprattutto l‟adeguamento dello stile alla forma, il metodo della “perfetta impersonalità”; così anche Verga teorizzerà la necessaria adeguazione della forma al livello sociologico della materia trattata (omologia fra livelli sociologici della materia narrativa e livelli formali); un romanzo dedicato a pescatori sarà scritto in uno stile diverso (in quanto mimetico) da un romanzo dedicato al ceto medio o alto. E questo è un contributo teorico originale del verismo italiano alla poetica naturalistica. Il verismo italiano rifiuta l‟idea che l‟arte sia ancella della scienza, accetta invece la concezione determinaista della società. Si aggiunga che i veristi italiani sono meno impegnati socialmente. Di fatto poi essi sono proprietari terrieri del Sud legati a posizioni politiche conservatrici. Zola scrive con Germinal un libro operaio e socialista, i veristi rappresentano soprattutto le campagne, i contadini, e si ispirano semmai ai problemi posti dalla “questione meridionale”. I veristi più rigorosi sono tre siciliani, Verga, Capuana e De Roberto; ma aderiscono al verismo anche Matilde Serao, Renato Fucini e Mario Pratesi (entrambi toscani) legati all‟ambiente della Rassegna settimanale di Franchetti e Sonnino. D‟Annunzio ha una breve stagione verista, mentre la lezione del verismo continua nel primo Pirandello e nella Deledda. La parabola del verismo può considerarsi chiusa alla fine degli anni ‟80, quando d‟Annunzio pubblica Il piacere (1889) e Pascoli Myricae (1891).
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Lezione XI La scapigliatura Pur non avendo una poetica organica e coerente la scapigliatura ha già alcuni caratteri di un movimento d‟avanguardia: 1) il ribellismo giovanile, ch esi traduce in una vita sregolata e maledetta, che può portare a droga e suicidio; 2) protesta antiborghese e anticonformistica; 3) designazione del lettore come “nemico” e del mercato come una minaccia per l‟arte; 4) rifiuto della tradizione; 5) interartisticità, tendenza (teorizzata da Giuseppe Rovani) a coniugare fra loro arti diverse: per esempio letteratura, musica e pittura. Praga fu pittore e poeta, Arrigo Boito poeta e musicista. Il nome deriva dal romanzo di Cletto Arrighi La scapigliatura e il 6 febbraio. Un dramma di famiglia, dedicato a una rivolta mazziniana avvenuta nel 1853 a Milano. Il termine designa la rivolta dei giovani d‟ingegno: “questa casta, o classe, serbatoio di ogni disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti, io l‟ho chiamata Scapigliatura”. Le premesse erano già nel titanismo o satanismo romantico, nella rivolta di Byron e altri contro il potere, contro l‟ordine della natura e di Dio e poi anche nel romanzo realistico, in Stendhal e Balzac (anche se da prospettive diverse) contro la mentalità utilitaria, borghese, calcolatrice, cioè nella dicotomia reale/ideale. La novità sta nella valorizzazione del disordine in quanto tale e nel disprezzo dell‟ordine in quanto tale, più che in un ordine spirituale alternativo all‟ordine morale, in una più dichiarata opposizione alla mercificazione e museificazione dell‟arte. La scomparsa di un ordine spirituale alternativo significa fra l‟altro che il poeta ha perso la sua aureola, che non è più come in Hugo il depositario di una missione che sostituisce quella della chiesa, e che si presenta come missione civile per il popolo nel suo insieme. Principali riviste: Cronaca grigia, Figaro, Lo scapigliato, nata nel 1868 e che esprime le posizioni di una Scapigliatura democratica che si avvicina al naturalismo francese. Gli scapigliati partono dall‟emarginazione e dall‟inutilità della letteratura, in un Italia unitaria dominata da banchieri e commercianti. Non accettano il manzonismo dominante, rifiutano gli atteggiamenti paternalistici e pedagogici. Tematiche spesso bizzarre e stravaganti, rifiuto della tradizione del romanticismo italiano, con i suoi esiti languidi e lacrimosi (Aleardi, Prati). Si rifanno