Ringraziamenti. Questo libro, a cui ho lavorato per anni, forse non avrebbe mai
...... bellini che vide le guelfe Siena e Firenze alleate contro la ghi- ...... 71 Il
viandante esce con il sole sull'uscio del ricovero, e visto listato ...... colui ti guidi.
38. Pia.
A10 300
Carlo Corsetti
Pia da Siena
ARACNE
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ISBN 978–88–548–1370–0
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I edizione: dicembre 2002
In memoria dei miei genitori Adelaide Fabi ed Igino Corsetti
Era di maggio e tu cantavi al sole, o madre, la canzone della Pia e di Ghino e di Nello, e le parole il vento lieve le portava via tra le vigne, gli ulivi e le viole in note piene di malinconia, lungo la valle e sopra i colli al sole nell’azzurro del cielo in signoria; era di maggio, ed ora di lontano, sul Bosforo, dal Colle dei Cavalli, torna il tuo canto, o madre, maremmano e porta a questi colli e in queste valli Castel di Pietra e il Lago di Mezzano tra papaveri rossi e crochi gialli.
Quando ero bambino, negli anni Cinquanta del secolo appena trascorso, vivevo nelle campagne di Velletri, in una località detta Colle dei Cavalli, dove mia madre, lavorando la vigna, cantava per noi la lunga canzone del Moroni, certo senza conoscerne l’autore. Dal suo canto ho cominciato a conoscere e ad amare la Pia: un canto che talora ritorna sulle vivaci colline del Bosforo, dove oggi vivo e lavoro lontano.
Ringraziamenti Questo libro, a cui ho lavorato per anni, forse non avrebbe mai visto la luce senza il sostegno materiale e morale di quanti mi hanno aiutato ed il cui nome è davvero legione. Vada a tutti il mio ringraziamento. Con particolare gratitudine esso giunga ad Annalisa Testa, bibliotecaria del Liceo “Bruno Touschek” di Grottaferrata, che per prima mi ha sostenuto nella acquisizione di alcuni dei testi letterari che ora vengono ripubblicati in questo volume; a Renzo Pepi, della Biblioteca Comunale di Siena, per l’estrema disponibilità dimostratami nel fornirmi la riproduzione di ogni testo di cui avessi bisogno; a Veraldo Franceschi, studioso attento della Pia, che mi ha accolto con fine amicizia, mettendo a mia disposizione ogni sua specifica conoscenza di storia locale.
Parte I
La questione storica
La questione della Pia Intorno alla figura di Pia da Siena si è scritto molto, soprattutto nel corso dell’Ottocento e del Novecento, in un’appassionata ed appassionante ricerca della sua identità e della sua tragica fine. In questo saggio, introduttivo alla riedizione dei testi letterari, soprattutto ottocenteschi, che sono incentrati sulla figura di lei e che costituiscono una bella pagina di letteratura italiana comparata per generi letterari, noi mostreremo anzitutto come dai celebri sette versi del quinto canto del Purgatorio di Dante emerga la questione della Pia; vedremo poi come questa questione si sia sviluppata nel corso dei secoli; studieremo quindi il testamento di Nello della Pietra, dove si trova la chiave che risolve il mistero di Pia; ritorneremo infine al canto di Dante, il canto delle vittime delle fazioni politiche, per tentare una chiarificazione definitiva della vicenda di questa Pia che, al di là dalla famiglia a cui essa appartenne, noi proponiamo, per il momento, di chiamare Pia da Siena, perché lei stessa si dice nativa di questa città. 1
Dante, Purgatorio, V, 130–136: « Deh, quando tu sarai tornato al mondo / e riposato de la lunga via, / seguitò ’l terzo spirito al secondo, / ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma: / salsi colui che ’nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma. » — Per quanto ne sappiamo, questi versi di Dante rappresentano la testimonianza più antica sull’esistenza di Pia da Siena; ricordiamo, tuttavia, poiché non ne sappiamo altro, che in Poesie di Bartolomeo Sestini, precedute dalle notizie biografiche del poeta, raccolte da Atto Vannucci, Firenze, Le Monnier, 1855, p. 21, Atto Vannucci scrive: « Il rimatore Nuccio Piacenti avea nel secolo XIII celebrata e compianta in un sonetto la sventura della bella Sanese; e Dante in appresso ne avea riaccesa la conoscenza in quei celebri versi del Purgatorio. » 1
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1. La Pia in Dante. Discesa di balza in balza, di pena in pena, fino al centro della terra, la voragine infernale, « che ’l mal de l’universo tutto insacca », 2 e risalito quindi il faticoso cunicolo naturale, che dal centro della terra li riporta fuori « a riveder le stelle », 3 Dante e Virgilio si ritrovano sulla piccola isola australe, da cui si innalza il ripido ed altissimo monte Purgatorio: « lo monte che salendo altrui dismala ». 4 Intento ad osservare lo splendore delle stelle australi, viste soltanto da Adamo ed Eva, i progenitori del genere umano, Dante si vede improvvisamente accanto un vecchio solitario, dalla lunga barba e dai lunghi capelli grigi, la cui vista da sola già incute rispetto. Si tratta di Catone Uticense, 5 custode del Purgatorio, il quale, rassicurato da Virgilio sul fatto che essi non sono anime dannate fuggite dall’inferno ed informato sulle ragioni del viaggio ultraterreno di Dante, 6 li esorta a scendere fino alle onde del mare, dove Virgilio laverà il volto a Dante da ogni sudiciume infernale ed in segno di penitenza gli cingerà i fianchi con uno dei giunchi che crescono su quel lido, ed a proseguire poi il cammino senza tornare indie-
Dante, Inferno, VII, 18. Dante, Inferno, XXXIV, 139. 4 Dante, Purgatorio, XIII, 3. Questo alto monte, sulla cui drammatica orogenesi vedi Carlo Corsetti, Orogenesi e funzioni del purgatorio dantesco, « L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca », 1989, p. 54–58, si trova nell’emisfero australe, proprio agli antipodi di Gerusalemme, sotto cui si apre la voragine infernale dantesca; esso era stato già intravisto da Ulisse e dai suoi compagni, in Dante, Inferno, XXVI, 133. 5 Per evitare di cadere nelle mani di Cesare e di dovere così assistere alla fine della repubblica in Roma e di ogni libertà repubblicana, dopo la sconfitta dei pompeiani a Tapso, Marco Porcio Catone (95–46 a. C.) si uccise ad Utica, a nord di Cartagine; di qui il soprannome di Uticense con cui esso viene ricordato. 6 In Dante, Purgatorio, I, 70–75, Virgilio, alludendo a Dante, dice a Catone: « Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta. / Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara / in Utica la morte, ove lasciasti / la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara. » — La vesta che Catone lasciò ad Utica è il corpo che allora vestiva la sua anima; il gran dì è il giorno della risurrezione e del giudizio universale, su cui vedi la Bibbia, Vangelo secondo Matteo, 25, 31–46. 2 3
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tro sui propri passi: sarà il sole ad indicare loro quale via seguire per salire più facilmente l’alto monte. 7 Terminato il rito penitenziale e purificatorio, mentre l’aurora diventa dorata, Dante e Virgilio vedono venire sul mare un vascello leggero che avanza velocissimo, grazie al solo movimento delle ali bianche di un angelo luminosissimo che lo guida ritto da poppa, e porta più di cento anime, le quali, sedute dentro la barca, cantano un salmo di liberazione. 8 Giunti a riva, l’angelo benedice le anime, le quali si slanciano tutte sulla spiaggia, mentre esso ritorna indietro sulla sua barca veloce. 9 Ignare del luogo e vedendo Dante e Virgilio, le anime si rivolgono ad essi per chiedere la via. Mentre Virgilio risponde che neppure loro la conoscono, le anime si accorgono, con estremo stupore, che Dante respira. Si avvicinano incredule per meglio vederlo in volto, ed una di esse, riconosciutolo, si fa innanzi per abbracciarlo con un affetto tale che Dante è spinto ad abbracciarla a sua volta: ma invano, ché l’anima che egli abbraccia è solo un’ombra! Si tratta di Casella, 10 un musicista carissimo a Dante, che ora gli chiede di cantare ancora per lui. Mentre Casella canta con voce dolcissima una canzone di Dante, 11 e tutti ascoltano intenti, sopraggiunge Catone che rimprovera le anime per quel loro attardarsi e rinviare così la propria purificazione: lievi e veloci le anime si disperdono allora su per il monte Purgatorio. 12 Rimasti nuovamente soli, Dante e Virgilio si avanzano fino ai piedi del monte, la cui pendenza è tuttavia talmente ripida da risultare impossibile a salire per chi, come loro, fosse
Dante, Purgatorio, I, 19–108. Si tratta del salmo che in latino inizia con le parole In exitu Israel de Egypto, quando Israele uscì dall’Egitto, per cui vedi la Bibbia, Salmi, 113. 9 Dante, Purgatorio, II, 12–51. 10 Di questo Casella sappiamo che era fiorentino o forse pistoiese. 11 Si tratta della canzone stilnovistica Amor che nella mente mi ragiona, per cui vedi Dante, Convivio, III, dove la donna che ispira amore raffigura la filosofia. 12 Dante, Purgatorio, II, 52–133. 7 8
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privo di ali. Mentre Virgilio riflette su quale possa essere la direzione da prendere per trovare un punto meno ripido, Dante vede venire un gruppo di anime, alle quali potranno chiedere la via per salire. Poiché esse camminano tanto lente da sembrare ferme, Virgilio e Dante vanno loro incontro. Meravigliate alla vista dell’ombra proiettata dal corpo di Dante, ma rassicurate dalla spiegazione di Virgilio, le anime indicano la direzione da seguire per giungere dove sarà loro possibile arrampicarsi su per la roccia. Ma qui, prima che si avviino, una di esse chiede a Dante se egli l’abbia mai veduta sulla terra. Poiché Dante si scusa per non averla mai vista, l’anima si presenta: si tratta dell’anima di re Manfredi, 13 il quale chiede a Dante di recarsi dalla figlia Costanza, per informarla che egli è salvo, perché in punto di morte si era affidato alla misericordia di Dio, e che ha grande bisogno delle preghiere di lei, perché, essendo morto scomunicato, per ogni anno vissuto fuori della comunione con la Chiesa egli ne deve aspettare trenta in questo antipurgatorio, prima di essere ammesso a purificarsi nel purgatorio vero e proprio; a meno che qualche anima buona, come la figlia Costanza appunto, non preghi Dio perché abbrevi questa sua attesa. 14 Lasciate quelle anime e giunti nel luogo da esse indicato, Virgilio e Dante si inerpicano con grande fatica per una stretta crepa della roccia fino a raggiungere, stanchi, un ripiano che gira tutto intorno all’altissimo monte. Mentre, seduti, si riposano e parlano di quanto rimanga ancora a salire, essi si accorgono della presenza di un gruppo di anime, sedute all’ombra di un pietrone. Tra queste anime si trova Belacqua,
Figlio naturale di Federico II, re di Sicilia ed imperatore, Manfredi aveva diciotto anni nel 1250, quando il padre venne a morte. Riuscito a succedergli sul trono di Sicilia, Manfredi ne continuò la politica di sostegno alle città ghibelline nella loro lotta contro le città guelfe e contro i papi, i quali pertanto lo scomunicarono e concessero il regno di Sicilia a Carlo d’Angiò. Nel tentativo di impedire l’entrata dei Francesi nel suo regno, Manfredi cadde combattendo nella battaglia di Benevento (1266). 14 Dante, Purgatorio, III, 46–145. 13
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un fiorentino noto a tutti per la sua pigrizia. 15 Alla domanda lievemente ironica di Dante, che gli chiede se non si affretti a salire perché è stato ripreso dalla consueta pigrizia, Belacqua spiega che in questo caso affrettarsi non servirebbe: poiché, infatti, per emendarsi dei propri vizi egli ha indugiato fino alla fine, prima di essere ammesso a purificarsi, egli deve aspettare tanti anni quanti ne ha vissuti sulla terra; a meno che qualche anima buona non ottenga con le sue preghiere che l’attesa gli sia abbreviata. 16 A questo punto, poiché il sole è già a mezzogiorno, Virgilio invita Dante a riprendere il cammino. Mentre si avviano, una delle anime sedute dietro il pietrone si accorge che Dante non viene attraversato dai raggi del sole e sembra comportarsi come uno vivo. Colpito dal grido di meraviglia di quell’anima, Dante rallenta il passo per guardare indietro verso di lei, così da essere sollecitato da Virgilio a proseguire il proprio cammino, senza curarsi di quanto quelle anime possano dire di lui. 17 Mentre Dante, vergognoso per quel suo rallentare, accelera il passo a seguire Virgilio, essi notano un gruppo di anime che avanzano lungo la cornice che cinge di traverso il fianco del monte, e cantano un salmo di penitenza. 18 Quando si accorgono che il corpo di Dante non si lascia attraversare dai raggi solari, la meraviglia di queste anime è tale che il loro canto si muta e si spegne in un “oh!” lungo e roco, e due di esse, come messaggeri, corrono da Dante e Virgilio per sapere quale sia la loro condizione: di morti o di vivi? Alla risposta di Virgilio che Dante è vivo e che onorarlo può risultare prezioso per esse, le due anime risalgono più veloci del lampo o di una stella cadente alle altre, che tutte insieme, come un esercito in fuga, si precipitano allora verso Dante e Belacqua viene identificato con un liutaio fiorentino che nel 1302 risulta morto. 16 Dante, Purgatorio, IV, 19–139. 17 Dante, Purgatorio, V, 1–18. 18 Si tratta del salmo che in latino inizia con le parole Miserere mei, Deus, pietà di me, o Dio, per cui vedi la Bibbia, Salmi, 50. 15
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Virgilio. Visto il gran numero di anime che si accalcano intorno ad essi, Virgilio invita Dante ad ascoltarle, ma senza per questo arrestare il cammino. 19 Mentre invitano Dante a rallentare il passo ed a guardare se riconosca qualcuna di loro, così che poi ne riporti notizia sulla terra, queste anime dicono di essere tutte anime di persone uccise “per forza”, cioè con violenza e prima del tempo, e di essere state peccatrici fino all’ultima ora, quando, illuminate dal cielo, pentendosi dei propri peccati e perdonando ai propri uccisori, esse uscirono dalla vita terrena pacificate con Dio. Dante non ne riconosce alcuna, ma giura di essere comunque pronto a fare per loro quanto esse volessero chiedergli. Prima, avanti a tutte le altre, parla l’anima di Jacopo del Cassero, la quale racconta come egli sia stato ucciso dai sicari del duca d’Este e chiede a Dante, se mai si trovi a passare per Fano, sua patria, di invitarvi a pregare bene per lei, affinché essa sia ammessa a purificarsi delle sue gravi colpe. 20 Poi parla l’anima di Buonconte da Montefeltro, il condottiero aretino caduto nella battaglia di Campaldino, 21 la quale spiega perché il suo cadavere non sia stato mai ritrovato; e poiché né la vedova né altri si curano di lei, l’anima chiede a Dante stesso di aiutare con le proprie preghiere il suo desiderio di essere ammessa a purificarsi. 22 Parla infine un terzo spirito che, a differenza di Jacopo e di Buonconte, non racconta a Dante né come né perché né chi uccise il suo corpo, ma si limita a chiedergli di pregare per lui, 23 dicendo: « Deh, quando tu sarai tornato al mondo e
Dante, Purgatorio, V, 19–45. Dante, Purgatorio, V, 46–84. 21 La battaglia di Campaldino, tra i ghibellini di Arezzo, guidati da Buonconte, ed i guelfi di Firenze, tra i quali era Dante venticinquenne, avvenne l’11 giugno 1289. 22 Dante, Purgatorio, V, 85–129. 23 Queste inversioni di concordanza, per cui parlando di Jacopo e di Buonconte si usa il femminile, mentre parlando di Pia si usa il maschile, conseguono al fatto che mentre per Jacopo e per Buonconte, due uomi19 20
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ti sarai riposato della lunga via, ti torni memoria di me che sono la Pia; Siena mi fece, Maremma mi disfece: se lo sa colui che prima, sposando, mi aveva inanellata con la sua gemma ». 24 2. La Pia negli antichi commenti. Chi è questa Pia che dice di essere nata a Siena e di essere morta in Maremma? Come, quando, dove, perché, da chi fu uccisa “per forza”, cioè con violenza e prima del tempo naturale? Chi è quel colui che si sa (salsi) ogni cosa e che prima, al momento del matrimonio, l’aveva inanellata con la propria gemma nuziale? A queste domande i primi commentatori del testo dantesco hanno risposto in maniera univoca per quanto riguarda l’identità di quel colui, mentre hanno dato risposte diverse oppure hanno taciuto del tutto per quanto riguarda gli altri aspetti della questione. 25 Il primo a commentare, tra il 1324 ed il 1328, l’intera Commedia dantesca, fu il bolognese Iacopo della Lana, il quale, in merito ai sette versi che Dante dedica a Pia da Siena, dice:
ni, Dante parla di anima, per Pia da Siena, una donna, egli parla di spirito; si tratta di un’inversione di certo intenzionale, attraverso cui Dante riprende e ricorda l’idea evangelica, secondo cui la parte immortale dell’uomo, detta ora anima ora spirito, a differenza della sua parte mortale, il corpo, non è una realtà sessuata; in questo senso nella Bibbia, Vangelo secondo Luca, 20, 34–36, rispondendo ai sadducei, Gesù dice: « I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della resurrezione, sono figli di Dio. » 24 Dante, Purgatorio, V, 130–136: « Deh, quando tu sarai tornato al mondo / e riposato de la lunga via, / seguitò ’l terzo spirito al secondo, / ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma: / salsi colui che ’nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma. » 25 Avvertiamo che, eccetto un solo caso che indicheremo, per la lettura di questi antichi testi ci serviamo del cd–rom I commenti danteschi dei secoli XIV, XV e XVI, a cura di Paolo Procaccioli, indicando in nota l’edizione cartacea di riferimento, a cui lo stesso cd–rom rinvia per ciascuno di essi; per Pietro di Dante, invece, l’edizione cartacea è quella citata dalla Enciclopedia Dantesca, alla voce Alighieri Pietro.
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« Qui introduce a parlare uno terzo spirito, lo quale fu una madonna Pia moglie di messer Nello da Pietra da Siena, che andò per rettore in Maremma, e lìe per alcuno fallo, che trovò in lei, sì l’uccise, e seppelo fare sì segretamente, che non si sa come morisse; e però dice: Salsi colui, cioè lo marito, il quale la sposò e con anella e con gemme ». 26 Sostanzialmente identico è il commento del notaio fiorentino Andrea Lancia, il quale conobbe personalmente Dante, restando in contatto con lui anche durante l’esilio. In effetti, nel commento che egli compose tra il 1330 ed il 1340, e che nel Seicento ricevette il titolo laudativo di Ottimo commento, Andrea Lancia dice: « Qui introduce a parlare madonna Pia Commento di Jacopo della Lana, a cura di L. Scarabelli, Milano 1864–1865. — Paganello, detto Nello, signore del castello di Pietra, nacque verso il 1250 da Inghiramo dei Pannocchieschi, vassalli dei conti palatini Aldobrandeschi. Nel 1263, quando i Pannocchieschi, che erano guelfi, fecero atto di sottomissione al Comune di Siena, allora retto dai ghibellini, vincitori contro i guelfi fiorentini nella sanguinosissima battaglia di Montaperti (4 settembre 1260), a garanzia del mantenimento dei patti promessi dai loro padri, Nello ed altri due ragazzi dei Pannocchieschi, suoi coetanei, vennero dati in ostaggio a Siena ed affidati, dice Osvaldo Malavolti, Dell’historia di Siena, Venezia, Marchetti, 1599, II, 2, p. 30, « a messser Guido di messer Orlando Malavolti col quale haueuan parentado »; più precisamente dall’atto di affidamento dei tre ragazzi, il cui testo è in Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 135–137, risulta che Nello fu preso in consegna da Giovanni di Alberto da Pernina. Nel 1279 troviamo Nello podestà di Volterra. Nel 1285 viene ingaggiato da Siena per l’assedio di Prata; nel 1286 partecipa all’assedio di Poggio Santa Cecilia; nel 1286 è comandante della Taglia Guelfa, cioè dell’alleanza tra le città guelfe toscane; nel 1288 comandava la cavalleria senese, con la quale tuttavia sembra si desse alla fuga, mentre la fanteria restava vittima dell’imboscata aretina presso la Pieve al Toppo. Verso il 1289 divenne l’amante di Margherita Aldobrandeschi, contessa palatina di Sovana, che lo nominò proprio vicario generale e da cui ebbe un figlio, ma che egli non riuscì a sposare, come invece, pare, allora avrebbe voluto. Nel 1303, dopo avere già depredata Margherita di ogni bene feudale, Bonifacio VIII impose che Nello e Margherita si unissero in matrimonio. Nel 1310 Nello fu capitano del popolo di Sassuolo e nel 1313 fu podestà di Lucca, dove amò una certa Chiarina, da cui ebbe un figlio maschio. Il 9 marzo 1321 fece un testamento, al quale aggiunse un codicillo in data 11 luglio 1322. Dopo questa data non abbiamo più notizie di lui. 26
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(un terzo spirito), moglie di messer Nello da Pietra di Siena, che andò in Maremma per Rettore, ed ivi per alcuni falli, che trovò in lei, sì la uccise; e seppelo fare sì segretamente che non si seppe. E però dice: Salsi colui ec. Cioè lo marito, il quale la sposò con anello e con gemma ». 27 Come si vede, Iacopo della Lana ed Andrea Lancia, concordi a tal punto tra loro da far pensare che l’uno abbia copiato dall’altro, dicono molte cose in merito a Pia da Siena. Dicono, anzitutto, che quel colui di cui essa parla era Nello della Pietra; dicono poi che Nello era marito di Pia; dicono ancora che egli l’uccise per punirla di una o più colpe trovate in lei, senza precisare di che colpa si trattasse; dicono infine che egli l’uccise mentre era “rettore” in Maremma. D’altro canto, riconoscono di non sapere come l’uccise, tanto segretamente, dicono, egli lo fece; e tacciono sulla data, sul luogo preciso, 28 sul nome della famiglia di Pia, segno evidente che essi ignorano questi particolari della vicenda. Ma anche il fatto che essi dicano che Nello uccise Pia mentre era “rettore” in Maremma, cioè mentre vi svolgeva una funzione di governo civile, quale quella di podestà che Nello in effetti svolse più volte, rivela che essi non conoscevano bene neppure Nello, che pure era personaggio relativamente ben noto ed importante nella Toscana degli ultimi decenni del Duecento e dei primi del Trecento. Più brevemente, ma non diversamente da Iacopo della Lana e da Andrea Lancia, si esprime, nella sua prima redazione, il commento che Pietro Alighieri, figlio secondogenito di Dante, dedicò al poema paterno tra il 1337 ed il 1340. In effetti, senza accennare né al movente né al modo né alla data né al luogo preciso dell’uccisione di Pia, di cui tace
Ottimo commento, a cura di A. Torri, Pisa 1827–1829. Dante dice che Pia da Siena fu uccisa in Maremma, ma la Maremma è grande. Anche se limitata alla sola Maremma senese, infatti, questa andava dall’attuale marina di Grosseto fino al Monte Amiata ed all’alto Lazio, cioè fino ai monti che chiudono da occidente il Lago di Bolsena e racchiudono il piccolo lago vulcanico di Mezzano. 27 28
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anche il nome di famiglia, Pietro di Dante si limita a dire: « La signora Pia fu moglie del signor Nello della Pietra, il quale l’uccise mentre era rettore in Maremma. » 29 Il primo ad affermare, quaranta e più anni dopo questi primi commentatori, che Pia da Siena era stata una Tolomei fu Benvenuto da Imola, il quale scrisse il proprio commento alla Commedia dantesca verso il 1380. In effetti, prima di passare all’esame analitico dei sette versi che Dante dedica a Pia da Siena, Benvenuto da Imola scrive: « Ed affinché la presente scrittura sia più chiara, bisogna anzitutto sapere che questa anima fu una certa nobile signora senese della stirpe dei Tolomei, la quale fu moglie di un certo nobile milite, il quale fu chiamato signor Nello dei Pannocchieschi di Pietra, il quale era potente nella Maremma di Siena. Accadde dunque che una volta, mentre avevano cenato, e questa signora se ne stava per proprio sollievo ad una finestra del palazzo, un certo donzello, per ordine di Nello, prese questa signora per i piedi e la precipitò attraverso la finestra, sicché essa morì immediatamente, non so per quale sospetto. E da questa morte crudele nacque un grande odio tra il detto signor Nello ed i Tolomei parenti della stessa signora. » 30
Il testo latino del Comentarium di Pietro Alighieri, a cura di A. Vannucci, Firenze 1846, dice: « Domina Pia uxor fuit domini Nelli de Petra, qui dum rector esset in Marittima eam occidit. » — Anche se la sintassi del latino medievale non sempre coincide con quella del latino dell’età classica, l’uso del dum in unione con il congiuntivo esset, proprio dell’oratio obliqua, cioè del discorso indiretto di cui si serve colui che si limita a riportare un’opinione altrui di cui non può o non vuole garantire la veridicità, potrebbe far pensare che Pietro di Dante nutrisse qualche dubbio in merito all’occasione in cui sarebbe avvenuto il delitto; in questo la traduzione sarebbe « mentre sarebbe stato rettore in Maremma ». 30 Il testo latino del Comentum di Benvenuto da Imola, a cura di G. F. Licata, Firenze 1887, dice: « Et ut presens litera sit clarior, est primum sciendum quod anima ista fuit quaedam nobilis domina senensis ex stirpe Ptolomaeorum, quae fuit uxor cuiusdam nobilis militis, qui vocatus est dominus Nellus de Panochischis de Petra, qui erat potens in marittima Senarum. Accidit ergo, quod dum coenassent, et ista domina staret ad 29
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Oltre a ripetere, precisando i commenti più antichi, che il colui di cui parla Pia era Nello della Pietra, marito di lei, membro della famiglia dei Pannocchieschi, signore potente, non “rettore”, nella Maremma senese, Benvenuto ci dice che Pia fu della famiglia senese dei Tolomei e che fu uccisa per defenestrazione su ordine di Nello; ma tace sulla data e sul luogo preciso dell’uxoricidio. Una novità assoluta, invece, è la notizia che Pia fosse della famiglia dei Tolomei; notizia che, tuttavia, egli ci fornisce in forma piuttosto generica, 31 in quanto omette di dire il nome del padre di lei, « cosa che avrebbe potuto e non avrebbe mancato di fare, se egli avesse trovato la notizia in uno spoglio dei documenti del tempo, dove tale indicazione non manca mai. » 32 Verso la fine del Trecento un commento anonimo, che proprio per questo motivo viene citato come Anonimo fiorentino, completa il commento di Benvenuto da Imola indicando il movente che avrebbe spinto Nello ad ordinare la defenestrazione di Pia: la gelosia e la prospettiva di sposare la contessa Margherita Aldobrandeschi di Sovana. 33 Infatti, a proposito
fenestram palatii in solatiis suis, quidam domicellus de mandato Nelli cepit istam dominam per pedes et praecipitavit eam per fenestram, quae continuo morta est, nescio qua suspicione. Ex cuius morte crudeli natum est magnum odium inter dictum dominum Nellum, et Ptolomaeos consortes ipsius dominae. » — Qualora si volesse vedere nell’uso del dum in unione con i due congiuntivi coenassent e staret il segno tipico della oratio obliqua o discorso indiretto, nel senso che abbiamo spiegato nella nota precedente relativa al commento di Pietro di Dante, la traduzione sarebbe « mentre avrebbero cenato e questa signora se ne sarebbe stata ad una finestra del palazzo per proprio sollievo ». 31 Ex stirpe Ptolomaeorum: della stirpe dei Tolomei. 32 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 17. 33 Margherita Aldobrandeschi nacque, verso il 1254, da Ildobrandino Rosso, conte palatino di Sovana, esponente del partito guelfo e fiero avversario del suo omonimo cugino Ildobrandino, conte palatino di Santa Fiora, esponente del partito ghibellino. Nel 1270, Margherita sposa il conte Guido di Monfort, vicario generale di Carlo d’Angiò in Toscana e vincitore della battaglia di Colle di Val d’Elsa (8 giugno 1269), che in Siena provoca la caduta dei ghibellini e l’ascesa al potere dei guelfi. Nel 1284, morto il padre, essa rimane unica signora del feudo di Sovana. Nel
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di Pia da Siena, l’Anonimo fiorentino, tacendo sulla data e sul luogo preciso, dice: « Questa fu una gentil donna della famiglia de’ Tolomei da Siena, la quale ebbe nome madonna Pia: fu maritata a messer Nello de Panuteschi da Pietra di Maremma. Ora questa Pia fu bella giovane et leggiadra tanto, che messer Nello ne prese gelosia; et dolutosene co’ parenti suoi, costei non mutando modo, et a messer Nello crescendo la gelosia, pensò celatamente di farla morire, et così fe’. Dicesi che prima avea tratto patto d’avere per moglie la donna che
1287, durante la Guerra del Vespro (1282–1302), Guido di Monfort viene fatto prigioniero dagli aragonesi che lo rinchiudono nelle carceri di Messina e che in odio agli angioini di Napoli, di cui lo sapevano grande campione, ve lo tennero fino alla morte, che sembra avvenuta negli ultimi mesi del 1291. Verso il 1289, mentre il marito era prigioniero in Messina, Margherita entra in contatto con Nello della Pietra, di cui diventa l’amante, nominandolo proprio vicario generale, ma rifiutando tuttavia di sposarlo, e da cui ebbe un figlio, Binduccio, allevato segretamente in Massa Marittima e morto nel 1300. Nel 1291, priva del marito e stanca delle probabili arroganze di Nello, Margherita ottiene da papa Niccolò IV che le venga assegnato come consigliere e protettore il cardinale Benedetto Caetani, il futuro papa Bonifacio VIII (1294). Nel 1292, pochi mesi dopo la morte del primo marito, sposa Orso degli Orsini, il quale muore nel 1295. Nel 1296, per interessamento diretto di papa Bonifacio VIII, sempre in cerca di feudi con cui arricchire i propri parenti, Margherita sposa un pronipote del papa, Loffredo Caetani, giovane scapestrato di circa venti anni più giovane di lei, il quale dopo pochi mesi abbandona il tetto coniugale, pretendendo dal prozio papa la dichiarazione di nullità del matrimonio che lo stesso prozio aveva voluto. Nel 1298, lo stesso Loffredo denunciò al prozio papa gli amori che dieci anni prima Margherita aveva avuto con Nello, accusandola di essersi sposata con Nello mentre era ancora vivo Guido di Monfort, suo primo marito. Bene interpretando i desideri del papa, di cui era amico e che proprio per questo, cioè perché sicuro del risultato, contro i canoni ecclesiastici che limitavano il potere dei vescovi alla loro propria diocesi, lo aveva incaricato di indagare discretamente sui fatti, autorizzandolo a dichiarare nullo il matrimonio del pronipote e ad autorizzarlo a contrarre nuove nozze, qualora il presunto matrimonio fosse stato accertato, il vescovo di Sabina, Gherardo Bianchi, sentenziò che il matrimonio di Margherita e Nello era avvenuto e che pertanto Margherita si era macchiata di bigamia. Per questa ragione, il Bianchi dichiarò nullo il matrimonio da lei contratto con Loffredo Caetani ed autorizzò il pronipote del papa a contrarre nuove nozze, cosa
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fu del conte Umberto di Santa Fiora; 34 et questa fu ancora la cagione d’affrettare la morte a costei. Pensò l’Auttore ch’ella morisse in questo modo, che, essendo ella alle finestre d’uno suo palagio sopra a una valle in Maremma, messer Nello mandò uno suo fante che la prese pe’ piedi didietro, et cacciolla a terra dalle finestre in quella valle profondissima, che mai di lei non si seppe novelle. » 35 Una chiosa, cioè una nota esplicativa, anonima del Codice Laurenziano XL 7, risalente anch’esso al tardo Trecento, continuando a tacere sulla data e sul luogo preciso, completa invece Benvenuto da Imola, da un lato indicando il nome del servo che avrebbe ucciso Pia da Siena e dall’altro lato precisando che questi era colui che aveva dato l’anello di nozze a Pia in qualità di procuratore di Nello. Questa chiosa anonima, infatti, dice: « Sappi, lettore, che questa Pia si fue una fanciulla molto bella nata d’i Tolomei di Siena, la quale fue maritata a uno misser Nello dalla Pietra de’ Panochesi, il che questi fece subito, sposando Giovanna dell’Aquila, giovane e ricca ereditiera del feudo di Fondi, dalla quale si sarebbe tuttavia separato alcuni anni dopo, come vedremo più avanti. Per difendersi dal papa che, per privarla dei feudi che suo padre deteneva dalla chiesa, le mosse guerra, sollecitando a fare altrettanto i comuni di Siena e di Orvieto, Margherita si allea e forse sposa il biscugino Guido di Santa Fiora. Questo fatto offre il pretesto a papa Bonifacio di accusarla anche di incesto e di privarla così, con bolla del 9 marzo 1303, non solo di quanto essa deteneva in feudo dalla chiesa, ma anche di tutti i feudi che i suoi antenati avevano ricevuto e tenuto dall’impero, trasferendo ogni avere di lei ad un altro suo pronipote, Benedetto Caetani. Non contento di questi soprusi, pare che Bonifacio abbia allora anche imposto che Margherita sposasse Nello; ma la morte del vecchio papa ottantaseienne (11 ottobre 1303), liberando Margherita dal proprio persecutore, rese vano questo ulteriore abuso di potere ecclesiastico, in quanto i due si separarono subito, sempre che si fossero sposati davvero. Pare che allora, rimasta priva di tutti i propri feudi, la contessa Margherita sia vissuta per una decina d’anni ancora tra Roma, in casa Orsini, presso le figlie, ed Orvieto, di cui si era fatta cittadina al tempo in cui era vivo Orso Orsini, suo secondo marito. 34 Questa donna è Margherita Aldobrandeschi, contessa palatina di Sovana, la quale, come abbiamo visto, pare avesse come quarto marito il conte Guido, non Umberto, di Santa Fiora. 35 Anonimo fiorentino, a cura di Pietro Fanfani, Bologna 1866–1874.
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quale fue uno bello e savio cavaliere e in opere d’arme fece grandissime ispese. 36 Fue vile uomo e poco leale, e dicesi che questa sua donna egli la fece morire in Maremma, e uccisela uno ch’ebbe nome il Magliata da Piombino, famiglio del detto messer Nello, il quale Magliata quando la detta donna si sposòe a messer Nello, egli sì come suo procuratore le diede l’anello per lui; e però dice salsi colui che inanellata pria disposata m’avea con la sua gemma. 37 E dice che ’l predetto Magliata fue a farla morire, e la cagione, il perché il detto messer Nello la fece morire, si fue ched egli amava la contessa Margherita, moglie ch’era istata del conte di Monforte. Andò tanto la cosa innanzi che, per torre la detta contessa per moglie, egli fece morire la detta madonna Pia sua donna, poi tolse la contessa. » 38 Nel 1481, cioè un secolo dopo il commento di Benvenuto da Imola, l’umanista fiorentino Cristoforo Landino diede alle stampe un proprio commento alla Commedia; un commento che rappresenta il maggior contributo del Rinascimento agli
grandissime ispese: grandissime imprese. Già nel testo adottato dalla Società Dantesca Italiana, come nell’attuale testo critico stabilito da Giorgio Petrocchi, in Dante, Purgatorio, V, 130–136, si legge: « Deh, quando tu sarai tornato al mondo / e riposato de la lunga via, / seguitò il terzo spirito al secondo, / ricorditi di me che son la Pia; / Siena mi fé, disfecemi Maremma; / salsi colui che ’nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma. » Ma si deve sapere che, in altri codici antichi, come in questa chiosa laurenziana, il verso 136, ultimo del canto, non inizia con disposando, ma con disposata; in alcuni altri si trova disposato. Sulla necessità di adottare la variante disposata — per cui il testo diventa « salsi colui che ’nnanellata, pria / disposata, m’avea con la sua gemma », da intendersi « se lo sa colui che con la sua gemma aveva inanellata me, (che ero stata) già sposata (pria disposata) » — insisteranno coloro che, nella seconda metà dell’Ottocento, sosterranno che Pia da Siena, detta dei Tolomei da Benvenuto da Imola in poi, andasse identificata con Pia dei Guastelloni, vedova di Baldo dei Tolomei, che si pretendeva rimaritata a Nello della Pietra, identificato con colui di cui parla Pia da Siena in Dante. 38 Il testo da noi trascritto rappresenta soltanto la prima metà della chiosa anonima, citata per intero dalla Enciclopedia Dantesca, alla voce Pia, e da Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 18–19. 36 37
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studi danteschi, ma che in merito a Pia da Siena, continuando a tacere sulla data e sul luogo preciso della sua uccisione, si limita a riferire sia la versione breve di Iacopo della Lana e di Andrea Lancia sia quella ampia di Benvenuto da Imola e dei suoi ripetitori e completatori. A proposito di Pia da Siena, infatti, il Landino scrive: « Questa fu sanese et mogle di messer Nello dalla Pietra da Siena. El quale essendo rettore in Maremma, la trovò secondo che si crede in fallo, et uccisela sì secretamente che non si seppe allora. Siena mi fè, perché a Siena nacqui, et disfemmi Maremma: perché quivi fui uccisa. Et perché il modo fu secreto dice, che colui el sa, el quale prima disposandomi m’havea inanellata, i. era mio marito. 39 L’Imolese scrive, che questa Pia fu de’ Ptolomei da Siena, famiglia nobile; et essendo messer Nello molto potente nella Maremma, spesso l’habitava, et un giorno essendo la donna alla finestra, comandò a un suo sergente che la gittassi giù. Né fu molto nota la cagione, che a questo lo ’nduxe. » 40 Come si vede, il commento di Cristoforo Landino rappresenta la confluenza, ma non la sintesi, di due diverse tradizioni interpretative dei sette mirabili versi che Dante dedica a Pia da Siena: due tradizioni discordanti tra loro, di cui abbiamo addotto alcuni testimoni e di cui altri se ne potrebbero addurre. 41 Testimoni che, ricopiandosi l’uno con l’altro, finiscono per essere tutti concordi nel dire che la Pia dantesca fu uccisa o fatta uccidere da Nello della Pietra e che Nello della Pietra era il marito di lei, mentre sono discordi o tacciono sul movente, sull’occasione, sul modo dell’uxoricidio e sul nome di famiglia di questa Pia da Siena, che solo i più tardi di essi, seguendo Benvenuto da Imola, dicono genericamente, senza precisarne il nome del padre, della stirpe senese dei Tolomei. Nessuno invece ci dice né la data né il luogo preciso in cui avvenne quel fatto di sangue. i. era mio marito: ciò (i. sta per il pronome latino id) era mio marito. Comento di Cristoforo Landino, Firenze, Nicolò di Lorenzo della Magna, 1481. 41 Altri commenti su questi versi sono in Enciclopedia Dantesca, voce Pia; in Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 13–20; nel cd–rom I commenti danteschi dei secoli XIV, XV e XVI, a cura di P. Procaccioli. 39 40
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3. La Pia negli storici senesi. La diversità di opinioni che si trova tra i primi commentatori dei sette versi che Dante dedica a Pia da Siena, si ritrova anche tra gli storici senesi che fanno menzione di lei. Il primo storico in cui si trovi notizia di Pia da Siena è il prete Sigismondo Tizio, autore nei primissimi anni del Cinquecento di una voluminosa storia di Siena. Ma la menzione del Tizio lascia molto perplessi; sia perché pone la morte di Pia all’anno 1181, cioè una settantina d’anni prima della nascita di Nello della Pietra; sia perché egli si meraviglia che Pia possa essere stata attribuita ai Tolomei, perché, scrive, in tanti anni vissuti a Siena, egli ha imparato che le donne Tolomei sono sempre state tutte onestissime e castissime. 42 Il secondo storico in cui si trovi ricordo dell’uccisione di Pia è Giugurta Tommasi, il quale, negli ultimi anni del Cinquecento, scrive una storia di Siena in cui si legge un inciso dove l’uccisione di Pia, che egli dice dei Tolomei, viene posta in relazione con gli amori di Nello della Pietra con la contessa Margherita Aldobrandeschi. In effetti, all’anno 1289, dopo
Nel testo latino, presso la Biblioteca Comunale di Siena, ms. B–III–6, I, 567, il Tizio dice: « Imolensis vero refert causam necis mulieris Pie ignotam fuisse; nec defuere peritissimi senes in urbe senensi qui nobis referrent hanc Piam ex nobilibus de Sticciano ortum habuisse; nosque, in urbe senensi diu commorati, honestissimas Tolomeas mulieres pudicissimasque semper fuisse cognovimus ». — I nobili di Sticciano furono i Cappuciani, uno dei quali, Bindino di Sticciano, sposò Fresca, figlia primogenita di Nello della Pietra; da questo matrimonio nacquero cinque figli, cioè Nello, Nerio detto Bustercio, Barnaba, Francesca e Pia, che Nello della Pietra ricorda nel proprio testamento per diseredarli tutti, perché i primi due avevano aiutato il padre Bindino a sottrargli il castello di Montemassi. Quando i vecchi senesi dicevano al Tizio che Pia era venuta dai nobili di Sticciano non parlavano della Pia moglie di Nello, ma della Pia figlia di Bindino di Sticciano e di Fresca figlia di Nello, o comunque facevano confusione tra le due donne: tra Pia, la nipote di Nello, e Pia, la moglie di lui. — Su questa confusione tra nipote e nonna, Simonetti, La Pia …Tolomei, p. 66–67, fonda la sua “seconda ipotesi” di soluzione della questione relativa a Pia da Siena: l’ipotesi cioè di una Pia “maremmana”, in quanto originaria di Sticciano; ipotesi erronea, perché appunto confonde la Pia nipote di Nello, con la Pia, moglie di lui. 42
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aver narrato come Margherita, vinta dalla noia per la lunga prigionia del marito, da due anni detenuto nelle prigioni di Messina, 43 ed in cerca di un forte protettore dei propri feudi e della propria libertà, accesasi fortemente per Nello della Pietra, mettesse in atto lacrime e lusinghe per conquistarlo, il Tommasi scrive che Nello, « né considerando o l’infamia che ne veniva a lei o i pericoli ne i quali esso si avviluppava, uccisa Pia Tolomei sua donna senz’altra cagione hauerne, si diede tutto in braccio all’amore di questa signora ». 44 Il terzo storico senese che ricordi la vicenda di Pia da Siena è Girolamo Gigli, il quale, nel 1723, sostiene che Pia da Siena sarebbe stata una Pia nata Guastelloni, sposata in prime nozze a Baldo dei Tolomei e poi, in seconde nozze, a Nello della Pietra. In effetti, nel contesto di un più ampio discorso dedicato alla famiglia dei Pannocchieschi, giunto a Si tratta del primo marito di Margherita, il conte Guido di Monfort, prima vicario generale del re Carlo I d’Angiò in Toscana e vincitore della battaglia di Colle di Val d’Elsa (1269), poi fatto prigioniero dagli Aragonesi, nel 1287, in una battaglia navale durante le Guerra del Vespro, ed allora languente nelle prigioni siciliane, dove sarebbe rimasto rinchiuso fino alla morte, che sembra avvenuta negli ultimi mesi del 1291 o nei primi del 1292. 44 Biblioteca Comunale di Siena, ms. A–X–73, 205v; le parole in corsivo costituiscono un breve inciso che il Tommasi annotò in margine alla pagina con l’indicazione precisa del luogo del testo in cui inserirlo. Ma diciotto anni dopo la morte del Tommasi, nell’edizione a stampa di Giugurta Tommasi, Dell’historia di Siena, Venezia, Pulciani, 1625, il breve inciso che ricorda l’uccisione di Pia non venne inserito all’anno 1289, come invece aveva inteso fare il Tommasi, ma venne spostato al 1295, anno in cui il Tommasi torna a parlare degli amori di Nello e di Margherita, e dove ora, nel testo a stampa, si legge: « Diede anchora quest’anno nuova materia di gravi ragionamenti l’insolenza di Nello della Pietra, il quale hauendo, senza altra cagione hauerne, uccisa Pia Tolommei sua donna, s’era proposto di farsi moglie la Contessa Margarita, la seconda volta rimasta vedova; ma caduto da quella speranza, e gittatosi alla disperazione, tentò di vituperarla. » Poiché la storia del Tommasi fu ovviamente divulgata non nella sua versione manoscritta, ma nella sua versione a stampa, essa venne poi sempre invocata per fissare al 1295 la data dell’uccisione di Pia da Siena, che il Tommasi invece, come abbiamo visto, aveva ricordato ed inserito all’anno 1289. 43
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parlare degli amori di Nello della Pietra con la contessa Margherita Aldobrandeschi, il Gigli scrive: « Non sono lontano dal credere, che ’l Conte Nello facesse morire Pia sua Donna, o perché egli n’avesse giusto motivo, o forse per prendere questa Contessa sì ricca, e sì bella. » 45 Quindi, dopo aver riportato gli ultimi quattro dei sette versi che Dante dedica a Pia da Siena ed il commento di Benvenuto da Imola ripreso dal Landino, il Gigli soggiunge: « Ma per la verità Pia non era de’ Tolomei, ma fu tale creduta, perché fu maritata prima a Messer Baldo d’Aldobrandino Tolomei, del quale era vedova nel 1290. Poiché certamente ella era figliuola di Messer Buonconte Guastelloni, come si vede a gli strumenti di casa Tolomei. » 46
Poiché altri, come fa anche il Gigli, indicano Nello della Pietra con il titolo di conte, il Lisini, La contessa palatina Margherita Aldobrandeschi, p. 49, nota 1, scrive: « Si avverte che Nello e gli altri personaggi del suo ramo Pannocchieschi mai si qualificarono come conti, perché come molti altri feudatari della Maremma non lo erano; e coloro che oggi gli attribuiscono quel titolo sono in errore. Soltanto i discendenti del ramo di Ranieri di Uggeri da Elci sono conti, e con tale titolo sono riconosciuti anche oggi. La recognizione del feudo pare che venisse fatta dai due rami della famiglia Aldobrandeschi. L’ultima recognizione del castello di Pietra a Nello Pannocchieschi e a Iacomo detto Globolo, figli del fu Inghiramo, è del 7 ottobre 1280. (A. S. S., Pecci, Spoglio delle pergamene dell’arcivescovado a c. 102). » 46 Gigli, Diario senese, I, 30 giugno, p. 333–334; più avanti, in Diario senese, II, 25 luglio, p. 44, nel contesto di un più ampio discorso sui Tolomei, mentre loda le donne di quella famiglia, il Gigli scrive: « Pia Tolommei, mentovata nel fine del quinto del Purgatorio di Dante, come Moglie di Nello Pannocchieschi Conte di Pietra, vuol che portiamo qui la sua difesa contro coloro, che la tacciarono di poco onesta, e che perciò potesse dare occasione al marito di privarla di vita. Imperciocché se vogliasi por mente a i sensi del Poeta pare, che della sua morte non se ne sapesse la cagione. Ricordati di me, che son la Pia: / Siena mi fé, disfecemi maremma: / salsi colui che inanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma. Che se donna di poco buon nome ella fosse stata, Dante nell’Inferno l’avrebbe riposta. Ma il Tommasi può sgombrare dalla mente di chi si sia ogni dubbio, mentre nel libro 7. della 2. parte dell’Istoria di Siena, foglio 138, ci assicura, che il Conte Nello commettesse un tale eccesso, tentando di vituperare la Pia per passare alle seconde nozze colla Contessa Mar45
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4. La Pia negli scrittori. Mentre i commentatori cercano di spiegare il testo di Dante e gli storici cercano di ricostruire il contesto in cui quel testo è inserito, gli scrittori che narrano la vicenda di Pia da Siena da un lato fanno propria la spiegazione dei primi commentatori, secondo cui Pia era stata vittima della gelosia del marito, e dall’altro, seguendo l’esempio degli storici, cercano di ricostruire un contesto verisimile che evidenzi la causa di quanto è avvenuto. In questo senso, tutti i testi letterari dedicati a Pia da Siena sono dei racconti eziologici, cioè dei racconti che vogliono mostrare la causa di quella oscura tragedia. Il più antico di questi scrittori, per cinque secoli unico colpevolista convinto, 47 è il frate domenicano Matteo Bandello, autore prima del 1524 di una novella, certamente ispirata al Boccaccio e forse anche ad Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II. 48 In questa novella, Pia da Siena, che il Bangarita di S. Fiora. » — In verità, il Tommasi scrive che Nello, perduta ogni speranza di riuscire a sposarla, tentò di vituperare ovviamente non la moglie Pia, ma l’ex–amante Margherita Aldobrandeschi, rimasta vedova, nel 1295, del suo secondo marito, Orso degli Orsini, perché lei rifiutava di sposarlo. Precisiamo anche che Margherita era contessa di Sovana, non di Santa Fiora, titolo portato invece dagli Aldobrandeschi suoi cugini. 47 Recentemente, invece, in un suo lavoro teatrale intitolato Pia de’ Tolomei, che egli ha avuto la cortesia di trasmettermi sia manoscritto sia in una videocassetta registrata dal vivo al teatro Olimpico di Roma, anche Michele Murgiano si dichiara decisamente colpevolista. Secondo lui, infatti, la Pia dantesca sarebbe colpevole di avere ucciso un primo marito, di avere più volte abortito i frutti dei suoi numerosi amori illegittimi, tra i quali egli pone una prolungata relazione incestuosa con il fratello Lamberto, l’unico uomo, egli dice, che essa avesse amato e che l’avesse amata in maniera soddisfacente. 48 La novella di Boccaccio, Decameron, II, 10, cui egli si ispira per l’insoddisfazione sessuale della giovane moglie e per le vigilie e le astinenze inventate dall’anziano giudice di Chinzica, viene citata dallo stesso Bandello; la presenza della Storia di due amanti, che Enea Silvio Piccolomini scrisse nel 1444, ambientandola nella Siena dei propri tempi, sembra provata invece dal fatto che in entrambe le novelle il giovane amante, per introdursi in casa della giovane amata, si traveste da facchino trasportatore di grano, riuscendo in tal modo ad eludere la sorveglianza del geloso marito di lei.
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dello dice dei Tolomei, è una giovane diciottenne sposata a forza al più che cinquantenne Nello della Pietra. Questa grande differenza di età rende Pia sessualmente così insoddisfatta da spingerla, nonostante il rischio e la paura di essere scoperta, a cercarsi in Siena un amante più giovane, capace di farle con vigore e frequenza quanto il marito le faceva con labore e latenza. Scoperta la relazione amorosa della moglie, il geloso marito la riporta in Maremma, dove egli era signore e dove la consegna ai propri sergenti che la strangolano senza pietà, mentre lei chiede devotamente perdono a Dio. Tre secoli dopo questa novella, l’antica interpretazione dei versi danteschi, secondo cui Pia da Siena sarebbe morta vittima della gelosia del marito, ritorna nel poemetto in ottava rima che Bartolomeo Sestini, ispiratore di tutti gli innocentisti moderni, le dedica nel 1822. Vi ritorna, infatti, con una variante molto importante: Pia da Siena muore vittima della calunnia di un innamorato respinto, Ghino, il quale si vendica del rifiuto di lei, facendo credere al marito Nello, di cui egli è amico, che Pia lo tradisce; Nello allora, per vendicarsi del creduto tradimento di lei, rinchiude Pia in un suo castello maremmano, situato sui bordi di un piccolo lago, dove lei muore di febbri malariche. Per questa via, pur restando vittima della gelosia del marito, Pia da Siena diventa quella martire della fedeltà coniugale, la cui triste vicenda di amore, di calunnia, di morte, ispirando scrittori, musicisti, pittori, scultori, commuove l’Ottocento romantico ed attraversa il Novecento popolare italiano. 5. La Pia nei documenti. Mentre i testi letterari ottocenteschi diffondono, fino a farla generalmente apparire come verità storica, la versione sestiniana, secondo cui Pia da Siena, che i più ormai dicono dei Tolomei, sarebbe morta vittima innocente della gelosia del marito, ingannato da un vendicativo innamorato respinto, nuove ricerche condotte negli archivi senesi portano alla scoperta di alcuni documenti che preparano la soluzione della questione della Pia dantesca. Nel 1859, primo frutto di queste nuove ricerche d’archivio, Gaetano Milanesi pubblica sei documenti importanti, pre-
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sentandoli tuttavia con un titolo quanto mai sorprendente, 49 visto che proprio questi documenti indeboliscono la tesi, da lui enunciata nel titolo ma ripresa dal Gigli, 50 secondo cui Pia da Siena, che la tradizione diceva dei Tolomei e moglie di Nello dei Pannocchieschi, sarebbe stata una Pia dei Guastelloni che, rimasta vedova di Baldo dei Tolomei, aveva contratto seconde nozze con Nello dei Pannocchieschi. Abbiamo detto che il titolo è quanto mai sorprendente, perché questa tesi delle seconde nozze di Pia viene esplicitamente smentita proprio dal primo di questi documenti, fatto in Siena il 20 settembre 1290; in questo documento, infatti, si legge che Pia figlia di Buonincontro dei Guastelloni, vedova di Baldo di Ildibrandino dei Tolomei, per ottenere dal giudice la tutela e la gestione dei beni dei suoi due figli, Andrea e Balduccia, avuti dal defunto marito ed ancora bambini, rinunciò a contrarre seconde nozze. 51 Il secondo dei documenti pubblicati dal Milanesi, datato 11 ottobre 1290, contiene l’inventario preventivo dei beni dei figli richiesto dal giudice a Pia dei Guastelloni al momento di affidargliene la tutela e la gestione. Il terzo, privo della data e delle consuete formule di autenticazione notarile, contiene un elenco delle entrate e delle spese della signora Pia, vedova
Gaetano Milanesi, Documenti intorno alla Pia de’ Tolomei ed a Nello de’ Pannocchieschi suo marito, « Giornale storico degli Archivi Toscani », 1859, III, p. 17–45. 50 Gigli, Diario senese, I, p. 333–334. 51 Nel documento, parlando in prima persona, il giudice racconta che, presentandosi davanti a lui, « domina Pia filia domini Buonincontri de Guastellonis, relicta domini Baldi Ildibrandini de Talomeis, renunptiavit secundis nuptiis, Velleiano senatusconsulto, privilegio mulierum, et omni iuri et legum auxilio; et coram nobis proposuit se velle subire tutelam Andree et Balduccie filiorum suorum subsceptorum ex dicto viro suo; ac etiam petiit, quod ex nostro officio sibi concederemus administrandi licentiam. Unde nos adnuentes petitioni ipsius, ipsam dominam Piam dictorum Andree et Balducce filiorum suorum tutelam subire permittimus, et similiter administrandi licentiam: facto prius inventario de bonis eorundem pupillorum [… e con l’obbligo di] reddere rationem sue administrationis adnuatim, durante ipsius offitio. » 49
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di Baldo di Ildibrandino dei Tolomei, che si dice tutrice di Andrea e Balduccia, orfani del predetto Baldo. Il quarto contiene il rendiconto delle entrate e delle uscite dal 15 novembre 1293 fino al 5 novembre 1294, giorno in cui esso viene datato e presentato alla commissione di sorveglianza. 52 Il quinto dei documenti pubblicati dal Milanesi si dice fatto, il 9 marzo 1321, nel castello di Gavorrano e contiene il testamento del signor Nello del fu Inghiramo di Pietra dei Pannocchieschi. Il quale, sano di mente benché infermo nel corpo, timoroso del giudizio di Dio e non volendo morire senza testamento, dispone anzitutto che, qualora egli venga a morire senza aver revocato il presente testamento, il suo corpo sia sepolto nella chiesa dei Francescani di Siena, ai quali egli lascia mille libre di denari senesi per la costruzione di una cappella in onore di San Francesco e di un onorevole sepolcro per lui. Parimenti, a salvezza e rimedio della propria anima, come risarcimento delle cose maltolte, illegalmente possedute e sottratte, lascia mille fiorini d’oro, che i suoi esecutori testamentari, tra i quali egli pone la figlia Fresca, 53 distribuiranno In merito a questi rendiconti di Pia dei Guastelloni, vedova dei Tolomei, Spagnotti, La Pia de’ Tolomei, p. 30–31, opportunamente osserva: « Ma conviene osservare come il primo rendiconto, più breve del seguente, non porti data alcuna né del periodo di tempo a cui si riferisce né del giorno in cui fu redatto, e gli anni 1291–1292 che porta in capo nell’edizione dell’Archivio storico sono stati assegnati dal Milanesi; non ha quindi, a mio parere, quel documento l’importanza del secondo, e doveva certamente essere stato piuttosto un pro–memoria della casa Tolomei che un vero atto autentico, presentato a prova della gestione dalla Pia; il secondo, invece, molto più preciso fin dal principio, si chiude con tutte le formalità del tempo e dimostra di essere stato scritto per essere presentato davanti alla commissione di sorveglianza. » 53 Per meglio sottolineare questo punto, di cui, scorrettamente, tacque Bartolomeo Aquarone, il quale, come vedremo subito, amò invece fondarsi su una, da lui asserita, discriminazione testamentaria di Nello nei confronti della figlia Fresca, come prova che Fresca era figlia di Pia da Siena, di cui Nello sarebbe stato l’uccisore, riportiamo il passo latino del testamento di Nello; eccolo: « Ad predicta vero omnia exequenda, ut superius dictum est, [Nellus] reliquit et fecit suos fideicommissarios, religio52
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a chiese, vescovi, monasteri, pievi, canoniche, frati, persone private, secondo le quantità e le intenzioni da lui stesso indicate nel testamento caso per caso; in particolare, come lascito di sua moglie Nera, da quei mille fiorini d’oro essi pagheranno 25 libre alla signora Clara, sua cameriera, e 15 libre alla signora Falia, figlia del signor Caffarello di Gerfalco. Parimenti dispone che, qualora il figlio della signora Chiarina di Lucca volesse venire dalle parti delle sue terre e riconoscersi come suo figlio, i suoi eredi siano tenuti a dargli nutrimento e vestiti, almeno un buon cavallo ed armi, ed un buon podere che gli consenta di vivere onorevolmente con armi e cavallo. 54 Parimenti lascia alla signora Bartala, sua moglie legittima e figlia del fu Baldo del signor Cante della Tosa di Firenze, 55 cinquecento fiorini d’oro come sua dote, la nomina tutrice della figlia Bianca, ancora bambina, e degli sum virum dominum hospitalis Sancte Marie de Senis presentem, et qui pro tempore fuerit, dominam Frescam eius filiam, uxorem Bindini de Sticciano, et dominum sive rectorem hospitalis Misericordie de Senis, qui nunc est, vel pro tempore fuerit, et Baschieram dominam Bindi de la Tosa de Florentia, et dominum Nerium domini Ubertini de Gaville. » 54 Nello della Pietra era stato podestà di Lucca nel 1313: probabilmente fu in questa occasione che egli conobbe ed amò la signora Chiarina, dalla quale era nato questo suo secondo figlio illegittimo; il primo era stato, infatti, Binduccio, nato dai suoi amori con la contessa Margherita verso il 1290 e morto, cadendo in un pozzo, nel 1300, come prova la lapide posta sulla sua tomba nella chiesa dei Francescani in Massa Marittima. — In merito a questa disposizione testamentaria di Nello della Pietra per questo suo secondo figliolo illegittimo, Aquarone, Dante in Siena, p. 83, manifestando soltanto una parte dell’antipatia, clericale e bacchettona, che egli nutre nei confronti di Nello, commenta: « Stupendo quel si voluerit confiteri suum filium esse! [Se avrà voluto riconoscere di essere suo figlio.] E davvero che tale frase rivela forse il massimo pervertimento in ordine a idee morali, da padre a figlio e da figlio a padre, come pure dal padre alla madre fra loro. » 55 Oltre al nome del padre, Baldo di Cante della Tosa da Firenze, conosciamo anche il nome della madre di Bartala, cioè Baschiera, che, come abbiamo visto, viene ricordata tra gli esecutori delle volontà testamentarie di Nello. Questo vuol dire che Baschiera doveva essere alquanto più giovane del settantenne Nello, mentre Bartala, figlia di Baschiera e moglie di Nello, doveva essere molto più giovane di entrambi.
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altri figli e figlie che dovessero avere, e le consente di continuare a vivere onorevolmente sui propri beni per tutto il tempo che essa vorrà rimanere vedova. Parimenti assegna, come dote, mille fiorini d’oro alla figlia Fresca, moglie di Bindino di Sticciano, mille fiorini d’oro alla figlia Francesca, moglie di Manuello conte d’Elci, mille fiorini d’oro alla figlia Bianca, ancora bambina. 56 Per tutti gli altri suoi beni mobili ed immobili, esclusi alcuni altri suoi lasciti, di cui omettiamo l’elenco, 57 per altre opere di beneficenza, come la costruzione di un ospedale con almeno quattro letti, l’equipaggiamento completo di un buon cavaliere nel caso venisse bandita una nuova crociata, il risarcimento di chiunque entro due anni dalla propria morte avesse dimostrato di avere subito torti da lui e di non esserne stato ancora risarcito, Nello nomina erede il figlio o i figli maschi che gli dovessero nascere da Bartala, sua attuale moglie legittima. Se invece non dovesse avere figli maschi legittimi, allora egli lascia come eredi, ciascuna per un terzo di tutti i suoi beni, la figlia Francesca e la figlia Bianca, mentre la figlia Fresca avrà soltanto l’usufrutto del rimanente terzo, il quale, alla morte di lei, tornerà in parti uguali alle sorelle Francesca e Bianca; ma se Bindino di Sticciano, mari-
Da un documento da noi consultato presso l’Archivio di Stato di Siena, ms. A 58, Raccolta di denunzie di contratti di matrimoni, volume VI (T — Z), c. 89v, veniamo a sapere che, nel 1343, questa Bianca di messer Nello della Pietra Pannocchieschi sposò Granello di Vanni di messer Granello dei Tolomei; questo matrimonio da un lato rende, se ancora ce ne fosse bisogno, altamente inverosimile, per non dire affatto incredibile, che Nello della Pietra avesse prima sposato e poi ucciso una Pia dei Tolomei, perché in questo caso la figlia dell’uxoricida avrebbe sposato un altro membro della stessa, potente, famiglia da cui era uscita l’uccisa, e dall’altro lato spiega il ritrovamento dello stemma dei Tolomei nel castello di Pietra, in cui alcuni amici di Gavorrano vedrebbero la prova del fatto che la moglie di Nello della Pietra sarebbe stata una Tolomei: questo stemma vi giunse, infatti, non attraverso Pia moglie di Nello, bensì attraverso Granello marito di Bianca figlia di Nello. 57 Una traduzione completa di questo testamento di Nello della Pietra, si può leggere in Simonetti, La Pia …Tolomei, p. 90–109. 56
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to di Fresca, o i suoi figli gli restituissero liberamente ed interamente il castello di Montemassi con tutti i suoi diritti, Nello dispone che, in questo caso, la figlia Fresca erediti un terzo dei suoi beni, esattamente come le altre due sue figlie. Parimenti dispone che siano diseredati, ed esclusi da ogni diritto di eredità sui suoi beni, Nello, Nerio detto Bustercio, Barnaba, Francesca e Pia, figli e figlie di Bindino di Sticciano e di sua figlia Fresca, perché i predetti Nello e Bustercio, insieme al predetto loro padre Bindino, gli avevano sottratto in modo proditorio, egli afferma, il castello di Montemassi. Il sesto dei documenti pubblicati dal Milanesi si dice fatto, il giorno 11 luglio 1322, nel castello di Gavorrano e contiene un codicillo, con cui Nello della Pietra, sano di mente benché infermo di corpo, confermando per il resto il precedente testamento e mutandolo invece per quanto in esso era scritto su questo specifico punto, nomina la figlia Fresca erede della terza parte di tutti i suoi beni con gli stessi diritti delle altre sue due figlie, Francesca e Bianca; cassa ed annulla la precedente diseredazione da lui decisa nei confronti dei cinque figli ed eredi di Fresca; dispone che gli esecutori delle proprie disposizioni testamentarie non possano fare alcuna cosa senza il permesso, il parere, l’assenso ed il consenso della signora Fresca, sua figlia predetta. Pochi anni dopo, nel 1865, questi sei documenti pubblicati dal Milanesi sono ben presenti a Bartolomeo Aquarone, che li cita ampiamente nel suo libro sugli accenni a cose senesi rintracciabili nella Commedia dantesca. 58 Ma la convinzione che Pia dei Guastelloni, vedova Tolomei, fosse la Pia dantesca e che la Pia dantesca fosse moglie di Nello della Pietra lo porta a darne una lettura gravemente arbitraria e storicamente scorretta, di cui noi ricordiamo le tesi principali, ma che una trentina di anni dopo, nel 1893, sarebbe stata smentita in radice dal ritrovamento di un documento, dal quale risulta che nel 1318, cioè diciotto anni dopo l’incontro
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Aquarone, Dante in Siena, p. 79–93.
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di Dante con lo spirito di Pia da Siena, Pia dei Guastelloni, vedova Tolomei, era ancora viva ed attiva. 59 Convinto che il matrimonio tra Pia dei Guastelloni e Nello dei Pannocchieschi fosse realmente avvenuto, per spiegare il fatto che nel proprio testamento Nello non fa alcun cenno alla figura di Pia, mentre accenna a Nera, sua moglie defunta, da cui, sostiene l’Aquarone, doveva avere avuto la figlia Francesca, allora già maritata, e parla a lungo di Bartala, sua moglie vivente, da cui doveva avere avuto la figlia Bianca, ancora bambina, l’Aquarone sostiene che si era trattato di un matrimonio segreto; « altrimenti, perché, e come, la tradizione popolare avrebbe continuato sempre a denominar la Pia della casata de’ Tolomei che le conosceva? Perché non dirla invece de’ Pannocchieschi? E se fosse paruto sconveniente unire il nome dell’uccisore alla miserevole memoria della vittima, perché non dirla de’ Guastelloni? » 60 Quanto alla data, poiché il loro matrimonio non potette avvenire, sostiene l’Aquarone, tra il 20 settembre 1290, giorno in cui, per ottenere la tutela e la gestione dei beni dei figli, Andrea e Balduccia, 61 ancora bambini, Pia dei Guastelloni aveva rinunciato a contrarre seconde nozze, esso dovette avvenire, sostiene, dopo il 5 novembre 1294, data in cui Pia pre-
Alla luce dei calcoli che troviamo nella Enciclopedia Dantesca, alla voce viaggio, l’incontro tra Pia e Dante avviene il 10 aprile 1300, domenica di Pasqua, poco dopo mezzogiorno. 60 Aquarone, Dante in Siena, p. 89. 61 Dimentico della regola che nella sintassi latina disciplina la concordanza di un termine con termini di genere diverso, nel qual caso il maschile prevale sul femminile, e noncurante delle distinzioni di sesso tra i due bambini ricavabili dai due rendiconti, Aquarone, Dante in Siena, p. 85, trasformata la femmina in maschio, parla di « due figlioli, Andrea e Balduccio »; errore sorprendente, ma non unico, visto che, mentre Dante, Inferno, XXXIV, 85–139, dice esplicitamente che egli risale dal centro della Terra, dove si trova, librato nel vuoto, Lucifero, fino ai piedi del monte Purgatorio attraverso uno stretto e sconnesso cunicolo naturale (la natural burella del verso 98), Aquarone, Dante in Siena, p. 79, inizia questo suo capitolo, intitolato Purgatorio V, scrivendo che Dante viene « tragittato dall’angiolo al monte del Purgatorio ». 59
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senta il secondo rendiconto; rendiconto che, sostiene, fu anche l’ultimo; dopo di che, cessata la tutela e la gestione dei beni dei figli, Pia riacquistò la libertà di contrarre seconde nozze. Quanto al movente, l’Aquarone sostiene che il matrimonio avvenne “per forza”, cioè perché Pia era già incinta della figlia Fresca. Se così non fosse stato, sostiene, sarebbero mancati i nove mesi necessari per portare a termine la gravidanza e partorire la figlia: Pia infatti, sostiene l’Aquarone richiamandosi in maniera arbitraria al Tommasi ed al Gigli, venne uccisa nel mese di luglio del 1295; 62 e venne uccisa, sostiene, da Nello della Pietra che, essendo tornato ad interessarsi alla contessa Margherita Aldobrandeschi, rimasta nuovamente vedova, mentre Pia sedeva su una finestra, la fece gettare giù dalla torre in quella parte del dirupo, su cui sorge il castello di Pietra, che la tradizione popolare, sostiene, indica « col nome di salto della contessa ». 63 Se invece di limitarsi a leggere il testo a stampa del Tommasi, l’Aquarone avesse avuto modo e voglia di controllarne il manoscritto, si sarebbe accorto che il Tommasi aveva inserito il ricordo dell’uccisione di Pia dei Tolomei non all’anno 1295, bensì all’anno 1289, quando Pia dei Guastelloni, ancora sposata con Baldo dei Tolomei, di cui risulta vedova solo nel 1290, non poteva contrarre seconde nozze con Nello della Pietra. Ma l’Aquarone si rivela arbitrario anche nei confronti del Gigli, al quale pure egli rinvia come a fonte della propria affermazione che Pia fosse stata uccisa da Nello nel mese di luglio. Abbiamo visto, infatti, che il Gigli parla di Pia dei Tolomei sia al 30 giugno sia al 25 luglio, giorno in cui egli riporta il passo del Tommasi; ma l’Aquarone, tacendo di giugno, indica luglio, perché a luglio più che a giugno finivano i nove mesi della gravidanza che egli attribuisce a Pia dei Guastelloni, insinuando così che Nello aveva fatto defenestrare la moglie subito dopo che essa gli aveva partorito la figlia Fresca: particolare che lo rendeva ancora più odioso. 63 Aquarone, Dante in Siena, p. 90. — In merito alla individuazione del castello di Pietra come luogo della morte di Pia da Siena ed in merito alla tradizione popolare di cui parla l’Aquarone, uno studioso maremmano nato e cresciuto proprio in quei luoghi, Decimo Mori, La leggenda della Pia, p. 67–69, nel 1907, scrive: « Anche il pensare che l’uccisione della donna avvenisse nel castello della Pietra è ingiustificato, direi quasi arbitrario, giacché né Pietro di Dante, né l’Ottimo, né Benvenuto, né l’Anonimo, né alcun altro de’ commentatori né degli annotatori da me citati, ci dicono questo. Solo son concordi nel dire che l’uccise Nello della Pietra 62
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Che poi Fresca fosse proprio figlia di Pia, l’Aquarone sostiene risulti « primamente dal vederla tanto manomessa dal padre nel primo testamento; 64 e poi trovandola, nel 1321,
in Maremma; ma la Maremma non è circoscritta a quel castello né al suo territorio, e Nello possedeva, come ho detto prima, più castelli in Maremma in quel tempo. I castelli di Gavorrano, di Giuncarico e di Montemassi, erano e sono vicinissimi a Pietra; e perché pensare per l’appunto che il delitto della Pia fosse compiuto in questo? Perché Nello era il conte della Pietra credo, non perché il Poeta, né altri sicuramente, ci autorizzi a credere questo piuttosto che altri castelli; e perché, secondo l’Aquarone, la tradizione tuttavia indica una parte del dirupo, sul quale sorge il castello, col nome di salto della contessa. Io, per quanto maremmano, e nato e cresciuto in tanta prossimità di Pietra, non ho mai sentito dire di questo salto della contessa, e per quante domande abbia rivolto a’ miei compaesani, nessuno ho trovato che sappia di un tal nome dato a quella parte del castello: ma ammesso anche ciò come vero, si può osservare molto facilmente, che tale nome poté essere dato a quella parte del dirupo in conseguenza della morte della donna come la narrano i commentatori, essendo in quella parte la sola finestra conservata dal tempo. È anche da notare che la leggenda non parla di morte violenta per essere stata la contessa gettata dalla finestra, ma parla invece di febbri malariche. E posso aggiungere, non credendolo affatto inutile, che un giorno trovandomi al castello della Pietra, e parlando con un guardiano di armenti, m’indicava quale fosse il salto della contessa; ma allorché gli domandai, per finta curiosità, perché si chiamasse così, egli mi rispose che non sapeva neppure che il dirupo avesse quel nome, solo aveva sentito dire (e n’ebbi grande sorpresa) che ci fu buttata da un servo villano e cattivo una cagna del conte Nello che si chiamava contessa. Io risi a quella inaspettata e strana risposta e gli volli far capire come la Pia invece, morta per violenza, fosse stata buttata da quella finestra. Egli francamente mi rispose che aveva sempre sentito dire che la Pia era morta di febbri, e non per essere buttata di lassù. E, come documento importante, secondo lui, mi citò la novella in ottave del Niccheri. » — In merito a questa questione, mi sembra doveroso ricordare che Veraldo Franceschi, coautore insieme alla moglie Nella, troppo presto scomparsa, di due importanti contributi sulla figura di Pia da Siena e sul castello di Pietra, mi fa osservare come la torre, la cui finestra ancora si apre sul sottostante burrone detto salto della contessa, sia un’aggiunzione al castello originario posteriore ai tempi di Pia da Siena, la quale, dunque, non poté esservi precipitata. 64 Qui l’Aquarone allude al fatto che Nello aveva nominato le altre due figlie, Francesca e Bianca, eredi ciascuna per un terzo di tutti i suoi beni, mentre a Fresca aveva assegnato l’usufrutto a vita di quel terzo dei beni
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madre di tre figliuole, Barnaba, Francesca e Pia. 65 Chi avrebbe osato nella discendenza del Pannocchieschi, continuare ne’ propri figliuoli quel nome di Pia, se non la figliuola della Pia stessa? » 66
paterni, che le sarebbe andato in eredità soltanto se il marito ed i figli avessero restituito a Nello il castello di Montemassi. L’Aquarone, che invece vuol vedere la vera causa di quel diverso trattamento nel fatto che Fresca era figlia di Pia dei Guastelloni, sostiene che discriminare la propria figlia per una colpa del proprio genero era una punizione che dovette sembrare ingiusta anche a Nello stesso, tanto è vero che, scrive Aquarone, Dante in Siena, p. 88, « in un codicillo dell’11 luglio, cinque mesi dappoi (indottovi forse da un confessore dabbene), [Nello] reintegrava in ogni diritto di successione, pari alle altre due figliuole, la Fresca. » — Ancora una volta la lettura dell’Aquarone risulta preconcetta e parziale, in quanto egli omette di vedere o di dire che nel testamento del 1321, come abbiamo sottolineato riportandone il passo che, supponiamo, anche l’Aquarone avrà letto, Nello aveva posto la figlia Fresca tra i propri esecutori testamentari e che nel codicillo del 1322 egli la pone addirittura al di sopra di tutti gli altri esecutori, disponendo che questi non possano fare alcuna cosa senza il permesso, il parere, l’assenso ed il consenso della signora Fresca, sua figlia. Segno questo, pensiamo, che la decisione di Nello di escludere la figlia Fresca ed i figli di lei dalla successione ad un terzo di tutti i suoi beni, a meno che il marito Bindino od i figli gli avessero restituito il castello di Montemassi, non solo aveva, forse, sortito l’effetto sperato, ma era anche stato verosimilmente concordato tra Nello e Fresca, nominata esecutrice testamentaria anche della sua stessa esclusione dall’eredità, come strumento di pressione sul marito e sui figli: altro che “confessore dabbene”! 65 Questo ricordo da parte dell’Aquarone dei figli di Fresca appare per più versi scorretto: intanto perché trasforma Barnaba, il terzo figlio di Fresca, in una figliuola; poi perché dice che Fresca era madre di tre figliuole, mentre nel testamento di Nello, come abbiamo visto, essa viene ricordata come madre di cinque figli e figlie: Nello, Nerio detto Bustercio, Barnaba, Francesca e Pia; infine perché omette di ricordare proprio i due figli più grandi, Nello e Bustercio, che il nonno considerava corresponsabili con il loro padre della sottrazione del castello di Montemassi: per questa ragione, nel testamento del 1321, li aveva diseredati, salvo reintegrarli, insieme alla madre, in tutti i loro diritti ereditari con il codicillo aggiuntivo e correttivo del 1322. 66 Aquarone, Dante in Siena, p. 88–89. — Sarebbe facile rovesciare l’argomentazione dell’Aquarone, facendo osservare come il fatto che Fresca
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Quasi trenta anni dopo, nel 1893, Pio Spagnotti pubblica un “saggio storico–critico”, in cui riesamina l’intera questione relativa a Pia da Siena, così come essa si era venuta costituendo nei secoli attraverso i commentatori e gli storici; ristudia i sei documenti relativi a Pia dei Guastelloni ed a Nello dei Pannocchieschi pubblicati dal Milanesi; discute e respinge tutte le tesi dell’Aquarone, di cui condivide quasi soltanto il rifiuto della tesi del Sestini, secondo cui Pia da Siena sarebbe morta di febbri malariche, ed i pregiudizi moralistici verso Nello. 67 Contrariamente a quanto sostenuto dal Gigli, dal Milanesi e dall’Aquarone, lo Spagnotti ritiene che Pia dei Guastelloni non abbia nulla a che fare con Nello della Pietra; ritiene ancora che, visto il silenzio assoluto del suo testamento su
abbia chiamato Pia una delle sue figlie potrebbe essere interpretato come prova del fatto che Fresca non era figlia di Pia. Noi non lo rovesceremo; ma dimostreremo più avanti che Fresca era davvero figlia di una Pia: una Pia diversa dalla Pia dantesca con cui venne confusa. 67 Il livore moralistico nei confronti di Nello della Pietra acceca fino al travisamento grammaticale Spagnotti, Pia de’ Tolomei, p. 38–39, dove, a proposito dei lasciti che Nello, in esecuzione di una volontà della moglie Nera, dispone a vantaggio della signora Chiara, sua cameriera, e della signora Falia del signor Caffarello di Gerfalco, incredibilmente scrive di lui: « Principe corrotto, lascia travedere dal genere dei lasciti tutta una vita randagia e rapace, perché, oltre i casi esplicitamente da lui ricordati di birbonate commesse, se ne possono ammettere altre come di sottinteso a tanta elargizione. Né sembra che tutta la sua malvagia abilità fosse messa a profitto nello spogliar chiese e conventi, perché, a volerne citare un esempio solo, troviamo un lascito di 25 libbre al suo cameriere Claro, ma col solo usufrutto, dovendo alla sua morte tal somma passare alla moglie Nera, verso la quale sembra nutrisse simpatie, trovandosi poco dopo legate 15 libbre a Ser Caffarello di Gerfalco, perché le consegnasse alla Nera. » — Per facilitare un rapido controllo della fonte, che è alla base delle incredibili, calunniose, farneticazioni dello Spagnotti, riportiamo il passo in questione del testamento di Nello; eccolo: « Item [Nellus] iudicavit et reliquit, de dictis mille florenis auri, domine Clare sue camerarie, libras vigintiquinque den., quas dixit sibi iudicasse et reliquisse dominam Neram eius uxorem. Item iudicavit et reliquit domine Falie ser Caffarelli de Gerfalco, de dictis mille florinis auri, libr. quindecim den. sen., quas dixit sibi iudicasse prefatam dominam Neram. »
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questo punto, Nello della Pietra non abbia mai avuto una moglie di nome Pia e che pertanto egli non abbia nulla a che fare con la Pia da Siena di cui parla Dante; infine, visto che dopo secoli di ricerche da parte delle migliori intelligenze nessun documento è venuto a confermarne l’esistenza, ritiene che Pia da Siena sia una figura leggendaria che in buona fede Dante credé storica, seguito poi da tutti i suoi commentatori, i quali furono tratti in inganno dal fatto che « Dante non illustra se non personaggi storici ». 68 Pertanto, in conclusione del proprio lavoro, prendendo pur atto del successo popolare incontrato dagli scrittori e dai diversi artisti che avevano preso a tema la figura e la vicenda di Pia da Siena, lo Spagnotti scrive solenne: « Plaudiamo adunque alle più belle manifestazioni di potenti ingegni, ma inchiniamoci riverenti di fronte alla severa figura della storia che deve essere la verità personificata; e se potrà sembrare troppo grave asserzione, dopo sei secoli, quella che nega ogni valore reale alla evocazione poeticamente sublime di Dante, mi sia concessa almeno la prova de’ fatti e fino a che non sia sorta con documenti di valore quella, potremo sempre ammirare tale sublime creazione del primo genio italiano, ma ammettere in essa un fondo di storica verità giammai, perché finora il responso della storia dà ragione all’opinione mia, per la quale da anni vado combattendo, che la Pia di Dante non ha valore storico o quanto meno non ha nulla a che vedere con la madonna Pia, nata Guastelloni, vedova Tolomei. » 69 Questo suo saggio era pronto per la pubblicazione, racconta lo Spagnotti, quando egli seppe che Alessandro Lisini, direttore dell’archivio di Siena, aveva pubblicato un documento, datato 21 agosto 1318, in cui la signora Pia, figlia del fu Bonincontro, vedova del fu Baldo da Siena, rinunciando ad ogni proprio diritto, reale e personale, ratificava la vendita di una casa che Andrea, figlio suo e del fu Baldo, e Magia moglie di lui avevano fatto a frate Vanni di Ghida, procura-
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Spagnotti, La Pia de’ Tolomei, p. 52. Spagnotti, La Pia de’ Tolomei, p. 54.