alle origini del romanticismo tedesco privilegiando mistero e orrore, il momento fantastico, visionario, onirico, secondo la lezione di Hoffmann ma anche di Poe. Da Baudelaire desumono i temi del peccato, della caducità, della morte nascosta nella bellezza del corpo femminile, della degradazione della vita moderna. Ambiscono a un astratto ideale ma non trovandolo scelgono di rappresentare il Vero, con intento polemico di demistificazione, e arrivando quindi a idealizzarlo non in quanto morale ma in quanto più autentico, meno ipocrita. Gli scapigliati oscillano dunque fra motivi, come il senso del mistero e dell‟ignoto, che saranno poi ripresi dal decadentismo e motivi realistici che saranno ripresi dal verismo. Preparano sia gli esiti del verismo che quelli del decadentismo. Dalle file della scapigliatura democratica uscirà infatti il critico Felice Cameroni che farà conoscere Zola in Italia, e influenzerà Verga e Capuana. Sperimentalismo degli scapigliati sia nel linguaggio e nelle forme narrative che nei contenuti. Sul piano linguistico commistione di registri linguistici diversi, aperture al dialetto, al gergo, a termini scientifici, il vocabolario letterario è così ampliato. Anche nel romanzo strutture divaganti e centrifughe, estranee al modulo del narratore onnisciente, esempi stranieri come Hoffmann, Jean-Paul, Sterne e Poe. Fra i migliori narratori i due Boito, Tarchetti, Faldella e Carlo Dossi. In Fosca il protagonista, Giorgio, ha una relazione con la bella e solare Clara quando conosce, in casa del suo colonnello, Fosca, donna bruttissima e gravemente malata, scheletrica e spettrale, simbolo di caducità e di morte. Fosca si innamora di Giorgio e Giorgio finge di corrispondere il suo amore su richiesta del medico che spera in tal modo di curarla. Ma avviene il contrario, diviso fra attrazione e repulsione, Giorgio si
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lascia coinvolgere, Fosca dà prova di passionalità, dolcezza, rabbiosa possessività, Giorgio finisce per ammalarsi e avere gli stessi sintomi della donna, i medici lo convincono a lasciarla e ad andare ad abitare altrove. L‟ultima sera Fosca rivela in pubblico il suo amore, Clara per lettera lo informa della propria decisione di troncare la loro relazione, Giorgio passa allora una notte con Fosca, che le è fatale e dopo la quale anche lui è affetto da sintomi di epilessia simili a quelli di cui soffriva Fosca. È stato per così dire contaminato da lei. Senso di Camillo Boito racconta la storia di una contessa, Livia, innamorata di un tenente bello ma vile e dissoluto, Remigio, per il quale tradisce il marito. Remigio si fa versare forti somme di denaro e poi scompare. Per scoprire che cosa ne è di lui, va a Verona e dietro a una porta ascolta Remigio che ride di lei con un‟amante. In un caffé apprende che tutti conoscono la storia di questo disertore che fa bella vita grazie ai soldi di una contessa. Si reca alla fortezza e denuncia il tenente che viene fucilato. La novella può essere considerata come una demistificazione dell‟amore romantico puro e sublime: è vile Remigio, e non meno vile in fondo la contessa Livia offesa nel suo orgoglio aristocratico e romantico. Camillo Boito combina in generale il tema del macabro, con un‟analisi ironica e umoristica, disincantata e cinica. Altri due narratori della scapigliatura sono Faldella e Dossi. Di Faldella si ricorderà Figurine (1875), corposi bozzetti campagnoli. Grande innovatore sul piano linguistico, il più originale degli scapigliati è però Dossi che assimila in profondità la lezione umoristica di Sterne, e può essere considerato un maestro di Gadda. Per la svalutazione della trama e l‟appello alla collaborazione del lettore anticipa strutture aperte e sperimentali del Novecento. Sul piano linguistico innovazioni che mirano al pastiche, combinazione di termini aulici e dialettali, forestierismi, neologismi. Artifici anche diacritici che