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tore della casa dei poveri Santa Maria della Misericordia di Siena. 70 Entusiasta per la scoperta di questo documento che dimostrava in maniera definitiva la fondatezza della sua tesi minima, secondo cui Pia dei Guastelloni, vedova di Baldo dei Tolomei, non era la Pia da Siena di cui parlava Dante, lo Spagnotti, in una breve appendice al proprio saggio, chiarì e ribadì meglio anche la sua tesi massima, secondo cui Pia da Siena era una figura leggendaria, non storica. Quindi, in attesa che apparisse lo studio con cui il Lisini aveva promesso di mostrare come la leggenda sestiniana che illustra l’episodio dantesco non avesse alcun fondamento nella storia, 71 lo Spagnotti concluse il proprio libro, scrivendo: « Io non so quanto il Lisini, nel suo prossimo lavoro, si accinga a dimostrare di leggendario intorno a questa sublime figura; ma io mi accontenterò di credere che Dante abbia cantato in buona fede quella Pia creduta storica. » 72 Una quindicina di anni dopo, nel 1907, Decimo Mori, attraverso un riesame delle testimonianze più antiche e dei
Spagnotti, La Pia de’ Tolomei, p. 55; questo documento, pubblicato da Alessandro Lisini, Nuovo documento della Pia de’ Tolomei, Siena, Lazzeri, 1893, venne ripubblicato dallo stesso A. Lisini, La Pia di Dante, « La Diana », 1928, III, 4, p. 273–274, da cui poi lo ha ripreso, per ripubblicarlo, Simonetti, La Pia …Tolomei, p. 121–123. 71 Il Lisini aveva concluso l’introduzione al proprio opuscoletto con il brano che leggiamo in Spagnotti, Pia de’ Tolomei, p. 57: « In uno studio che è mio intendimento di pubblicare dimostrerò come la pietosa leggenda che illustra l’episodio dantesco, raccontata da molti e con tanta grazia cantata da Giovan Battista Sestini non ha verun fondamento nella realtà della Storia ». — A proposito del nome di Bartolomeo Sestini, in nota a questa stessa citazione, lo Spagnotti lamenta: « È destino di questo sventurato poeta di essere maltrattato ancora morto anche nel nome, perché di Bartolomeo è fatto dall’Ademollo [un autore da lui discusso nelle pagine precedenti]: Abate Bernardo, dal Perino di Roma: Benedetto, e ora dal Lisini: Giovan Battista. » 72 Spagnotti, Pia de’ Tolomei, p. 62. — Notiamo che il Lisini si riprometteva di dimostrare l’infondatezza storica della leggenda sestiniana, non l’infondatezza storica della Pia dantesca, come invece fraintese lo Spagnotti. 70
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documenti più recenti, giunge alla conclusione che la ricostruzione della vita di Nello della Pietra e lo studio attento del suo testamento del 1321 ne rivelano un’immagine molto diversa da quella dell’uomo rozzo e volgare, moralmente riprovevole, disegnata soprattutto dall’Aquarone. 73 In altri termini, sostiene il Mori, come Pia dei Guastelloni si è rivelata persona del tutto diversa dalla Pia da Siena di cui parla Dante, così Nello della Pietra, personaggio storico ben noto, si rivela persona del tutto diversa dal Nello della Pietra di cui parla “la leggenda della Pia”. Convinto, tuttavia, che la leggenda della Pia avesse un nucleo reale, su cui Dante stesso era poco informato e che i suoi commentatori avevano ulteriormente intricato aggiungendovi particolari romanzati contraddittori tra loro, 74 il Mori si pone il problema storico di accertare se per caso non fosse esistito un secondo Nello della Pietra diverso dal Nello della Pietra di Inghiramo, di cui parlano molti documenti del tempo e di cui conserviamo, tra l’altro, il testamento del 1321; e giunge a scoprire che in quegli stessi anni un secondo Nello della Pietra esistette davvero: si tratta di Nello figlio di Mangiante, che il Mori crede cugino di Nello di Inghiramo, di cui invece era lo zio. 75
Mori, La leggenda della Pia, p. 50. Al termine della prima parte del proprio lavoro, Mori, La leggenda della Pia, p. 75, scrive: « In conclusione io credo all’esistenza reale della Pia di Dante, e non partecipo punto all’opinione dello Spagnotti, il quale suppone che Dante, facendo eccezione alla regola, abbia rammentata una Pia immaginaria. Ma credo altresì che Dante non avesse egli stesso notizie precise e copiose sui casi della Pia, e si tenesse pago di accennarvi pietosamente. » — In verità lo Spagnotti, Pia de’ Tolomei, p. 62, aveva detto « di credere che Dante abbia cantato in buona fede quella Pia creduta storica », perché, aveva scritto a p. 52, « Dante non illustra se non personaggi storici ». 75 A proposito di questi due Pannocchieschi, Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 33–34, scrivono: « Dai documenti dell’epoca risultano contemporanei due Pannocchieschi con lo stesso nome di Nello: uno, figlio di Inghiramo e signore di Pietra, l’altro figlio di Mangiante e zio del primo. Da ciò è nata una prima confusione tra gli storici che spesso 73 74
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Si tratta ora di chiarire quale dei due abbia ucciso Pia da Siena: Nello di Mangiante o Nello di Inghiramo? Scrive il Mori: « Mentre la voce popolare ed i commentatori accusano un Nello, i documenti che riguardano il figlio di Inghiramo non hanno un accenno al misfatto, anzi stanno, ripeto, in sua difesa, perché la Pia, secondo il Poeta Divino, i commentatori e gli storici, fu uccisa dal marito; e questo Nello non ebbe nessuna moglie per nome Pia. E l’altro Nello? Di lui oltre alla notizia dell’esistenza e alle altre scarse notizie che ce lo dicono capitano e capopartito in Massa [Marittima], non ho trovato altro. Credo che sia chiuso, e con ragione, nel silenzio e nel mistero, come il delitto che egli, secondo me, commise o fece commettere. […] L’autore della violenza sulla Pia sarebbe stato dunque Nello Pannocchieschi figlio di Mangiante conte della Pietra, e la questione sarebbe ormai definita con l’accordo dei commentatori e di tutti. » 76 Risolto il problema del marito uccisore con l’individuazione di un secondo Nello dei Pannocchieschi, si tratta ora di risolvere il problema della moglie uccisa, individuando una seconda Pia, diversa da quella Pia dei Guastelloni, vedova Tolomei, che non poteva più essere identificata con Pia da Siena, perché essa era ancora vivente nel 1300, quando Dante incontra lo spirito di Pia da Siena nell’antipurgatorio. A questo punto, compiendo il passo decisivo verso la vera Pia da Siena, il Mori scrive: « Non resterebbe ora che trovare la famiglia senese a cui appartenne la Pia, sebbene sia difficile, dopo tutte le ricerche fatte, e non sia strettamente necessario, ormai, per assicurarne l’esistenza. Del resto avrei trovato una
hanno voluto attribuire all’uno fatti attinenti all’altro; ma è facile chiarire la personalità di ognuno quando si ponga mente che Nello di Mangiante non ebbe quasi nessuna relazione con Siena (scarsissime sono infatti le notizie di lui nell’archivio senese); che quasi sempre è chiamato Paganello anziché col diminutivo Nello; che mai ebbe la qualifica di Signore di Pietra, mentre all’opposto Nello d’Inghiramo è sempre designato con l’appellativo “Signore di Pietra”. Questo è il Nello che c’interessa e di lui parleremo. » 76 Mori, La leggenda della Pia, p. 80–81.
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Pia che, almeno meglio delle altre a cui hanno pensato fino ad ora gli storici e i commentatori, corrisponderebbe forse alla donna dantesca e, più che mai, a ciò che ne dice la leggenda. Questa Pia sarebbe appartenuta alla famiglia Malevolti di Siena, e fu sposa di Tollo Pannocchieschi. Nel 1291 rimase vedova, perché Niccolò e Gaddo Pannocchieschi, figli del conte Gherardo di Prata, le uccisero il marito, loro zio, mentre un giorno usciva di chiesa, perché non voleva tollerare le loro continue ruberie. Essi uniti con Ghino conte di Belforte erano corsi con mano armata e con la bandiera contro gli stipendiari di Massa. » 77 Quasi trenta anni dopo, nel 1935, Gaspero Ciacci, in un’ampia opera dedicata ai conti Aldobrandeschi, visto che alcuni commentatori ed alcuni storici avevano visto negli amori tra Nello della Pietra e la contessa Margherita AldoMori, La leggenda della Pia, p. 81, e nota 1, dove il Mori dice: « Per questo fu pronunciato contro di essi dal potestà messer Guccio di Guido Malevolti una condanna. (Archivio di Stato di Siena, cartapecore di Massa). » — In verità, l’omicidio di Tollo di Prata avvenne, non nel 1291 come dice il Mori, ma il 30 settembre 1285, come si legge nel verbale del Consiglio Generale di Siena, fatto il 7 ottobre 1285 e pubblicato da Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 153–156. — Visto che il Mori a sostegno della propria ipotesi che Pia da Siena fosse Pia dei Malavolti non citava che un solo documento, Ciacci, Gli Aldobrandeschi, I, p. 315, scrive: « Forse il Mori cedé senza accorgersene alla suggestione del nome di una nuova Pia di cui parlava all’anno 1286 il Tommasi, del cui racconto sembra abbia seguito la traccia: “Nel principio di Ottobre i figliuoli del Signor Gherardo da Prata uccisero in quella terra Tollo loro Zio, uscendo di Chiesa, perciocché reprimeva le loro continue robbarie, e perché voleva co’ Pannocchieschi conservare la pace condotta dalla Repubblica con molta fadiga. Citati non comparsero, anzi negarono a’ Parenti di lei Madonna Pia Malevolti, Donna stata di Tollo, ed i piccoli suoi figliuoli. E rompendo i patti, s’opposero alle masnade de’ Sanesi mandate alla guardia di quella terra”. » — In merito all’anno dell’uccisione di Tollo di Prata, ci sembra opportuno rilevare che la differenza tra il verbale del Consiglio Generale di Siena, che indica il 1285, e lo storico Giugurta Tommasi, che indica il 1286, dipende dal fatto che il Tommasi data dall’incarnazione di Cristo calcolata secondo lo stile pisano, mentre il Consiglio Generale di Siena datava dall’incarnazione di Cristo calcolata secondo lo stile fiorentino, che computava un anno in meno rispetto al computo pisano. 77
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brandeschi la causa dell’uccisione di Pia da Siena, dedica alcune pagine anche a questa vicenda. Come già aveva fatto il Mori ed in fondo con gli stessi argomenti, il più importante dei quali è che nel proprio testamento Nello non parla di una sua moglie di nome Pia, anche il Ciacci esclude che l’assassino di Pia da Siena possa essere stato Nello di Inghiramo, mentre ritiene più probabile l’ipotesi che sia stato Nello di Mangiante, zio del primo Nello, la cui vita è meno nota di quella del nipote. Quel che invece ed in ogni caso risulta certo, scrive il Ciacci, è che Pia da Siena non fu dei Tolomei, « per la semplice ragione che a’ suoi tempi non visse una Pia che fosse nata da quella famiglia o (fuor della Guastelloni) che vi fosse entrata per nozze. In conseguenza, se si voglia insistere nella credenza che Dante riferisse, e non inventasse, i casi della soavissima peccatrice, e con ciò si creda di seguire la tradizione in quanto imputa ad un Pannocchieschi la tragedia maremmana, non si può concludere di più che Nello di Mangiante, od altri con cui egli fu scambiato, facesse morire in Maremma una gentildonna senese chiamata Pia. In realtà l’Alighieri non ha mai detto più di questo: non ha nominato i Tolomei; non ha nominato nessun Nello. » 78 Ma il Ciacci non si ferma a queste osservazioni, a cui altri erano pervenuti prima di lui. Stimolato dall’ipotesi avanzata dal Mori, secondo cui Pia da Siena poteva essere stata Pia dei Malavolti, moglie di Tollo di Prata, ucciso dai propri nipoti il 30 settembre 1285, condotte ulteriori ricerche negli archivi senesi e convinto che i nipoti, oltre ad uccidere Tollo, avessero anche rapito Pia, 79 il Ciacci perviene a pensare che il
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Ciacci, Gli Aldobrandeschi, I, p. 314. I caratteri corsivi sono del Ciac-
ci. Dal verbale dell’adunanza del Consiglio Generale della Campana, fatto il 7 ottobre 1285 e pubblicato da Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 153–156, non risulta affatto il rapimento di Pia da parte dei nipoti presupposto dal Ciacci. Dal verbale risulta soltanto che gli ambasciatori subito inviati da Siena, una volta giunti a Prata, chiesero ai nipoti di Tollo di lasciarli entrare e che « nobilem mulierem dominam Piam 79
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movente di quell’omicidio, in punizione del quale il Comune di Siena mosse guerra agli omicidi, fosse di natura passionale. Scrive, infatti, il Ciacci: « Ed allora vien fatto di pensare se, traverso questa nebulosa, non possa trovar adito la più realistica supposizione che, al sorgere di quel lontano autunno del 1285, si svolgesse in Prata una delle tante tragedie d’amore che in ogni tempo ed in ogni luogo segnarono tracce sanguinose su la trama della vita e della Storia. Non è singolarmente suggestivo il fatto che il General Consiglio senese, mentre nell’adunanza del 7 ottobre [1285] con insueta reboanza levava alte strida in abominazione del delitto perpetrato dai tre Pannocchieschi, con deliberazioni di quel giorno e dei tre seguenti ordinasse di preparare febbrilmente l’esercito, ma soltanto per la recuperazione di Prata e per liberare le figlie di Tollo? 80 Tale strano silenzio circa la persona che nella triste circostanza doveva certo campeggiare più di ogni filiam domini Ranucci de Malavoltis, olim uxoris dicti Tolli et filias suas, eis reddi et restitui ». Da queste frasi si intuisce che Pia e le figlie erano trattenute a Prata, ma non che erano state rapite; men che meno, poi, appare che fosse stata rapita soltanto la Pia, come invece, forzando il senso del testo, presuppone il Ciacci, per poter poi ipotizzare che Pia fosse l’amante di uno degli uccisori del proprio marito. 80 Dal verbale dell’adunanza del Consiglio Generale della Campana, fatto il 7 ottobre 1285 e pubblicato da Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 153–156, non risulta che la spedizione militare venisse deliberata, come il Ciacci sottolinea scrivendolo con caratteri corsivi, soltanto per la recuperazione di Prata e per liberare le figlie di Tollo. Dal verbale risulta soltanto che, essendosi i nipoti di Tollo rifiutati di obbedire agli ordini degli inviati di Siena ed essendo pertanto divenuti traditori e nemici del Comune di Siena, il Consiglio deliberò di costituire un esercito « ad refrenandam malitiam predictorum proditorum de Prata, quod omni via et modo cum solicitudine et vigore procuretur et fiat quod dictum castrum de Prata et etiam filii Gerardi predicti perveniant ad manus et mandata Comunis et populi Senarum et de eorum malis operibus puniantur ». Da queste frasi risulta che l’esercito fu mandato per recuperare il castello di Prata e per punire i traditori, mentre non risulta affatto quanto sottolinea il Ciacci, cioè che esso fosse inviato soltanto per la recuperazione di Prata e per liberare le figlie di Tollo, ma non Pia, della quale, a suo dire, sarebbero forse stati già noti a Siena gli amori adulteri con uno dei giovani nipoti assassini.
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altra, 81 credo possa scusarmi se ne deduco la probabilità che, sparsasi in Città la voce di precedente amoreggiar della Pia con uno dei giovani nipoti, il suo ratto possa essere stato creduto consensuale; così che i Senesi, mentre si accingevano a punire l’uccisione di Tollo ed a togliere ai ribelli, con la liberazione delle sue figlie, un’occasione di ricatto, abbandonassero la vedova al suo destino; e che essa, acconciatasi più o meno liberamente con il suo rapitore, ed unitasi a lui in matrimonio, per ragioni di gelosia o di altro, venisse poi uccisa. » 82 Pertanto, alla luce di queste considerazioni, il Ciacci scrive: « Qualcuno dunque potrebbe conchiudere che il tradizionale commento al canto V del Purgatorio, derivato da una prima concisa affermazione, non confortata da nessuna testimonianza ma poi, giù giù nel tempo, sviluppatasi in un piccolo romanzo, sarebbe ormai da sostituire con il seguente: “Questa Pia fu figlia di messer Ranuccio Malavolti da Siena. Andò sposa a Tollo Pannocchieschi, Signore di Prata, che il 30 settembre del 1285, all’uscita della Messa fu ucciso dai nipoti. Uno di essi rapì e tolse in moglie la Pia che fece poi morire misteriosamente in un suo castello di Maremma, per sospetti che n’ebbe.” Ma io non lo dirò — precisa il Ciacci —
La persona in questione è ovviamente Pia dei Malavolti. Ciacci, Gli Aldobrandeschi, I, p. 317–318. — In merito a queste gratuite e calunniose affermazioni del Ciacci sulla da lui presunta facilità morale di Pia Malavolti, Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 51, nota 1, osservano: « In queste righe troviamo un’altra imprecisione, poiché si assegna senz’altro ai Pannocchieschi il marito della Pia e ad un suo nipote la colpa della di lei misteriosa fine, volendo per di più non solo affacciare il sospetto (lo si dice esplicitamente più avanti) che la Pia si sia facilmente accomodata a darsi all’uccisore del proprio marito, ma ammettere anche che la sua condotta sia stata tale da dar luogo a sospetti e da provocare la di lei morte. Tutto è possibile ed anche una simile supposizione non è da rigettarsi a priori; ma quello che non si comprende è come, dopo aver voluto riabilitare la fama di Margherita Aldobrandeschi e perfino quella di Nello Pannocchieschi, l’on. Ciacci abbia voluto unirsi agli ormai troppi accusatori della Pia dantesca, quasi che questa fosse il capro espiatorio di tutti gli errori umani, quelli degli storici compresi. » 81 82
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perché per il primo riconosco l’opportunità di ulteriori indagini per mettere in piena luce la nuova figura della Pia de’ Malavolti. Di fronte ad un argomento che affaticò tante intelligenze elette, mi parrebbe presunzione insistere troppo sul mio asserto. » 83 Nel 1939, dopo alcuni lavori preparatori, 84 esce finalmente lo studio su Pia da Siena che Alessandro Lisini, direttore dell’Archivio di Stato di Siena, aveva promesso fin dal lontano 1893. Uno studio che, condotto secondo il modello dell’esame critico, preventivo e sistematico, degli antichi commenti, delle testimonianze storiche e degli studi precedenti inaugurato dallo Spagnotti e continuato dal Mori, risulta un contributo veramente importante, soprattutto per il gran numero di documenti d’archivio che esso utilizza, e di cui ci è sembrato opportuno riprendere in sintesi le tesi e le argomentazioni fondamentali. 85
Ciacci, Gli Aldobrandeschi, I, 324. Alessandro Lisini, La Pia di Dante, « La Diana », 1928, III, 4, p. 249–275; Alessandro Lisini, La contessa palatina Margherita Aldobrandeschi signora del feudo di Sovana, Siena, Lazzeri, 1933, volume, questo da cui citiamo, estratto dal « Bullettino Senese di Storia Patria », Nuova Serie, Anno III, 1932, fasc. I, III, IV. 85 Per capire perché questo studio sia presentato come opera di due autori, il Lisini e il Bianchi Bandinelli, giova leggere la breve nota premessa al volume, in cui il Lisini dice: « Le insistenze degli amici e di tanti studiosi mi hanno deciso a far terminare questo lavoro, per il quale da anni andavo raccogliendo il materiale. Ho detto far terminare, ma sono stato inesatto: la ricerca dei miei appunti sparsi tra mille carte e in parte anche perduti, lavoro più lungo e noioso delle stesse ricerche d’archivio, la ricostruzione del nesso logico dei diversi eventi così lontani da noi nel tempo e infine la stesura di quasi tutto il testo, sono stati i compiti cui il mio collaboratore ha dovuto assolvere, senza che io per la mia tarda età, che mi ha portato un grande indebolimento alla vista, potessi in qualche modo aiutarlo. Solamente a lavoro finito ho ascoltato la lettura di queste pagine che riflettono pienamente la persuasione che mi ero già fatta sulle vicende della Pia dantesca e che ora vedo con piacere confermata da quanto ha esposto con indipendenza di criterio questo giovane studioso. Che la presente opera sia arra per lui di nuovi studi sulla meravigliosa storia della nostra gente. » 83 84
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Propostosi di togliere il velo, come egli dice, che il poeta, il tempo e le leggende avevano steso su questo personaggio dantesco, il Lisini si chiede anzitutto da chi e come Dante avesse avuto notizia della tragedia di Pia da Siena, sulla cui storicità egli non nutre alcun dubbio. 86 Quindi, visto che Dante dimostra una conoscenza diretta di cose e personaggi senesi, 87 tale da far pensare che egli abbia soggiornato a lungo e più volte in quella città, come del resto egli deduce anche da una frase del Boccaccio, 88 il Lisini ritiene che Dante debba aver saputo della tragedia di Pia proprio a Siena, 89 dove egli dovette trovarsi, poco più che ventenne, quando avvenne l’uccisione di Tollo di Prata. 90 Del resto, anche il Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 7, in merito alla storicità dei personaggi danteschi, scrivono: « Ciò lo dimostra anche il fatto che, se nella Divina Commedia incontriamo personaggi mitologici e quindi immaginari, questi tuttavia sono tanto ben conosciuti nella tradizione classica, che si possono considerare come storici. Invenzione pura di fatti o di personaggi non si riscontra mai nella Commedia e gli episodi con protagonisti non appartenenti alla storia o alla mitologia, sono stati ispirati al poeta o dai rapporti avuti direttamente con quelli o dal vivo racconto di chi ne conservava ancora il ricordo. » 87 In Enciclopedia Dantesca, alla voce Siena, si legge: « Siena è fra le città toscane, a parte Firenze, la più frequentemente ricordata da Dante, sia direttamente sia attraverso i vari personaggi senesi, gli episodi di cui sono protagonisti, i fatti storici o di cronaca cui il poeta fa riferimento, talora anche nei dettagli o magari soltanto attraverso allusioni. » 88 Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, XX, per mostrare fino a che punto Dante fosse capace di concentrarsi nella lettura di quanto gli piacesse, racconta che, “essendo una volta tra l’altre in Siena” e trovatosi nella bottega di uno speziale, in cui gli fu portato un libretto molto noto tra i dotti e che lui non aveva ancora mai visto, egli si immerse a tal punto nella lettura da non sentire neppure che davanti alla bottega era iniziata e si svolgeva una festa con balli e grandi rumori di diversi strumenti. A noi sembra, tuttavia, che la frase del Boccaccio, “essendo una volta tra l’altre in Siena”, vada interpretata non nel senso che quella fosse una delle volte in cui Dante si trovava in Siena, come invece la intende il Lisini, ma nel senso che quella era una delle volte in cui Dante aveva dimostrato grande capacità di concentrarsi sulle cose che gli piacessero. 89 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 3–9. 90 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 55–56, scrivono: « A Dante dovette fare impressione la misteriosa fine della Pia, poiché, come 86
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fatto che Pia da Siena si presenti a Dante dicendo « ricorditi di me che son la Pia », potrebbe essere inteso come indizio del fatto che la sua tragica fine non fu priva di notorietà nel senese. 91 Quanto al perché Dante ponga lo spirito di Pia da Siena tra le anime di coloro che furono « peccatori infino a l’ultima ora », 92 il Lisini dice: « Molto si è discusso sul significato di questa frase, ma non ne vediamo la ragione, tanto esso ci appare chiaro. La Chiesa afferma che tutti gli uomini, anche i migliori, commettono giornalmente dei peccati e che da questi non possono liberarsi senza il pentimento che segue alla confessione. Le anime dell’antipurgatorio sono salve perché in vita ebbero il pentimento dei loro peccati, ma, secondo Dante, sono condannate a rimanere fuori del Purgatorio perché trapassarono senza i riti cristiani. Esse dunque furono peccatrici fino all’ultima ora della vita terrena; ma da ciò invero non possiamo arguire quali siano stati i loro peccati. 93 abbiamo già accennato nell’esame delle possibili relazioni di lui con Siena, egli doveva trovarsi poco più che ventenne in quella città, quando Tollo da Prata, marito di Pia, dopo aver sottoposto alla Repubblica di Siena nel 1282 i propri castelli contro la volontà dei suoi consorti, rimase vittima di un attentato da parte dei suoi nipoti, che non volevano la sua amicizia con Siena: quella uccisione fu l’inizio del calvario di Pia. » 91 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 9–10, scrivono: « È usanza toscana premettere l’articolo anche ai nomi propri di persona, mentre i puristi lo vogliono soltanto davanti ai cognomi. Quindi in ‘ricorditi di me che son la Pia’, si può intendere che Dante abbia messo quell’articolo secondo l’usanza toscana, oppure al determinato scopo (la = lat. illa) di indicare la fama che ancora nel 1300 poteva correre nel senese di quella Pia. » 92 Dante, Purgatorio, V, 53. 93 In maniera più sintetica ed efficace, Lisini, La Pia di Dante, p. 249–250, scriveva: « Dante, tra quelle moltitudini di anime che vi raffigura [nell’antipurgatorio], volle ricordarvi tre personaggi del suo tempo. E finge di trovarli colà, non perché debban purgarsi di qualche particolare peccato, di cui l’umana natura raramente va immune — se dovranno di quello mondarsi, ciò avverrà anche più tardi — ma perché usciti inaspettatamente di vita, si ridussero a pentirsi dei loro falli al momento estremo, e sebbene ne uscissero pacificati con Dio, morirono senza i riti e le cerimonie cristiane e senza onorata sepoltura in luogo sacro; quasi come qualsiasi animale bruto. »
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Chi dai due versi su riportati vuole strappare il significato che la Pia sia stata peccatrice per poca fede coniugale oppure che sia stata senz’altro innocente, lavora, a nostro parere, un po’ troppo di fantasia. Dante non si pronuncia affatto, ma una induzione se mai la potremo fare quando avessimo considerato tutto il contesto dei versi e delle notizie che abbiamo a nostra disposizione. » 94 Forse proprio perché erano convinti di trovarsi di fronte ad una delle tante tragedie coniugali allora assai frequenti, gli antichi commentatori dei versi danteschi « trascurarono di fare una diligente ricerca sulla identità dei protagonisti e, come al solito, nelle annotazioni parafrasarono il testo, fraintendendo, a parer nostro, anche il senso dei versi ».95 Così, al termine di un’ampia ed accurata esplorazione dei testi degli antichi commentatori, il Lisini rileva che le versioni che essi ci forniscono sulle cause della morte di Pia da Siena, al di là delle differenze e contraddizioni reciproche, 96 sono tutte concordi nel presupporre che Nello sia stato il marito di Pia: « Quando però vedremo che Nello non ebbe mai una moglie di nome Pia, 97 tutto il castello fabbricato dalle supposizioni dei comLisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 12–13. Quanto alla locuzione di Dante, Purgatorio, V, 52, che dice tutti “per forza morti” gli spiriti tra cui si trova quello di Pia da Siena, il Lisini pensa che questa locuzione vada intesa nel senso lato di morte non naturale, ma artificiale, cioè di morte provocata dall’uomo, sicché, egli dice a p. 13, « non è da scartare a priori l’opinione espressa dal Sestini nel suo romantico poemetto, dove fa apparire la Pia consunta dalla malaria e dal dolore. » 95 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 13. 96 In particolare, in merito alla notizia di Benvenuto da Imola secondo cui Pia da Siena fu della stirpe dei Tolomei, Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 21, scrivono: « Che la Pia sia da ascrivere alla famiglia Tolomei, non pare ormai ammissibile per diverse ragioni, e principalmente perché di nessuna Pia nata Tolomei e vissuta al tempo di Nello si è mai trovato ricordo in Siena, ancorché da secoli ne sieno state fatte ricerche nei documenti senesi di quell’epoca che neppure oggi difettano. Ed è anche favola che tra i Tolomei e Nello Pannocchieschi sieno sorte guerre e discordie per causa della morte di Pia. » 97 Poiché, in verità, nel seguito della trattazione questa tesi secondo cui Nello non ebbe una moglie di nome Pia non viene più esaminata né argo94
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mentatori crollerà e non resterà che la considerazione della singolare unanimità di questi nel designare il Pannocchieschi come autore del truce delitto. » 98 In effetti, dopo aver esaminato quanto gli antichi storici senesi avevano detto di Pia da Siena ed avere gettato un rapido sguardo sui risultati conseguiti dalla critica più recente dell’Aquarone, dello Spagnotti, del Mori e del Ciacci, passando ad esporre il proprio pensiero, il Lisini sostiene che tutti gli studiosi a lui precedenti, dal commentatore più antico al critico più recente, 99 hanno frainteso il senso dei versi danteschi; e lo hanno frainteso perché non avevano capito che in quei versi Pia da Siena non parla del proprio matrimonio, ma del proprio fidanzamento, e che il colui di cui essa parla non è il marito, ma colui che al momento del fidanzamento le aveva dato, per procura, l’anello del promesso sposo assente: non il secondo anello, cioè non l’anello di matrimonio, ma il primo anello, cioè l’anello di fidanzamento, pegno di fedeltà e promessa di matrimonio. 100
mentata, riteniamo che anche il Lisini, come lo Spagnotti, il Mori ed il Ciacci, la ritenesse dimostrata dal fatto che nel proprio testamento Nello nomina soltanto due mogli: Nera e Bartala. 98 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 22. 99 Più precisamente, Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 54, scrivono: « La nostra interpretazione non è del tutto nuova né arbitraria. Il commento anonimo del codice Laurenziano XV, 7 che abbiamo riportato a suo luogo, vede in quel colui non il marito, ma un suo famiglio che dopo aver dato a Pia l’anello nuziale per conto del padrone, in un secondo tempo, uccide la donna. » — In verità, il commento anonimo, a cui il Lisini rimanda, parla di un matrimonio, non di un fidanzamento, per procura, e soprattutto dice che il marito della Pia dantesca era Nello della Pietra, che è proprio quanto il Lisini intende negare con la sua tesi del fidanzamento per procura: tesi tanto ingegnosa quanto arbitraria, ed in fondo non necessaria, come vedremo. 100 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 52–54; secondo il Lisini, p. 53, Pia da Siena non aveva voluto dire « La causa della mia morte la sa chi mi ha sposato (o inanellato, che vale lo stesso) », come invece avevano inteso tutti gli studiosi precedenti, ma aveva voluto dire, p. 54, « Morii in Maremma, e ciò lo sa bene colui che, andando sposa, mi aveva dato per conto di mio marito, il primo anello. » — Benché, a p. 53, si dica
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Convinto che Pia da Siena sia Pia dei Malavolti, andata in sposa a Tollo di Prata, e presupponendo che Nello della Pietra sia colui che le avrebbe dato per procura l’anello di fidanzamento, il Lisini continua: « Del resto una simile interpretazione rimane convalidata da una duplice categoria di fatti accertati: primo, la usata e normalissima abitudine in quel tempo, di matrimoni o fidanzamenti contratti per procura; 101 secondo, le vicende singolarmente concordanti di Nello Pannocchieschi e Pia Malavolti, che lasciano ragionevolmente adito alla nostra supposizione, come più avanti ampiamente esporremo. Abbiamo già fatto notare la singolare unanimità degli antichi commentatori nel designare in Nello della Pietra l’assassino di Pia: fa meraviglia che essi siano riusciti ad individuarlo in tanta ignoranza dei fatti, ma forse dovettero trovare quel nome in alcuno dei più antichi manoscritti del Poema, segnatovi come notazione marginale da Dante stesso
che questa interpretazione dei versi danteschi viene avanzata per evitare di « tacciare Dante di oziosa abbondanza o di oscurità nel dire », perché il ricordo della dazione del primo anello sarebbe comunque o superfluo od oscuro, in verità il Lisini la introduce — ricavandola da una lettura arbitraria e cavillosa del pria dantesco che egli interpreta non come dovrebbe, cioè come prima (della morte), ma come più gli conviene, cioè come primo (anello) — perché la tesi che il fidanzamento di Pia da Siena sia avvenuto per procura e che Nello della Pietra sia stato il procuratore di Tollo di Prata, gli permette di separare i due dati della tradizione, secondo cui Nello era il marito e l’uccisore di Pia, per sostenere poi da un lato che Nello, contro la tradizione, non era il marito di Pia e dall’altro lato che Nello, secondo la tradizione, era l’uccisore o comunque il responsabile della morte di Pia. 101 Lisini, La Pia di Dante, p. 253–257, mostra come nel senese del Duecento il fidanzamento prevedesse la dazione di un anello e come questa dazione spesso avvenisse per procura. Ma non spiega perché questa sua interpretazione non sia venuta in mente ad alcuno, tranne uno, dei primi commentatori che avranno pur conosciuto queste usanze matrimoniali non meno bene di lui. In ogni caso, non basta mostrare che spesso si faceva in un modo, per dimostrare che quella volta si fece in quel modo: non basta cioè mostrare esempi di fidanzamento per procura, per dimostrare che anche Pia si fidanzò per procura; l’individuale, infatti, non si lascia dedurre logicamente dal per lo più.
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o da qualcuno a lui vicino. In ogni modo qualcosa di vero in tale designazione ci deve essere e noi pertanto l’accoglieremo, finché le memorie sincrone non ci indicheranno un altro nome che sveli più esplicitamente l’uccisore di Pia. » 102 Mentre l’identificazione dell’uccisore con Nello della Pietra viene fatta in base alla testimonianza unanime degli antichi commentatori, l’identificazione dell’uccisa con Pia dei Malavolti viene fatta invece per esclusione; leggiamo: « Ma che cosa ci fa supporre che proprio questa [Pia dei Malavolti] sia la Pia di Dante? Esclusa una Pia Tolomei perché inesistente, esclusa la Pia Guastelloni perché provato che nulla aveva a che fare con quella dantesca, dovevamo pensare, come lo Spagnotti, che il personaggio dantesco fosse stato immaginario? La leggenda era ormai sfatata, ma non potevamo pensare ad una Pia immaginaria, senza togliere ogni valore all’episodio dantesco. Non vogliamo dilungarci sull’assurdità di una simile ipotesi; diremo solo che […] una Pia puramente ideale, morta misteriosamente e adombrata da pochissimi cenni, ci appare un’assurdità stonata e senza costrutto, indegna della mente di Dante. La nostra ferma persuasione che la Pia sia realmente esistita, ci ha spinti alle lunghe ricerche d’archivio, e al ritrovamento di alcune notizie su questa Pia Malavolti che ci è apparsa come l’unica, le cui vicende si adattano a quelle del personaggio dantesco. » 103 Identificata Pia da Siena con Pia dei Malavolti, per sollevare il velo misterioso che ricopriva la vita di quella, il Lisini ricostruisce la storia di questa, scomparsa durante l’assedio di Prata (1285–1289), di cui egli ricorda con opportuna ampiezza le fasi. Erroneamente creduti del ceppo dei Pannocchieschi, la grande famiglia che nel Duecento si era estesa su gran parte della Maremma toscana, i signori di Prata non erano Pannocchieschi, ma erano un ramo dei conti Alberti da Prato
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Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 54–55. Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 55–56.
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ed avevano militato con gli imperatori svevi, dal Barbarossa a Federico II, ottenendone riconoscimenti e benefici. 104 Da sempre, quindi, ferventi ghibellini, nel 1244 Gherardo, signore di Prata, si sottomise al Comune di Siena, allora roccaforte del ghibellinismo toscano, e ne divenne cittadino, promettendo di difendere i senesi e di fare guerra per loro. 105 Dieci anni dopo, nel 1254, morto Gherardo in circostanze non chiare, Adelasia, sua vedova, per avere una valida protezione, con l’autorità conferitagli dallo stesso marito, rinnovò il patto di sottomissione a Siena a nome dei suoi tre figli minorenni, Gherardo, Bertoldo detto Tollo e Rinaldo detto Nardo, i quali, una volta divenuti maggiorenni, cioè a tredici anni, avrebbero dovuto ratificare personalmente il patto. 106 Quando, dopo la battaglia di Colle di Val d’Elsa (1269), il potere in Siena passò in mano ai guelfi, i rapporti tra i signori di Prata, da sempre ghibellini, ed i nuovi governanti senesi si deteriorarono progressivamente fino al punto che, nel
Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 58, scrivono: « I nostri vecchi eruditi, avendo transunto un antico documento di pace fatto, per desiderio del Comune di Siena, dal conte palatino Guglielmo Aldobrandeschi con alcuni suoi subfeudatari, fra i quali figura un Pannocchia che fu letto da Prata anziché da Pereta, furono nel convincimento che quel castello [di Prata] appartenesse alla famiglia Pannocchieschi, nella quale tal nome [Pannocchia] è comune. Ristudiata da noi meglio la famiglia di quei Signori [di Prata], possiamo dire con certezza che essa fu un ramo della celebre casata degli Alberti da Prato, la cui origine si fa risalire ad un conte Ubaldo o Tibaldo, duca di Camerino e di Spoleto, vissuto nel sec. IX. A darne prova, oltre ai nomi di questa famiglia, ci vengono in aiuto alcuni sigilli del Comune di Prata del sec. XIV, oggi conservati nella collezione sfragistica del Museo Civico di Siena. » — A conferma del fatto che i signori di Prata non erano della casata dei Pannocchieschi si può ricordare che nell’atto di sottomissione al Comune di Siena, fatto il 19 aprile 1282, nel palazzo dei Tolomei, e pubblicato in Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 143–150, Tollo di Prata ed i suoi tre nipoti promettono anche di fare pace con i Pannocchieschi e con i loro sostenitori. 105 Il testo dell’atto è in Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 123–125. 106 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 59–63; l’atto è a p. 127–131. 104
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1281, Gherardo da Prata rimaneva ucciso in Piazza del Campo, in Siena, nella mischia seguita ad un tentativo, di cui egli era tra i promotori, di far sollevare il popolo senese contro il governo guelfo. 107 Rimasto unico signore di Prata, 108 e giudicando non conveniente restare ghibellino ora che i guelfi diventavano sempre più potenti in Toscana e gli imperatori tedeschi, dopo la fine della dinastia sveva, non avevano più alcun prestigio in Italia, Tollo decise di farsi amico dei senesi guelfi; ed il 19 aprile 1282, in Siena, nel palazzo dei Tolomei, Tollo per sé ed i nipoti Fredi e Nicolò per sé e per il loro fratello Ceo, evidentemente ancora minorenne, promisero di essere amici di Siena e nemici dei nemici di Siena; di consegnare per due anni ai senesi il cassero e la torre del castello di Prata; di fare pace, generale e perpetua, con i Pannocchieschi e con i loro sostenitori; di contrarre matrimonio soltanto con il beneplacito dei signori Quindici governatori di Siena. 109 Non molto tempo dopo questo patto di amicizia e di aiuto reciproco con il Comune di Siena, Tollo di Prata prese in moglie Pia, figlia di Ranuccio dei Malavolti, una delle più nobili e potenti famiglie guelfe di Siena. 110 Stabilita la propria Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 63–67. — Sposato ad una donna di cui ignoriamo il nome, Gherardo, morendo, lasciava tre figli: Rufredi detto Fredi, Nicolò detto Naio e Gaddo o Maffeo detto Gadduccio o Ceo; i primi due dovevano essere maggiorenni, cioè avevano compiuto almeno dodici anni, mentre il terzo doveva essere minorenne, visto che nel patto di amicizia con Siena, stipulato il 19 aprile 1282 insieme allo zio Tollo, Fredi e Nicolò si impegnano per sé e per il fratello Ceo. 108 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 63, nota 4, a prova del fatto che Rinaldo, l’altro fratello di Tollo, era morto prima del 1282, scrivono: « Infatti nell’atto di sottomissione di Prata che vedremo farsi nel 1282, Rinaldo non è più nominato tra i signori di Prata e in atti successivi si dice Gina [la moglie] vedova. » 109 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 67–70; l’atto è a p. 143–150; una traduzione di questo atto si trova in Franceschi, La Pia de’ Tolomei, p. 48–51. 110 A questo punto, Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 70, scrivono: « Per riallacciare quanto risulta dai documenti con la tradizione della figura dantesca, occorre che ci sia concessa una congettura. Biso107
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dimora nel castello di Prata, i due sposi avevano avuto già due bambine, Cia e Gadduccia, quando, il 30 settembre 1285, domenica, uscendo di chiesa, Tollo venne aggredito ed ucciso dai propri nipoti e da alcuni loro complici, tra i quali era anche Ghino di Tacco. 111 Convocato d’urgenza, il 7 ottobre 1285, dopo avere ascoltato come i tre figli del fu Gherardo da Prata, dopo avere ucciso il loro zio Tollo, amico di Siena, si fossero rifiutati di consentire agli inviati di Siena l’accesso al castello previsto dai patti e di consegnare la moglie di Tollo, Pia di Ranuccio Malavolti, e le sue due figlie, il Consiglio Generale del Comune di Siena approvò la proposta del podegna cioè pensare che l’obbligazione o la promessa di matrimonio fatta a mezzo dell’anello venisse compiuta da Nello in qualità di procuratore di Tollo; cosa ammissibile e non nuova a quei tempi, come abbiamo già detto. » E per rafforzare la verosimiglianza di questa congettura, nella stessa p. 70, nota 3, scrivono: « È da notarsi poi che fu presso questa famiglia [Malavolti] che, come abbiamo visto [a p. 34], fu custodito [nel 1263] quale ostaggio della Repubblica, il giovane Nello della Pietra. » — Non sappiamo su quali basi Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 34, affermino: « Nei tre anni e più di forzata dimora in Siena, il giovane Nello fu affidato ai suoi parenti Malavolti e dovette essere bene accolto dalle principali famiglie della città. » Diciamo che non sappiamo, perché le fonti a cui essi rinviano, cioè O. Malavolti, Storia di Siena, lib. II, parte II, pag. 30 e A. S. S. Dipl. Rif., 1263 Dic. 7, dicono cose diverse: il Malavolti dice infatti che i tre ragazzi Pannocchieschi furono affidati a Guido di Orlando Malavolti con cui essi avevano parentela, e lascia intendere che il soggiorno in Siena di Nello durò soltanto un anno; il documento d’archivio citato e pubblicato dagli stessi Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 135–137, dice invece che Nello venne preso in consegna da Giovanni di Alberto da Pernina. Non sappiamo, dunque, su quali basi lo affermino; ma sappiamo a quale scopo lo facciano: insinuando che Nello della Pietra e Pia dei Malavolti si erano conosciuti e frequentati già da ragazzi, anzi erano vissuti nella stessa famiglia, si rendeva più verosimile sia la tesi del fidanzamento per procura sia l’ipotesi che Pia avesse seguito Nello nel castello di Pietra: “una vecchia conoscenza”, lo diranno infatti Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 104. 111 Dalle condanne pronunciate contro nove persone dal Comune di Siena, riportate da Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 88, risulta che i condannati avevano avuto responsabilità diverse: dei tre nipoti, infatti, soltanto Nicolò viene condannato, insieme ad altri due uomini, “perché uccisero Tollo di Prata”.
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stà, conte Guido di Battifolle, di mandare un esercito per recuperare il castello di Prata e catturare i tre traditori e nemici del Comune di Siena. Il primo a parlare a favore di questa proposta era stato Biagio dei Tolomei. 112 Venti giorni dopo, l’esercito senese cingeva d’assedio il forte castello di Prata, la cui conquista risultò comunque difficile e tale da impegnare forze importanti. Ma questa concentrazione delle forze senesi su Prata lasciava spazio ai ghibellini della Val di Chiana, i quali, credendo venuto il momento opportuno per riprendere la propria lotta antiguelfa, 113 si impossessarono del castello di Poggio Santa Cecilia, da dove, collegati con Guglielmino degli Ubertini, vescovo ghibellino di Arezzo, assaltavano il territorio circostante ed impedivano le comunicazioni tra Siena e le comunità rimastele fedeli. Così, a seguito dei fatti di Prata e di Poggio Santa Cecilia, in Toscana riprendeva una guerra generale tra guelfi e ghibellini che vide le guelfe Siena e Firenze alleate contro la ghibellina Arezzo, con alterne vittorie e sconfitte: i guelfi senesi furono massacrati dai ghibellini aretini in un’imboscata presso la Pieve al Toppo (26 giugno 1288), mentre i ghibellini aretini furono definitivamente sconfitti dai guelfi senesi e fiorentini nella sanguinosa battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), dove combatté anche Dante e dove morì Buonconte da Montefeltro.
Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 81–85; il testo del verbale del Consiglio Generale è a p. 153–156; una traduzione di questo verbale si trova in Franceschi, La Pia de’ Tolomei, p. 52–54. 113 Si trattava in effetti di un momento difficile per i guelfi italiani: nel 1282, con i Vespri Siciliani, era iniziata la Guerra del Vespro che avrebbe impegnato per ben venti anni le forze angioine; nel 1285 erano morti sia re Carlo I d’Angiò sia papa Martino IV, entrambi francesi ed entrambi pilastri del partito guelfo in Italia; nel 1273 era stato eletto re di Germania e dei Romani Federico I d’Asburgo, che sembrava accingersi a scendere in Italia per cingere la corona imperiale in Roma, e che intanto inviava propri legati a riscuotere imposte, reclutare fedeli, riaccendere speranze. 112
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Solo allora, nel settembre del 1289, i senesi riuscirono ad entrare nel castello di Prata, dove tuttavia trovarono soltanto pochi abitanti: gli ultimi difensori, infatti, temendo di essere tutti impiccati come era avvenuto tre anni prima ai ghibellini di Poggio Santa Cecilia (aprile 1286), erano fuggiti. I tre nipoti di Tollo, invece, dopo avere affidata la difesa del castello di Prata ai ghibellini maremmani, si erano da tempo uniti alle forze ghibelline di Percivalle di Lavagna, vicario dell’imperatore Rodolfo I d’Asburgo, dal quale, per garantirsi dalle pretese di Siena, avevano ottenuto, in riconoscimento dei servigi prestati, un diploma, fatto in Rieti il 13 maggio 1288, che dava e rinnovava a loro vantaggio l’antica concessione imperiale del feudo di Prata. 114 Quanto a Pia dei Malavolti, dice il Lisini, niente accenna che essa sia stata ritrovata in Prata. 115 Si può essere certi, egli dice, che le autorità senesi fecero fare delle ricerche. Ricerche che tuttavia ci restano ignote, perché tutte le carte ed i registri degli atti del governo, in cui si sarebbero trovate quelle notizie, vennero bruciate in Piazza del Campo, quando, nel 1355, durante un tumulto popolare aizzato dai nobili senesi e dall’imperatore Carlo IV, si volle distruggere ogni ricordo di quel Governo dei Nove che aveva retto Siena per più di settanta anni. Lamenta il Lisini: « Così quei ricordi che sarebbero stati preziosi per noi, mancano affatto e rimane il mistero della fine di quella tragedia, che forse anche a quel tempo non si riuscì a conoscere. » 116 In mancanza di documenti d’archivio, il Lisini suppone che, al momento di lasciare il castello di Prata, i tre fratelli abbiano affidato Pia dei Malavolti a qualche persona di loro fiducia, per potersene servire poi come ostaggio, qualora fosLisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 85–102; a p. 156–158 si trova il testo del diploma concesso dal vicario imperiale ai nipoti di Tollo di Prata. 115 Le due figlie, Cia e Gadduccia, forse erano già in casa degli zii materni, al cui solo aiuto, come vedremo più avanti, esse diranno di essere debitrici se non erano finite a mendicare di porta in porta per il mondo. 116 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 103. 114
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sero stati costretti a patteggiare con Siena. Più precisamente, vista l’unanimità degli antichi commentatori nel designare Nello della Pietra come responsabile della morte di Pia, il Lisini pensa che i tre fratelli l’abbiano affidata proprio a Nello che, dopo l’imboscata presso la Pieve al Toppo, 117 sembra allentasse i propri rapporti con Siena fino a passare tra i suoi nemici e che Pia stessa dovette seguire con fiducia, trattandosi, sostiene il Lisini, di “una vecchia conoscenza” e di colui che le aveva dato l’anello di fidanzamento come procuratore di Tollo; dice il Lisini: « La responsabilità di Nello sarebbe stata quindi di essersi reso complice, prima, del sequestro della donna e, successivamente, di averla uccisa o fatta morire. » 118
Nella sanguinosa imboscata che i ghibellini aretini tesero ai guelfi senesi presso la Pieve al Toppo (26 giugno 1288), Nello della Pietra, comandante della cavalleria senese, sembra si desse alla fuga mentre la fanteria veniva massacrata. Per questo suo comportamento, alcuni storici successivi, ma non i suoi contemporanei, accusarono Nello di tradimento della propria parte e di intesa con il nemico, a cui avrebbe rivelato il percorso che l’esercito senese, di ritorno dal fallito assedio di Arezzo, avrebbe seguito. 118 Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 104. — Sulla colpevolezza di Nello della Pietra per l’uccisione della Pia, il Lisini aveva dunque cambiato opinione, visto che, in precedenza, Lisini, La contessa palatina Margherita Aldobrandeschi, p. 100, aveva scritto in maniera lapidariamente efficace: « Ma di questo delitto nessuno poteva accusarlo perché non lo aveva commesso. » — Quanto al modo in cui sarebbe avvenuta la morte di Pia, Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 105–106, dicono: « Su questo punto ognuno può sbizzarrirsi come vuole: essa può essere stata uccisa con un pugnale oppure con un forzato salto dalla finestra o può anche esser morta semplicemente di malaria o di dolore. Nello, ormai occupato negli amori con la contessa Margherita, aveva ben altro da pensare; ma siccome quella donna nel suo castello poteva rappresentare un impiccio e anche un pericolo, nel caso che i senesi ne fossero venuti a conoscenza, può essere benissimo che egli abbia voluto sbarazzarsene. Non possiamo però escludere che egli possa averla dimenticata e che poi l’abbia trovata morta di malaria o di dolore… Insomma nessuna supposizione può essere scartata a priori, anche perché nessuno di quel tempo e quindi neppure Dante saprebbe dirci qualcosa in proposito. » 117
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Poiché Prata era feudo imperiale, il Comune di Siena, avendolo conquistato con la forza, non avrebbe potuto conservarlo legittimamente senza il consenso dell’imperatore: un consenso che doveva risultare impossibile ottenere da parte di una città che da venti anni era ormai governata dai guelfi. Pertanto, in assenza di un tale consenso, per consolidare anche per via di diritto quanto già controllava di fatto, il Comune di Siena scelse di entrare giuridicamente in possesso di Prata, acquistandone ogni quota di proprietà da chiunque ne fosse detentore. Il 17 ottobre 1293 fu acquistata la parte detenuta da Gina di Ruggerino del Sasso, vedova di Rinaldo, l’altro fratello di Tollo; il 19 ottobre 1306 fu acquistata la parte di proprietà che alcuni membri della famiglia dei Tolomei vi avevano acquistato nel 1292; 119 il 29 dicembre 1309 fu acquistata la parte detenuta da Fredi di Gherardo, ultimo superstite dei tre nipoti di Tollo di Prata. Il giorno successivo, 30 dicembre 1309, il Consiglio Generale del Comune di Siena decise di annullare tutte le condanne precedentemente pronunciate contro Fredi e di ribannirlo, cioè di riammetterlo sotto il proprio banno o protezione giuridica. Il primo a parlare, con toni assai aspri e decisi, contro questa proposta di annullamento delle condanne pendenti su Fredi da Prata, che in effetti venne approvata soltanto a maggioranza, era stato Andrea di Mino dei Tolomei. 120 A seguito di questa pacificazione di Siena con Fredi di Gherardo, corresponsabile dell’uccisione del loro padre, Cia e Gadduccia, le due giovani figlie di Tollo di Prata e di Pia dei Malavolti, presentarono allora una petizione al Governo dei Nove, su cui venne chiamato a deliberare, il 28 ottobre 1311, il Consiglio Generale del Comune di Siena. Nella loro petizione, le due giovani lamentano di essere state lasciate senza
Per questa proprietà dei Tolomei in Prata, vedi R. Mucciarelli, I Tolomei banchieri di Siena, Siena, Protagon Editori Toscani, 1995, p. 214–216. 120 I testi degli atti sono in Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 159–174. 119
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aiuto alcuno da parte della città di Siena, che invece avrebbe dovuto abbracciarle come figlie, visto che Tollo, loro padre, era stato ucciso, da Fredi e dagli altri nipoti, perché era e voleva restare amico di Siena. Siena invece le aveva trattate come estranee, quasi come nemiche, e le aveva private dei beni che Tollo, loro padre, possedeva in Prata, tanto che, se non fosse stato per l’aiuto ricevuto dagli zii materni, 121 esse sarebbero state costrette a mendicare di porta in porta per il mondo. Ma quel che è peggio, mentre Fredi, che avrebbe dovuto essere perseguito come nemico perfido del Comune di Siena e come scellerato colpevole di crimini infiniti, era stato riaccolto sotto la protezione di Siena ed aveva ricevuto una grande quantità di denaro, 122 esse, che avrebbero dovuto ottenere il massimo favore ed aiuto, avevano invece ricevuto il contrario. Pertanto, affinché il Comune di Siena non persistesse nella sua ingratitudine, piacesse ai signori Nove ed al Consiglio trovare il modo più conveniente per soccorrere alle loro necessità ed indigenze di orfane, salvando l’onore del Comune di Siena. 123
Da questo riferimento agli zii materni, deduciamo che, rimaste orfane di entrambi i genitori, Cia e Gadduccia siano state accolte in casa dei fratelli di Pia dei Malavolti. 122 Il 29 dicembre 1309, per la vendita delle dieci parti di possesso su ventiquattro che egli deteneva sul castello e sul territorio di Prata, Fredi di Gherardo aveva ricevuto dal Comune di Siena duemila e cinquecento libre di buoni denari senesi piccoli. 123 Il testo del verbale della riunione del Consiglio è in Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 177–180. — In relazione a questa petizione, Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 110–111, scrivono: « Nemmeno le notizie sulle figlie ci danno altri lumi sulla sorte di Pia. Quello che può destare una certa meraviglia è che nella lunga istanza presentata al Comune di Siena, non venga mai rammentata la madre. Se volessimo accusarla di una qualche colpa, potremmo anche qui trovare l’appiglio conveniente per supporre che la madre non venisse rammentata dalle figlie perché, pur non conoscendone esse la di lei triste fine, era da loro però ben conosciuta la colpa che di tal fine era stata la causa principale… Vogliamo invece ben guardarcene, sicuri di non mancare con ciò al nostro dovere di storici imparziali, né di guastare il nostro lavoro col defraudarlo di una conclusione fantasiosa. È infatti più logico pensare 121
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Furono avanzate diverse proposte di compensazione, preoccupate tutte di conservare il controllo di Siena su Prata e nello stesso tempo di riconoscere i diritti ereditari delle due giovani figlie di Tollo, che in effetti ottennero, almeno per questo aspetto, giustizia. Risulta, infatti, che nel 1321 Cia e Gadduccia, ormai onorevolmente sposate e con figli, rivendettero al Comune di Siena le quote di proprietà che avevano evidentemente recuperato su Prata. 124 6. Il testamento di Nello. Tra tutti i documenti che abbiamo incontrato e studiato, un’importanza del tutto particolare spetta al testamento di Nello della Pietra, a cui ora dobbiamo tornare, per ristudiarlo in maniera ancora più attenta di quanto sia stato fatto finora, perché in esso ci sembra di avere trovato la chiave per risolvere la questione della Pia che non si sia nominata la Pia per non destare un ricordo inopportuno. Sembra che in quel tempo Nello della Pietra avesse rifatto pace con Siena e che quindi dimenticata era la fine di Pia, come dimenticata la condanna di Nello stesso. » — A noi sembra, invece, “più logico pensare” che, essendo finalizzata al riconoscimento dei loro diritti ereditari su Prata, la petizione andasse impostata proprio come essa fu impostata, cioè insistendo sul fatto che Cia e Gadduccia erano figlie di Tollo, il signore di Prata: questo era il solido fondamento giuridico della petizione, a sostegno del quale veniva poi introdotto l’argomento morale del diverso ed ingiusto comportamento tenuto dal Comune di Siena nei confronti di Fredi, uccisore di Tollo e figlio di Gherardo, il nemico di Siena, e nei confronti di Cia e di Gadduccia, figlie di Tollo, l’amico di Siena, ucciso perché era e voleva restare tale. In questa prospettiva, ci pare, il ricordo della madre scomparsa non sarebbe stato tanto un “ricordo inopportuno”, quanto un fuori tema assoluto, visto che non si trattava di recuperare l’eredità della madre, la cui immagine risulta comunque, indirettamente e positivamente, evocata dall’aiuto che i suoi fratelli avevano fornito alle sue figliole. 124 Il testo dei due atti è in Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 180–183. In merito a questo ultimo acquisto di proprietà, Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 110, scrivono: « Nello stesso anno [1321] la Repubblica [di Siena] fa un accurato esame delle sue ragioni su Prata, chiamando i testimoni a documentare la sua ormai incontestabile e completa proprietà sul castello che poi, nel 1492, venderà per 7000 fiorini allo Spedale di Santa Maria della Scala [in Siena]. »
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dantesca. 125 Noi crediamo infatti che, contro quanto è stato più volte sostenuto, già dal suo testamento risulti estremamente probabile che Nello della Pietra abbia avuto almeno tre mogli; una probabilità che diventa certezza alla luce di un altro documento, pubblicato dal Caetani e ricordato, ma purtroppo non adeguatamente utilizzato, dal Lisini. Abbiamo visto a suo luogo che, nel proprio testamento, Nello parla di tre figlie: le prime due, Fresca e Francesca, sono già sposate, Fresca con cinque figli, Francesca senza figli, mentre l’ultima, Bianca, è ancora bambina. Abbiamo anche visto che egli parla di due mogli: di Bartala, sua moglie attuale, parla in maniera distesa, sia per nominarla tutrice della figlia Bianca sia per disporre a favore di lei dal punto di vista ereditario; di Nera, invece, egli parla soltanto per inciso, cioè soltanto per dire che essa gli aveva lasciato 25 libre di denari da lasciare alla signora Clara, sua cameriera, e 15 libre di denari da lasciare alla signora Falia, figlia del signor Caffarello di Gerfalco. Di quale di queste due mogli sono figlie le tre figlie di Nello? Bianca, la figlia bambina, è certamente figlia di Bartala, ultima moglie di Nello, che nel testamento appare essere una donna ancora giovane, tanto che Nello prevede che essa possa avere ancora dei figli e che, dopo la morte di lui, potrebbe volere risposarsi. Per queste stesse ragioni, Fresca e Francesca, entrambe già sposate, non possono essere figlie di Bartala, di cui anzi potrebbero essere addirittura più anziane, soprattutto Fresca, che ha già cinque figli, due dei quali, Nello e Bustercio, in età tale da avere già aiutato il loro padre, Bindino da Sticciano, a sottrarre il castello di Montemassi al loro nonno materno, Nello della Pietra, che proprio per questo li disereda. Ora, poiché Nello e Bustercio, i due figli di Fresca, vengono considerati dal nonno corresponsabili insieme al loro padre di avergli sottratto Montemassi, essi Il testo latino del testamento di Nello è in Gaetano Milanesi, Documenti intorno alla Pia de’ Tolomei ed a Nello de’ Pannocchieschi suo marito, « Giornale storico degli archivi toscani », 1859, III, p. 30–42; una traduzione italiana completa di esso è in Simonetti, La Pia …Tolomei, p. 90–109. 125
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hanno certamente superato da qualche tempo i dodici anni, età in cui allora si veniva considerati maggiorenni, ed avranno avuto, pensiamo, tra i quindici ed i venti anni; di conseguenza Fresca, loro madre, dovendone avere più o meno il doppio, avrà avuto, pensiamo, intorno ai trentacinque anni. Pertanto, poiché il testamento di Nello è del 1321, Fresca, sua figlia, sarà nata verso il 1285. Fresca e Francesca non sono figlie di Bartala. Sono dunque figlie di Nera? Se così fosse, Nera dovrebbe essere morta prima del 1289, quando inizia la relazione amorosa tra Nello e Margherita Aldobrandeschi. In effetti, se anche non si volesse credere, come noi non crediamo, a quei commentatori e storici antichi secondo cui Nello avrebbe ucciso sua moglie proprio per poter sposare la contessa Margherita, si dovrà almeno tenere conto del fatto che nel 1298, quando Margherita venne accusata e condannata in nome e per conto di papa Bonifacio VIII come bigama, perché, si sostenne, aveva contratto matrimonio con Nello della Pietra mentre era ancora vivo Guido di Monfort, suo primo marito, non risulta che Nello venisse allora accusato e condannato come bigamo per aver sposato Margherita, cosa che sarebbe certamente avvenuta se all’epoca egli non fosse stato già vedovo. Che se poi questa mancanza di accusa di bigamia non fosse ritenuta sufficiente a provare che verso il 1289 Nello era già vedovo, bisognerà in ogni caso riconoscere che egli doveva esserlo certamente nel 1303, quando papa Bonifacio VIII impose che Nello e Margherita si unissero in matrimonio, cosa che neppure un tal papa avrebbe potuto in alcun modo imporre se Nello e Margherita non fossero stati entrambi vedovi. Pertanto, se Nera fosse stata la madre delle prime due figlie di Nello e non fosse già morta nel 1289, essa doveva essere sicuramente morta nel 1303. Ma qui si pone un nuovo problema, perché Nello, che nel 1303 era sicuramente vedovo, se Bonifacio VIII poteva costringerlo a sposare Margherita, in un documento di quattro anni dopo risulta separato da Margherita e sposato da poco con un’altra donna. Questo documento è una lettera
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con cui il 7 maggio 1307, da Marsiglia, Carlo II d’Angiò, informato di quanto avviene dal cardinale Napoleone Orsini, ordina al figlio primogenito Roberto, vicario generale del regno di Napoli, di cessare di intromettersi nella causa di separazione in corso tra Loffredo Caetani e Giovanna di Fondi, e di revocare tutte le disposizioni fino ad allora adottate a vantaggio del suddetto Loffredo ed in danno di Giacoma di Catanzaro, madre della suddetta Giovanna di Fondi. Vista la grande importanza di questo documento per il nostro discorso, ma anche la sua notevole lunghezza, ci sembra necessario ed opportuno tradurlo comunque fino al punto che più ci interessa. Ciò premesso, leggiamo il testo della lettera regia: « Carlo II al primogenito Roberto, vicario generale. Napoleone, cardinale diacono di Santo Adriano, 126 legato della sede apostolica, ci ha inviato da poco una lettera, in cui, premessa una narrazione sul matrimonio un tempo legittimamente contratto tra Loffredo Caetani, 127 nipote di papa Bonifacio di felice memoria, e la nobildonna Margherita, contessa Palatina, e sul divorzio poi seguito tra gli stessi, e sulla stessa Margherita costretta ad andare matrimonialmente in sposa (matrimonialiter nuberet) a Nello della Pietra, 128 ed anche sul matriSi tratta del cardinale Napoleone Orsini, zio di Orso Orsini, il secondo marito di Margherita Aldobrandeschi. 127 Il fatto che il cardinale Orsini dichiari legittimo il matrimonio contratto nel 1296 da Margherita e Loffredo Caetani significa che egli considera illegittima la successiva dichiarazione di nullità che nel 1298 il vescovo Bianchi aveva pronunciato in nome e per conto di papa Bonifacio VIII. Si trattava di ristabilire una verità storica a cui il cardinale Orsini, che conosceva bene sia Margherita sia Nello, era interessato anche per ragioni di famiglia. Se, infatti, il matrimonio di Margherita e Loffredo Caetani fosse stato nullo, perché Margherita aveva sposato Nello della Pietra mentre era ancora vivo Guido di Monfort, suo primo marito, allora doveva essere considerato nullo anche il matrimonio che essa, secondo i suoi accusatori, aveva contratto con Nello ed a maggior ragione quello che nel 1292 essa aveva contratto con Orso Orsini, nipote del cardinale: con tutte le conseguenze giuridiche ed ereditarie del caso! 128 In merito a questo punto, che è l’unico a cui egli prestò davvero attenzione, restandone purtroppo impedito dal cogliere quanto subito 126
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monio contratto tra lo stesso Loffredo, separato da quella, e la nobildonna Giovanna, contessa di Fondi, ed inoltre sulla reciproca separazione seguita tra i predetti Margherita e Nello, e che lo stesso Nello al presente abbia già contratto matrimonio con un’altra… ». 129 Chi è quest’altra donna con cui, nel 1307, dopo essersi separato da Margherita, sempre che questo matrimonio imposto da Bonifacio VIII sia avvenuto davvero, Nello aveva già contratto matrimonio? Esclusa Bartala, perché altrimenti essa non apparirebbe ancora tanto giovane quattordici anni dopo, nel 1321, l’anno del testamento di Nello, non rimane che pensare che quest’altra donna fosse proprio Nera, da cui Nello non sembra avere avuto figli e che nel testamento viene infatti ricordata soltanto per il lascito di 25 libre di denari in favore della signora Clara, sua cameriera, e di 15 libre di denari in favore della signora Falia del signor Caffarello di Gerfalco; un lascito, questo di Nera, che, sembrandodopo si legge in merito alla nuova moglie di Nello, Lisini, La contessa palatina Margherita Aldobrandeschi, p. 115, scrive: « Da questa premessa del Cardinale con le parole matrimonialiter nuberet, sebbene non chiare, si dedurrebbe che, quando papa Bonifazio obbligò la Margherita a sposare Nello, in precedenza i due non si fossero mai sposati; ed era pur naturale, perché anche quando Nello fu cacciato da lei, il vero e legittimo marito, il Monforte, era sempre vivente: e Nello si guardò bene di vantare diritti coniugali con la Margherita. Perciò la costrizione imposta dal Papa a sposare Nello per sciogliere il matrimonio del nipote Loffredo, fu gravissimo abuso di autorità commesso da Bonifazio VIII, che solo la morte di lui poté annullare. » 129 In Gelasio Caetani, Margherita Aldobrandeschi e i Caetani, p. 35, leggiamo: « Karolus secundus Roberto primogenito vicario generali. N(eapoleo) Sancti Adriani dyaconus cardinalis, apostolice sedis legatus, quasdam nobis nuper litteras destinavit, in quibus, narratione premissa de matrimonio legitime iam dudum contracto inter Loffredum Gaietanum, felicis recordationis Bonifacii pape nepotem, et mulierem nobilem Margaritam comitissam Palatinam, ac de secuto postea inter ipsos divorcio, eaque Margarita coacta ut Nello de Petra matrimonialiter nuberet, de matrimonio quoque inter ipsum Loffredum ab illa separatum et nobilem mulierem Iohannam comitissam Fundorum contracto, de separacione insuper ob invicem secuta inter Margaritam et Nellum predictos, et quod ipse Nellus iam cum alia matrimonium de presenti contraxerit… »
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ci dettato da riconoscenza verso quelle donne, non diremmo anteriore di decenni nel tempo; tutto anzi ci porta a pensare che nel 1321, anno del testamento di Nello, Nera non fosse morta da moltissimi anni: noi diremmo piuttosto da una decina, cioè poco prima del 1313, anno in cui Nello viene eletto e si reca come podestà a Lucca, dove ama quella signora Chiarina, da cui ha quel figlio maschio illegittimo che egli ricorda nel proprio testamento. Così, volendo ripercorrere a ritroso la successione delle mogli e delle amanti di Nello della Pietra, diciamo che Bartala, la giovane madre di Bianca, fu la sua ultima moglie; prima di Bartala, egli aveva amato Chiarina di Lucca, da cui aveva avuto un figlio maschio illegittimo; prima di Chiarina, egli aveva sposato Nera, da cui non risulta abbia avuto figli; prima di Nera, cedendo alla prepotenza di Bonifacio VIII, egli aveva, si dice, sposato Margherita Aldobrandeschi, di cui era stato l’amante una quindicina di anni prima, senza tuttavia riuscire a farsi sposare, e da cui allora aveva avuto un figlio maschio, Binduccio, morto, per caduta in un pozzo, nel 1300; prima di amare Margherita, egli aveva avuto un’altra moglie, la sua prima moglie, da cui gli erano nate le due figlie maggiori: Fresca e Francesca. Questa prima moglie di Nello della Pietra, della quale non conosciamo il nome di famiglia, come del resto non conosciamo il nome di famiglia della moglie Nera, si chiamava sicuramente Pia: la prova evidente è data dal fatto che i commentatori antichi la identificano con la Pia dantesca, cosa che certamente non sarebbe avvenuta, se essa non si fosse chiamata Pia. A seguito di questa identificazione della prima moglie di Nello con Pia da Siena, Nello della Pietra viene a sua volta identificato con colui che prima, sposandola, l’aveva inanellata con la propria gemma e che ora si sa (salsi) la causa della morte di lei: locuzione questa, salsi, in cui i commentatori vollero vedere un’accusa di uxoricidio, salvo poi dover riconoscere che nessuno sapeva come Nello avesse ucciso questa sua moglie che ora, a loro dire, lo denuncerebbe a Dante. Oltre che dall’identità del loro nome, dall’essere morte entrambe negli stessi anni (1285–1289), dall’essere forse
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l’una e l’altra di Siena, la confusione tra la Pia di Nello della Pietra e la Pia di Tollo di Prata, cioè la Pia di cui parla Dante, dovette essere favorita anche da altri elementi, quali il fatto che entrambe avevano due figlie piccole; la forte assonanza dei nomi dei loro mariti: Nellus de Petra e Tollus de Prata; la vicinanza non solo toponomastica ma anche geografica del castello di Pietra con il castello di Prata, a pochi chilometri l’uno dall’altro, nello stesso circondario di Massa Marittima. Né forse furono senza influenza, nel favorire la sovrapposizione e la confusione tra la Pia di Nello e la Pia di Tollo, e dei loro rispettivi mariti, da parte dei primi commentatori del testo dantesco, la relativa notorietà e vicinanza temporale di Nello della Pietra, morto da qualche anno soltanto, la relativa oscurità e lontananza temporale di Tollo di Prata, ucciso ormai da almeno quaranta anni, ed il fatto che Tollo e gli altri signori di Prata furono a lungo creduti dei Pannocchieschi, cioè membri della stessa famiglia a cui apparteneva Nello della Pietra. Ma, al di là di tutte queste coincidenze che avranno favorito la confusione tra le due donne e tra i loro mariti, la nostra scoperta di una prima moglie di Nello della Pietra di nome Pia non potrebbe essere invece vista come la prova definitiva, fino ad ora sfuggita agli storici, del fatto che i primi commentatori dicevano il vero, quando dicevano che la Pia da Siena di cui parla Dante era la moglie di Nello della Pietra, il quale conosceva bene la morte di lei, perché egli stesso ne era responsabile? La nostra risposta è negativa, per almeno due ragioni che ci sembrano insuperabili. La prima ragione, di natura estrinseca, è che, nonostante la relativa notorietà ed i molti nemici che certo non gli mancarono, finché egli fu in vita nessuno accusò mai Nello della Pietra di uxoricidio, 130 cosa che, se non altri, Bonifacio VIII non avrebLisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 105, fatte alcune riflessioni a sostegno della tesi della responsabilità di Nello della Pietra nella morte di Pia da Siena, scrivono: « Ma si dirà che queste supposizioni meritano il conto che se ne vuol tenere; ed è vero. Ad avvalorare però la supposta colpevolezza di Nello, sta una condanna a morte pronunciata contro di lui dal podestà di Siena, Pino de’ Vernacci, della quale rima130
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be certo mancato di fare, per aggravare in tal modo la posizione di Margherita Aldobrandeschi, accusandola di essere ispiratrice, se non proprio istigatrice, di quell’omicidio. La seconda ragione, di natura intrinseca, è che questa lettura finisce inevitabilmente, come infatti storicamente è finita, per fare di Pia da Siena una vittima del marito, anziché una vittima delle fazioni politiche, come invece fu la moglie di Tollo di Prata e come infatti ce la presenta Dante, che per
ne ricordo nel libro delle condanne di quel Comune. Questa condanna [collimerebbe, essi spiegano in nota, con quanto disponevano gli Statuti senesi contro chi uccideva la persona tenuta in ostaggio, ed] è preceduta di poco da un’altra a 1500 lire di multa, conseguente un’accusa di un Vanno di Montepescali, che sembra essere stato sequestrato da Nello o dalle sue genti. Come si vede, il Signore di Pietra era in piena ostilità coi senesi. » — Ristudiata l’intera questione alla luce dei diversi documenti da lui ritrovati, Simonetti, La Pia …Tolomei, p. 49, conclude: « Ma comunque la condanna “in avere e persona” comminata a Nello da Pino de’ Vernacci [che fu podestà di Siena nel 1291], riguarda certamente la morte di Vanni di Montepescali, poiché le sentenze riportate coincidono nel senso generale del reato compiuto e si raccolgono in un unico procedimento penale. È impensabile che nello stesso foglio CXXXIV si possa parlare di più persone uccise, tanto meno di una Pia. Ed è altrettanto fantasioso, oltreché scorretto, voler accusare Nello di un reato che non può essere a lui addebitato in mancanza di prove concrete. A meno che i sostenitori della leggenda, indossando le vesti del giudice, tramutino il “si dice” in prova concreta. Sicuramente la condanna non venne eseguita, anche perché Nello era un personaggio troppo in vista e … a molti tornava più utile vivo che defunto. Quindi non sarà risultato particolarmente difficile trovare ragioni politiche per dimenticare od annullare gli effetti della sentenza di Pino de’ Vernacci. » — In sintonia con queste conclusioni del Simonetti, noi ci limitiamo ad osservare che non si tratta di dimostrare se Nello sia stato condannato a morte dal Comune di Siena, ma si tratta di dimostrare che egli sia stato condannato per avere ucciso sua moglie, che è cosa notevolmente diversa e mai provata, anzitutto perché, lui vivente, nessuno mai lo accusò di uxoricidio; furono i primi commentatori del testo dantesco che vollero muovergli questa terribile accusa: un’accusa da cui egli, essendo ormai morto, non poté in alcun modo difendersi e che lo ha accompagnato per almeno settecento anni, In questo senso ci pare che egli abbia ben meritato quell’epiteto di “sventurato” con cui egli viene ricordato nella lapide apposta sul suo castello di Gavorrano.
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questo la inserisce in un unico trittico con Jacopo da Fano e Buonconte da Montefeltro. 7. Ritorno a Dante. A questo punto, chiarito come la questione della Pia dantesca sia nata dalla confusione, operata dai primi commentatori del testo dantesco, e da loro passata a tutti gli altri, tra la Pia di Nello della Pietra e la Pia di Tollo di Prata, la prima morta magari di parto, la seconda scomparsa durante l’assedio di Prata, torniamo al canto di Dante, per risolvere alcune questioni minori che ne hanno favorito un’interpretazione storicamente e letterariamente distorta. La prima questione che bisogna chiarire è che il quinto canto del Purgatorio dantesco, il canto delle vittime delle fazioni politiche, costituisce un trittico di grande unità concettuale ed artistica: Jacopo da Fano, Buonconte da Montefeltro, Pia da Siena sono infatti accomunati da un destino non soltanto di morte violenta, ma anche di non ritrovamento del loro cadavere: quello di Jacopo disperso nelle paludi del Brenta, quello di Buonconte travolto dall’Arno in piena, quello di Pia scomparso nella Maremma senese. 131 Grave errore è stato quello di aver letto la morte di Pia da Siena in parallelo con la morte di Francesca da Rimini, narrata nel quinto canto dell’Inferno, 132 anziché in parallelo con le morti di Jacopo da Fano e di Buonconte da Montefeltro. In conseguenza di questo errore, Pia da Siena è diventata, come Francesca, una vittima della gelosia del marito, mentre Dante la pone tra le vittime delle fazioni politiche. Tre morti e tre tipi di vittime: Jacopo rappresenta il politico, Buonconte rappresenta il combattente, Pia rappresenta la persona comune, vittima di forze e di odi più grandi di lei, dei quali essa ignora le ragioni e gli scopi. Un trittico di grande efficacia: un trittico in memoria delle vittime di tutte le fazioni politiche.
In questo senso specifico di disfacimento organico del proprio cadavere ci sembra da intendersi la locuzione disfecemi Maremma di Dante, Purgatorio, V, 134. 132 Dante, Inferno, V, 70–142. 131
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La seconda questione che bisogna chiarire è il significato esatto della locuzione salsi, con cui inizia il penultimo verso del canto. Salsi è contrazione di sallosi, e compare soltanto due volte in tutta la Commedia dantesca: entrambe le volte nel Purgatorio. Nonostante la loro vicinanza semantica, salsi non va confuso con sallo, perché sallo vuol dire “lo sa” ed allude a conoscenza di cosa notoria, 133 mentre salsi vuol dire “se lo sa” ed allude a conoscenza riservata a qualcuno. Così, dicendo « salsi colei che la cagion mi pose », Dante intende dire che la causa del proprio ravvedimento più che a lui è nota a Beatrice che gliela ha fornita. 134 Parimenti, dicendo « salsi colui che ’nnanellata pria », Pia da Siena intende dire che il motivo della propria morte, cioè il motivo dell’assedio di Prata in cui essa ha trovato la morte, più che a lei è noto al marito, cioè a Tollo di Prata, il quale, essendo morto, non può più dirlo ad alcuno, ed anche in questo senso se lo sa (salsi), cioè lo tiene per sé. 135 Grave errore è stato quello di non tenere conto della rarità della locuzione salsi e di questa sua sfumatura semantica in Dante. In conseguenza di questo errore interpretativo, la disarmata e disarmante dichiarazione di Pia di non conoscere bene la causa della propria morte, cioè la causa politica dell’assedio di Prata in cui essa ha trovato la morte, è stata letta come un’accusa, cifrata ma chiara, nei confronti del proprio marito; è stata letta, cioè, nel modo più dissonante possibile con un’anima sì discreta e gentile: un’anima che, come tutte le altre del suo gruppo, ha
In tutta la Commedia dantesca anche sallo compare soltanto due volte e sempre per indicare una cosa nota a tutti; la prima occorrenza è in Inferno, XXX, 120, dove mastro Adamo, dicendo al greco Sinone « e sieti reo che tutto il mondo sallo! », allude all’inganno del cavallo di Troia; la seconda occorrenza è in Purgatorio, XI, 66, dove Omberto di Santa Fiora, dicendo « e sallo in Campagnatico ogni fante », allude al fatto che il suo assassinio da parte dei Senesi è cosa nota in Campagnatico perfino agli infanti (ogni fante), cioè ai bambini che ancora non sanno parlare. 134 Dante, Purgatorio, XXXI, 90. 135 Dante, Purgatorio, V, 135. 133
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già perdonato al proprio uccisore ed ha appena chiesto a Dante di pregare, una volta riposato, per lei. La terza questione che bisogna chiarire è che i due versi, « Noi fummo tutti già per forza morti / e peccatori infino a l’ultima ora », 136 con cui le anime dei morti del quinto canto del Purgatorio si rivolgono e si presentano a Dante, non ci dicono né il tipo di morte né il tipo di vizio di cui quelle persone devono ancora purificarsi. Questi versi ci dicono soltanto che le anime che in tal modo si presentano a Dante sono anime di persone che sono morte di morte violenta, prima del tempo naturale, senza i riti ecclesiastici, ma fiduciose in un rapporto religioso diretto con Dio, la cui luce le confortò a perdonare ed a domandare perdono. Se invece di guardare a Francesca da Rimini, si fosse guardato al trittico di cui Pia è parte grande e gentile, ci si sarebbe accorti che neppure Jacopo neppure Buonconte vengono indicati colpevoli di un vizio o peccato specifico. Una grave svista che, distorcendo il senso morale e poetico del trittico, ha trasformato Pia da Siena, vittima ignara delle fazioni politiche, in “una Francesca pentita”, 137 che è immagine affatto estranea alle intenzioni di Dante, che finiscono per risultarne distorte. La quarta questione che bisogna chiarire è perché o si tacque il nome di famiglia di Pia da Siena o la si disse dei Tolomei. Tacque il nome della famiglia di Pia chi la confuse con la Pia di Nello, di cui ignorava, come noi, la famiglia di origine. Benvenuto da Imola invece, che dovette compiere ulteriori ricerche e che ci appare non solo il più informato ma anche il più attendibile di tutti gli antichi commentatori, la disse della stirpe dei Tolomei perché, pur continuando a crederla moglie di Nello, confondendo Nello con Tollo, le attriDante, Purgatorio, V, 51–52. Lisini, Bianchi–Bandinelli, La Pia dantesca, p. 106–107, scrivono: « Quello che resta per noi certezza, è che Dante non ha voluto, no, raffigurarci una Francesca pentita. In quei versi noi abbiamo sempre sentito, fin da quando li ascoltammo per la prima volta sui banchi della scuola, una profonda commiserazione per una grande sventura: la sventura di una innocente. » 136 137
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buiva i caratteri della Pia di Tollo: egli infatti, a nostro avviso, pensava al quadriennale assedio di Prata, quando scriveva che in seguito alla morte crudele di Pia « nacque un grande odio tra il detto signor Nello ed i Tolomei parenti della stessa signora ». Nella vicenda di Prata, infatti, i Tolomei avevano svolto spesso un ruolo importante: nel 1282 il trattato di amicizia tra Tollo e Siena era stato fatto nel palazzo dei Tolomei, così che essi ne divenivano non solo testimoni, ma anche mallevadori e garanti; nel 1285 il primo a parlare a sostegno della guerra per occupare il castello di Prata e punire i nipoti di Tollo era stato Biagio dei Tolomei; nel 1306 Sozzo di Alessio ed Alessio del fu Rinaldo dei Tolomei possedevano quote importanti del castello e del territorio di Prata; nel 1309 Andrea di Mino dei Tolomei si era opposto fermamente alla cancellazione delle condanne pendenti su Fredi, il nipote di Tollo di Prata. Questa presenza e questo impegno costanti dei Tolomei a favore di Tollo e negli affari di Prata dovette far apparire l’affare di Prata come un affare dei Tolomei, facendo nascere pertanto la voce, giunta poi fino a Benvenuto da Imola, che la moglie di Tollo di Prata, la Pia di Ranuccio dei Malavolti, che si voleva recuperare insieme alle figlie, fosse della stirpe dei Tolomei. Ancora una questione, inevitabile: come è morta Pia da Siena? Noi non lo sappiamo, come non lo sapeva Dante, il quale certo lo avrebbe detto, magari accennandolo con un solo aggettivo, mentre invece si è limitato a dire che essa è morta “per forza”, cioè di morte violenta ed innaturale. 138 Così, sapendo che Pia dei Malavolti è scomparsa durante l’assedio di Prata, ma non essendone stato ritrovato il cadavere, accanto al suo nome noi scriviamo soltanto: dispersa.
A parte il fatto che egli ne considera responsabile il marito, ci sembra che la morte per defenestrazione, di cui parla Benvenuto da Imola e di cui secondo noi potrebbero essere responsabili gli stessi uccisori di Tollo, si accordi bene all’idea di una morte violenta ed innaturale, quale appunto è la morte “per forza” di cui parla Dante. 138
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8. Conclusione. Nata dalla confusione tra la Pia moglie di Tollo, signore di Prata, e la Pia moglie di Nello, signore di Pietra, la questione della Pia dantesca si risolve con la distinzione di queste due donne e dei loro rispettivi mariti. La tragica vicenda della moglie di Tollo, nata a Siena da Ranuccio dei Malavolti e scomparsa in Maremma durante il lungo assedio di Prata (1285–1289), ispirò Dante che la inserì con toccanti parole nel potente trittico del quinto canto del Purgatorio, il canto delle vittime delle fazioni politiche, la cui tragedia prelude ed esplode nella violenta apostrofe « Ahi serva Italia, di dolore ostello » del grande canto successivo. 139 La brevità lapidaria del ricordo di Dante, l’accenno al marito, la vicinanza dei luoghi, dei casi e dei nomi dei personaggi, la relativa notorietà e vicinanza temporale di Nello della Pietra, la relativa oscurità e lontananza temporale di Tollo di Prata, il facile e suggestivo parallelo con Francesca da Rimini, ricordata da Dante nel corrispondente quinto canto dell’Inferno: tutte queste cose portarono i primi commentatori del poema dantesco a confondere la Pia di Tollo con la Pia di Nello, ed a vedere in lei la vittima della gelosia del marito. O felix culpa! o felice errore! dobbiamo dire. Perché da questa erronea trasformazione di Pia da Siena, da vittima delle fazioni politiche in vittima della gelosia del marito, è finita per nascere una terza Pia: la Pia dei Tolomei, figura dolente della leggenda letteraria e popolare, la cui vicenda di amore e di morte ispira le opere che oggi ripubblichiamo in memoria di tutte le vittime politicamente ignare delle innumerevoli guerre che hanno insanguinato ed insanguinano « l’aiuola che ci fa tanto feroci ». 140
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Dante, Purgatorio, VI, 76. Dante, Paradiso, XXII, 151.