mirano allo straniamento, a indurre il lettore a impuntarsi nella lettura. Purtroppo però per me i temi non sono di grande interesse: infanzia concepita come paradiso perduto, gloria artistica e felicità erotica, ecc. Poesia della scapigliatura: a parte l‟ultima poesia di Camerana, la poesia degli scapigliati non riuscì veramente a rinnovare il linguaggio poetico, che rimase quello della tradizione romantica italiana. Emilio Praga aveva assimilato a Parigi la cultura di avanguardia della capitale francese. Tornato a Milano, morto il padre e andata in dissesto l‟azienda, non seppe adattarsi all‟ordine borghese. Si dette alla bohème e all‟alcool, morì giovane di tisi, anche a causa di queste sregolatezze. Sua principale raccolta, Penombre (1864) in cui leggiamo Preludio, sorta di manifesto antiromantico e antimanzoniano. In questa raccolta predominano maledettismo, gusto del macabro, esigenza della provocazione e del realismo più violento. Nei due libri successivi si torna a temi più delicati e romantici. Consapevole della miseria della poesia moderna Praga si dice soldato del “Vero”. (inteso come una realtà non pervasa dalla ragione e dall‟ideale). Il suo miglior realismo è quello ironico, dimesso colloquiale, talvolta idillico, in cui anticipa moduli che portano a Gozzano. Praga rende anche in modo efficace l‟atmosfera grigia il senso di noia e dissipazione di una vita vissuta inutilmente. Come poeta Arrigo Boito compone il Libro dei versi (1877), il poema narrativo Re Orso (1865), il libretto di Mefistofele (1868). Nel Re Orso soprattutto esasperato sperimentalismo metrico e verbale, sul piano tematico senso profondo del dualismo e della contraddizione fra l‟aspirazione dell‟uomo all‟ideale e impossibilità di raggiungerlo. Maggiore poeta del gruppo sarebbe Giovanni Camerana soprattutto per le sue poesie degli anni ‟80 e ‟90, quando assimila con modi originali il simbolismo. Si tratta della raccolta postuma Versi (1807), in cui si esprime un senso di oppressione e di morte, un rifiuto della realtà. Riassumendo, possiamo dire che con la Scapigliatura riprende vigore la linea antagonistica, dualistica e se vogliamo nichilista che abbiamo visto sorgere in forme ancora
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tradizionali e con terminologia prevalentemente politica con Alfieri e poi affermarsi pienamente con Foscolo e Leopardi. Con la Scapigliatura la frattura del reale e dell‟ideale che il romanticismo aveva cercato di superare o attraverso una concezione orfica o sinbolica della poesia o attraverso una filosofia della storia e del progresso, prende di nuovo il sopravvento, rendendo di nuovo attuali le tematiche della rivolta, del satanismo, della noia, della vanità di ogni cosa, della poesia come sogno e illusione, della realtà come orrore e miseria, spoglie di ogni spiritualità. Di nuovo, rispetto a Foscolo e Leopardi c‟è il confronto con la scienza e il positivismo, con il trionfo della tecnica e del capitalismo, l‟esperienza della grande città e della folla, la lettura di Baudelaire e del fantastico romantico e post-romantico (Edgar Allan Poe), c‟è anche uno sperimentalismo linguistico che cerca di rompere non solo con la tradizione classica ma anche con il manzonismo e le tendenze narrative e confessionali del romanticismo. Se quindi ideologicamente gli Scapigliati si riallacciano a Foscolo e Leopardi, solo nella loro prosa si può riscontrare una certa continuità con Sterne e il Foscolo minore. La loro poesia nasce da un disfacimento della poesia romantica, e trae ispirazione da Baudelaire, ma senza riuscire a trovare un suo linguaggio veramente originale e innovatore. Il vero rinnovamento della lirica italiana avverrà solo con Pascoli e d‟Annunzio (e con Gozzano) nella cui poesia andrà però persa parte della loro audacia e originalità di pensiero, che sarà ritrovata solo da Pirandello, dopo la crisi, l‟esaurimento, il disfacimento della linea verista.