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Bibliografia In questa nota ci limitiamo ad indicare, secondo l’ordine cronologico di composizione e di pubblicazione, le fonti e gli studi fondamentali, nei quali è possibile trovare anche ulteriori indicazioni bibliografiche.
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Parte II
I testi letterari
Avvertenza editoriale. Nella ristampa dei testi letterari relativi alla Pia abbiamo ritoccato sia la grafia, specie nella eliminazione della maiuscola iniziale del verso, sia la punteggiatura, adeguando il più possibile entrambe all’uso odierno. Per renderne più agevole la lettura a chi mancasse di una sufficiente familiarità con testi letterari antichi, soprattutto poetici, abbiamo dato una versione in prosa dei quattro testi che segnano le tappe principali di questa ampia pagina della letteratura italiana: il canto di Dante, con cui inizia la vicenda letteraria della Pia; la novella del Bandello, che per primo le attribuisce una colpa d’amore; il poemetto del Sestini, che la presenta come vittima innocente di una calunnia; la tragedia del Marenco, che la fece conoscere in Europa; la canzone del Moroni, che ne ha reso popolare la vicenda di amore e di morte in tutta l’Italia centrale. Anche per non rendere ancora più voluminoso il lavoro, ci siamo astenuti da ogni osservazione di critica letteraria relativa ai testi pubblicati, limitandoci a poche notazioni di natura storica e filologica. Così qui, oltre a ribadire che la Pia da Siena di cui parla Dante non fu una Tolomei ma una Malavolti, ci sembra opportuno ricordare che Nello della Pietra, suo presunto marito, non fu ghibellino, ma guelfo, cioè della stessa parte politica dei Tolomei, dei quali egli fu dunque alleato, non avversario politico, come invece, a torto, dicono i testi che cercano di spiegare con ragioni politiche la presunta inimicizia di Nello con il fratello od il padre di Pia. 81
DANTE ALIGHIERI PURGATORIO, V 1309–1313 ca.
Fig. 1 — Riproduzione dell’illustrazione premessa al primo canto del Purgatorio nell’edizione di Venezia, Giolito, 1555.
Presentazione La seconda cantica della Commedia dantesca, il Purgatorio, si articola in tre parti: la prima parte è costituita dai primi nove canti ed è dedicata alle anime che attendono di essere ammesse a purificarsi; la seconda parte è costituita dai diciotto canti compresi tra il decimo ed il ventisettesimo, ed è dedicata alle anime che si purificano, in gironi distinti e successivi, dai sette vizi capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria; la terza parte è costituita dagli ultimi sei canti, dal ventottesimo al trentatreesimo, ed è dedicata all’incontro di Dante con Beatrice nel Paradiso Terrestre sulla vetta del monte Purgatorio. Mentre le anime ammesse a purificarsi sono sottoposte ad una pena specifica, in qualche modo uguale e contraria al vizio da cui devono purificarsi, le anime che attendono di esservi ammesse non sono sottoposte ad alcuna pena specifica, da cui per contrappasso si possa capire da quale vizio debbano purificarsi, ma soffrono tutte per l’attesa a cui sono sottoposte. Questa mancanza di pene specifiche non ci consente di dire da quale vizio si debbano purificare le anime, vittime delle fazioni politiche, che incontriamo in questo canto; mentre il fatto che la loro vita terrena sia stata stroncata “a forza”, cioè con violenza e prima del tempo, senza lasciar loro la possibilità di purificarsi adeguatamente sulla terra, sembra ridurre la loro responsabilità e conseguentemente anche la durata della loro attesa nell’antipurgatorio. Questa, infatti, ci sembra essere la ragione per cui Dante le pone più in alto, cioè più vicine alla porta del purgatorio, non solo di re Manfredi, morto scomunicato, ma anche di Belacqua, che aveva indugiato fino alla fine naturale della vita prima di rivolgere a Dio i propri sospiri.
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Nota sull’autore. Dante Alighieri nacque a Firenze nel 1265. Prese parte alla vita culturale, militare e politica della sua città, di cui fu anche priore. Accusato di malversazione politica, mentre era impegnato in un’ambasceria a Roma presso Bonifacio VIII, e non essendosi presentato a pagare la multa a cui era stato condannato, nel 1302 venne condannato a morte in contumacia; da allora visse sempre in esilio, ospite di vari signori italiani. Nei quasi venti anni di esilio, scrisse il suo capolavoro, la Commedia, che Giovanni Boccaccio per primo considerò e disse divina. Dante morì a Ravenna il 14 settembre 1321. Nota sul testo. Il testo del canto del Purgatorio che qui pubblichiamo è tratto da Dante Alighieri, Commedia, a cura di Emilio Pasquini e Antonio Quaglio, Milano, Garzanti, 1987.
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Io era già da quell’ombre partito, e seguitava l’orme del mio duca, quando di retro a me, drizzando ’l dito, una gridò: « Ve’ che non par che luca lo raggio da sinistra a quel di sotto, e come vivo par che si conduca! » Li occhi rivolsi al suon di questo motto, e vidile guardar per maraviglia pur me, pur me, e ’l lume ch’era rotto. 1 « Perché l’animo tuo tanto s’impiglia — disse ’l maestro — che l’andare allenti? che ti fa ciò che quivi si pispiglia? Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti; ché sempre l’omo in cui pensier rampolla sovra pensier, da sé dilunga il segno, perché la foga l’un de l’altro insolla. » 2
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Io ero già partito da quelle anime, e seguivo i passi della mia guida, quando dietro a me, puntando il dito, una gridò: « Guarda! non si vede il raggio splendere da sinistra a quello di sotto, e sembra che si comporti come uno vivo! » Rivolsi gli occhi al suono di queste parole, e le vidi guardare meravigliate proprio me, proprio me, e la luce che era interrotta. 1
— Quello di sotto è Dante che, nel salire il monte, va dietro a Virgilio; la meraviglia delle anime nasce dal vedere che, a differenza di quanto avviene per loro stesse e per Virgilio, i raggi del sole non attraversano il corpo di Dante, che anzi proietta la propria ombra.
« Perché il tuo animo si confonde tanto — disse il maestro — che rallenti il cammino? Che ti importa di quello che si mormora qui? Vieni dietro a me, e lascia parlare le genti: tu sta sal2
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Che potea io ridir, se non « Io vegno? » Dissilo, alquanto del color consperso che fa l’uom di perdon talvolta degno. 3 E ’ntanto per la costa di traverso venivan genti innanzi a noi un poco, cantando ‘Miserere’ a verso a verso. Quando s’accorser ch’i’ non dava loco per lo mio corpo al trapassar de’ raggi, mutar lor canto in un « oh! » lungo e roco; e due di loro, in forma di messaggi, corsero incontr’a noi e dimandarne: « Di vostra condizion fatene saggi. » 4
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do come torre immobile, che non muove mai la cima, nonostante il soffiare dei venti; poiché l’uomo, in cui da un proposito, germoglia sempre un altro proposito, allontana la meta da sé, perché l’uno fiacca l’ardore dell’altro. » 3 Che potevo io rispondere, se non « Io Vengo? » Lo dissi, cosparso alquanto di quel colore che talvolta rende l’uomo meritevole di perdono. — Questo colore è il rosso di chi si vergogna.
Ed intanto di traverso al fianco del monte, un poco davanti, a noi venivano delle genti, cantando Miserere verso a verso. Quando si accorsero che io non lasciavo spazio al trapassare dei raggi attraverso il mio corpo, mutarono il loro canto in un « oh! » lungo e roco; e due di loro ci corsero incontro in qualità di messaggeri e ci domandarono: « Fateci conoscere la vostra condizione. » 4
— Miserere, abbi pietà, è l’incipit, cioè la parola con cui inizia il Salmo 50, il più famoso dei salmi penitenziali, composti dal re David per chiedere perdono dei due peccati da lui commessi: avere messo incinta una donna già sposata, Betsabea, ed aver poi comandato al comandante del proprio esercito di disporre le truppe in modo che il marito di lei, Uria, fosse ucciso in battaglia; su questi fatti, vedi la Bibbia, 2 Samuele, 11–12.
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E ’l mio maestro: « Voi potete andarne e ritrarre a color che vi mandaro che ’l corpo di costui è vera carne. Se per veder la sua ombra restaro, com’io avviso, assai è lor risposto: fàccianli onore, ed esser può lor caro. » 5 Vapori accesi non vid’io sì tosto di prima notte mai fender sereno, né, sol calando, nuvole d’agosto, che color non tornasser suso in meno; giunti là, con li altri a noi dier volta, come schiera che scorre sanza freno. 6 « Questa gente che preme a noi è molta, e vegnonti a pregar — disse ’l poeta — però pur va, e in andando ascolta. » 7 « O anima che vai per esser lieta con quelle membra con le quai nascesti — venian gridando — un poco il passo queta.
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Ed il mio maestro: « Voi potete andare e riferire a coloro che vi hanno mandati che il corpo di costui è vera carne. Se, come io penso, si sono fermati perché hanno veduto la sua ombra, si è loro risposto abbastanza: gli facciano onore e può essere prezioso per loro. » 5
— Può essere prezioso perché può pregare e chiedere di pregare per loro.
Io non vidi mai vapori accesi solcare così rapidi un sereno di prima notte né squarciare nuvole di agosto al calare del sole, che quelli non tornassero su in minor tempo; e giunti là si diressero con gli altri verso di noi, come un esercito che fugge senza alcun ritegno. 6
— I vapori accesi che solcano il cielo d’agosto sono le stelle cadenti, mentre quelli che squarciano le nubi della sera sono i lampi.
« Questa gente che preme verso di noi è molta, e ti vengono a pregare — disse il poeta — perciò cammina, e camminando ascolta. » 7
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Guarda s’alcun di noi unqua vedesti, sì che di lui di là novella porti: deh, perché vai? deh, perché non t’arresti? 8 Noi fummo tutti già per forza morti, e peccatori infino a l’ultima ora; quivi lume del ciel ne fece accorti, sì che, pentendo e perdonando, fora di vita uscimmo a Dio pacificati, che del desìo di sé veder n’accora. » 9 E io: « Perché ne’ vostri visi guati, Non riconosco alcun; ma s’a voi piace cosa ch’io possa, spiriti ben nati, voi dite, e io farò per quella pace che, dietro a’ piedi di sì fatta guida, di mondo in mondo cercar mi si face. » 10
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« O anima che vai per essere lieta con quelle membra con cui nascesti — venivano gridando — ferma un poco il passo. Guarda se vedesti mai qualcuno di noi, così che porti di là notizia di lui: deh, perché cammini? deh, perché non ti fermi? 9 Noi tutti fummo uccisi un tempo con la forza, e fummo peccatori fino all’ora estrema; qui una luce del cielo ci rese consapevoli, sicché, pentendoci dei nostri peccati e perdonando ai nostri uccisori, uscimmo fuori di vita pacificati con Dio che ci strazia il cuore con il desiderio di vederlo. » 10 Ed io: « Benché io guardi nei vostri volti, non riconosco alcuno; ma se vi piace qualcosa che io possa fare, o spiriti ben nati, voi ditela, ed io la farò per quella pace che, mi si fa cercare di mondo in mondo dietro ai piedi di così fatta guida. » 8
— Questi spiriti sono ben nati, cioè nati con un destino felice, perché ormai sono salvi e sicuri di salire « quando che sia tra le beate genti » del paradiso (Dante, Inferno, I, 120); inversamente, quelli che sono dannati per sempre all’inferno, sono detti spiriti mal nati (Dante, Inferno, XVIII, 76; XXX, 48). — I mondi attraverso cui Dante cerca la pace sono i mondi ultraterreni: inferno, purgatorio, paradiso.
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E uno incominciò: « Ciascun si fida del beneficio tuo sanza giurarlo, pur che ’l voler nonpossa non ricida. Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo, ti priego, se mai vedi quel paese che siede tra Romagna e quel di Carlo, che tu mi sie di tuoi prieghi cortese in Fano, sì che ben per me s’adori pur ch’i’ possa purgar le gravi offese. 11 Quindi fu’ io; ma li profondi fori ond’uscì ’l sangue in sul quale io sedea, fatti mi furo in grembo a li Antenori, là dov’io più sicuro esser credea: quel da Esti il fe’ far, che m’avea in ira assai più là che dritto non volea. 12
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Ed uno incominciò: « Ciascuno crede nel tuo beneficio senza che tu lo giuri, a meno che tu non possa fare quello che vorresti fare per noi. Sicché io, che parlo da solo davanti agli altri, ti prego, se mai vedi quel paese che si trova tra la Romagna ed il paese di Carlo, che tu mi faccia la grazia delle tue preghiere in Fano, sicché si adori bene Dio per me, affinché io possa purificarmi delle gravi colpe. 11
— Il paese, cioè la regione, in cui Dante potrebbe un giorno andare sono le Marche, poste tra la Romagna e gli Abruzzi, da cui iniziava quel territorio, l’Italia meridionale, su cui nel 1300 regnava Carlo II d’Angiò.
Io fui di qui; ma le profonde ferite, da cui uscì il sangue su cui risiedevo, mi furono fatte in seno agli Antenori, là dove io credevo di essere più al sicuro: lo fece fare quello da Este, il quale mi odiava assai oltre quanto avrebbe voluto il giusto diritto. 12
— La concezione secondo cui l’anima, cioè la vita dell’uomo, risiede nel sangue — in questo senso l’anima che parla dice « ’l sangue sul quale io sedea » — è una concezione di derivazione biblica, su cui vedi la Bibbia, Levitico, 17, 14. — L’anima che parla è quella Jacopo del Cassero da
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Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira, quando fu’ sovragiunto ad Orïaco, ancor sarei di là dove si spira. Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io de le mie vene farsi in terra laco. » 13 Poi disse un altro: « Deh, se quel disio si compia che ti tragge a l’alto monte, con buona pïetate aiuta il mio! Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; Giovanna o altri non ha di me cura; per ch’io vo tra costor con bassa fronte. » 14
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Fano, fatto assassinare nel 1298 da Azzo VIII d’Este, signore di Ferrara, che egli aveva accusato di tradimento, mentre si recava come podestà a Milano, tenendosi prudentemente lontano da Ferrara e passando per maggiore prudenza per il territorio di Padova, di cui veniva considerato fondatore il troiano Antenore, donde l’epiteto di Antenori qui dato ai Padovani.
Ma se, quando fui raggiunto ad Oriago, io fossi fuggito verso la Mira, sarei ancora di là dove si respira. Invece corsi alla palude, e le cannucce ed il fango mi impigliarono a tal punto che io caddi; e lì ho visto farsi un lago in terra del mio sangue. » 13
— Di là dove si respira è sulla Terra, dove i viventi respirano, cosa che le anime non fanno più nei mondi ultraterreni, perché qui esse sono prive di corpo. — Mira ed Oriago, nelle cui paludi avvenne l’omicidio di Jacopo del Cassero, si trovano tra Padova e Venezia, sulla riviera del fiume Brenta.
Poi un altro disse: « Deh, e così possa realizzarsi quel desiderio che ti attira verso l’alto del monte, aiuta il mio desiderio con buona pietà! Io fui di Montefeltro, io sono Buonconte; né Giovanna né altri si preoccupano per me; per questo vado a testa bassa tra costoro. » 14
— Figlio di Guido da Montefeltro, di cui parla Dante, Inferno, XXVII, 1–136, Buonconte fu capitano ghibellino di Arezzo ed in tale veste
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E io a lui: « Qual forza o qual ventura ti travïò sì fuor di Campaldino, che non si seppe mai tua sepultura? » 15 « Oh! — rispuos’elli — a pie’ del Casentino traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano, che sovra l’Ermo nasce in Apennino. Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano, arriva’ io forato ne la gola, fuggendo a piede e sanguinando il piano. Quivi perdei la vista e la parola; nel nome di Maria fini’, e quivi caddi, e rimase la mia carne sola. 16
inflisse una dura sconfitta ai Senesi nella battaglia presso la Pieve al Toppo (1288), ricordata da Dante, Inferno, 13, 121, L’anno successivo, Buonconte trovò la morte combattendo contro i Fiorentini nella battaglia di Campaldino (1289), a cui prese parte come feritore a cavallo anche Dante allora venticinquenne. — La Giovanna che non si cura di Buonconte è la sua vedova; gli altri sembrano essere una sua figlia, Manentessa, ed un suo fratello, Federico, allora podestà ad Arezzo.
Ed io a lui: « Quale forza o quale sorte ti portò così fuori da Campaldino, che non si conobbe mai la tua sepoltura? » 15
— Si noti che le tre anime che parlano in questo canto sono le anime di tre persone che hanno in comune non solo il fatto di essere state tutte uccise in circostanze poco chiare, ma anche e soprattutto il fatto che il loro cadavere non fu mai ritrovato.
« Oh! — rispose lui — ai piedi del Casentino traversa un corso d’acqua che si chiama Archiano, il quale nasce in Appennino sopra l’Eremo. Là dove il suo nome diventa inutile, io arrivai ferito alla gola, fuggendo a piedi ed insanguinando la pianura. Là perdetti la vista e la parola; finii la vita nel nome di Maria, e colà caddi e rimase soltanto la mia carne. 16
— L’eremo di cui si parla è l’eremo di Camaldoli. — Il punto, in cui il nome dell’Archiano diventa inutile, è il punto in cui, vicino Bibbiena, esso confluisce nell’Arno.
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Io dirò vero, e tu ’l ridì tra’ vivi: l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno gridava: « O tu del ciel, perché mi privi? Tu te ne porti di costui l’etterno per una lagrimetta che ’l mi toglie; ma io farò de l’altro altro governo! »17 Ben sai come ne l’aere si raccoglie quell’umido vapor che in acqua riede, tosto che sale dove ’l freddo il coglie. Giunse quel mal voler che pur mal chiede con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento per la virtù che sua natura diede. Indi la valle, come ’l dì fu spento, da Pratomagno al gran giogo coperse di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento, sì che ’l pregno aere in acqua si converse; la pioggia cadde, e a’ fossati venne di lei ciò che la terra non sofferse; e come ai rivi grandi si convenne, ver’ lo fiume real tanto veloce si ruinò, che nulla la ritenne. 18
Io dirò la verità, e tu ridilla tra i vivi: l’angelo di Dio mi prese, e quello dell’inferno gridava: « O tu del cielo, perché mi privi? Tu di costui te ne porti l’eterno per una lacrimuccia che me lo toglie; ma io tratterò l’altro in modo diverso! » 17
— L’eterno è l’anima di Buonconte; l’altro è il suo corpo.
Sai bene come nel cielo si raccoglie quel vapore umido che ritorna in acqua, appena esso sale dove il freddo lo sorprende. Quella malvagia volontà, che cerca il male anche con l’intelligenza, giunse e con il potere che la sua natura gli diede mosse il vento e le nuvole. Quindi, come il giorno fu spento, coprì di nebbia la valle da Pratomagno fino al grande giogo appennini18
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Lo corpo mio gelato in su la foce trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse; voltòmmi per le ripe e per lo fondo, poi di sua preda mi coperse e cinse. » 19 « Deh, quando tu sarai tornato al mondo e riposato de la lunga via — seguitò ’l terzo spirito al secondo — ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fe’, disfecemi Maremma: salsi colui che ’nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma ». 20
co; e rese il cielo di sopra così teso che l’aria pregna si trasformò in acqua; la pioggia cadde e ciò che di essa la terra non assorbì venne ai fossati; ed appena confluì nei corsi grandi, si rovesciò così veloce verso il fiume reale che nulla la trattenne. — La volontà malvagia che, unendo intelligenza e volere, provoca la tempesta è l’angelo dell’inferno. — Qui l’Arno viene detto fiume reale, cioè regale, perché è il maggiore dei fiumi toscani.
L’Archiano impetuoso trovò il mio corpo gelato sulla foce; e lo sospinse nell’Arno e sciolse al mio petto la croce che con le braccia io feci di me quando il dolore mi vinse; mi rivoltò per le rive e per il fondo, poi mi avvolse e mi coperse con la sua preda. » 19
— La sua preda è tutto ciò che di fango e di pietre l’Arno ha travolto nella sua piena.
« Deh, quando tu sarai tornato al mondo e ti sarai riposato della lunga via — seguì il terzo spirito al secondo — ti torni memoria di me, che sono la Pia; Siena mi fece, Maremma mi disfece: se lo sa colui che prima, sposandomi, mi aveva inanellata con la sua gemma. » 20
— In merito a queste parole di Pia, qui notiamo soltanto che ricorditi è un congiuntivo esortativo da non confondersi, come pure avviene, con l’imperativo ricordati.
MATTEO BANDELLO NOVELLE, I, 12 prima del 1524
Fig. 2 — Riproduzione del frontespizio della prima parte di Matteo Bandello, Novelle, Lucca, Busdrago, 1554.
Presentazione A due secoli di distanza dai mirabili versi danteschi, la novella del Bandello inaugura la lunga serie di composizioni letterarie che nel corso dell’Ottocento e del Novecento avranno come tema l’oscura tragedia di Pia da Siena, di cui essi renderanno popolare la figura e la vicenda. Ma, mentre Dante aveva taciuto il nome sia della famiglia di Pia sia quello di quel colui che Pia dice conoscere la morte di lei, il Bandello, accogliendo la testimonianza degli antichi commentatori danteschi, identifica senz’altro Pia da Siena con una giovane donna della famiglia senese dei Tolomei e la dice maritata a forza a quel colui che tutti i commentatori avevano identificato con Nello della Pietra. Tutti gli scrittori successivi seguiranno il Bandello nel dire che Pia da Siena fu moglie di quel colui che conosce la morte di lei; non tutti invece accetteranno la sua identificazione di Pia da Siena con una donna dei Tolomei e di quel colui con Nello della Pietra; nessuno poi lo seguirà nel sostenere che la causa della tragedia fu il tradimento coniugale di Pia, sicché il Bandello resterà a lungo l’unico a considerare Pia da Siena colpevole di adulterio.
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Nota sull’autore. Matteo Bandello (1485–1561) nacque a Castelnuovo Scrivia (Alessandria). Benché frate domenicano, egli condusse una vita più da letterato frequentatore di corti signorili, come quella di Isabella d’Este a Mantova, che non da religioso. Morì in Francia, dopo essere stato nominato vescovo di Agen dal re Enrico II. Autore di scritti in latino ed in volgare, tra cui un Canzoniere petrarcheggiante, la sua fama rimase legata alle Novelle, che furono molto note fuori d’Italia e da cui trassero spunto autori diversi, tra cui ricordiamo William Shakespeare che per la tragedia Giulietta e Romeo trasse spunto da Bandello, La seconda parte de le novelle, IX. Nota sul testo. Il testo della novella che qui pubblichiamo è tratto da Matteo Bandello, La prima parte de le novelle, a cura di Delmo Maestri, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 1992, p. 111–115.
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Il Bandello al vertuoso messer Pietro Barignano 1 Gli ultimi sonetti e il bellissimo madrigale che voi ne la villa di Montechiaro in Bresciana mi deste, come io fui in Brescia mostrai al nostro gentilissimo messer Emilio Emili. 2 Io non voglio ora stare a dirvi ciò che egli e io del vostro soave stile e de la vostra ingegnosa e bella invenzione dicessimo. Solo vi dirò che tra Montechiaro e Brescia io gli lessi e rilessi più volte per camino, e quanto più quelli io leggeva tanto più cresceva il disio di rileggerli, il che anco a messer Emilio avvenne. Ora per mandarvi una de le mie novelle, ve ne mando una che non è molto che in Mantova, a la presenza di madama illustrissima la signora Isabella da Este marchesana, 3 narrò il molto
Pietro Barignano, poeta ed uomo di corte, nacque a Pesaro verso la fine del Quattrocento, visse nelle corti di Pesaro, di Urbino, di Roma, e fu in contatto con i maggiori letterati del suo tempo. 2 Emilio Emili, bresciano, tradusse il Manuale del milite cristiano di Erasmo da Rotterdam e compose alcune poesie come centoni di quelle del Petrarca. 3 Isabella d’Este (1474–1539), marchesa di Mantova, politica energica ed abile, mecenate raffinata e munifica, fu onorata dai maggiori letterati ed artisti del tempo, dal Castiglione 1
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piacevole messer Domenico Campana Strascino, 4 ritornando da Milano a Roma e avendo quel dì a diporto desinato con messer Mario Equicola 5 e meco. La novella è istoria, de la quale fa menzione Dante nel Purgatorio. Tuttavia io l’ho voluta metter con l’altre mie istorie o siano novelle e a voi donarla. State sano. 6
all’Ariosto, da Leonardo a Tiziano che ne dipinse un magnifico ritratto. 4 Domenico Campani (1478–1524), detto Strascino, senese, fu poeta burlesco e visse nelle corti di Mantova e di Roma. La data della sua morte, il 1524, costituisce dunque il termine ante quem, cioè prima del quale questa novella sarebbe stata da lui raccontata al Bandello. 5 Mario Equicola (1470–1525), di Alvito (FR), fu al servizio di Isabella d’Este e scrisse, tra l’altro, un trattato De natura de Amore, cioè sulla natura di Amore, ed una Cronica de Manta, cronaca di Mantova. 6 Gli ultimi sonetti che voi mi deste nella villa di Montichiari in Bresciana, come fui in Brescia io li mostrai al nostro signor Emilio Emili. Ora io non voglio stare a dirvi quel che lui ed io dicessimo del vostro soave stile e della vostra ingegnosa e bella invenzione. Vi dirò soltanto che tra Montichiari e Brescia io li lessi e rilessi più volte, durante il cammino, e quanto più li leggevo tanto più mi cresceva il desiderio di rileggerli, la qual cosa avvenne anche al signor Emilio. Ora, volendo mandarvi una delle mie novelle, ve ne mando una che non molto tempo fa in Mantova, alla presenza della illustrissima signora marchesa Isabella d’Este, narrò il molto piacevole signore Domenico Campana Strascino, di ritorno da Milano a Roma e dopo aver quel giorno piacevolmente pranzato con il signor Mario Equicola e con me. La novella è storia; e di essa fa menzione Dante nel Purgatorio. Tuttavia io l’ho voluta mettere insieme con le altre mie storie o novelle che siano, e donarla a voi. State sano.
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Novella XII Un senese truova la moglie in adulterio e la mena fuori e l’ammazza. Siena, mia antica patria, fu sempre, come anco oggidì è, molto di belle e cortesi donne copiosa, ne la quale fu già una bellissima giovane detta Pia de’ Tolomei, famiglia molto nobile. Costei, essendo in età di maritarsi, fu data per moglie a messer Nello de la Pietra, che era gentiluomo il più ricco alora di Siena e il più potente che fosse in Maremma. Ella, che contra il suo volere sforzata dai parenti l’aveva preso, si trovava di malissima voglia, veggendosi bella e fresca di diciotto in dicenove anni e il marito di più di cinquanta, che le faceva far più vigilie che non insegnava messer lo giudice di Chinzicca a la Bartolomea Gualanda sua moglie, e che non fanno molti spagnuoli quando vivono a le spese loro, che d’uno ravaniglio e di pane e d’acqua si pascono. E se pur talora Nello le dava da beccare, faceva il più delle volte tavola spendendo doppioni, di modo che la bella giovane viveva in pessima contentezza, e tanto più s’attristava quanto che messer Nello per il più la teneva in Maremma a le sue castella. 7 Siena, mia antica patria, fu sempre, come è anche oggi, molto ricca di donne belle e cortesi, tra le quali fu una giovane bellissima detta Pia dei Tolomei, una famiglia molto nobile. Costei, essendo in età di maritarsi, fu data in moglie al signor Nello della Pietra, che allora era il gentiluomo più ricco di Siena ed il più potente che ci fosse in Maremma. Ella, che lo aveva preso contro la propria volontà perché forzata dai parenti, si trovava molto insoddisfatta, vedendosi bella e fresca tra i diciot7
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Condussela tra l’altre una volta a Siena, dove a lui conveniva star alcun mese per una lite che aveva con la città a cagion di confini. Ella in quel tempo deliberò a’ casi suoi provedere e tanto darsi a torno, che avesse abondanza de la cosa di cui il marito le faceva tanta carestia e così estremo disagio. E avendo veduti molti giovini de la nostra città e ben considerati i costumi, le maniere, i modi e le bellezze di ciascuno, le piacque meravigliosamente un giovanetto de’ Ghisi chiamato Agostino, dal cui ceppo giovami credere che sia disceso il nuovo mecenate e fautore di tutti i vertuosi dei nostri tempi, cotanto buono e ricco e sì liberale, cortese e amatore dei vertuosi, il signor Agostino Ghisi. 8 A questo adunque mettendo
to e i diciannove anni, ed il marito di più di cinquanta, che le faceva fare più vigilie di quante ne insegnasse il signor giudice di Chinzica a sua moglie, la Bartolomea Gualanda, e di quante ne facciano molti spagnoli quando vivono a spese loro, che si nutrono di un ravanello e di pane e di acqua. E se pure talvolta Nello le dava da beccare, il più delle volte faceva tavola spendendo doppioni, sicché la bella giovane viveva del tutto scontenta, e diventava ancora più triste in quanto il signor Nello per lo più la teneva nei suoi castelli in Maremma. — La locuzione iniziale per cui Siena viene detta mia antica patria si spiega con il fatto che a narrare è il senese Strascino. — Nella novella di Giovanni Boccaccio, Decameron, II, 10, il giudice Ricciardo di Chinzica, troppo avanti negli anni per poter soddisfare la moglie, Bartolomea Gualandi, che egli, imprudente, si era scelta troppo giovane e bella, cercava di motivare la rarità dei loro rapporti sessuali con una lunga serie di vigilie e divieti religiosi noti a lui solo e vantaggiosi soltanto per lui. — Beccare e fare tavola spendendo doppioni, cioè monete di molto valore, sono immagini metaforiche della sproporzione tra energie spese e risultati ottenuti.
Agostino Chigi (1465–1520), a cui la città di Siena tributò il titolo di Magnifico, fu tesoriere della Chiesa e mecenate mu8
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gli occhi a dosso e, come vedere lo poteva, mostrandosegli tutta ridente, fece di modo che egli s’avvide che amorosamente da lei era guardato. Onde non schivando punto le fiamme amorose, a quelle aperse largamente il petto e mise ogni studio per far che anco ella s’accorgesse com’egli per lei ardeva. Il che fu assai facile a fare, perciò che ella, come il vedeva, metteva per il sottile mente a tutti gli atti di quello. Ardendo adunque tutti dui, messer Agostino le scrisse un’amorosa lettera e per via d’una buona donna le ne fece dare, e n’ebbe la desiata risposta. Era il commune desiderio di tutti dui di ritrovarsi insieme a ciò che amorosamente si potessero dar piacere, ma per la molta famiglia che messer Nello teneva era quasi impossibile che da ora nessuna il Ghisi potesse entrarle in casa che non fosse veduto. D’altra parte, ella non poteva uscir di casa né andar in alcun luogo, che non fosse da uomini e donne accompagnata. Onde tutti e dui erano di malissima voglia, né sapevano a’ lor casi trovar compenso. 9
nifico: per lui Raffaello affrescò la splendida villa romana detta Farnesina. 9 Tra le altre, una volta la condusse a Siena, dove lui doveva restare qualche mese per una lite che aveva con la città per motivi di confini. In quella occasione ella decise di provvedere agli affari propri e di darsi da fare intorno finché avesse abbondanza di quella cosa di cui il marito le faceva carestia e così estrema difficoltà. E avendo veduti molti giovani della nostra città e ben valutati i costumi, le maniere, i modi e le bellezze di ciascuno, le piacque moltissimo un giovanetto dei Chigi chiamato Agostino, dal cui ceppo sono propenso a credere che sia disceso il nuovo mecenate e fautore di tutti i virtuosi dei nostri tempi,
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Ora avvenne che messer Nello fece da le sue possessioni venire gran quantità di grani per la provigion della casa, avendo deliberato di star la seguente vernata in Siena. La Pia, che l’aveva inteso, ne diede avviso al suo amante commettendogli quanto le pareva che dovesse fare. Egli, lieto oltra modo di questo, si dispose a far tutto quello che la donna gli aveva scritto. Ora volle la sorte che quel dì che il grano arrivò messer Nello faceva far certo collegio di dottori in casa del più attempato di loro per la lite sua, e volle egli starvi sempre presente, di modo che dopo desinare fino a notte scura sempre nel collegio dimorò. Fu portato il grano in quel che messer Nello usciva di casa, e il suo fattore, fatti venir alcuni facchini, ordinò che il grano fosse portato sopra nel granaio. Il Ghisi, che vestito s’era da facchino, arrivò in quello, e sì bene s’era contrafatto che persona del così tanto buono e ricco e così generoso, cortese ed amatore dei virtuosi, il signor Agostino Chigi. Tenendogli dunque gli occhi addosso e mostrandoglisi tutta sorridente appena poteva vederlo, fece in modo che egli si accorgesse che essa lo guardava con amore. Cosa questa che fu facile a farsi, perché lei, appena lo vedeva, faceva grande attenzione a tutti i suoi gesti. Alla fine, poiché ardevano tutti e due, il signor Agostino le scrisse una lettera d’amore e gliela fece dare per mezzo di una buona donna, e ne ebbe la risposta desiderata. Era comune desiderio di entrambi di ritrovarsi insieme per potersi dare amorosamente piacere, ma a causa della molta servitù che il signor Nello teneva era quasi impossibile che ci fosse un momento in cui il Chigi potesse entrarle in casa senza essere visto. D’altra parte, lei non poteva uscire di casa né andare in alcun luogo senza essere accompagnata da uomini e da donne. Sicché tutti e due erano molto scontenti né sapevano trovare soluzione ai loro affari.
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mondo conosciuto non l’averebbe. Onde fu dal fattore chiamato a portare il grano di sopra. Egli, che altro non desiderava, preso il suo sacco in collo montò le scale e votò il sacco nel granaio. E sapendo come stavano le camere della casa, ché altre volte vedute le aveva, ne lo scendere, avendo avvertito ad esser solo, entrò in un camerino e fermò l’uscio di quello, secondo che la donna scritto gli aveva, la quale attenta stava se il suo amante ci veniva. 10 Aveva quella cameretta un uscio che entrava dentro la camera, ove ella allora s’era ridotta, e fingendo Ora avvenne che il signor Nello fece venire dai suoi possedimenti una grande quantità di grano per le provviste della casa, avendo deciso di restare l’inverno veniente in Siena. La Pia, che lo aveva inteso, ne diede notizia al suo amante facendogli sapere quel che avrebbe dovuto fare. Egli, più lieto che mai di questo, si preparò a fare tutto quello che la donna gli aveva scritto. Ora la sorte volle che quel giorno che il grano arrivò il signor Nello facesse una certa riunione di dottori di legge in casa del più anziano di essi per la sua lite, ed egli volle starvi sempre presente, sicché dopo il pranzo fino a notte fonda rimase sempre nel collegio. Fu portato il grano proprio quando il signor Nello usciva di casa, ed il suo fattore, fatti venire alcuni facchini, ordinò che il grano fosse portato sopra nel granaio. Il Chigi, che si era vestito da facchino, arrivò proprio in quel momento, e si era travestito così bene che nessuna persona al mondo lo avrebbe riconosciuto. Sicché fu chiamato dal fattore a portare il grano di sopra. Egli, che non desiderava altro, preso il suo sacco in collo salì le scale e vuotò il sacco nel granaio. E sapendo come erano disposte le camere della casa, perché le aveva viste altre volte, nello scendere, avendo fatto attenzione ad essere solo, entrò in un camerino e ne chiuse l’uscio, secondo quanto gli aveva scritto la donna, la quale stava attenta se il suo amante ci venisse. 10
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di voler dormire si serrò di dentro tutta sola, e aprendo l’uscio trovò il suo caro amante, che di già quei panni facchineschi s’era spogliato e rimasto era in un farsetto di raso morello. Come ella il vide, così con le braccia al collo basciandolo mille volte se gli avvinchiò, e medesimamente egli abbracciò strettissimamente lei. Ma io non starò a raccontarvi per minuto le carezze che si fecero e quante fiate a la lotta giocarono. Pensi ciascuno di voi ciò che egli, se da dovero innamorato fosse, in simil caso farebbe. Avendo la Pia gustato quanto saporiti fossero gli abbracciamenti del suo caro amante e quanto insipidi e rari erano quelli del marito, sì fieramente di nuovo ardore s’accese, che le pareva quasi impossibile poter vivere senza aver di continuo appresso il suo amato Ghisi. Medesimamente il giovane l’aveva trovata tanto benigna e gentile e amorevole, che gli pareva d’esser in paradiso. Ella, dopo che alquanto stette a trastullarsi con l’amante, uscì dal camerino e aperse la camera, e stata un poco con le sue donne, sapendo il marito non dever esser a casa fin a sera, ritornò dentro al camerino mostrando aver faccende da fare. 11 Quella cameretta aveva un uscio che entrava dentro la camera, dove lei si era appartata, e fingendo di voler dormire si chiuse dentro tutta sola, ed aprendo l’uscio trovò il suo caro amante, che già si era spogliato di quei panni da facchino ed era rimasto in un farsetto di raso morello. Non appena ella lo vide, gli si avvinghiò con le braccia al collo, baciandolo mille volte, ed allo stesso modo egli abbracciò strettissima lei. Ma io non starò a raccontarvi nei particolari le carezze che si fecero e quante volte giocarono alla lotta. Pensi ciascuno di voi che cosa 11
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Quivi adunque lietamente dimorando insieme e divisando tra loro del modo che si potessero trovar de l’altre volte in simil piacere, a ciò che secondo che questa era stata la prima non fosse l’ultima, molte altre cose dissero tra loro e divisarono, e non gli parendo di trovar nessun buon mezzo che piacesse loro, disse il Ghisi: « Unica signora mia e vita de la mia vita, quando vi paresse di creder al mio conseglio e che lo stimiate buono, penso che saria cosa facile che de l’altre volte ci trovassimo a goder insieme. E per questo io sarei d’openione, vita mia cara, che voi vedessi d’eleggervi una delle vostre damigelle de la qual possiate fidarvi, e a lei apriste il petto vostro, a ciò che col mezzo suo io possa talora travestito venir in casa con quel modo che noi trovaremo esser il meglio. » La Pia, a cui non pareva aver donna in casa che fosse a questo proposito, mal volentieri pigliava questo partito. Non di meno tanto era l’amore che ella al suo amante portava, che ancora che ci avesse veduto la manifesta morte era astretta di compiacer-
farebbe lui, se fosse veramente innamorato, in un caso simile. La Pia, avendo gustato quanto fossero saporiti gli abbracciamenti del suo caro amante e quanto insipidi e rari quelli del marito, si accese così fortemente di nuovo amore che le pareva quasi impossibile poter vivere senza avere sempre accanto il suo amato Chigi. Allo stesso modo il giovane l’aveva trovata talmente benigna e gentile ed amorevole che gli pareva di essere in paradiso. Dopo essere stata alquanto a trastullarsi con l’amante, ella uscì dal camerino ed aprì la camera, e dopo essere stata un poco con le sue donne, sapendo che il marito non doveva essere a casa fino a sera, ritornò dentro al camerino facendo mostra di avere faccende da fare.
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gli; pensando poi che si potrebbe pur alcuna volta con lui ritrovarsi e aver di quei buon dì che cominciato aveva a gustare, e forse ancor qualche buona notte, rispose a l’amante che metteria ben mente qual devesse per segretaria di questi amori prendere. In questi parlamenti mescolavano più volte soavissimi basci e pigliavano anco quegli amorosi diletti che tanto dagli amanti si ricercano. Così passarono quella giornata con estrema contentezza. 12
Qui dunque stando lietamente insieme ed esaminando tra loro il modo per potersi trovare altre volte in simile piacere, affinché quella che era stata la prima non fosse anche l’ultima, dissero ed esaminarono molte altre cose, e non parendogli di trovare alcun buon mezzo che loro piacesse, il Chigi disse: « Unica signora mia e vita della mia vita, se vi sembrasse bene credere al mio consiglio e lo stimaste buono, penso che sarebbe cosa facile ritrovarci altre volte a godere insieme. E per questo io sarei del parere, vita mia cara, che voi provvedeste a scegliervi una delle vostre damigelle di cui possiate fidarvi, ed apriste a lei il vostro petto, affinché con il suo aiuto io possa talvolta venire in casa travestito in quel modo che riterremo essere il migliore. » La Pia, a cui non sembrava di avere in casa una donna che fosse adatta a questo proposito, faceva mal volentieri questa scelta. Pure, tanto era l’amore che ella portava al suo amante che, benché ci avesse vista chiara la morte, era costretta a compiacergli; pensando poi che avrebbe potuto ritrovarsi qualche volta con lui ed avere di quei buoni dì che aveva incominciato a gustare, e forse anche qualche buona notte, rispose all’amante che avrebbe riflettuto a quale dovesse scegliere come confidente di questi amori. In questi discorsi più volte mescolavano soavissimi baci e prendevano anche quei piaceri amorosi che tanto sono ricercati dagli amanti. Così passarono quella giornata con estrema contentezza. 12
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Su la sera poi la Pia aperse l’uscio del camerino che rispondeva su la scala, e non v’essendo a quell’ora persona, fece uscir l’amante, il quale nel suo abito da facchino col sacco in spalla e la sua fune a cintola, scese le scale e anco che di sotto fosse da qualcuno di casa veduto, senza che alcuno il conoscesse via se n’andò. Restò la donna mal contenta del partir de l’amante, ma tanto ben sodisfatta di lui, che le pareva in quelle poche ore che era stata con lui aver gustato e goduto assai più di piacere che non aveva fatto in tutto il tempo de la vita sua. Il Ghisi altresì non si poteva saziare di pensar quanta era stata la gioia che con la sua Pia aveva sentito, che veramente di nome e d’effetto era Pia. Ella poi, scielta tra l’altre sue donne una che le parve a proposito, a quella narrò tutto l’amor del Ghisi e suo, pregandola non solamente a tener celata questa cosa, ma a disporsi d’aiutarla, a ciò che talvolta il Ghisi si potesse trovar seco. Promise la damigella di far il tutto e d’esser segretissima, di modo che, adoperando tutte due l’ingegno loro, le venne alcuna volta fatto che ’l Ghisi, ora vestito da furfante e ora da donna, si ritrovò con esso lei, e dieronsi molto buon tempo parecchie volte, del che l’una e l’altra parte viveva contentissima. 13 Verso sera la Pia aprì l’uscio del camerino che dava sulla scala, e non essendoci alcuno a quell’ora, fece uscire l’amante, il quale nel suo vestito da facchino, con il sacco in spalla e la sua fune a cintola, scese le scale e benché di sotto fosse visto da qualcuno di casa, se ne andò via senza che alcuno lo riconoscesse. La donna restò poco contenta della partenza dell’amante, ma ben soddisfatta di lui, perché in quelle poche ore che era 13
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Ma la fortuna, che di rado lascia che dui amanti lungamente in pace godino il lor amore e in poco di mèle sparge sovente assai assenzio, disturbò questi felici amori, perciò che essendosi assecurati troppo gli amanti, e usando meno che discretamente insieme, avvenne che un vecchio di casa, cresciuto e allevato con messer Nello, s’avide un dì che la damigella furtivamente aveva messo fuor del camerino il Ghisi vestito da poltronieri. Il perché entrato in sospetto di ciò che v’era, si mise molte fiate in agguato, per ispiar meglio la verità, e insomma s’accorse un dì che ’l Ghisi vestito da donna era uscito fuor del camerino, e vide la damigella usar certi atti che più gli accrebbero di sospetto, conoscendo manifestamente a l’andare e agli atti che era il travestito non femina, ma uomo. Ma non s’appose perciò che fosse il Ghisi od altri. 14 stata con lui le pareva di avere gustato e goduto molto più piacere di quanto avesse fatto in tutto il tempo della sua vita. Anche il Chigi non poteva saziarsi di pensare quanta era stata la gioia che aveva provato con la sua Pia, che veramente era Pia di nome e di fatto. Ella poi, scelta tra le sue donne una che le parve a proposito, le narrò tutto l’amore del Chigi e suo, pregandola non solo di tenere nascosta la cosa, ma anche di prepararsi ad aiutarla, affinché il Chigi talvolta potesse trovarsi con lei. La damigella promise di fare il tutto e di essere riservatissima, sicché, adoperando entrambi il loro ingegno, qualche volta le riuscì che il Chigi, ora vestito da furfante ora da donna, si ritrovò insieme a lei, e si divertirono parecchie volte, cosa di cui sia l’una sia l’altra parte viveva contentissima. 14 Ma la fortuna, che raramente lascia che due amanti godano a lungo in pace il loro amore e in poco miele sparge spesso molto assenzio, disturbò questi felici amori, perché, essendo gli
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Il perché quel dì medesimo disse il tutto a messer Nello, il quale deliberando incrudelir contra le donne, e non osando far niente in Siena ove il parentado della moglie era potente, messo ordine a le cose de la lite, si levò a l’improvviso con la famiglia da Siena, e giunto in Maremma ove era signore, poi che con forza di tormenti ebbe la verità da la bocca de la damigella, quella fece strangolare, e a la moglie, che già presaga del suo male miseramente piangeva, disse: « Rea femina, non pianger di quello che volontariamente hai eletto; pianger devevi alora che ti venne voglia di mandarmi a Corneto. Raccomandati a Dio, se punto de l’anima ti cale, ché io vo’, come meriti, che tu muoia. » E lasciatela in mano dei suoi sergenti, ordinò che la soffocassero; la quale, dimandando mercè al marito e a Dio divotamente perdono dei suoi peccati, fu da quelli senza pietà alcuna subito strangolata. 15 amanti diventati troppo sicuri e ritrovandosi in maniera meno prudente, accadde che un vecchio di casa, cresciuto ed allevato con il signor Nello, un giorno si accorse che la damigella furtivamente aveva messo fuori del camerino il Chigi vestito da poveraccio. Ragion per cui, entrato in sospetto di ciò che c’era, si pose molte volte in agguato, per spiare meglio la verità, e finalmente un giorno si accorse che il Chigi vestito da donna era uscito dal camerino, e vide la damigella fare certi gesti che gli fecero aumentare ancora di più i sospetti, riconoscendo chiaramente dal modo di camminare e dai gesti che il travestito non era femmina, ma uomo. Ma non per questo capì che fosse il Chigi od altri. 15 Ragion per cui quel giorno stesso disse tutto al signor Nello, il quale, avendo deciso di punire crudelmente le donne e non osando far nulla in Siena dove il parentado della moglie era
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Questa è quella Pia che il vertuoso e dottissimo Dante ha posta in Purgatorio. Io ciò che narrato vi ho trovai già brevemente annotato in un libro di mio bisavolo, ove erano molte altre cose descritte degli accidenti che in quelle contrade accadevano. 16
potente, messo ordine alle cose della lite, partì improvvisamente con la servitù da Siena, e giunto in Maremma dove era signore, dopo che a forza di tormenti ebbe avuto la verità dalla bocca della damigella, questa la fece strangolare, ed alla moglie, che già presaga del suo male piangeva miseramente, disse: « Malvagia femmina, non piangere per quello che hai scelto volontariamente; dovevi piangere allora che ti venne voglia di mandarmi a Corneto. Raccomandati a Dio, se ti importa qualcosa dell’anima, perché io voglio, come meriti, che tu muoia. » E lasciatala in mano ai suoi inservienti, ordinò che la soffocassero; ed ella, domandando grazia al marito e perdono devotamente a Dio dei suoi peccati, fu subito strangolata da quelli senza pietà alcuna. — Si noti che la Pia del Bandello chiede perdono a Dio ma non perdona al proprio uccisore, mentre la Pia di Dante muore « pentendo e perdonando ».
Questa è quella Pia che il virtuoso e dottissimo Dante ha posto in Purgatorio. Io quello che vi ho narrato lo trovai a suo tempo annotato brevemente in un libro di un mio bisavolo, in cui si trovavano scritte molte altre cose degli eventi che accadevano in quelle contrade. 16
— Questa invenzione del libro del bisavolo, come anche il fatto che a narrare sia un senese, sono accorgimenti letterari che mirano a sottolineare la storicità dell’evento narrato.
BARTOLOMEO SESTINI LA PIA. LEGGENDA ROMANTICA Roma, 1822
Fig. 3 — Riproduzione del frontespizio di Bartolomeo Sestini, La Pia. Leggenda romantica, Roma 1822.
Presentazione Tre secoli dopo la novella del Bandello, il poemetto in ottava rima del Sestini ripensa la figura di Pia da Siena e ne fa l’eroina romantica che ancora vive nella mente e nei cuori di molti. Della novella del Bandello il poemetto del Sestini conserva la tesi, propria dei commentatori di Dante, secondo cui Pia fu sposa e vittima di Nello. Per il resto, il Sestini da un lato ritorna a Dante e dall’altro lato introduce importanti novità. Ritorna a Dante, in quanto non dice il nome della famiglia di Pia; né dice mai, del resto, che Nello sia della Pietra. Le novità riguardano la data, la causa ed il tipo di morte di Pia; quanto alla data, Sestini è il primo a fissarla all’anno della battaglia di Colle, cioè al 1269; quanto alla causa, la Pia sestiniana è vittima innocente di una calunnia vendicativa di Ghino, il quale, respinto da Pia, fa credere a Nello, suo amico, che la moglie lo tradisce; quanto al tipo di morte, Pia muore per consunzione da febbre malarica: una forma di morte che al Sestini dovette sembrare più vicina, perché più lenta, al disfecemi di Dante. La morte da malaria, allora creduta frutto delle esalazioni delle acque stagnanti, induce il Sestini a condurre la Pia a morire in un castello sul bordo di un piccolo lago che egli situa nell’alta Maremma laziale, e che per noi coincide con il lago di Mezzano, tra Latera e Valentano.
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Nota sull’autore. Bartolomeo Sestini nacque a Santomato (Pistoia) nel 1792. Studiò a Firenze, dove conobbe Ugo Foscolo. Dotato di facile vena poetica, cominciò a guadagnarsi con successo da vivere partecipando ad accademie di poesia improvvisata. Visitò così l’Italia dalla Toscana alla Sicilia, aderendo nel contempo alla Carboneria, e come carbonaro, nel 1819, fu arrestato a Palermo. Liberato per intervento del governo toscano, tornò in Toscana. Sul finire del 1821 passò a Roma, dove in tre mesi compose La Pia. Nel luglio del 1822 lasciò Roma per Parigi, dove morì l’11 novembre dello stesso anno per congestione cerebrale. — Sul Sestini, vedi Andrea Bolognesi, Bartolomeo Sestini di Santomato. Poeta e patriota tra ’700 e ’800, Pistoia, Brigata del Leoncino, 1999. Nota sul testo. Il testo che qui pubblichiamo è tratto da Bartolomeo Sestini, La Pia. Leggenda romantica, Roma, Ajani, 1822. Ripubblicato più volte nel corso dell’Ottocento con il titolo, non sestiniano, di Pia dei Tolomei, il poemetto del Sestini ebbe anche una traduzione in prosa francese: Pia, nouvelle historique de B. Sestini, traduite de l’italien par Cardini, Paris, Lefebvre, 1832.
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L’autore a chi legge Nuove non sono in Italia le leggende, e nuova tampoco 1 non è fra di noi la romantica poesia, benché scevra di questo titolo; 2 nulladimeno molto rimane a farsi in quanto alle prime, essendo quelle poche che conosciamo di niun valore, 3 e non poco resta a tentarsi in quanto alla seconda, se vogliamo osservare che Boiardo, Ariosto, Alamanni, ed altri poeti romanzieri 4 hanno sempre prese a celebrare le cose cavalleresche dei Francesi, e di altre esterne nazioni. 5 Di quanto interesse, e di qual bellezza sieno però i fatti italiani avvenuti nei feroci, melanconici, e superstiziosi tempi delle fazioni, lo denotano alcuni di essi per incidenza cantati dal Dante, e i poemi romantici dei forestieri, che ora tradotti, e letti con avidità in
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tampoco: parimenti. scevra di questo titolo: priva di questo nome.
— Sestini allude alla discussione allora aperta tra i sostenitori della tradizione classica ed i fautori delle novità romantiche, per cui si può vedere Giovanni Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo (1817) ed Alessandro Manzoni, Lettre à Mr Chauvet (1823).
di niun valore: di nessun valore. poeti romanzieri: poeti epici o narratori. 5 Matteo Boiardo (1440–1494) scrisse il poema Orlando innamorato; Ludovico Ariosto (1474–1533) scrisse il poema Orlando furioso; Luigi Alamanni (1495–1556) scrisse il poema Girone il cortese. 3 4
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Italia ci mostrano, sovente tolti dal silenzio degnissimi argomenti della nostra istoria, 6 sui quali tacciono, e non a buon diritto, gli ausonici vati. 7 È per questo che io reputo una leggenda romantica di argomento del tutto italiano, capace di ricevere i colori poetici usati in tali materie dai riferiti nostri romanzieri, e meno disaggradevole 8 in questo secolo, che altre maniere di poesia delle quali sovrabbondiamo; ed è per questo che io pubblico la Pia, subietto per se medesimo caro a chiunque ha letto i quattro misteriosi versi della Divina commedia, che ne fanno menzione, 9 e che tessuto su quanto nelle Maremme ho raccolto da vecchie tradizioni, e da altri documenti degni di fede, mi ha dato campo di descrivere alla foggia dei Greci alcuni celebri casi, 10 e luoghi della Patria, e gli antichi castelli feudali, e gli abiti, e l’esequie, e i costumi dei nostri antenati, e di presenSestini pensa probabilmente alle vicende di Otello e di Giulietta e Romeo riprese da Shakespeare. 7 gli ausonici vati: i poeti italiani. 8 disaggradevole: sgradevole. 9 Dante, Purgatorio, V, 130–136. 10 Sestini allude soprattutto al poeta alessandrino Callimaco (305–240) il quale, nelle elegie raccolte nei quattro libri che costituivano gli Aìtia, titolo che in greco significa origini o cause, esponeva leggende rare di dei o di eroi, nate per spiegare le origini di una data cerimonia, di un costume, di un toponimo curioso. Proprio per questa sua attenzione al contesto maremmano, il poemetto del Sestini verrà ristampato, nel 1846, dall’editore Chiari di Firenze, con il patrocinio del Granduca di Toscana, corredato di belle illustrazioni e preceduto da una Notizia sulla Maremma toscana, di cui il governo granducale aveva avviato la bonifica. 6
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tare una catastrofe d’onde si può trarre altrettanta morale, e finalmente d’onorare, e difendere l’ancor giacente memoria di quella bell’anima, che sì affettuosamente raccomandavasi nel Purgatorio al troppo avaro poeta, acciocché di lei si ricordasse, ritornando sulla terra ov’ella a torto avea perduta la vita e la fama. 11 Debbo pertanto sperare che i cortesi lettori accetteranno la mia buona volontà; e se gli vedrò 12 indulgenti nell’accogliere la povera Pia, benché vestita di ruvidi e disadorni panni, mostrerò al pubblico alcune altre di lei sorelle, che attendono la sorte della primogenita per risolversi 13 a seguirla nella luce, o a restar nelle tenebre.
In verità Pia non chiede a Dante di riscattarne la memoria, come invece aveva fatto per esempio Pier delle Vigne, in Dante, Inferno, XIII, 76–78, ma gli chiede di pregare Dio perché affretti il suo passaggio dall’antipurgatorio al purgatorio vero e proprio. 12 se gli vedrò: se li vedrò. 13 risolversi: decidersi. 11
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Canto primo 1. Tra le foci del Tevere, e dell’Arno, al mezzodì, giace un paese guasto; gli antichi Etruschi un dì lo coltivarno, e tenne imperio glorïoso e vasto; oggi di Chiusi e Populonia indarno ricercheresti le ricchezze e il fasto, e dal mar, sovra cui curvo si stende, questo suol di Maremma il nome prende. 1 2. Da un lato i lontanissimi Appennini veggionsi, quasi immensi anfiteatri, e dall’altro, tra i nuvoli turchini, di San Giulian le cime, e di Velatri; e dalla parte dei flutti marini, sempre di nebbia incoronati ed atri, sembrano uscir dall’umido elemento i due monti del Giglio e dell’Argento. 2 Tra le foci del Tevere e dell’Arno, a mezzogiorno, giace un paese andato in rovina; gli antichi Etruschi un tempo lo coltivarono e tenne un dominio vasto e glorioso; oggi ricercheresti invano le ricchezze e lo splendore di Chiusi e di Populonia; e dal mare, lungo cui si stende ad arco, questo suolo prende il nome di Maremma. 2 Da un lato si vedono i lontanissimi Appennini come immensi anfiteatri, e dall’altro, tra le nuvole azzurre, le cime di San Giuliano e di Volterra; e dalla parte delle onde marine, sempre incoronati di nebbia e senza splendore, sembrano uscire dall’acqua i due monti del Giglio e dell’Argentario. 1
— Nota del Sestini: « Velatri — antico nome di Volterra. Dell’Argento: monte Argentario. Per gli altri particolari della Maremma, e suo clima, vedi Targioni, Viag. in Tosc. » — L’opera a cui qui il Sestini rimanda è Gio-
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3. Sentier non segna quelle lande incolte, e lo sguardo nei lor spazi si perde; genti non hanno, e sol mugghian per molte mandre quando la terra si rinverde; aspre macchie vi son, foreste folte per gli anni altere, e per l’eterno verde, e l’alto muro delle antiche piante di spavento comprende il vïandante. 3 4. Dalla loro esce il lupo ombra malvagia, spiando occulto ove l’armento pasca; il selvatico toro vi si adagia; e col rumore del mare in burrasca l’irto cinghiale dagli occhi di bragia, lasciando il brago, fa stormir la frasca; e se la scure mai tronca gli sterpi, suona la selva al sibilar dei serpi. 4 5. Acqua stagnante in paludosi fossi, erba nocente, che secura cresce, vanni Targioni Tozzetti, Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, Firenze 1751–1754.
Non un sentiero segna quelle terre incolte, e lo sguardo si perde nei loro spazi; non hanno abitanti e soltanto risuonano dei muggiti di molte mandrie quando la terra torna ad essere verde; vi sono macchie aspre, foreste folte, superbe per i loro anni ed il verde eterno; e l’alto muro di quelle antiche piante compenetra di spavento il viandante. 4 Dalla loro ombra malvagia esce il lupo, spiando di nascosto dove pascoli l’armento; il toro selvatico vi si adagia; e l’irto cinghiale con gli occhi di brace, lasciando la fanghiglia, con il rumore del mare in burrasca, fa stormire le frasche; e se talvolta la scure taglia gli sterpi, la foresta risuona dei sibili dei serpenti. 3
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compressa fan la pigra aria di grossi vapor, donde virtù venefica esce, e qualor più dal sol vengon percossi, tra gli animanti rio morbo si mesce; il cacciator, fuggendo, da lontano monte contempla il periglioso piano. 5 6. Ma il montagnolo agricoltor s’invola da poi che ha tronca la matura spica: ritorna ai colli, e con la famigliuola spera il frutto goder di sua fatica; ma gonfio e smorto, dall’asciutta gola mentre esala l’accolta aria nemica, muore, e piange la moglie sbigottita sul pan che prezzo è di sì cara vita. 6 Acqua che stagna in fossi paludosi ed erba nociva che cresce indisturbata rendono quell’aria pigra piena di vapori pesanti, da cui esce un potere velenoso, e quando più vengono colpiti dal sole, tra i viventi si diffonde un male terribile; il cacciatore, fuggendo, contempla da un monte lontano la pericolosa pianura. 5
— Questo male terribile è la malaria.
Ma l’agricoltore disceso dai monti se ne fugge, una volta che ha mietuto le spighe mature: ritorna ai colli e spera di godere il frutto della propria fatica con la sua famigliola; ed invece muore, gonfio e pallido, mentre esala dalla gola asciutta la nemica aria cattiva che ha respirato; e la moglie sbigottita piange sul pane che è il prezzo di vita così cara. 6
— Nota del Sestini: « I campagnoli che abitano l’Appennino toscano, e massimamente quegli della provincia pistoiese sogliono andare per vari mesi dell’anno a coltivar la Maremma; il frutto delle loro fatiche, e privazioni serve di sostegno a quella parte di famiglia che rimane al paese nativo; ivi ritornano nell’estate, meno alcuni che di frequente muoiono per l’arie mal sane, ove gli trasse il generoso desiderio di sollevare gl’indigenti congiunti. Questa generazione di uomini è piena di virtù, e pochi son quegli che non cantino con grazia le loro leggende, e i canti del Tasso, molti di
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7. Io stesso vidi in quella parte un lago impaludar di chiusa valle in fondo: del dì poche ore il sol vede, e l’immago di lui mai non riflette il flutto immondo; e non s’increspa mai, né si fa vago allo spirar d’un venticel giocondo, e ancor quando su i colli il vento romba, morte stan l’onde come in una tomba. 7 8. Le rupi che coronano lo stagno son d’olmi vetustissimi vestute; crescon dove l’umor bacia il vivagno i sonniferi tassi, e le cicute; talor del gregge il can fido compagno morì, le pestilenti acque bevute; e gli augei stramazzar nell’onda bruna, traversando la livida laguna. 8
essi anche improvvisano in versi; ed a questi costumi si riferisce l’ottava 45 del terzo canto ove s’introduce a cantare uno di questi rustici poeti. »
Io stesso ho veduto da quelle parti un lago impaludarsi nel fondo di una valle chiusa; vede il sole soltanto poche ore al giorno, e l’acqua sozza non ne riflette mai l’immagine; e non si increspa mai né si fa bello al soffiare di un venticello gioioso; ed anche quando sui colli romba il vento, le sue acque restano morte come in una tomba. 7
— Noi riteniamo che questo lago sia il Lago di Mezzano, piccolo lago vulcanico, poco distante dal Lago di Bolsena, tra Latera e Valentano, nell’Alta Maremma laziale. Ricerche recenti hanno messo in luce resti abitativi sommersi dalle acque: questi resti, che in verità risalgono ad epoca villanoviana, dovettero offrire lo spunto al Sestini per collocarvi, con caratteri di fantasia che peraltro fanno pensare ai laghi di Nemi e di Ronciglione, il castello dove Nello rinchiude la Pia.
Le rupi che fanno corona allo stagno sono ricoperte di olmi antichissimi; dove l’acqua bagna il bordo crescono i tassi son8
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9. Tempo già fu, che a piè del curvo monte la cui falda allo stagno forma lito, torreggiante palagio ergea la fronte fin da longinqui tempi costruito: fosso il cingea, cui sovrastava un ponte mobil, di bastioni ardui munito; così difeso, il solitario tetto d’inespugnabil rocca avea l’aspetto. 9 10. Occultando la fredda gelosia ond’era morso, a quel temuto ostello ti conducea, mal capitata Pia, il tuo consorte, sire del castello. Per far men grave la penosa via, a lui volgevi il volto onesto e bello, trattenendol con bei ragionamenti, che avean risposta d’interrotti accenti. 10
niferi e le cicute; talora il cane, fedele compagno del gregge, morì, avendo bevuto le acque pestilenziali; e gli uccelli, sorvolando la livida laguna, stramazzarono nell’acqua scura. 9 Ci fu già un tempo in cui ai piedi del concavo monte, la cui falda fa da riva allo stagno, si ergeva un turrito palazzo costruito fin da tempi remoti; lo cingeva un fossato sovrastato da un ponte levatoio, fortificato con possenti torrioni; così difesa, quella solitaria dimora sembrava una rocca inespugnabile. 10 Nascondendo la fredda gelosia da cui era morso, il tuo sposo, signore del castello, ti conduceva, o sfortunata Pia, a quel temuto rifugio. Per rendere meno pesante quel penoso viaggio, volgevi a lui il volto onesto e bello, intrattenendolo con bei ragionamenti, che avevano come risposta soltanto parole spezzate. — La porpora è un colore ricavato da un mollusco racchiuso in un’ostrica (ostro).
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11. Il caval con andar soave e trito oltre la porta, e va del peso baldo; ella ha nell’una man flagel guernito d’oro, e nell’altra il fren sonante e saldo; cela la bianca man guanto polito d’una pelle color dello smeraldo; e l’ostro avvolge il piè che leggermente preme mobil d’acciar staffa lucente. 11 12. Largo al turgido petto, all’anche stretto, col cingolo tra l’omero e l’ascella, affibbiato davante un corsaletto le fa sostegno alla persona snella; trapunta a stelle di lavor perfetto veste al di sotto cerula gonnella: tale appar di stellato azzurro velo cinto il secondo luminar del cielo. 12 13. Di fiorentina nobile testura zendado cremisin le stringe il fianco:
Con passo leggero e tritante, il cavallo la porta oltre e va fiero del proprio peso; in una mano ella ha un frustino con guarnizioni d’oro e nell’altra la briglia sonante e salda; un raffinato guanto di una pelle color dello smeraldo nasconde la bianca mano, e la porpora avvolge il piede che preme leggermente la mobile staffa di acciaio lucente. 12 Largo al ricolmo petto, stretto ai fianchi, con il cordoncino tra l’omero e l’ascella, un corsetto affibbiato sul davanti le fa da sostegno alla persona snella; al di sotto indossa una gonnella azzurra, trapunta di stelle di esecuzione perfetta: così appare cinto di un azzurro velo stellato il secondo luminare del cielo. 11
— Il secondo luminaredel cielo è la luna, il primo è il sole.
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in nodo si raccoglie la cintura, pendula cade poi sul lato manco; velloso pileo d’attica figura, cui sovra ondeggia un pennoncello bianco, le nere chiome in parte accoglie, e in parte libere cader lascia all’aura sparte. 13 14. Il faticoso andar per la foresta fa che la dolce faccia il color prende, con che di verecondia una modesta donna subitamente il volto accende; l’acceso aspetto, il sol che la molesta di sudor l’empie, e più leggiadro il rende: come abbella, amaranto porporino, con le rugiade un limpido mattino. 14 15. Che rose fresche colte in paradiso son le gote, e le luci astri immortali, e sembra dalla bocca il dolce riso riso di nunzio che dal Cielo cali: il labbro è smalto di rubin, diviso da due file di perle orïentali, Le stringe il fianco un velo rosso di raffinata tessitura fiorentina: la cintura si raccoglie in un nodo e poi cade pendula sul lato sinistro; un cappello di pelle di foggia greca, su cui ondeggia un piumetto bianco, in parte raccoglie ed in parte lascia cadere, sparse al vento, le sue chiome nere. 14 Il faticoso avanzare per la foresta fa sì che il dolce viso prenda quel colore rosso con cui una donna riservata improvvisamente accende il volto per modestia; il sole che la molesta le riempie di sudore il volto acceso e lo rende più bello: come un rosso porporino abbellisce con la rugiada un mattino limpido. 13
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sembra la fronte or or caduta bruma, e il sen di pellican candida piuma. 15 16. Così varca costei l’ime Maremme, qual raggio che fra i nembi il sole scocche, e l’erba al suo passar par che s’ingemme di fiori, e brami che il bel piè la tocche: sì vaga non mirò Gerusalemme Erminia cavalcar fra le sue rocche, né l’Ercinia mirò sì vaga in sella passar di Galafron la figlia bella. 16 17. Danno la via meravigliati i boschi, non usi a contemplar tanta bellezza,
Perché le gote sono fresche rose colte in paradiso, e gli occhi sono stelle immortali, e il dolce sorriso della bocca sembra il sorriso di un angelo che scenda dal Cielo; le labbra sono color di rubino, diviso da due file di bianche perle orientali; la fronte sembra rugiada appena caduta, ed il seno la piuma candida di un pellicano. 15
— Le bianche perle orientali sono i denti.
Così costei entra nelle Maremme più profonde, come raggio che il sole saetti tra le nuvole nere, ed al suo passare l’erba pare che si ingemmi di fiori e brami che il suo bel piede la tocchi; non così amabile Gerusalemme vide Erminia cavalcare tra le sue torri, né così amabile la selva Ercinia vide passare in sella la bella figlia di Galafrone. 16
— Situata in Germania, tra l’alto Danubio ed il medio Reno, la Selva Ercinia, di cui parla già Cesare e che oggi diciamo Foresta Nera, presso gli scrittori classici e classicheggianti rappresenta la foresta paurosa per antonomasia, simile in questo alla foresta maremmana ora attraversata da Nello e Pia. — Per Erminia, vedi Tasso, Gerusalemme liberata, III, 12; VI, 62–96. — Per Angelica, la bella figlia di Galafrone fuggente nel bosco, vedi Ariosto, Orlando Furioso, I, 33.
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l’ora natia di quei roveti foschi di scherzarle fra ’l crin prende vaghezza; ma il venticel che vien dal mar de’ Toschi piange mentre passando la carezza, quasi fosse il sospir della natura antiveggente la di lei sciagura. 17 18. S’apron le ferree porte arrugginite del castel stato da molt’anni chiuso, però che il castellan, le imputridite acque schivando, avea l’albergo suso, ove una chiesa e molte case unite erano erette dei vassalli ad uso, del vicin monte sulle verdi spalle donde il castel si domina, e la valle. 18 19. Entran la bella donna, e il cavaliero nel limitar della magion ferale; non travagliata da verun pensiero, ella ricerca i vuoti atri, e le sale: osserva l’ampio, e sinuoso ostiero, e i nascondigli, e le ritorte scale, Non abituati a contemplare tanta bellezza, i boschi cedono meravigliati il passo, e la brezza che nasce dai quei cupi roveti si diverte a scherzarle tra i capelli; ma il venticello, che viene dal mar dei Toscani, piange, mentre passando la carezza, quasi fosse il sospiro della natura che prevede la sua sventura. 18 Si aprono le ferree porte arrugginite del castello, rimasto chiuso da molti anni, perché il castellano, schivando le acque imputridite, aveva l’abitazione in alto, sulle verdi spalle del vicino monte, dove per uso dei sottoposti erano costruite una chiesa e molte case riunite, da dove si domina il castello e la valle. 17
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donde si cala in cave di tenebre, che percorron del monte le latebre. 19 20. Vede alle mura, ed alle travi appese armi smagliate di guerrier vetusti, e insegne nei civili assalti prese, rastelli, e sbarre d’alberghi combusti; legge descritte le onorate imprese nei piedestalli degli sculti busti; e il loco estranio contemplando, sente gioia e stupor la giovinetta mente. 20 21. Era in mezzo al palagio d’echeggiante portico cinta spaziosa corte; al chiostro laterale eran davante spazi e colonne ottangolari e corte; sovr’esse d’archi un ordine pesante pensile sostenea muraglia forte che ergeasi a fil del peristilio, per li aerei campi sollevando i merli. 21
La bella donna ed il cavaliere varcano la soglia della dimora funesta; non tormentata da alcun pensiero, ella visita gli atri vuoti e le sale: osserva l’ampio e tortuoso ingresso, ed i nascondigli e le scale attorte a chiocciola, per le quali si scende in cavità tenebrose che percorrono le parti più interne del monte. 20 Appese alle pareti ed alle travi vede armi smagliate di antichi guerrieri, ed insegne prese negli assalti cittadini, inferriate e sbarre di palazzi bruciati; legge le imprese onorate descritte sui piedistalli dei busti scolpiti; e contemplando quel luogo estraneo, la mente giovinetta sente gioia e stupore. 21 Al centro del palazzo c’era un cortile spazioso circondato da un sonoro portico riecheggiante; davanti al chiostro laterale c’e19
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22. Nelle quattro pareti interïori del ricorrente portico sonoro eran dipinte a splendidi colori antiche istorie di sottil lavoro; parean le forme rilevate in fuori, e detto si saria “parlan costoro”; e desto l’eco in quelle ereme sedi parea sentirne il calpestio dei piedi. 22 23. Dardano quivi comparia primiero, e i Pelasghi il seguian col ferro in alto, finché, per riaver l’equin cimiero a lui caduto, si vedea far alto, e vincer l’inimico; e in quel sentiero, ancor coverto di sanguigno smalto, era da lui nobil cittade eretta, dal caduto cimier Corito detta. 23 rano spazi e corte colonne ottangolari; sopra di esse una serie di pesanti archi pensili sosteneva una potente muraglia che si ergeva a filo del peristilio, sollevando i merli per gli spazi del cielo. 22 Nelle quattro pareti interne del sonoro portico riecheggiante erano dipinte a splendidi colori antiche storie di fattura raffinata; le figure parevano sbalzate in fuori, e si sarebbe detto “costoro parlano”; e l’eco, risvegliato in quelle dimore solitarie, pareva riprodurne il calpestio dei piedi. 23 Qui per primo compariva Dardano, ed i Pelasgi lo seguivano con le armi alzate, finché, per riavere l’elmo equino che gli era caduto, lo si vedeva fermarsi e vincere il nemico; ed in quel sentiero, ancora coperto del colore del sangue, veniva da lui fondata una nobile città, detta Corito dall’elmo caduto. — Nota del Sestini: « Dardano, secondo Servio, fondò la città di Cortona nell’Etruria, e la chiamò Corito dal greco vocabolo [kòrys] che significa cimiero. Per lo rimanente della sua istoria in questa dipintura
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24. Poi contendea l’eredità paterna, bel dominio di popoli felici: v’eran l’Erinni alla tenzon fraterna rigorose assistenti, e instigatrici; e d’Asio, che le luci in ombra eterna chiudea, tali apparian le cicatrici, che appressandoti a lui creduto avresti che il sangue ti spruzzasse in sulle vesti. 24 25. A vendicarlo poi venia per l’onde d’Atlante mauritan Siculo il figlio, parean d’armati brulicar le sponde brune per l’ombra di sì gran naviglio; e Dardano fuggiasi ai monti, donde chiara in affanni, in armi, ed in consiglio,
espressa, vedi Joannem Marianam lib. I. de Reb. Hispan. C. 11. Tarconte, Mesenzio, Asila, personaggi etruschi descritti da Virgilio, l. 8, §10. » — L’opera cui qui il Sestini rimanda è Juan de Mariana, Historiae de rebus Hispaniae libri, Toledo 1592. — Per Dardano, mitico antenato dei Troiani, vedi Virgilio, Eneide, VIII, 134. — Secondo Erodoto, Storie, II, 51, i Pelasgi erano il più antico popolo che avesse abitato la regione di Atene. — Su tutta questa questione della fondazione di Corito, che il Sestini identifica con Cortona e che oggi viene identificata con Tarquinia, vedi l’ampio studio di Alberto Palmucci, Virgilio e Cori(n)to–Tarquinia: la leggenda troiana in Etruria, Tarquinia, Società tarquiniense d’arte e storia, 1998.
Poi combatteva per l’eredità paterna, bel dominio su popoli felici; vi erano le Erinni che assistevano inflessibili ed istigavano alla lotta fraterna; e le cicatrici di Asio, che chiudeva gli occhi in notte eterna, apparivano tali che, avvicinandoti a lui, avresti creduto che il sangue ti spruzzasse sulle vesti. 24
— Le Erinni, che i Romani chiamavano Furie, erano le dee greche della vendetta: esse perseguitavano il colpevole fino a renderlo pazzo. — Per Iasio, fratello di Dardano, che qui il Sestini chiama Asio, vedi Virgilio, Eneide, III, 168.
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all’Enotria natal riedea sua prole per domar quanta terra illustra il sole. 25 26. Mesenzio, de’ cavalli il domatore, potea raffigurarsi all’opre conte; e contro lui sulle spalmate prore venia fra i toschi giovani Tarconte; poi nel corpo del re, stranier signore apria di sangue altrui succhiato un fonte; e il suol mordea fra l’altrui grida e il plauso, dolente ancor pel mal difeso Lauso. 26 Poi, a vendicarlo, veniva sul mare il figlio Siculo del mauritano Atlante; scure per l’ombra di così grande nave, le rive parevano brulicare di armati; e Dardano se ne fuggiva ai monti, da cui illustre per affanni, armi e consiglio, la sua discendenza tornava alla nativa Enotria, per sottomettere tutta la terra che il sole illumina. 25
— Enotria è il nome antico della parte meridionale dell’Italia, comprendente Lucania e Calabria. — Atlante, il titano che, per essersi a lui ribellato, Giove condannò a reggere la volta celeste sulle spalle e che Perseo trasformò nella montagna situata nella regione che gli antichi chiamavano Mauritania (Africa nord–occidentale) mostrandogli la testa di Medusa, era padre di Elettra, la prima delle sette Pleiadi, la quale, secondo alcuni dal re Corito secondo altri da Zeus stesso, ebbe i figli Dardano, Iasio e Sicano; dopo che Dardano ebbe ucciso il fratello Iasio, il terzo fratello, Sicano, che qui il Sestini chiama Siculo, figlio anche lui di Elettra figlia di Atlante, muove alla vendetta di Iasio.
Dalle opere conosciute, si poteva riconoscere Mesenzio, il domatore dei cavalli; e contro di lui sulle navi spalmate [di pece] veniva, tra i giovani etruschi, Tarconte; poi un signore straniero apriva nel corpo del re una fonte di sangue che egli aveva succhiato ad altri; ed egli mordeva il suolo, fra le grida ed il plauso altrui, dolente ancora per il mal difeso Lauso. 26
— Per Mesenzio e Lauso, rispettivamente padre e figlio, uccisi entrambi da Enea, il signore straniero, vedi Virgilio, Eneide, X, 762–908. — Per Tarconte, vedi Virgilio, Eneide, X, 290–307.
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27. Dall’altra parte comparia Porsenna, cingente Roma d’inimico vallo; sul ponte Orazio qua brandia l’antenna, e là Clelia affrettava il gran cavallo; fermo qual tronco della nera Ardenna Scevola all’ara, del commesso fallo punia la destra mal fida ministra, minacciando tuttor colla sinistra. 27 28. Ultimo, cinto il crin di sacre foglie, e invaso da celeste vaticino, v’era tra ricchi templi, ed auree soglie Asila sacerdote et indovino; sollevarsi parean le sacre spoglie sul sen pregnante d’alito divino, parean cambiar le gote, e le lanose labbra tali predir future cose. 28 Dall’altra parte compariva Porsenna che circondava Roma con un vallo nemico; qua, sul ponte, Orazio brandiva la lancia, e là Clelia incitava il grande cavallo; accanto all’altare, immobile come un tronco delle nere Ardenne, minacciando ancora con la sinistra, Scevola puniva dell’errore commesso la propria destra, esecutrice malsicura. 27
— Per Porsenna, Orazio Coclite, Clelia e Muzio Scevola, le cui gesta insieme ad altre di storia romana futura erano state ritratte da Vulcano sul nuovo scudo di Enea, vedi Virgilio, Eneide, VIII, 626–654. — Regione boscosa e collinare, le Ardenne si trovano nella Francia nordorientale, ai confini con il Lussemburgo ed il Belgio.
Ultimo, con i capelli cinti di foglie sacre e invaso da profezia celeste, tra ricchi templi e soglie dorate c’era Asila, sacerdote e indovino; le sacre vesti parevano sollevarsi sul seno ripieno di spirito divino, le gote parevano mutare, e le labbra dalla barba lanosa parevano predire queste cose future. 28
— Per Asila, vedi Virgilio, Eneide, X, 175–180.
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29. « Queste spesse città, questi lucenti delubri, e queste fertili colline, e queste vie di popolo frequenti diverran solitudini e ruine; e faran guerre le future genti per dilatarsi nell’altrui confine, mentre sarà negata una colonia al più bel suol della ferace Ausonia. » 29 30. Tal era l’ammirabil magisterio; ed era fama che gran tempo avante, un baron, dando ospizio a Desiderio, quando ivi giunse cavaliero errante, le prische prove del valore esperio vi avea fatte ritrar da un negromante, che con l’aita dei maestri stigi in una notte fe’ tanti prodigi. 30 « Queste città numerose, questi templi lucenti, queste colline fertili e queste vie ripiene di popolo diventeranno deserti e rovine; e le genti future faranno guerre per espandersi negli altrui confini, mentre sarà negata una colonia al più bel suolo della fertile Ausonia. » 29
— Ausonia è il nome antico dell’Italia centro–meridionale a sud del Tevere.
Tale era il magistero mirabile; e si diceva che, molto tempo prima, un barone, ospitando Desiderio, quando egli qui giunse da cavaliere errante, vi aveva fatto ritrarre le antiche gesta del valore italico da un esperto di magia nera, il quale fece così grandi prodigi, in una sola notte, con l’aiuto dei mastri stigi. 30
— Nota del Sestini: « Desiderio, re dei Longobardi, secondo alcuni istorici, fu nelle Maremme etrusche; in Viterbo restano ancora molte memorie della sua venuta in quelle parti. » — Duca di Tuscia ed ultimo re dei Longobardi, Desiderio fu sconfitto nel 774 da Carlomagno. — Stige è il nome di uno dei grandi fiumi infernali, sicché i mastri stigi sono i diavoli.