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Lezione XII Il verismo in Italia: Verga Veniamo ora a studiare il maggiore rappresentante del verismo italiano, Giovanni Verga. In Manzoni abbiamo ancora il narratore onnisciente. In Verga invece il punto di vista narrativo corrisponde a quello dei personaggi. Il popolo non è visto con distacco, giudicato da una prospettiva moralistica e populistica, ma diventa protagonista, la prospettiva del racconto è la sua prospettiva. I capolavori di Verga, come poi quelli di Svevo Tozzi e Gadda, avranno scarso successo. Nella sua opera Verga assorbe e riflette, rivive la crisi dell‟intellettuale ancora protagonista fino al 1860 e ora emarginato in un‟Italia dominata dall‟interessse economico, dalle banche, dalle imprese industriali. Verga vede dapprima valori alternativi nella società arcaico-rurale della Sicilia, ma poi progressivamente si rassegna al trionfo dell‟interesse e della roba. Luperini distingue e contrappone la componente simbolico romantica che sarebbe ancora presente nei Malavoglia e l‟ottica integralmente criticonegativa, il realismo duro e corrosivo che prevarrebbe invece nel Mastro don-Gesualdo. Verga rifiuta gli aspetti fiduciosi e ottimistici del positivismo. Gli anni creativi di Verga vanno dal 1860 al 1890. Ha vent‟anni ai tempi dell‟impresa dei Mille e rimarrà sempre fedele ai valori dell‟unità nazionale e al culto del Risorgimento. I suoi primi romanzi adolescenziali sono di ispirazione patriottica e sentimentale, sono dei romanzi romantici. L‟ideale dell‟amore passione è ancora al centro di Una peccatrice (1866). Storia di una capinera è romanzo epistolare di grande successo. Forte l‟influenza scapigliata in Tigre reale. Eros è il primo tentativo di scrivere un romanzo oggettivo. Primavera e altri racconti (1876) si colloca fra scapigliatura e tardoromanticismo. Anche negli anni dei grandi romanzi continua il filone mondano con Il marito di Elena e Drammi intimi. Politicamente sostiene la Destra storica che proponeva un‟alternativa agraria al predominio del capitale industriale del nord. Collabora infatti a Rassegna settimanale. Dopo il 1882 sempre più conservatore, ostile a socialismo, e su posizioni nazionaliste. Pessimismo che sfiora il cinismo dal 1893 in poi, visibile anche nei suoi rapporti con la contessa Dina Cortellazzi di Sordevolo. L‟inerte pessimismo degli ultimi anni spiega forse perché non finisce il ciclo dei Vinti. Romanzo storico il suo primo romanzo, quando il genere si era esaurito da vent‟anni. Anche con Una peccatrice (1865) siamo ancora in pieno idealismo romantico: per fedeltà al suo ideale la protagonista si dà la morte. L‟autore usa ancora la scrittura enfatica e esclamativa del feuilleton. La storia di una capinera è storia di una fanciulla modesta destinata al convento che si innamora di Nino e che poi, costretta a tornare in convento perché non ha dote, impazzisce e muore; denuncia sociale ma anche elementi nuovi: 1) punto di vista di un personaggio semplice, suo linguaggio elementare; 2) tema dell‟orfano e dell‟escluso, connesso a quello economico, che poi sarà determinante nei romanzi veristi, dove i sentimenti risultano sempre impotenti. Eva, migliore romanzo prima dei Malavoglia, è influenzato dalla tematica scapigliata: rappresenta un esame di coscienza dello scrittore moderno che vede irrealizzabili gli ideali romantici nella realtà moderna dominata dagli interessi materiali. Contrasto fra modernità e mondo premoderno. Tema della ballerina che è uno dei topoi della letteratura e pittura moderna. Forte l‟influenza scapigliata e di Tarchetti in Tigre reale la cui protagonista è malata di tisi, e che nell‟ultima notte d‟amore è ormai uno spettro, un cadavere vivente. Con Eros, romanzo ambientato nell‟alta società, Verga, che ha letto pochi mesi prima Madame Bovary, adotta la narrazione oggettiva e impassibile. Il protagonista, il marchese Alberti, capisce solo alla fine che avrebbe potuto salvarsi dalla disperazione e dalla rovina morale se fosse rimasto fedele all‟amore della moglie. Ma è ormai troppo tardi: la moglie muore di dolore e lui si suicida. La nuova poetica verista adottata alla fine del ‟77 è dovuta a tre fattori principali: 1) la recensione di Capuana all‟Assommoir, 2) il trasferimento di Capuana a Milano e il sodalizio