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31. Colta da strania meraviglia vede la Pia tai cose; e mentre intorno gira, s’arretra il guardo se va innanzi il piede, e finché dura il giorno attenta mira; quando delle crescenti ombre s’avvede, nelle camere interne si ritira, ove ancor le riman molto a vedere allo splendor di lampade e lumiere. 31 32. Intanto il suo signor con bassa testa di qua, di là, di su, di giù va ratto; or si batte la fronte, ed or si arresta, e fissa gli occhi, e par di pietra fatto: com’uom non uso al fallo, e che si appresta meditato a compir nuovo misfatto: ma omai la notte, il sol nel manto ascoso, ciascun tranne costui chiama al riposo. 32 33. A mensa ei siede muto, e turbolento; stagli incontro la donna, e fissa i rai
Presa da una strana meraviglia, la Pia osserva tali cose; e mentre gira intorno, se il piede va avanti lo sguardo si volge indietro, ed osserva attenta finché dura il giorno; quando si accorge delle ombre che crescono, si ritira nelle camere interne, dove le rimane ancora molto da vedere alla luce di lampade e di candelabri. 32 Intanto il suo signore, a testa bassa, va veloce di qua, di là, di su, di giù; ora si batte la fronte, ora si ferma, e fissa lo sguardo, e pare diventato di pietra: come un uomo non abituato all’errore e che si prepara a compiere un nuovo, meditato, misfatto; ma ormai la notte, nascosto il sole nel suo nero mantello, chiama tutti al riposo, tranne costui. 31
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più che nei cibi in lui, ché il turbamento mal celato ne ha scorto; e poi che assai stette in silenzio, grazïoso accento movendo, gli dicea: « Sposo, che hai? » « Nulla. » — ei rispose, ed un amaro riso chiamò sul labbro, e non fe’ lieto il viso. 33 34. Ma poi che il castellan la mensa tolse, e restar soli nella chiusa stanza, le bianche braccia al collo ella gli avvolse siccome avea di far sovente usanza; poi nelle mani sue la man gli accolse, e con ingenua e tenera sembianza la strinse, e ne sperò bel cambio invano: qual di persona morta era la mano. 34 35. Tremò, s’impallidì, ma avvalorata da coscïenza di sentirsi pura, e visto che di seno avea levata per notarla domestica scrittura,
A mensa egli siede muto ed agitato; la donna gli sta davanti e fissa gli sguardi più in lui che nei cibi, perché ne ha notata l’agitazione che egli nasconde male; e dopo essere stata a lungo in silenzio, iniziando con tono gentile, gli diceva: « Sposo, che hai? » « Nulla. » — egli rispose, ed abbozzò sulle labbra un amaro sorriso, e non fece lieto il volto. 34 Ma poi che il castellano ebbe sparecchiato la tavola, ed essi restarono soli nella stanza chiusa, ella gli avvolse le bianche braccia intorno al collo, come era solita fare spesso; poi gli prese la mano nelle proprie mani e la strinse con espressione ingenua e tenera, e ne sperò, invano, una risposta gentile: la mano era come di persona morta. 33
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pensò che avesse l’anima agitata del censo avito in qualche acerba cura, e si scostò con femminil modestia onde al suo cogitar toglier molestia. 35 36. Sciolse l’aurate fibbie, e delle schiette vesti spogliossi il colmo fianco, e il seno. Come fu tra le coltri, ed ei credette ch’ella dormisse, sorse in un baleno, si mosse a lenti passi, e poi ristette immoto, indi ai sospiri allargò il freno, e con fioca sclamò voce dimessa: « O donna a me fatale, ed a te stessa! 36 37. Ecco il fin dei connubi inaugurati! Tu principio, tu fin de’ miei desiri, far potevi i miei giorni, e i tuoi beati; or sei cagion de’ miei, de’ tuoi sospiri; per placarmi, espiando i tuoi peccati, qui muori; io fra i rimorsi ed i martiri
Tremò, divenne pallida, ma rincuorata dalla coscienza di sentirsi pura, e visto che egli si era tolta dal seno una scrittura di casa per annotarla, pensò che avesse l’anima agitata da qualche aspra preoccupazione per il patrimonio di famiglia, e con femminile discrezione si allontanò, così da levare disturbo alla sua riflessione. 36 Sciolse le fibbie dorate, e si spogliò delle vesti perfette il fianco colmo ed il seno. Appena ella fu tra le coperte, ed egli credé che ella dormisse, si alzò in un baleno, si mosse a passi lenti, poi si arrestò, infine lasciò andare i sospiri ed esclamò con una fioca voce avvilita: « O donna fatale a me ed a te stessa! 35
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morrò: vendetta avrommi e non conforto, ma teco starmi non poss’io che morto. 37 38. Spezzati dunque, o mio vil cor, per doglia, se non sai non amar, né di gel farte; ma se al disegno mio fia che tu voglia contrastar, di mia man saprò strapparte. » Disse, e a passi sospesi in ver la soglia giunto, si volse alla sinistra parte, e il guardo corse involontariamente sulla misera femmina giacente. 38 39. In un atto soave ella dormiva, piegata alquanto sopra il destro lato; fea letto al capo un braccio, e l’altro usciva dai lini, mollemente abbandonato; le inondava il crin sciolto la nativa neve del collo, e l’omero rosato; e tralucea del volto nella calma una tranquillità di candid’alma. 39 Ecco la fine delle nozze non bene augurate! Tu principio, tu fine dei miei sospiri, tu potevi fare beati i miei giorni ed i tuoi; ora sei causa dei sospiri miei e dei tuoi; per placarmi, tu muori qui, espiando i tuoi peccati; io morirò tra i rimorsi ed i tormenti: per me avrò vendetta, non conforto, ma io non posso stare con te se non da morto. 38 Spezzati, dunque, per il dolore, o mio vile cuore, se non sai non amare né diventare di gelo; ma se sia che tu voglia opporti al mio piano, saprò strapparti con la mia mano. » Disse e, giunto a passi sospesi presso la porta, si voltò verso sinistra, e lo sguardo corse involontariamente sulla misera donna che giaceva. 39 Ella dormiva in atteggiamento soave, un po’ piegata sul fianco destro; un braccio faceva da cuscino al suo capo, e l’al37
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40. Come al predone opposita procella vieta la fuga, a lui l’andar fu tolto, ed: « Oh — tra sé sclamò — quanto sei bella! » e in questo dir le si appressava al volto: tal forse Adamo contemplava, quella notte da cui fu l’error primo avvolto, addormentata allo splendor degli astri la leggiadra cagion de’ suoi disastri. 40 41. In estasi rimase, e già le braccia correano al segno ov’era la pupilla, correa la bocca sulla rosea traccia ch’era d’eterno fuoco una favilla, allor che scorse sulla bianca faccia, pari a perla eritrea, lucida stilla: dai propri lumi la conobbe uscita, avvampò di vergogna, e fe’ partita. 41 tro usciva fuori dai lenzuoli, mollemente abbandonato; i capelli sciolti le inondavano il bianco naturale del collo e la spalla rosea; e nella calma del suo volto traspariva una tranquillità di anima pura. 40 Come una tempesta contraria impedisce la fuga al predone, così a lui fu impedito l’andarsene, ed esclamò tra sé: « Oh! quanto sei bella! » e così dicendo le si accostava al volto: forse Adamo, quella notte da cui fu avvolto il primo peccato, contemplava così, addormentata allo splendore degli astri, la causa leggiadra delle sue sventure. — Questa causa è Eva, per cui vedi la Bibbia, Genesi, 3, 1–24.
Rimase in estasi, e già le sue braccia correvano al punto su cui era lo sguardo, e la sua bocca correva sulla traccia rosea, che era una favilla di fuoco eterno, quando sul bianco volto vide una lacrima lucida come perla eritrea: la riconobbe uscita dai propri occhi, avvampò di vergogna, e se ne partì. 41
— La traccia rosea è la linea delle labbra.
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42. Partisti, o dispietato, e ti dié il core d’abbandonarla; e non vedesti come qua e là le man stese al nuovo albore per ricercarti, e ti chiamava a nome, né ti trovando, sorse, e in vago errore scorrean le vesti, e le fluenti chiome: t’avria vinto in quell’atto mesto e vago, se stato fossi un’anima di drago. 42 43. Cerca e richiama, e niun risponder sente, onde si ferma, e sta dubbia, e pensosa; s’allegra alfine, udendo lo stridente ponte calando che al basso si posa; ode alcuno avanzarsi, e all’imminente vestibul corre tutta desïosa, ed ecco con le salde chiavi in mano apparirgli a rincontro il castellano. 43 44. E a lei, che impazïente del marito chiedea, rispose che poc’anzi al giorno nella selva vicina a caccia er’ito, e innanzi sera avria fatto ritorno; Partisti, o spietato, ed avesti il cuore di abbandonarla; e non vedesti come alla nuova alba ella stese qua e là le mani per ricercarti, e ti chiamava per nome, e non trovandoti, si alzò, e le vesti e le chiome scendevano in bel disordine: ti avrebbe vinto, in quel gesto mesto ed amabile, se anche fossi stato un’anima di drago. 43 Cerca e richiama, e non sente rispondere alcuno, sicché si ferma e rimane dubbiosa e pensosa; finalmente si rallegra, udendo il ponte che, calando stridendo, si posa in basso; ode avvicinarsi qualcuno e corre tutta desiderosa al vicino vestibolo, ed ecco, con le salde chiavi in mano, apparirle di fronte il castellano. 42
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e come dal baron fu statuito che, mentre sola ivi facea soggiorno, servitute a prestarle ei fosse intento in tutto ciò di ch’ella avea talento. 44 45. Appagossi a quel dir la semplicetta, ma non raccolse l’usata quïete; tutto quel dì per casa errò soletta; e non piangea, ma avea di pianger sete, pensando ch’ei la man non le avea stretta né di baci le fe’ le guance liete, e dal letto partissi inosservato senza degnarla dell’amplesso usato. 45 46. Come quel dì fu lungo! Ombrosa uscìo notte dal lago, ed ei non fe’ ritorno; e invano intenta ad ogni calpestio stette, e ad ogni romor che udia d’intorno; occhio giammai non chiuse; alfine aprìo l’Alba i balconi d’orïente al giorno,
Ed a lei, che chiedeva impaziente del marito, rispose che poco prima del giorno era andato a caccia nella foresta vicina, e che avrebbe fatto ritorno prima di sera; e disse come dal barone era stato stabilito che, mentre lei vi dimorava da sola, egli fosse attento a prestarle servizio in tutto ciò di cui ella avesse desiderio. 45 A quelle parole l’ingenua si appagò, ma non ritrovò la calma consueta; tutto quel giorno vagò tutta sola per la casa; e non piangeva, ma aveva voglia di piangere, pensando che egli non le aveva stretta la mano né le aveva allietate di baci le guance, e che se ne era partito non visto dal letto, senza degnarla del consueto abbraccio. 44
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e nell’alto orizzonte il sol pervenne: desta trovolla, e quel crudel non venne. 46 47. Quel giorno intero, e tutti gli altri due attese indarno men viva che morta; ma quando al quinto dì venuta fue, e il castellano udì giunto alla porta, qual forsennata dalle scale giue corse, sciolti i capei, la faccia smorta, e il vel stracciando, con grido affannoso: « Dove, dove — sclamava — ito è il mio sposo? 47 48. Così pria della sera ei dalla caccia riede? E mentre egli puote in quei deserti esser perito, e mentre il Ciel minaccia strani accidenti, rimanete inerti? Ma a voi non cale! Io stessa andronne in traccia! Io cercherò le grotte, e i campi aperti, e troverollo; o le fere, che guasto hanno il bel corpo suo, m’avranno in pasto. » 48 Come fu lungo quel giorno! La notte con le sue ombre uscì dal lago, ed egli non fece ritorno; ed invano stette attenta ad ogni calpestio e ad ogni rumore che udiva d’intorno; non chiuse mai occhio; finalmente l’Alba aprì i balconi d’oriente al giorno, ed il sole giunse in alto sull’orizzonte: la trovò sveglia, e quel crudele non venne. 47 Quel giorno intero e tutti gli altri due attese invano più morta che viva; ma quando giunse al quinto giorno, ed udì il castellano giunto alla porta, corse giù per le scale come una forsennata, i capelli sciolti, la faccia smorta, e stracciando il velo, con grido affannoso, esclamava: « Dove, dove è andato il mio sposo? 48 Così egli ritorna dalla caccia prima di sera? E mentre egli può essere morto in quei deserti, e mentre il Cielo minaccia 46
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49. Così dicendo, verso la vicina porta correa, che aperta fu pur dianzi, quando il rozzo scherano alla tapina, con mal viso, e mal cor parossi innanzi: « Sostate — disse — il signor qui destina, finch’ei non rieda, che madonna stanzi; e qui v’è forza dimorar solinga: d’uscir vana speranza vi lusinga. » 49 50. Raccapricciò la dolorosa moglie a tal dir che un abisso anzi le apria; e ben presaga omai che in quelle soglie dovea menar la vita in prigionia, proruppe in pianto, lacerò le spoglie, e di grida e di duol le volte empia; e non reggendo al duro accorgimento, semiviva cascò sul pavimento. 50
strani accidenti, voi rimanete inerti? Ma a voi non importa! Io stessa ne andrò in cerca! Io cercherò per le grotte e per i campi aperti, e lo troverò; o mi avranno in pasto le fiere che hanno guastato il suo bel corpo ». 49 Così dicendo, correva verso la porta vicina che poco prima, era stata aperta quando il rozzo sgherro si pose davanti alla meschina con cattivo volto e cuore cattivo: « Fermatevi, disse, il signore ordina che, finché egli non torni, madonna dimori qui; e qui dovete abitare da sola: vi illude vana speranza di uscire. » 50 L’infelice moglie fu presa da orrore a quel discorso che le apriva un abisso davanti; e ben consapevole che ormai doveva passare la vita prigioniera in quelle stanze, scoppiò in pianto, lacerò i vestiti e riempiva le alte sale di grida e di dolore; e non reggendo al duro provvedimento, cadde semimorta sul pavimento.
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51. E poi che in guisa tal stata fu molto, sul cubito levando il corpo obliquo, restò seduta, e tra le palme il volto pose, muta pensando al caso iniquo: statua sembrar potea di marmo scolto entro l’ingresso d’un sepolcro antiquo, se non vedeasi, pei sospiri, il largo sen colmarsi, e scemar com’onda al margo. 51 52. Poi gli occhi alzando, anzi le chiare stelle, donde sgorgavano lagrime infinite giù per le guance pria vermiglie e belle or somiglianti a rose scolorite, rose non colte in lor stagion, sì ch’elle sien sul secco cespuglio impallidite: « Sposo — dicea — così mi lasci e parti, e imprigioni chi rea solo è d’amarti? 52 53. Perché, se altrui perfidia, o mal concetto tuo dubbio avvien che me non conscia incolpe,
E dopo essere rimasta a lungo in quello stato, sollevando obliquo il corpo sul gomito, restò seduta, e pose il volto tra le mani, pensando muta al caso ingiusto: poteva sembrare una statua di marmo scolpito dentro l’ingresso di un sepolcro antico, se non si fosse visto l’ampio seno colmarsi ed abbassarsi per i sospiri come l’onda alla riva. 52 Poi alzando gli occhi, anzi le splendide stelle, da cui sgorgavano lacrime infinite giù per le guance prima rosse e belle, ed ora simili a rose scolorite, rose non colte nella loro stagione, così che siano impallidite sul cespuglio secco, diceva: « Sposo, così mi lasci e parti, ed imprigioni chi è colpevole soltanto di amarti? 51
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contro le altrui calunnie, e il tuo sospetto ascoltar non vorrai le mie discolpe? Veduto avresti almen, che a torto infetto credi il mio sen di maritali colpe, e che ancor t’amo sì, che più mi duole il perder te, che il non veder più il sole. 53 54. E se fallanza involontaria e ignota alla memoria mia pur t’era grave, e perché simular, né farla nota? Non ha amor fallo che pianto non lave, ed avrei pianto, ed a’ tuoi piedi immota, forse avrei volta del tuo cuor la chiave; né avrei lasciato il pianto e la preghiera, se rimessa da te l’onta non m’era. 54 55. E largo di perdon stato saresti a chi segni ti dié d’amor sì forte; e se implacabil stato fossi, e ai mesti voti sordo, e al dolor della consorte,
Se avviene che perfidia altrui o un tuo dubbio mal concepito mi incolpino inconsapevole, perché non vorrai ascoltare le mie discolpe contro le altrui calunnie ed il tuo sospetto? Avresti almeno veduto che a torto credi il mio seno infetto da colpe maritali, e che ti amo ancora tanto che mi addolora più il perdere te che il non vedere più il sole. 54 E se pure ti era grave una mancanza involontaria ed ignota alla mia memoria, perché fingere e non farmela nota? Amore non ha colpa che il pianto non lavi, ed io avrei pianto, ed immobile ai tuoi piedi forse avrei girata la chiave del tuo cuore; né avrei lasciato il pianto e la preghiera, se da te non mi era perdonata la vergogna. 53
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o stanco del mio talamo, m’avresti colle stesse tue man data la morte. Oh! quanto era per me miglior ventura, che viva esser sepolta in queste mura! » 55 56. Sì disse; e a stento, ove posò la notte tornava, e steso sopra il letto il viso, con voci dalle lagrime interrotte, disse: « O vedovo letto, io fui d’avviso, quand’ebbi pria le membra in te ridotte, che tu mi aprissi in terra un paradiso. Oh! come or sembri squallido e deserto: non miro in te che il mio feretro aperto! 56 57. E in te morrò, che in brevi dì consunto sarà il mio fral da mille angosce e mille; né assistenza d’amica, o di congiunto avrà il mio corpo lagrimose stille, né confidente man nel duro punto pietosa chiuderà le mie pupille;
E saresti stato generoso di perdono a chi ti diede segni di amore così forte; e se fossi stato implacabile e sordo alle meste preghiere della sposa, o stanco del mio letto maritale, mi avresti dato la morte con le tue stesse mani. Oh! quanto era per me sorte migliore che essere sepolta viva in queste mura! » 56 Così disse; e tornava con fatica dove aveva passato la notte, e poggiato il viso sopra il letto, con parole interrotte dalle lacrime, disse: « O vuoto letto, la prima volta che raccolsi in te le mie membra, io credei che tu mi aprissi un paradiso in terra. Oh! come ora sembri squallido e deserto: in te non vedo che la mia bara aperta! 55
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e la mia madre ignorerà qual terra chiede i suoi prieghi, e il cener mio rinserra. 57 58. E fien brievi i miei dì, che sul confine sentomi omai dell’ultimo passaggio; ma i mali col morir non avran fine, che in morte ancor mi sarà fatto oltraggio: ah! che diranno le città vicine, quai non san che fallato unqua non aggio? Qual più resta conforto a donna grama, se perde oltre la vita anco la fama? » 58 59. Sorgea da forsennata in questo dire, e mordendo il lenzuol battea le piante; siccome ebra bassaride suol ire a chiome sparse sull’Ismen sonante, e vedeasi ai balconi ire e redire, forte chiamando il dispietato amante; e urlavan seco in flebile ululato le sale dell’ostello inabitato. 59 Ed in te morirò, perché in breve tempo il mio corpo sarà consumato da mille e mille angosce; né il mio corpo avrà assistenza di amica o lacrime di congiunto, né mano confidente chiuderà pietosa in quel duro momento i miei occhi; e la madre mia ignorerà quale terra chiede le sue preghiere e racchiude le mie ceneri. 58 Ed i miei giorni saranno brevi, perché ormai mi sento sul confine dell’ultimo passaggio; ma i mali non avranno fine con il morire, perché sarò oltraggiata anche dopo morta. Ah! che diranno le città vicine, le quali non sanno che non ho mai mancato? Quale conforto resta più ad una misera donna, se oltre alla vita perde anche la fama? » 59 Così dicendo, si alzava come una forsennata, e batteva i 57
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60. E chi non avria pianto a quella vista? Il castellan non già, d’una parola pur anco avaro, che persona trista la cortesia d’un motto ancor consola; e l’aborrita mensa a lei provvista, l’abbandonava in quello stato sola, tornando al colle a vincer le maligne aure col don delle volsinie vigne. 60 61. E diceasi per l’umile paese star nel castello quella tanto chiara Pia, per cui fatte fur ben mille imprese dai cavalier che la chiedeano a gara,
piedi mordendo il lenzuolo; e la si vedeva andare e riandare ai balconi, come una baccante ebbra suole andare a chiome sparse lungo il sonoro Ismene, chiamando forte lo spietato amante; e le sale del castello disabitato urlavano con lei in un flebile ululato. — Le baccanti erano le seguaci del dio Bacco, che i Greci chiamavano Dioniso, il cui culto sfrenato era celebrato lungo l’Ismene, il fiume che bagna Tebe.
E chi non avrebbe pianto a quella vista? Il castellano no di certo, avaro perfino di una parola, perché anche la cortesia di una parola consola una persona afflitta; e procuratale la mensa aborrita, l’abbandonava sola in quello stato, tornando sul colle a vincere le arie maligne con il dono delle vigne volsinie. 60
— Nota del Sestini: « Volsinie vigne, vigne famose che si trovano nelle vicinanze del lago di Volsinia. I loro vini sono i più pregiati nelle Maremme. » — Questo riferimento al vino di Bolsena, unito al percorso che Nello e Pia fanno uscendo da Siena lungo la via Francigena in direzione di Roma, come Sestini dice nel secondo canto, ottave 70–73, consente di collocare il suo castello prigione della Pia sul Lago di Mezzano: laghetto che oggi risulta di molto più ameno, benché susciti ancora un che di panico nel visitatore solitario.
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per esser bella, affabile, e cortese sopra ogni altra europea donna preclara, e che sol per mirar beltà sì grande veniano i proci dalle stranie bande. 61 62. Dicean ch’ella de’ principi stranieri non curando l’inchiesta, ed in non cale ponendo il primo fior dei cavalieri, che per l’Italia avean fama immortale, ad onta del fratello, i suoi pensieri avea rivolti con amor leale a Nello, che con essa in Siena crebbe; e vinta ogni contesa a sposa ei l’ebbe. 62 63. Ed or con meraviglia di ciascuno, che avea la cosa oscuramente intesa, era da lui dannata al carcer bruno, in turpe fallo avendola sorpresa; così diceasi, ed abitante alcuno neppur coi detti ardia farne difesa; E per l’umile paese si diceva che nel castello stava quella così celebre Pia, per la quale furono fatte ben mille imprese dai cavalieri che la chiedevano a gara, perché era bella, affabile e cortese più di ogni altra famosa donna europea, e che soltanto per vedere una bellezza così grande, i proci venivano da regioni straniere. 61
— I proci erano i principi pretendenti alla mano di Penelope, la moglie fedele di Ulisse, per cui vedi Omero, Odissea, I, 96–424; II, 40–256; XXII, 1–501.
Dicevano che ella, non curando la richiesta dei principi stranieri e ponendo in non conta il fior fiore dei cavalieri che per l’Italia avevano fama immortale, con vergogna del fratello, aveva rivolto i propri pensieri con amore leale a Nello, che era cresciuto in Siena con lei; e vinta ogni contesa, egli l’ebbe in sposa. 62
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sol qualche femminetta, per la pieta, le offeriva una lagrima secreta. 63 64. Era nella stagion che il sole accende del celeste leon le giube bionde, e mostra il mondo, che la faccia fende, le viscere di pioggia sitibonde; e sul gambo ogni fior languido pende, aride pendon le ingiallite fronde; e a stelle crudelissime in governo parean quelle Maremme un nuovo inferno. 64 65. Signoreggiò tal’anno nelle calde Maremme nostre inusitata arsura: ignee colonne fino a terra salde parean piover dal sole alla pianura; cadea il sol cinto d’infiammate falde, predicendo peggior l’alba futura.
Ed ora, con meraviglia di ciascuno che aveva udito oscuramente la cosa, essa era condannata da lui al cupo carcere, avendola egli sorpresa in una colpa vergognosa; così si diceva, e nessun abitante ardiva difenderla, neppure a parole; soltanto qualche povera donna, per la pietà, le dedicava una lacrima nascosta. 64 Si era nella stagione in cui il sole accende la bionda criniera del leone celeste, e la terra, che fende la faccia, mostra le viscere assetate di pioggia; ed ogni fiore pende appassito sul gambo, pendono aride le foglie ingiallite; e quelle Maremme, in balia di stelle crudelissime, parevano un nuovo inferno. 63
— La perifrasi del sole che accende la bionda criniera del leone celeste indica che si era nel periodo del solleone, luglio–agosto, quando il sole sorge nella costellazione del Leone.
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Misera Pia! l’istesso cielo infausto parve voler tua vita in olocausto. 65 66. Taccion l’opre de’ campi, i villanelli fuggon la valle di lor vita ingorda, e nelle fratte appiattansi gli augelli, cinguettando con voce incerta e sorda; sol la cicala in vetta agli arboscelli collo stridulo metro i campi assorda, né contro al sole di garrir si stanca finché l’adamantin grido le manca. 66 67. Non più scorron sonando i rivi alpestri, né i fonti fuor delle petrose conche; né moto ha fronda nei gioghi silvestri, né i venti osano uscir di lor spelonche; sol misto al leppo dei fuochi campestri, che ardon le paglie dalle falci tronche, dalle roventi sabbie di Marocco qual vampa di vulcan soffia Scirocco. 67 Quell’anno nelle nostre calde Maremme dominò un’arsura insolita: colonne di fuoco parevano piovere dal sole alla pianura salde fino a terra; il sole tramontava circondato di falde infiammate, preannunciando ancora peggiore l’alba futura. Misera Pia! Lo stesso cielo infausto sembrò volere in olocausto la tua vita. 66 Tacciono i lavori dei campi: i poveri villani fuggono la valle avida della loro vita, e gli uccelli si nascondono nelle fratte, cinguettando con voce insicura e fioca; solo la cicala in cima agli arboscelli assorda i campi con il suo stridulo canto, né si stanca di frinire contro il sole, finché il verso cristallino viene a mancarle. 67 Non scorrono più i sonori ruscelli montani né le fonti fuori delle cavità pietrose; né si muove foglia sui monti boscosi, né i 65
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68. Né più la notte del suo gel con vive perle cadenti i campi arsi rintegra, né al dolce nembo delle brine estive si rinfranca l’erbetta, e si rallegra; e se dall’abbronzate infette rive di vapori erge il sol nuvola negra, nella notte invisibile ricade le morti a seminar, non le rugiade. 68 69. Il notturno squallor non interrompe zampogna o canto che d’amor si lagne; del faggio sotto le appassite pompe non più l’usignolin soave piagne; ma col continuo aspro concento rompe il silenzio dell’aride campagne trillar di grilli, gracidar di rane, ed ululato di ramingo cane. 69
venti osano uscire dalle loro caverne; soltanto Scirocco soffia dalle roventi sabbie di Marocco come fiamma di vulcano, e misto al puzzo caldo dei fuochi campestri che bruciano le paglie tagliate dalle falci. 68 Né la notte ristora più i campi riarsi con vivide gocce che cadono dal suo freddo, né l’erbetta si riprende più e si rallegra alla dolce nuvola delle brine estive; e se dalle rive infette rese dure come bronzo il sole solleva una nuvola nera di vapori, nella notte essa ricade invisibile a seminare le morti, non le rugiade. 69 Né zampogna né canto che si lamenti d’amore interrompe la tristezza notturna; sotto le pompose chiome appassite del faggio più non piange il piccolo usignolo; ma trillare di grilli, gracidare di rane ed ululato di cani randagi rompono il silenzio delle campagne riarse con il loro continuo concento sgradevole.
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70. Quel giovin toro che i lunati corni baldanzoso ostentò re dell’armento, e aguzzandoli al cortice degli orni, muggì sfidando alla battaglia il vento, fugge all’ombra il fervor dei caldi giorni, né più l’erba ricerca o il rio d’argento, e giace, e inchina il capo, e contro ai rari aliti di ponente apre le nari. 70 71. Il vïator sull’uscio dell’ospizio esce col sole, e l’orizzonte visto listato a strisce fiammeggianti, indizio di giorno del passato anco più tristo, non ha cuor di fidarsi a certo esizio nel cammin d’acque, e d’alberi sprovvisto: e nell’albergo, ove restar gli spiace, languente, e a sé gravoso pondo giace. 71 72. Fra i muri del castel fatti di fuoco geme l’abbandonata prigioniera, né conforto trovar, né trovar loco può da sera al mattin, da mane a sera: Quel giovane toro che, baldanzoso re dell’armento, ostentò le sue corna a falce di luna e che, aguzzandole alla corteccia degli olmi, muggì sfidando il vento a battaglia, ora fugge all’ombra il calore delle calde giornate, né più ricerca l’erba o il ruscello d’argento, e giace e china il capo, e dilata le froge verso i rari aliti di ponente. 71 Il viandante esce con il sole sull’uscio del ricovero, e visto listato a strisce fiammeggianti l’orizzonte, indizio di un giorno anche peggiore di quello passato, non ha il coraggio di esporsi a sicura rovina nel cammino sprovvisto di acque e di alberi: e nell’albergo in cui gli spiace restare giace languente, come un peso che pesa a se stesso. 70
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l’intenso ardor le vieta il sonno, e poco è il refrigerio che dal sonno spera, che qualche sogno torbido la sveglia, e la ricaccia in odïosa veglia. 72 73. E più sembra che in lei l’ardor s’accresca, e il mal dell’esser sola in tai disagi, quando le torna a mente l’onda fresca di Fonte Branda, e di sua patria gli agi, e i colli, che odorosa aura rinfresca, e le mense, e le ancelle, e i bei palagi, ove dolce menò vita serena in temperato clima, e in terra amena. 73 74. Nel maritale albergo avea trovata una fante vecchissima e devota, che degli avi di Nello al tempo nata di quei storia narrava a molti ignota, e più d’una lor colpa consumata in quel palagio nell’età rimota; Tra le mura del castello diventate di fuoco, l’abbandonata prigioniera geme né può trovare conforto né pace dalla sera al mattino dal mattino alla sera: l’ardore intenso le impedisce il sonno, ed è poco il sollievo che spera dal sonno, perché qualche sogno agitato la sveglia, e la rigetta in una veglia odiosa. 73 E sembra che l’ardore ed il male dello stare da sola in quei disagi cresca ancora di più in lei, quando le tornano in mente l’acqua fresca di Fonte Branda, e le comodità della sua patria, ed i colli che un’aria odorosa rinfresca, e le mense, e le ancelle, ed i bei palazzi, in cui condusse una vita serena in clima temperato ed in terra amena. 72
— Fonte Branda è un’antica fonte di Siena, già rimpianta per le sue fresche acque da mastro Adamo, in Dante, Inferno, XXX, 78.
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e che però di quelle sedi impure tolto possesso avean spettri e paure. 74 75. Ed aggiungea che v’erano i folletti, e vi solean le brutte streghe andarne, e succhiar dei rapiti pargoletti il fresco sangue, ed il cervel stillarne, e con osceni riti i lor banchetti, gavazzando, imbandir d’umana carne, ed apprestarvi i filtri, e le malie sotto le forme di rapaci arpie. 75 76. Or soletta la Pia nelle riposte sedi in mente volgea racconti tali; e come che, per mantener nascoste le stanze al sole, e a’ caldi venti australi, dei balconi tenea chiuse le imposte, cadea l’un mal fuggendo in altri mali, dando largo alimento al suo timore il buio, dei fantasmi genitore. 76 Nella casa del marito aveva trovato una serva vecchissima e devota che, nata al tempo degli avi di Nello, narrava di essi storie ignote a molti, e più di una loro colpa consumata in epoca lontana in quel palazzo; e diceva che per questo spettri e paure si erano impossessati di quei luoghi impuri. 75 Ed aggiungeva che c’erano i folletti, e che le brutte streghe erano solite andarvi, e succhiare il sangue fresco dei neonati rapiti, e spremerne goccia a goccia il cervello, e con riti osceni, facendo baldoria, imbandire di carne umana i loro banchetti, e prepararvi i filtri e le malie sotto le forme di arpie rapaci. 74
— Le arpie erano mostri mitologici con il volto da donna ed il corpo e gli artigli da uccelli rapaci. 76
Ora la Pia, tutta sola nelle stanze interne, rigirava nella
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77. E stesa stando sull’ingrato letto, nasconde sotto il lin gli occhi soavi; e il solitario passero sul tetto se ascolta o i tarli nelle vecchie travi, parle veder con minaccioso aspetto per la stanza trescar di Nello gli avi: si rannicchia la trepida, e dimanda piangendo aiuto, e a Dio si raccomanda. 77 78. Così vestale nell’avello occulto sotto le glebe d’infamato campo, impaurita dal fallace culto, che a vivere, e ad amar l’era d’inciampo, del fioco lume seco lei sepulto al moribondo scintillante lampo tremava, e le parea d’aver presenti le furie con le faci, e coi serpenti. 78 mente tali racconti; e poiché, per mantenere le stanze riparate dal sole e dai caldi venti meridionali, teneva chiuse le imposte dei balconi, evitando un male, cadeva in altri mali, perché il buio, generatore di fantasmi, dava ampio alimento ai suoi timori. 77 E stando stesa sul letto sgradito, nasconde gli occhi soavi sotto il lenzuolo; e se ascolta il passero solitario sul tetto o i tarli nelle vecchie travi, le pare di vedere gli avi di Nello ballare la tresca per la stanza: impaurita si rannicchia tremante, e chiede aiuto piangendo, e si raccomanda a Dio. 78 Così, nella tomba nascosta sotto le zolle di un campo disonorato, terrorizzata dal culto ingannevole che le era di ostacolo a vivere e ad amare, la vestale tremava al moribondo lampo scintillante del fioco lume sepolto con lei, e le pareva di avere presenti le furie con le torce e con i serpenti. — Le vestali erano sacerdotesse romane addette al culto di Vesta, dea del focolare e del fuoco; esse avevano il compito di tenere sempre acceso
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79. Nelle notti spiacevoli e noiose per l’aspra angoscia, e per l’estivo ardore, alla fenestra traea l’affannose membra, onde respirar l’aura di fuore: e mirava la luna, che le cose di modesto tingea dolce colore, e specchiando al pantan le sceme guance fea l’onde negre scintillanti e rance. 79 80. Ed: « Oh! Luna, dicea, consolatrice della miseria altrui, tu confidente, e compagna dell’esule infelice dal Cielo abbandonato, e dalla gente, deh! non calar sì tosto alla pendice, non affrettarti verso l’occidente: non far che l’etra povero rimanga, e del tuo lume anco il difetto io pianga. 80
il fuoco sacro nel Foro romano e di pregare per la salvezza del popolo, dello Stato e dell’imperatore; il loro servizio durava trenta anni, durante i quali dovevano condurre una vita austera e casta; quella che faceva spegnere il fuoco veniva punita severamente; quella che perdeva la verginità era punita con la morte: veniva rinchiusa viva nella propria tomba.
Nelle notti spiacevoli e noiose per l’aspra angoscia e per l’ardore estivo, trascinava le membra affannate alla finestra per respirare l’aria di fuori, e guardava la luna che tingeva le cose di un dolce colore sfumato e che, specchiando nel pantano le guance non piene, rendeva scintillanti ed aranciate quelle acque nere. 80 E diceva: « Oh! luna, consolatrice della miseria altrui, tu confidente e compagna dell’esule infelice, abbandonato dal Cielo e dalla gente, deh! non scendere così presto lungo la pendice, non affrettarti verso l’occidente: non fare che il cielo resti povero, e che io pianga anche la mancanza della tua luce. 79
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81. E il chiaror blando, che tempra il desio del cor gentile, e di dolcezza inonda, liberale a me volgi, e in questo mio nappo di duol stilla vitale infonda; e il veggente tuo raggio assista pio al termin di mia vita moribonda, e m’accompagni ove all’avello io scenda e al vïator su quello indice splenda. 81 82. E se dal tempo, come avvien talora, scoperto il ver sarà, l’onor redento, verrà ‹il› mio sposo in questa terra; allora scorgilo ove il mio fral riposi spento; ei ben vorrà compagna avermi ancora, satisfarmi vorrà col pentimento, ma una pietra offrirassi ai di lui sguardi, e dovrà pianger perché venne tardi. » 82 83. Per lenta febre intanto attrita ed egra, tributava la vita al sozzo clima,
E generosa volgi verso di me il tenue chiarore, che tempera il desiderio del cuore gentile ed inonda di dolcezza, ed infonda una stilla di vita in questo mio calice di dolore; ed il tuo raggio illuminante assista pietoso al termine della mia vita morente, e mi accompagni quando io scenda nel sepolcro, e splenda su quello come indice per il viandante. 82 E se, come avviene talvolta, la verità sarà scoperta dal tempo, e l’onore sarà riscattato, il mio sposo verrà in questa terra; tu allora guidalo dove il mio corpo riposi spento; egli vorrà bene avermi ancora compagna, vorrà placarmi con il pentimento, ma una pietra si mostrerà ai suoi sguardi, ed egli dovrà piangere, perché venne tardi. » 81
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com’uom dai mali oppresso, e che si allegra per morte, e di campar non fa più stima; ed era scorsa omai l’estate integra, e d’autunno apparia la nube prima, che in improvvisa pioggia si risolve, l’odor destando della spenta polve. 83 84. Sorto un dì ch’ella già sentia mancarsi, e la salma restar di vita scema, vedendo dietro ai monti il sol calarsi, volle seguirlo con la vista estrema; e ai campi, e ai colli ancor di luce sparsi che ogn’uom, lasciando, desïoso trema, un sospiro e un addio per dar pur anco, al balcon trascinò l’infermo fianco. 84 Fine del canto primo.
Intanto, consunta e malata per lenta febbre, ella rendeva la vita al sozzo clima, come un uomo oppresso dai mali, che si rallegra per la morte e che non intende più combattere. Ed ormai era trascorsa l’estate intera, e compariva la prima nuvola d’autunno che si scioglie in pioggia improvvisa, destando l’odore della polvere spenta. 84 Sorto un giorno che ella già sentiva mancarsi e sentiva il corpo restare privo di vita, vedendo il sole calare dietro i monti, volle seguirlo con l’ultimo sguardo; e per mandare ancora un addio ed un sospiro ai campi ed ai colli cosparsi della luce che ogni uomo, al momento di lasciarla, desidera tremante, trascinò il corpo infermo fino al balcone. 83
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Canto secondo 1. E alla velata vista le si offerse un povero eremita in riva al fosso, che riedea dalla questua con diverse vettovaglie nel zaino, e un sacco in dosso; bianca avea barba, e ciglia al suol converse, e dalla nuca ogni capel rimosso; e su scabro baston curvo per via orava, mormorando, Ave Maria. 1 2. Al chino tergo, all’abito, al canuto mento ella riconobbe il solitario, e ricordossi che l’avea veduto fuor della cella, innanzi al santuario, starsi a chiedere a Dio grazia ed aiuto contro il nostro ingannevole avversario, sopra un colle di là poco lontano, alquanto fuor di strada, a destra mano. 2
Ed alla vista velata le si mostrò in riva al fosso un povero eremita che tornava dalla questua con diversi viveri nello zaino ed un sacco in spalla; aveva la barba bianca, e gli occhi rivolti al suolo, ed ogni capello tolto dalla nuca; e curvo su un rozzo bastone, lungo la via pregava, mormorando, Ave Maria. 2 Dalle spalle curve, dall’abito, dalla barba bianca ella riconobbe il solitario, e si ricordò che lo aveva visto fuori della cella, davanti al santuario, starsene a chiedere a Dio grazia ed aiuto contro il nostro avversario ingannatore, sopra un colle poco lontano di là, un po’ fuori mano, sulla destra. 1
— Il nostro avversario ingannatore è il diavolo.
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3. E dall’alto il chiamò con fievol voce, dicendo: « Miserere, o padre santo; per lo tuo Dio che morir volle in croce, a por mente al mio mal t’arresta alquanto: cattiva in questo domicilio atroce tienmi il crudo consorte, e muoio intanto, e qui non ho chi l’ultime rispetti volontà sacre, e i miei ricordi accetti. 3 4. A te dunque ricorro, e se vedrai a sorte un dì passar dalla tua cella l’uom, con cui, son due mesi, ivi passai, della vittima sua dagli novella: digli qual mi vedesti, e di’ che i rai chiusi sposa innocente, e fida ancella, che gli perdono i malefici sui e imploro anche da Dio perdono a lui. 4 5. E per dargli contezza che morendo gli resi per mal far grata mercede,
E dall’alto lo chiamò con voce fioca, dicendo: « Abbi pietà, o padre santo; per il tuo Dio che volle morire in croce, fermati un poco a porre mente al mio male: lo sposo crudele mi tiene prigioniera in questa dimora atroce, ed intanto muoio, e qui non ho chi rispetti le ultime, sacre volontà, ed accolga i miei ricordi. 3
— Il termine cattiva del quinto verso è trascrizione del latino captiva e perciò significa prigioniera.