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che ne nasce; 3) lo scoppio della questione meridionale con l‟Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino, e Le lettere meridionali di Pasquale Villari. Positivismo, materialismo, determinismo e darwinismo sono presupposti più o meno espliciti della nuova poetica. Psicologia senza fare analisi psicologica, rappresentando dall‟esterno i personaggi. Il principio del ciclo di romanzi è procedere dal semplice al complesso, dall‟elementare al complicato. Partire dalle classi più basse e poi elevarsi sempre di più verso quelle più elevate. La duchessa di Leyra (nobiltà cittadina); L’onorevole Scipioni (il mondo parlamentare romano), L’uomo di lusso (l‟artista, raffinato e ormai superfluo alla società). Luperini vede una specie di contraddizione nel fatto che da una parte, a ogni livello della scala sociale, agisce la molla dell‟interesse individuale? dall‟altra il mondo arcaicorurale continua a apparirgli in una luce idillica. Ma questa a mio parere non è affatto una contraddizione, è l‟essenza della poesia verghiana; se i personaggi non si accorgessero a un certo punto della vanità delle loro ambizioni, come potrebbe l‟autore avere compassione per i vinti e per quale motivo i vincitori sarebbero infelici. Sono infelici perché pur avendo il potere non hanno realizzato ciò a cui confusamente aspiravano. Questo spiega le residue componenti romantiche, il tono epico-lirico, la dimensione simbolica, la corrispondenza fra anima e paesaggio. Veniamo ai Malavoglia. Quali sono le principali caratteristiche formali del romanzo? 1) discorso indiretto libero, attraverso il quale le voci di una comunità arcaico-rurale raccontano la vicenda. Similitudini, immagini metafore proverbi che esprimono il punto di vista dei pescatori. Il linguaggio tende al parlato, la cadenza è quella della sintassi siciliana; 2) Verga ha utilizzato come fonti gli studi di antropologia, etnologia e folclore e in particolare L’inchiesta di Franchetti e Sonnino come già aveva fatto per Rosso Malpelo. Nel romanzo c‟è la ricerca dei valori incontaminati di un idillio premoderno, ma anche la molla dell‟egoismo individuale a tutti i livelli della società. ‟Ntoni e Lia si lasciano corrompere dai vizi della città e del progresso, Mena e Alessi incarnano per così dire l‟atto eroico di rinuncia al progresso, tutta la famiglia era stata invece trascinata verso la tragedia sin dall‟inizio dall‟affare del luppolo, cioè dalla speranza di incrementare i propri guadagni e estendere l‟area della propria attività economica. 3) intreccio di stile lirico-simbolico per i personaggi dotati di interiorità e comico-caricaturale per i paesani. Il titolo è un‟ingiuria, cioè un soprannome scherzoso, assume quindi già l‟ottica dei personaggi che sono protagonisti del romanzo. Stesura fra la primavera del ‟78 e il luglio ‟80 ma con correzioni anche successive, “addio a Ntoni” aggiunta nelle bozze. Inizialmente progetto di “bozzetto marinaresco” come Nedda era stata un “bozzetto siciliano”, ma poi abbandona questa maniera e parallelamente progetta la serie dei Vinti. Testi teorici di questo periodo: lettera dedicatoria a Farina, prefazione ai Malavoglia, Fantasticheria, lettere a Capuana. Principi che ne derivano: 1) forma inerente al soggetto, soluzioni stilistiche diverse per ogni argomento; 2) l‟autore deve sparire, calandosi in voci narranti appartenenti al mondo rappresentato; 3) devono sparire gli artifici narrativi della tradizione manzoniana: narratore onnisciente, descrizione dall‟alto del personaggio e dei luoghi, inquadramento nella griglia ideologica e assiologica dell‟autore, messa in scena autoriale (altri artifici narrativi dovranno però sostituirli per rendere il testo leggibile i personaggi riconoscibili ecc.); 4) necessità di scelte linguistiche per esprimere la prospettiva popolaresca. Da qui ardimento e rischio di insuccesso; rinuncia a soluzioni facili ben note al pubblico. Nel romanzo c‟è un‟istanza sociologica, etnologica, documentaria che nasce direttamente dalla poetica del verismo, ma anche un elemento soggettivo e romantico, un idoleggiamento della realtà popolare siciliana. Non a caso una delle prime recensioni positive del romanzo è sulla rivista di Franchetti e Sonnino Rassegna settimanale. Dall‟inchiesta di
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Franchetti e Sonnino Verga riprende i temi della corruzione del ceto amministrativo locale, dei danni procurati alla popolazione dalla leva militare obbligatoria e da un sistema di tassazione che colpisce soprattutto i poveri, della presenza del contrabbando fra Catania e Messina. Da loro riprende anche la tesi che l‟usura è il cancro che distrugge l‟economia siciliana e impedisce lo sviluppo della piccola proprietà. Da qui l‟opposizione nel romanzo fra padron „Ntoni e l‟usuraio Campana di legno, che riprende l‟impianto del libro di Sonnino e Franchetti. Verga si serve poi anche di studi di folclore e etnologia (Pitrè e Rapisarda), di raccolte di proverbi popolari. In una lettera del 14 marzo 1879 egli parla esplicitamente del vantaggio di essere a una certa distanza dal mondo descritto: questo gli permette di fare “un lavoro di ricostruzione intellettuale”. Verga costruisce da lontano un paese-modello che poi identifica in Trezza. La vicenda si svolge fra il 1863 e il 1877 o 88. Storia della famiglia Toscano, il nonno padron Ntoni proprietario della casa del Nespolo, figlio Bastianazzo (la nuora Maruzza detta la Longa). Nipoti Ntoni, Luca, Alessi, Mena e Lia. Per fare la dote a Mena „Ntoni compra a credito la partita di lupini, indebitandosi con l‟usuraio Campagna di Legno (o zio Crocifisso). Ma la barca fa naufragio e comincia quindi un periodo di disgrazia e miseria. La famiglia sembra poter risorgere ma poi è ricacciata nella disgrazia dalla morte di Luca nella battaglia di Lissa, dall‟insoddisfazione di ‟Ntoni che dopo il servizio militare cerca fortuna, vuole fare facili guadagni e si mette a frequentare gli ambienti del contrabbando. Lia è insidiata da un brigadiere che sarà poi accoltellato da „Ntoni quando quest‟ultimo è sorpreso durante un‟operazione di contrabbando. Lia fugge e diventa prostituta a Catania. Alla fine Alessi ricompra la casa del nespolo, ‟Ntoni resta nella casa del nespolo solo una notte, ha capito che non può vivere in una famiglia di cui ha violato le norme morali. Rimpiange ormai la sua fuga e la sua ribellione contro il paese. La prima parte, cap. I-IV copre in molte pagine gli eventi di 4 giorni. La parte centrale, cap. V-X, copre quindici mesi. I capitoli XI-XV coprono invece circa dieci anni. Non è più personaggio principale il vecchio ‟Ntoni ma suo nipote che porta lo stesso nome. Il tempo della storia è diventato lungo, si è abbreviato quello del racconto. Il nonno rappresenta la legge patriarcale dell‟onore e del lavoro, il figlio gli oppone la legge moderna dell‟utile e della ricchezza. Nelle prime due parti contrasto invece fra padron Ntoni e l‟usuraio, che rappresenta la penetrazione dei disvalori moderni. Opposizione che traversa tutti i personaggi: per esempio da un lato Mena e Nunziata rispettose delle norme della tradizione patriarcale, mentre Vespa e Mangiacarrube cercano spregiudicatamente un marito ricco. La verità di padron Ntoni si riassume nella sua saggezza immobile, nei suoi proverbi. Ntoni personaggio scisso usa sia il linguaggio dei proverbi sia quello del giornale, della politica. Personaggio romanzesco e non epico come padron ‟Ntoni. ‟Ntoni è un diverso e un escluso come Verga. Ma il contrasto penetra nella famiglia (Alessi versus Ntoni, Mena versus Lia). Da qui due diverse tonalità espressive: quella lirico-simbolica e quella comicocaricaturale (per i personaggi meschini e cinici che popolano Aci-trezza). Il secondo registro è illustrato secondo Luperini dall‟episodio della rivoluzione per il dazio sulla pece. Mastro don Gesualdo: mette in scena la borghesia di campagna e la nobiltà di provincia; viene meno la coralità dei Malavoglia, ma al registro unitario dei Malavoglia si sostituisce un registro polifonico. Invece di tono epico-lirico e mitizzazione del tempo e dello spazio, abbiamo una rappresentazione duramente realistica e fortemente drammatica, un montaggio di episodi che mira alla dimostrazione di una tesi razionale. Viene meno l‟unità di luogo, il tempo si frantuma, il ritmo si fa rapido e incalzante. Domina incontrastato il culto della roba, e viene meno il contrasto fra personaggi dotati di interiorità e personaggi cinici e matricolati. La contraddizione si sposta nell‟anima del protagonista, che subordina tutto all‟interesse ma sente dentro di sé un malessere sordo e alla fine capisce che ogni sua singola vittoria pubblica è stata una sconfitta privata. Il culto della roba rivela la sua insensatezza. La
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vita come lotta spietata che non porta ai vincitori alcuna reale conquista in termini di felicità e significato. E chi non accetta il gioco (i Trao) non fa che accelerare la propria sconfitta. Qualche osservazione per finire sulla critica verghiana: i capolavori di Verga non ebbero successo quando uscirono. La rivalutazione di Verga comincia dopo la prima guerra mondiale, ad opera di Pirandello, con il suo discorso di Catania del 1920, che colloca Verga fra gli autori che usano uno stile di cose e non di parole, in una linea cioè non letteraria, e vede nei Malavoglia un romanzo scritto a caso senza lume, senza organizzazione dall‟alto della materia narrativa (come in Manzoni). Pirandello scriveva in quei mesi Sei personaggi in cerca d’autore. Poi per molti anni ci si è interessati all‟incontro in Verga fra componente realistica e lirico-simbolica. Croce considera l‟adesione di Verga al verismo come anedottica, per lui Verga è scrittore primitivo, la sua opera nasce dalla nostalgia della terra natale, l‟ispirazione è lirica. Russo prosegue sostanzialmente questa linea, in Verga ci sarebbe una vera e proprio religione della famiglia, e la sua posizione sarebbe molto vicina a quella di Manzoni. È soltanto fra il 1965 e il ‟75 che con la critica neo-marxista scoppia il caso Verga: sono allora studiati gli elementi anti-populisti di Verga (Asor Rosa), è rivalutato il suo realismo anti-idillico (Luperini), è scoperto sempre da Luperini l‟uso delle fonti sociologiche e del‟Inchiesta in Sicilia; sono messi in evidenza l‟artificio di regressione (Baldi) e il procedimento di straniamento (Luperini) attraverso il recupero di un saggio di Leo Spitzer. Con la pubblicazione delle prime edizioni critiche si approfondisce anche lo studio filologico e della lingua. Capuana aveva avuto come maestri De Sanctis e De Meis, che dall‟hegelianismo era approdato al positivismo. Da loro Capuana desume l‟importanza del concetto di “forma”. Capuana nato in provincia di Catania nel 1839 e figlio di un proprietario terriero è a Firenze come critico teatrale della Nazione nel 1864, nel ‟68 torna a Mineo per ragioni familiari e vi rimane fino al ‟77 quando raggiunge Verga a Milano. Giacinta del 1879 è dedicato a Zola. Agli inizi degli anni ‟80 dirige a Roma Il fanfulla della Domenica e pubblica nel frattempo libri di critica e teoria letteraria (Studi sulla letteratura contemporanea e Per l’arte, 1885, specie di manifesto del verismo). Negli anni ‟90 la sua vivace curiosità intellettuale lo spinse a interessarsi a spiritismo, parapsicologia, e forme di spiritualismo e misticismo. Nella narrativa suo tema privilegiato è il mondo femminile, l‟universo contadino è segnato da situazioni grottesche che sembrano anticipare Pirandello. Giacinta sarebbe un caso clinico, storia di donna che soffre di un trauma infantile (lo stupro di cui è stata vittima), ma il romanzo soffre di gravi squilibri. Nel marchese di Roccaverdina (1901) solido impianto realistico ma aperture in direzione spiritualista che sarebbero state impensabili vent‟anni prima. Capuana è critico notevole, ma romanziere ineguale; capolavoro naturalistico è invece I viceré di De Roberto che riesce a compiere ciò che Verga non è riuscito a realizzare nella incompiuta Duchessa di Leyra. Politicamente De Roberto aderì al nazionalismo, fu interventista in occasione della Grande Guerra, e fu influenzato teoricamente da Bourget. Ma ne La paura (1921) denunciò gli orrori bellici. Agli Uzeda egli ha dedicato una trilogia: L’illusione (1891), I viceré (1894) e L’imperio uscito postumo nel 1928. Più che al mondo contadino si ispira al mondo borghese e nobiliare. Più che a Zola, si rifà a Flaubert e Maupassant, oscillando fra freddi reperti scientifici e sottogliezze psicologiche secondo l‟insegnamento di Bourget (vedi L’albero della scienza). Derivano da queste due tendenze squilibri e oscillazioni. Teresa Uzeda nell‟Illusione è una sorta di Madame Bovary nobiliare, divisa fra un matrimonio sbagliato e una serie di relazioni infelici. Storia dell‟illusione dell‟amore e suo necessario fallimento. I viceré è un romanzo storico e copre trent‟anni, ma un romanzo storico senza fiducia nella storia. Sopraffazione dei più forti ai danni dei più deboli e perpetuazione di insensati cicli biologici. Il positivismo di De Roberto è sfrondato da ogni illusione ottimistica, improntato a lucido e amaro pessimismo. Cupo materialismo, ai
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limiti del nichilismo. I Vicerè è stato detto romanzo contro la storia o antistorico (Spinazzola). Il romanzo è raccontato dal punto di vista di Giovannino Radalì sconfitto e suicida. Prospettiva estraniata, resoconto storico a un tempo realistico, freddamente oggettivo e allucinato, angosciato visionario. Trasformazioni solo apparenti della storia, e i potenti rimangono sempre a cavallo. Cupa tonalità tragica, violenza nascosta dell‟indignazione. La storia degli Uzeda è storia di una degenerazione patologica, gli Uzeda sono una galleria di mostri. Continuazione dei Viceré nell‟Imperio che denuncia la totale negatività della vita politica e della vita stessa vista leopardianamente come un male. L‟unica forma di solidarietà quella degli anarchici che uccidono e si suicidano con la stessa bomba che lanciano a caso contro il mondo stesso. I viceré non ebbe grande successo quando uscì e Croce più tardi lo stroncò; è stato rivalutato da Russo, Baldacci, più recnetemente da Spinazzola e Madrignani (mi sembra che appartenga a una linea che va da Leopardi a Flaubert a Maupassant a Pirandello, e a cui possono essere ricollegati anche Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Consolo e oggi Vassalli).
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