Ricorro dunque a te, e se per caso un giorno vedrai passare dalla tua cella l’uomo con cui io vi passai or sono due mesi, dagli notizia della sua vittima: digli quale mi vedesti, e digli che ho chiuso gli occhi come sposa innocente ed ancella fedele, che gli perdono le sue malefatte ed imploro anche da Dio perdono per lui. 4
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« dagli — l’anel dall’anular traendo — dagli — seguia — l’anel ch’ei già mi diede, e di’ che come questo integro rendo, tale a lui rendo intatta la mia fede. » Disse, e del crin reciso ad una ciocca aggruppato, il gittò fuor della rocca. 5 6. E soggiungea: « Questa troncata treccia pur prendi, e se pastore, o peregrino, o qualche messaggera villereccia, che ver Siena rivolga il suo cammino, passa dalla tua casa boschereccia, alla madre che ignora il mio destino inviala, e l’abbia del mio corpo in vece, sul qual spargere il pianto a lei non lece. 6 7. E sappia che, morendo, al Cielo io giuro che al mio sposo giammai fede non ruppi,
E per fargli sapere che, morendo, in cambio del male gli resi ricompensa grata, dagli », e togliendosi l’anello dall’anulare, « dagli, seguitava, l’anello che egli un giorno mi diede, e digli che come rendo integro questo, così gli rendo intatta la mia fedeltà. » Disse, e lo gettò fuori della rocca annodato ad una ciocca di capelli tagliati. 6 E soggiungeva: « Prendi anche questa treccia tagliata, e se dalla tua casa nel bosco passa pastore o pellegrino o qualche messaggera contadina che diriga verso Siena il suo cammino, inviala alla madre che ignora il mio destino, e la tenga al posto del mio corpo, su cui a lei non è lecito spargere il pianto. 5
— Nota del Sestini: « Messaggera villereccia. Si trovano ancora al presente nell’interno della Toscana alcune donne dette procaccine, che seguendo un’antica usanza fanno periodicamente i loro viaggi a piede da un paese all’altro portando le lettere e le imbasciate. »
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e le caste virtudi che mi furo ispirate da lei mai non corruppi, onde la mia memoria dall’impuro laccio, in che giace avvolta, disviluppi, e il carnefice mio sia fatto accorto d’aver dannata un’innocente a torto. 7 8. E ond’io mercé nell’altra vita ottenga, priega tu Dio, che i falli miei perdoni: di me che son la Pia ti risovvenga nelle quotidïane orazïoni; e quando fia che accolta in cielo io venga, pregherò Dio che mai non ti abbandoni. » Sì disse, e nel compir l’estreme note con le palme asciugò l’umide gote. 8 9. Tal se dal sommo d’altissimo masso la sima agnella, che vi è incauta ascesa, nel lato ov’è il burron sdrucciola al basso, e fra la terra, e il ciel riman sospesa
E sappia che, morendo, io giuro al Cielo che non ruppi mai fedeltà al mio sposo, e non corruppi mai le caste virtù che mi furono ispirate da lei; sicché liberi la mia memoria dal laccio impuro in cui essa giace avvolta, ed il mio carnefice sappia che ha condannato ingiustamente un’innocente. 8 Ed affinché nell’altra vita io ottenga pietà, tu prega Dio che perdoni i miei errori: nelle tue preghiere quotidiane ti torni memoria di me, che sono la Pia; e quando sia che io venga accolta in cielo, pregherò Dio che non ti abbandoni mai ». Così disse, e nel terminare le ultime parole, si asciugò con le palme le guance umide. 7
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sul caprifico o su sporgente sasso, bela né può salir né far discesa: l’ode il pastor dall’imo, ed a mirarla stassi, e si duol di non poter salvarla. 9 10. Alzate l’eremita avea le ciglia, quand’ella pria la voce alzò chiamando, e pien d’inaspettata meraviglia a mano a man la gia raffigurando, benché non fosse più fresca e vermiglia: un non so che di dolce, e venerando in lei scolpito avea la doglia, senza involarne l’antica conoscenza. 10 11. Scadute ahi! troppo le sembianze rare dall’esser primo comparian, qual suole l’astro che opaco nel parelio appare, pur mostra ancor l’immagine del sole, o stella che scolorasi sul mare, se l’alba sparge i gigli, e le viole,
Come se dalla cima di un masso altissimo la sciocca agnella, che incauta vi è salita, sdrucciola al basso dal lato dove è il burrone e rimane sospesa fra la terra ed il cielo sul fico selvatico o su un sasso sporgente, bela e non può né salire né scendere: il pastore l’ode dal basso e si ferma a guardarla e si duole di non poterla salvare. 10 L’eremita aveva alzato gli occhi, quando prima lei aveva alzato la voce chiamando, e pieno di meraviglia inaspettata a mano a mano andava riconoscendola, benché non fosse più fresca e rosea: il dolore aveva scolpito in lei un non so che di dolce e venerando, senza toglierne l’aspetto antico. 9
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quando sembra restar vedovo il polo, e ne piange nel bosco il rusignuolo. 11 12. Raccolse il vecchio la gemma, e promesse a lei di far quanto pregò il suo dire, aggiungendo che in Dio fidanza avesse, qual non fa eterno dei buoni il martire; e ancor seguia, ma l’egra più non resse, e venir men sentendosi, e morire, vacillante ritrassesi; ed immoto ei restò, contemplando il balcon vuoto. 12 13. E veggendo che già sull’universo stendea la notte i maestosi vanni, fe’ ritorno al tugurio, al caso avverso di lei pensando, e ai non mertati affanni. L’altro dì sorse, ed egli a Dio converso pregollo a ristorar del giusto i danni,
Le eccezionali fattezze apparivano ahi! troppo scadute dalla loro condizione originaria, come è solito l’astro che nel parelio appare opaco e tuttavia ancora mostra l’immagine del sole, o la stella che si scolora sul mare, se l’alba sparge i gigli e le viole, quando il cielo sembra restare vuoto, e l’usignolo ne piange nel bosco. 12 Il vecchio raccolse l’anello, e le promise di fare quanto il suo discorso aveva pregato, aggiungendo che avesse fiducia in Dio, il quale non fa eterno il martirio dei buoni; e seguitava ancora, ma la malata non resse più, e sentendosi venire meno e morire, si ritrasse vacillante; ed egli restò immobile, contemplando il balcone vuoto. 11
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dandogli lume onde prestare aita a lei pria che dovesse uscir di vita. 13 14. Sorgea su bel declivio in piaggia molle edificato l’abituro agreste; eran di pietre i muri, erbose zolle copriano il tetto e tavole conteste; di retro ad esso rivestiano il colle intricate e densissime foreste, e il bianco ostello su quel fondo nero chiaro apparia da lunge al passeggiero. 14 15. Un picciol orticello era alla destra, distinto in bei riquadri a più filari; e in quello difendea siepe silvestra i frutti più alla vita necessari; qui l’eremita avea da fonte alpestra derivati gli umor nutrenti e chiari, e dell’ore del dì, fatto bifolco, quel che all’altar togliea donava al solco. 15 E vedendo che la notte già stendeva sull’universo le ali maestose, fece ritorno alla sua casupola, pensando alla sventura di lei ed alle sofferenze non meritate. Il giorno dopo si alzò, e rivolto a Dio lo pregò di porre riparo ai danni del giusto, illuminandolo per portare aiuto a lei prima che dovesse uscire di vita. 14 Edificata su un morbido spiazzo, la rustica abitazione sorgeva su un bel declivio; i muri erano di pietre, e zolle erbose e tavole intrecciate ricoprivano il tetto; dietro ad esso, foreste intricate e densissime rivestivano il colle, e su quello sfondo nero, da lontano, il bianco rifugio appariva nitido al passeggero. 15 Sulla destra c’era un piccolo orticello distinto in bei riquadri a più filari, ed una siepe boschiva proteggeva in esso i frut13
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16. Era a sinistra un prato, e piante folte gli fean ombrella, e circolar serrame: l’avea piantate ei stesso, e venti volte le avea vedute rinnovar le rame; era in mezzo un altare, e di sepolte creature l’ornava il nudo ossame: eravi sopra un cranio, ed incrociati eran femori e stinchi in tutti i lati. 16 17. Qui il fraticel di quel che fare in forse rimase salmeggiando infino a sera, quando nel piano un cavaliero scorse, che galoppando in riva alla riviera, dirittamente a quella volta corse, cercando asilo incontro alla bufera, che parea minacciar pioggie dirotte, già cominciando ad oscurar la notte. 17
ti più necessari alla vita; qui l’eremita aveva condotto da una fonte di roccia le acque nutrienti e chiare, e quello che delle ore del giorno toglieva alla preghiera, facendosi contadino, lo dedicava alla terra. 16 A sinistra c’era un prato, e piante folte gli facevano da ombrello e da recinto circolare: le aveva piantate egli stesso e le aveva viste venti volte rinnovare le foglie sui rami; al centro c’era un altare ornato dalle ossa nude di creature sepolte: sopra c’era un cranio, ed in tutti i lati c’erano femori e stinchi incrociati. 17 Qui il fraticello, in forse su quel che doveva fare, rimase salmeggiando fino a sera, quando scorse nella pianura un cavaliere che, galoppando lungo il fiume, corse diritto in quella direzione, cercando rifugio contro la tempesta, che pareva minacciare piogge violente, mentre la notte già cominciava ad oscurare.
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18. In quel tempo i villan spesso vedieno quest’uom d’aspetto torbido, e diverso, dall’arcione al caval lentando il freno, della boscaglia correre a traverso: anelante ha il cavallo il tergo, e il seno, di larghe striscie di sudore asperso, e sempre che lo spron sente alla pancia come locusta celere si slancia. 18 19. Mena le zampe impetuose innanti, e divorar le vie sembra nel corso: scherzan sulla cervice i crin volanti, e balzan flagellando il largo dorso; fumo esalan le nari, e le tremanti fibre, e di calde spume inonda il morso; s’alza la polve, e in densa nube il serra, e sotto al calpestio trema la terra. 19 20. Giunto sul monte donde i flutti sozzi scopriansi, e del palagio i grigi fianchi,
In quel tempo i contadini vedevano spesso quest’uomo di aspetto cupo e strano correre attraverso la boscaglia, allentando dalla sella il morso al cavallo: il cavallo ha il dorso anelante ed il petto bagnato di larghe strisce di sudore, ed ogni volta che sente lo sprone alla pancia si slancia veloce come una cavalletta. 19 Muove impetuose le zampe in avanti, e nella corsa sembra divorare la via: i crini volanti scherzano sul collo e balzano flagellando l’ampio dorso; le froge e le fibre vibranti esalano fumo, ed inonda il morso di spuma; la polvere si alza e lo chiude in una nuvola densa, e la terra trema sotto il calpestio. 18
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frenava a un tratto il corridore, e mozzi detti gli uscian da’ labbri asciutti e bianchi: e tra i fremiti orrendi e tra i singhiozzi gli occhi aggrottati, e già dal pianger stanchi truci rotava, e sull’ostello tetro teneagli fitti, e rifuggiasi a retro. 20 21. E giù correa precipitoso al chino, in balia del destrier tra gorghi e massi; davano l’erbe a lui vitto ferino, e tetto erano i rami e letto i sassi; lo additava tremante il pellegrino, ver l’abitato accelerando i passi; e fu creduto in tal secol ferrigno di quei boschi lo spirito maligno. 21 22. Ringraziò il frate la Pietà celeste, come d’appresso in lui lo sguardo intese, che al torvo sguardo, al viso, ed alla veste quel della Pia lo sposo esser comprese;
Giunto sul monte da cui si vedevano le sozze acque ed i fianchi grigi del palazzo, tratteneva di colpo il cavallo, e dalle labbra asciutte e bianche gli uscivano parole spezzate: e tra i fremiti orrendi e tra i singhiozzi ruotava truci gli occhi aggrottati e già stanchi del piangere, e li teneva fissi sul tetro palazzo, e se ne rifuggiva indietro. 21 E correva a precipizio giù per la china, in balia del cavallo, tra gorghi e massi; le erbe gli davano un vitto selvatico, i rami gli servivano da tetto ed i sassi da letto; il pellegrino lo additava tremante, accelerando i passi verso l’abitato; ed in quella età di ferro fu creduto lo spirito maligno di quei boschi. 20
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gli si fe’ innanzi, e d’accoglienze oneste, fattolo dismontar, gli fu cortese: il suo ronzin prima al coperto addusse, poi nel rustico albergo lo introdusse. 22 23. E mentre più si fea la pioggia intensa, e nero e spaventoso il ciel notturno, l’ospite siede, e per la doglia immensa china sul petto il volto taciturno; e il vecchio diessi ad apprestar la mensa coi cibi, frutto del lavor diurno, e della cella nel più atto loco di preparate legna accese un fuoco. 23 24. Arde il giovine crin d’arbori cionchi, e in sospeso lebete urta la vampa, e aperta sotto a quel coi corni adonchi l’abbraccia mormorando, e in su divampa: stridon fra i lari i crepitanti tronchi, e abbagliante splendor la cella stampa,
Il frate ringraziò la Pietà celeste, non appena fissò da vicino lo sguardo su lui, perché dallo sguardo torvo, dal viso e dal vestito comprese che quello era lo sposo della Pia; gli andò incontro ed accoltolo con rispetto, fattolo smontare, fu cortese con lui: prima condusse al coperto il suo cavallo, poi lo fece entrare nel rustico ricovero. 23 E mentre la pioggia si faceva più intensa, ed il cielo notturno nero e spaventoso, l’ospite siede e per il dolore immenso china taciturno il volto sul petto; ed il vecchio si diede a preparare la mensa con i cibi frutto del lavoro diurno, e nel luogo più adatto della cella accese un fuoco di legna preparate. 22
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e fa scoprir sulle pareti umili croci, figure, e rustici utensili. 24 25. Poi che il cotto legume e il cereale pasto venne sul desco, e d’acqua il vase, che ognun le man vi stese, e il naturale d’esca e bevanda amor spento rimase, disse il vecchio: « Ancor notte alta non sale, né il sonno ancor le nostre membra invase, onde narrar ti vuo’, se alla memoria ben mi ritorna, una leggiadra istoria. 25 26. Su quella via che mena al mar, dov’oggi passasti qui venendo, in piaggia aprica, che giace all’ombra di due verdi poggi, son le reliquie d’una torre antica: ramarri, e gufi or v’han comodi alloggi fra l’edre brune, e la pungente ortica,
Arde la giovane chioma di alberi spezzati, e la fiamma urta nel paiolo appeso, ed aperta sotto di esso lo abbraccia, mormorando, con i corni acuti, e divampa in su: i tronchi stridono crepitanti nel focolare, ed uno splendore abbagliante si stampa sulla cella, e sulle umili pareti fa scoprire croci, figure ed utensili rustici. 25 Poi che il legume cotto ed il pane ed il vaso dell’acqua vennero sulla mensa, ed ognuno vi ebbe stesa la mano, ed il desiderio naturale di cibo e bevanda rimase sazio, il vecchio disse: « La notte ancora non sale alta, né il sonno ha invaso le nostre membra, sicché, se mi ritorna bene alla memoria, ti voglio raccontare una bella storia. 24
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e nell’etadi, che già fer passaggio, alloggiamento fu d’un uom selvaggio. 26 27. Vivea di caccia, e sol prendea diletto, mansuefatta l’anima proterva, nel posseder doppio tesoro eletto: un cristallino fonte, ed una cerva; vincea il primo in beltà qual mai più schietto fonte in porfidi sculti si conserva, né forse fu sì bella la fontana che finsero gli Achei sacra a Dïana. 27 28. Dall’ampia volta d’incavata roccia, scabra di spume, e gruppi cristallini, cadea l’onda sonante a goccia a goccia nei nativi ricetti alabastrini, e raccolta in profonda erbosa doccia, sotto l’ombra dei platani, e dei pini, tacita e bruna sussurrando giva a nutrir l’erbe, e ad infiorar la riva. 28 Su quella via che porta al mare, dove oggi passasti venendo qui, in un luogo aperto, che giace all’ombra di due verdi colline, ci sono i resti di una torre antica: ramarri e gufi vi hanno comodi alloggi tra le edere scure e l’ortica pungente, e nelle età già passate fu l’alloggio di un uomo selvatico. 27 Viveva di caccia e prendeva piacere soltanto, ammansita l’anima feroce, nel possedere un doppio tesoro pregiato: una fonte dalle acque cristalline ed una cerva; la prima vinceva in bellezza ogni più limpida fonte che si conserva in porfidi scolpiti, e forse non fu così bella la fontana che gli Achei scolpirono sacra a Diana. 28 Dall’ampia volta di roccia incavata, scabrosa per spume e gruppi cristallini, l’acqua cadeva sonante a goccia a goccia nei 26
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29. N’era geloso, e non soffria che armenti vi appressasser le labbra, o vïatori, ed or godea coi derivati argenti del giardino inaffiar gli arbusti e i fiori, or della calda estate ai dì cocenti ristorarsi, bevendo i freschi umori, or dalla caccia reduce, l’immonda sudata polve deponea nell’onda. 29 30. Domestica cotanto era la belva, che dalla man di lui prendea pastura, e dove ogni altra timida s’inselva, seco ella stava ad abitar secura: scorrea nel dì per la vicina selva, tornando al chiuso quando il ciel s’oscura, e godea, colla fronte alta e superba di fiori adorna, carolar sull’erba. 30
naturali alvei alabastrini, e raccolta in un profondo canale erboso, sotto l’ombra dei platani e dei pini, silenziosa e bruna andava sussurrando a nutrire le erbe, e ad infiorare la riva. 29 Ne era geloso e non sopportava che armenti o viandanti vi accostassero le labbra, e gli piaceva ora innaffiare gli arboscelli ed i fiori del giardino con le argentee acque che ne prendeva, ora ristorarsi nei giorni della calda estate bevendo le fresche acque; ora reduce dalla caccia deponeva nell’acqua l’immonda polvere sudata. 30 La bestia era così domestica che prendeva il cibo dalla sua mano; e mentre ogni altra si rifugia timida nella selva, essa stava sicura ad abitare con lui: il giorno vagava per il bosco vicino, tornando al chiuso quando il cielo si oscura, ed amava danzare festosa colla fronte alta e superba sull’erba adorna di fiori.
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31. Di corallo parean due rami grossi non anco usciti dalla man del mastro del vigilante capo i lucidi ossi, ed era bianco il pel come alabastro, tranne gli snelli piedi alquanto rossi e il collo che cingea ceruleo nastro, ov’era scritto negli estremi fiocchi: « Son sacra al mio signor, nessun mi tocchi. » 31 32. Un dì che, stanco, a togliersi l’usbergo d’aspro cuoio, e a depor l’asta e la daga riedea con molte prede appese al tergo, vide la belva mansueta e vaga, accosciata anelar fuor dell’albergo per sanguigna nel piè recente piaga, e vide a un tempo intorbidato e brutto per lorda tabe del bel rivo il flutto. 32
I lucidi ossi del vigile capo parevano due grossi rami di corallo non ancora usciti dalle mani dell’artista, ed il pelo era bianco come alabastro, tranne i piedi snelli alquanto rossi ed il collo circondato da un nastro azzurro su cui, nella parte estrema dei fiocchi, era scritto: « Sono sacra al mio signore: nessuno mi tocchi. » 31
— Nota del Sestini: « Si è fatto rimprovero talvolta ad alcun poeta di aver dato le corna alle cerve. L’autore si crede scusabile dietro l’autorità di Pindaro, Ode III. Olim. Strophe XI. Et cursu volucrem, et cornibus aureis cervam; il simile si può vedere in Euripide nell’Ercole, Ver. 376, e in Petrarca, Sonetto “Una candida cerva…” » — Gli autori citati dal Sestini sono: Pindaro, Olimpiche, III, 11: « e veloce nel corso e con le corna dorate una cerva »; Euripide, Ercole, 376; Petrarca, Canzoniere, 190, 1–2: « Una candida cerva sopra l’erba / verde m’apparve con le corna d’oro ».
Un giorno che, stanco, tornava a togliersi la corazza di ruvido cuoio ed a deporre la lancia e la corta spada con molte prede appese dietro alle spalle, vide la bestia mansueta e bella 32
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33. Ed ecco un cacciator che sopraggiunge, mentre il suo danno addolorato guarda: un cacciator che albergo avea non lunge, d’invida mente, e d’anima bugiarda; gran serpe che se slunga, e se raggiunge, che fischia, e par che i fior con l’alito arda, dice che visto avea sbucar dal bosco, turbar la fonte, e vomitarvi il tosco. 33 34. E che veduto avea dalla montagna scender, correndo sull’arsiccia sabbia, una bramosa attenuata cagna, fatta tremenda per morbosa rabbia: e la cerva inseguir nella campagna, giungerla e in essa insanguinar le labbia; onde la belva, per li morsi ch’ebbe colto il contagio, in rabbia ita sarebbe. 34
ansimare accosciata fuori della casa per una ferita fresca e sanguinante alla zampa, e nello stesso tempo vide l’acqua del bel ruscello intorbidata e brutta per una sozza macchia. 33 E mentre guarda addolorato il suo danno, ecco che sopraggiunge un cacciatore: un cacciatore che aveva dimora non lontano, di mente invidiosa e di anima bugiarda; dice che aveva visto un grande serpente che si slunga e si ritrae, che fischia e pare che arda con l’alito i fiori, sbucare dal bosco, sconvolgere la fonte e vomitarvi il veleno. 34 E che aveva veduto scendere dalla montagna, correndo sulla sabbia arsiccia, un’avida cagna smagrita, resa tremenda da rabbia contagiosa, ed inseguire la cerva nella campagna, raggiungerla, ed insanguinare in essa le labbra; sicché la bestia, contratto il contagio per i morsi che ebbe, sarebbe andata in rabbia.
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35. Crede l’incauto, e accendesi di sdegno, e che la fera in rabbia monti ha tema: dà mano a un’asta, e va senza ritegno sopra la imbelle con ferocia estrema; ella non fugge, ed all’amico indegno volge supplici sguardi, e geme, e trema: l’atterra, ed ella le sanguigne gambe dell’ingrato uccisor morendo lambe. 35 36. Al fonte, che credea di velen carco, sterpò col ferro le selvose scene, l’antro percosse, e ruinar fe’ l’arco, e fur sepolte le sorgenti amene che, trovando all’uscir niegato il varco, tornar neglette alle nascoste vene; così il bel rivo vïolato giacque, e fuor più mai non trapelar quell’acque. 36 37. Poi che solo trovossi, e irrigar l’arse semente al fonte più non fu concesso,
L’incauto crede, e si accende di sdegno, e teme che la bestia vada in rabbia: afferra una lancia e con estrema ferocia va senza ritegno sulla indifesa; essa non fugge e volge sguardi supplici all’amico indegno, e geme e trema: egli l’abbatte, ed essa morendo lambisce le gambe insanguinate dell’ingrato uccisore. 36 Strappò con la spada i fondali boscosi al fonte che credeva carico di veleno, percosse la grotta e fece crollare l’arco, e furono sepolte le belle sorgenti che, trovando ostruito il varco per uscire, tornarono trascurate alle vene nascoste; così il bel ruscello rimase violato, e quelle acque non trapelarono mai più fuori. 35
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che mancar le ricolte, e ricovrarse non potè nell’ombrifero recesso, aperto il suo gran danno gli comparse: tardi s’avvide dell’error commesso, e sì gli venne in odio quel soggiorno ch’indi partissi, e più non fe’ ritorno. 37 38. E ben fu saggio a non tornar dappoi. Oh! quanto affanno riserbato gli era se udito avesse, come udimmo noi, che a torto fe’ morir l’innocua fera, e il fonte ruppe, e ancise gli arbor suoi, che il cacciator con lingua mensognera avea tessuto l’inganno esecrando, possesso sì gentil gl’invidïando. » 38 39. Con questo di parabole apparecchio il frate tentò l’ospite, e il compunse; a capo basso ei gli avea dato orecchio, ma quando dell’istoria al termin giunse, levò la faccia, e guardò fiso il vecchio che, commosso scorgendolo, soggiunse: Poi che si ritrovò solo e non gli fu più concesso irrigare con la fonte le sementi riarse, che mancarono le raccolte e non poté ripararsi nel ritiro ombroso, il suo grande danno gli apparve chiaro: si accorse tardi dell’errore commesso e quella dimora gli venne così in odio che se ne partì di là e non vi fece più ritorno. 38 E fu ben saggio a non tornare poi. Oh! quanto affanno gli era riservato se avesse udito, come noi udimmo, che fece morire l’innocua bestia e ruppe il fonte e tagliò i suoi alberi a torto, perché il cacciatore con lingua bugiarda aveva tessuto l’inganno esecrando, perché gli invidiava un possesso così prezioso. » 37
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« Questa gemma alla cerva ornava il collo. » — e l’anel della Pia tolse, e mostrollo. 39 40. Nello il vide, il conobbe, e si riscosse: « E dove, e quando — volea dir — l’avesti? » E come s’ei sognante egro si fosse, cui fantasma letal si manifesti che a lui qual per gridar fa tutte posse, par che stringa la gola, e il fiato arresti, rimase inerte, e la man che già stesa avea per torlo gli restò sospesa. 40 41. Ma l’altro il tempo colse, e a narrar prese come egli vide a mal termine giunta la relegata donna, e fe’ palese l’ambasceria che da lei fugli ingiunta, e che se pronto a riparar l’offese non accorrea, la troveria defunta; e aggiunse ch’ei presentimento avea, quasi divin, ch’ella non fosse rea. 41 Per mezzo di queste parabole il frate mise alla prova l’ospite e lo compunse; egli lo aveva ascoltato a capo basso, ma quando giunse al termine della storia, levò la faccia e guardò fisso il vecchio che, vedendolo commosso, soggiunse: « Questa gemma ornava il collo alla cerva. » E prese l’anello della Pia, e lo mostrò. 40 Nello lo vide, lo riconobbe, e si riscosse: « E dove, e quando — voleva dire — lo avesti? » E come se fosse un ammalato a cui, mentre sogna, appaia un fantasma mortale che sembri stringergli la gola e fermargli il fiato, mentre lui fa ogni sforzo per gridare, rimase inerte, e la mano, che aveva già stesa per prenderlo, gli restò sospesa. 41 Ma l’altro colse il momento ed incominciò a narrare come 39
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42. E che oltre all’esser villania, e bassa cosa l’imprigionar bella consorte, era empietà ch’ogni misura passa sol per sospetti il darla a certa morte; che se Dio l’innocente perir lassa, gli dà compenso nell’empirea corte, ma il di lui sangue che vendetta grida fa sempre ricader sull’omicida. 42 43. Ond’ei temesse dell’Eterno l’ira, se all’innocente fea soffrir tal’onta, e quel verme che l’animo martira, onde il commesso maleficio sconta. Con tal dir, qual se l’austro estivo spira la neve a scior che brumal vento ammonta, il ghiaccio che cingea quel petto infranse, e al finir del sermon l’ospite pianse. 43
egli aveva visto giunta a mal termine la donna rinchiusa, e fece palese il messaggio che gli era stato imposto da lei, e che se non accorreva pronto a riparare le offese, la troverebbe morta; ed aggiunse che egli aveva un presentimento quasi divino che ella non fosse colpevole. 42 E che oltre ad essere villania e cosa bassa l’imprigionare una bella sposa, era empietà che passa ogni misura darla a morte sicura soltanto per dei sospetti; che se Dio lascia perire l’innocente, gli dà compenso nella corte celeste, ma fa sempre ricadere sull’omicida il suo sangue che grida vendetta. — La corte celeste è il paradiso.
Sicché, se faceva soffrire tale vergogna all’innocente, egli temesse l’ira dell’Eterno e quel verme che tormenta l’animo con cui esso sconta il mal fatto. Con tale discorso, come se il vento australe estivo spira a sciogliere la neve che un vento invernale 43
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44. Ed: « O padre — dicea — sa il Ciel se mi ange lo stato di colei che uccido ed amo, ma l’onor mio che maculato piange mi vieta salvar lei, che salva bramo; crudel m’appella, e fa’ se il puoi ch’io cange consiglio, ond’ella viva, io sia men gramo; ciò desìo, quanto duolmi che tu dica ch’io non sia giusto, e ch’ella sia pudica. 44 45. Creder non posso io già, che dell’opposto ho contezza, e questi occhi il sanno a prova. Mi odi, e linguaggio cangerai ben tosto. Pubblico fallo mascherar che giova? Tu che nei boschi, agli uomini nascosto, sol prendi cura della vita nuova, udito forse non avrai che volle Iddio sconfitto il nostro campo a Colle. 45 accumula, infranse il ghiaccio che cingeva quel petto, ed al finire del sermone l’ospite pianse. — Il verme è il rimorso che tormenta il colpevole.
E diceva: « O padre, sa il Cielo se mi angoscia lo stato di colei che uccido ed amo; ma il mio onore, che piange macchiato, mi vieta di salvare lei che bramo salva; chiamami crudele e fa’, se lo puoi, che io cambi parere, sicché ella viva ed io sia meno infelice; desidero questo quanto mi duole che tu dica che io non sia giusto e che ella sia casta. 45 Certo non posso crederlo io, perché ho conoscenza del contrario, e questi occhi lo sanno per prova. Ascoltami e cambierai ben presto linguaggio. A che giova mascherare una colpa notoria? Tu che nei boschi, nascosto agli uomini, ti prendi cura soltanto della vita eterna, forse non avrai udito che Dio volle il nostro esercito sconfitto a Colle. 44
— Nota del Sestini: « Della rotta dei Sanesi a Colle fa mensione Dante, Pur. Can. 13. » — La battaglia di Colle di Val d’Elsa, che pose fine
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46. Tu dei saper che al mal governo tolti, che orbò cotanti cittadini lari, pochi, e a mal termin rimanemmo, e volti fummo di fuga vil nei passi amari, e il terror ne incalsò finché raccolti della città non fummo entro ai ripari; quivi io credea dal mio dolce tesauro di tanti mali in parte aver restauro. 46 47. Ma quanto falla chi si persuase nella certezza dello ben futuro! Provvidi, pria d’andarne alle mie case, che fosse la natia terra in sicuro; e poi che queta la città rimase sotto lo schermo del munito muro, mossi verso l’albergo, allor che tace ogn’opra, e il mondo si compone in pace. 47 al governo ghibellino in Siena e che in effetti viene ricordata da Dante, Purgatorio, XIII, 113–119, ebbe luogo l’8 giugno 1269. Ma il ricordo che, in tutt’altro contesto, Dante fa di quella cruenta battaglia non giustifica in alcun modo la connessione che per primo il Sestini, non Dante, pone tra la battaglia di Colle e la tragedia di Pia da Siena, la cui morte viene pertanto dal Sestini, non da Dante, datata al 1269.
Tu devi sapere che sottratti al cattivo governo che vuotò così tanti focolari cittadini, restammo pochi e ridotti a mal termine, e fummo volti nei passi amari di vile fuga, ed il terrore ci incalzò finché non fummo raccolti dentro i ripari della città; qui io credevo di avere in parte ristoro di tanti miei mali dal mio dolce tesoro. 47 Ma quanto sbaglia chi si persuase della certezza del bene futuro! Prima di andare alle mie case, provvidi che la terra natale fosse al sicuro; e poi che la città rimase quieta sotto la protezione delle mura difese, mi mossi verso casa, nel momento in cui ogni opera tace, ed il mondo si ricompone in pace. 46
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48. E giunto al limitar, Ghino, un amico usato in mia magion, venirne veggio: l’abbraccio memor dell’affetto antico, e della Pia novella gli richieggio; ed ei risponde: « A te dorrà, s’io dico; ma l’amistade è tal, che dire io deggio. Sappi che tua mogliera, il primo laccio macchiando, altrui di furto accoglie in braccio. » 48 49. Pensa qual penosa ira, e qual vergogna mi prese; ma il tenor di quegli accenti parvemi aver tal faccia di menzogna, che ardito dissi: « Per la gola menti! » Ed a rincontro ei fattami rampogna d’ingiurïar chi svela i tradimenti, s’offerse di mostrar, pria che dall’orto sorgesse il sol, che m’era fatto torto. 49 — Questo preoccuparsi per la sicurezza della città, che sembra assegnare a Nello un ruolo di primaria importanza in Siena, porterà alcuni continuatori del Sestini ad identificare Nello con Provenzan Salvani, il capo del governo ghibellino senese, senza peraltro riflettere al fatto che, essendo stato ucciso nella battaglia di Colle, egli non avrebbe potuto uccidere successivamente sua moglie.
E giunto nei pressi, vedo venirne Ghino, un amico abituale in casa mia; memore dell’antico affetto lo abbraccio e gli chiedo notizia della Pia; ed egli risponde: « A te dorrà, se parlo; ma l’amicizia è tale che devo parlare. Sappi che tua moglie, macchiando il primo legame, di nascosto accoglie altri in braccio. » 49 Pensa quale ira penosa e quale vergogna mi prese; ma il contenuto di quelle parole mi parve avere tale aspetto di menzogna che ardito dissi: « Menti per la gola! » Ed egli in risposta, dopo avermi fatto il rimprovero di ingiuriare chi svela i tradimenti, si offrì di mostrare, prima che il sole sorgesse da oriente, che mi veniva fatto torto. 48
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50. Col viso smorto, e il tremito ai ginocchi, con bocca amara, e con parlare incerto rispondo che, se porre innanzi agli occhi mi saprà della sposa il frodo aperto, non sol l’amistà sua farà ch’io tocchi con man, ma sempre gliene avrò buon merto; e più dicea, ma fe’ restarmi a mezzo quasi di febbre un gelido ribrezzo. 50 51. Vietò ch’io gissi nell’albergo infido, ove niun m’attendea fino al mattino, nella contrada essendo corso il grido ch’io fossi ito a spiar l’oste vicino, e mi appostò d’un suo parente fido nella magion rimpetto al mio giardino, il qual risponde in segregata strada, ove la notte alcun raro è che vada. 51 52. Qui stando ad aspettar che l’ora giugna, che del mio danno testimon mi renda, dico fra me: « Va’ dunque in guerra, e pugna, Con il viso smorto ed il tremito ai ginocchi, con bocca amara e con parlare incerto rispondo che se saprà pormi aperto davanti agli occhi l’inganno della sposa, non solo farà che io tocchi con mano la sua amicizia, ma gliene avrò sempre buon merito; e dicevo altro, ma mi fece restare a metà un gelido ribrezzo come di febbre. 51 Vietò che io andassi nella dimora infida, dove nessuno mi attendeva fino al mattino, essendo corsa nella contrada la voce che io fossi andato a spiare il nemico vicino; e mi fece appostare nella casa di un suo parente fidato, dirimpetto al mio giardino, il quale dà su una strada appartata, dove è raro che la notte vada qualcuno. 50
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e spargi sangue, e mena vita orrenda per tor le spose del nemico all’ugna, ond’ei la fama lor non vilipenda, se turpe offesa ed abominio immenso delle fatiche è il frutto, ed il compenso! 52 53. O beati color che d’onorate piaghe coperti cader vidi estinti! Quant’era meglio l’ossa aver lasciate fra l’ossa dei fratei morti e non vinti, che tornar soli alla natia cittate e in ella i volti di terror dipinti non poter serenar, narrando i casi di quei che alla campagna eran rimasi. 53 54. Oh! quanto meglio era per me se avessi chiuse le luci tra i fratelli miei, onde vivo a mio scorno non dovessi veder tra poco l’empietà di lei. » Questo io volgea tra sospir tronchi e spessi,
Qui, mentre aspetto che giunga l’ora che mi renda testimone del mio danno, dico tra me: « Va’ dunque in guerra, e combatti, e spargi sangue, e conduci vita orrenda per togliere le spose dalle unghie del nemico, affinché egli non offenda la loro fama, se il frutto ed il compenso delle fatiche è un’offesa vergognosa ed un’infamia immensa! 53 O beati coloro che vidi cadere morti, coperti di ferite onorate! Quanto era meglio aver lasciato le ossa fra le ossa dei fratelli morti e non vinti, che tornare da soli alla città natale, ed in essa non poter rasserenare i volti dipinti di terrore, narrando i casi di quelli che erano rimasti sul campo! 52
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e quasi di dolor morto sarei, se di speranza una lontana stella non mi reggea nella crudel procella. 54 55. Giunta la mezza notte odo repente un romor di persona che s’avanza: tosto da quella parte pongo mente, e apparir veggo un lume in lontananza, che fa gran tratto della via lucente, e d’un uom mi discopre la sembianza, che il porta in cavo vetro, ed è ravvolto nel mantel fino alla metà del volto. 55 56. Del giardin giunto all’entrata, in disparte si alluoga, e fa dei convenuti segni; allor dal mio palagio alcun si parte, e fra l’ombra sui fior di brina pregni vien pel vial frondoso a quella parte; qui del ferreo cancel volge gli ordegni, e lo spalanca: rigido stridore
Oh! quanto sarebbe stato meglio per me se avessi chiuso gli occhi tra i miei fratelli, sicché, vivo per mio scorno, non dovessi vedere tra poco la sua empietà. » Queste cose io rigiravo tra sospiri spezzati e frequenti, e sarei quasi morto di dolore, se una lontana stella di speranza non mi reggeva nella crudele tempesta. 55 Giunta la mezzanotte odo improvviso un rumore di persona che si avvicina: faccio subito attenzione a quella parte, e vedo apparire in lontananza un lume che illumina gran tratto della via e mi scopre l’aspetto di un uomo, che lo porta in un vetro concavo ed è ravvolto nel mantello fino a metà del volto. 54
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dai cardini esce, e mi dilania il core. 56 57. Ma il buio ancor non fa ch’io ben discerna chi sia: sol biancheggiar vedo una gonna; ma ratto salta nella parte interna quel che fuor si addoppava a una colonna, ed alzando la splendida lanterna fa il volto rischiarar della mia donna: la riconosco, e d’ambo scorgo il doppio amplesso, e fin de’ baci odo lo scoppio. 57 58. Arsi a tal vista, e la man corse all’armi, e per essi assalir la strada io presi, ma Ghino mi trattenne, e fe’ restarmi; e il potea far, però che quando io chiesi di veder l’opra iniqua, ei fe’ giurarmi che non gli avrei per conto alcuno offesi, e che alla Pia non avrei fatto motto
Giunto all’entrata del giardino, si colloca in disparte e fa dei segni concordati; allora qualcuno parte dal mio palazzo e fra l’ombra, sui fiori del giardino pregni di brina, viene per il viale alberato verso quella parte; qui gira i congegni del ferreo cancello e lo spalanca: un rigido stridio esce dai cardini e mi dilania il cuore. 57 Ma il buio ancora non fa che io veda bene chi sia: vedo soltanto biancheggiare una gonna; ma quello che stava fuori dietro una colonna salta veloce nella parte interna, ed alzando la lanterna splendente rischiara il volto della mia donna: la riconosco, e scorgo il doppio abbraccio di entrambi, ed odo perfino lo scoppio dei baci. 56
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di quanto egli a mirar m’avea condotto. 58 59. Ma non di proferito giuramento religïon temuta mi trattenne; forse lo sdegno, ch’ogni sentimento mi vinse, inerme il mio voler contenne, e sì mi conturbò, che in quel momento non so dell’infedel coppia che avvenne; e quando poi d’essi spiar nel bruno aere volli, più non v’era alcuno. 59 60. Di più non sopravvivere all’ingrata ingiuria fo proposito, e mi accingo a ritornar nel campo, disperata morte cercando in glorïoso arringo, e per chieder licenza, onde a giornata venir di nuovo, i passi incerti spingo ove i padri a consiglio tuttavia eran nell’aula della signoria. 60
Arsi a tal vista, e la mano corse alle armi, e presi la strada per assalirli, ma Ghino mi trattenne e fece fermarmi; e lo poteva fare, perché, quando io chiesi di vedere l’azione iniqua, egli mi fece giurare che non li avrei feriti per alcun motivo, e che alla Pia non avrei fatto parola di quanto egli mi aveva condotto a vedere. 59 Ma non mi trattenne la temuta sacralità del giuramento pronunciato; forse fu lo sdegno, che mi vinse ogni sentimento, quello che contenne inerme il mio volere, e mi turbò così tanto che non so cosa avvenne in quel momento della coppia infedele; e quando poi volli spiare di essi nell’aria imbrunita, non c’era più alcuno. 60 Faccio proposito di non sopravvivere oltre all’offesa dell’in58
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61. E giunto della piazza in sul principio, della piazza che al suol cavo si adegua, partir veggio i senior del municipio, e un corrier che inviato si dilegua; salgo a palazzo, e ascolto da un mancipio che nella notte istessa avean la tregua pattuita con l’oste; e tolto il mezzo m’è di render la vita a nobil prezzo. 61 62. Questo intoppo mi fe’ cambiar consiglio, e un gel mi serpeggiò per le midolle: l’impeto cessa, e penso che m’appiglio a compier opra mal’accorta e folle; quasi dell’error mio mi meraviglio, che se un giuro punirla appien mi tolle, e licito non è che omai l’uccida, posso almen far che del mio mal non rida. 62
grata, e mi accingo a ritornare al campo, cercando morte disperata in uno scontro glorioso; e per chiedere il permesso di venire di nuovo a battaglia, spingo i passi incerti dove i senatori erano tuttora a consiglio nell’aula della signoria. — Il termine padri del settimo verso traduce il termine patres (conscripti) con cui in Roma antica venivano indicati i senatori.
E giunto all’inizio della piazza, la piazza che si adegua al suolo concavo, vedo partire gli anziani del municipio, ed un corriere che inviato si dilegua; salgo a palazzo, ed ascolto da un servo che quella stessa notte avevano pattuito la tregua con il nemico; così mi è tolto il mezzo di rendere la vita a nobile prezzo. 61
— La piazza che si adegua al suolo concavo è Piazza del Campo.
Questo ostacolo mi fece cambiare parere, ed un gelo mi serpeggiò per le ossa: l’impulso cessa, e rifletto che mi accingo a compiere un’opera incauta e folle; quasi mi meraviglio del mio 62
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63. Deliberato di mostrar fierezza, quanto ogni gran nemico di pietate, di quel rigor che gli altrui danni sprezza, revocato da me sol nelle armate, armo l’anima amante, e non avvezza a resistere incontro alla beltate; e inflessibil già fatto, in fronte accolgo ritrosa calma, e alla magion mi volgo. 63 64. Ma il crederesti? oh! spirito mendace del sesso femminil che l’uomo inganna! Nel talamo entro, ove ognun dorme e tace: la Pia sol odo, e il mio tardar l’affanna; sorge, me visto, e in lagrime si sface, e la soverchia assenza mia condanna; mentiti intanto abbracciamenti io prendo simulando, e mentiti altri ne rendo. 64
errore, perché, se un giuramento mi vieta di punirla pienamente ed ormai non è lecito che l’uccida, posso almeno fare che non rida del mio male. 63 Deciso a mostrare fierezza come ogni grande nemico della pietà, armo l’anima innamorata e non abituata a resistere davanti alla bellezza con quel rigore, che disprezza i danni altrui, da me richiamato soltanto negli eserciti; e reso ormai inflessibile, accolgo sul volto una calma reticente, e mi dirigo alla casa. 64 Ma lo crederesti? oh! spirito mentitore del sesso femminile che inganna l’uomo! Entro nella stanza nuziale dove ognuno dorme e tace: odo soltanto la Pia, ed il mio tardare le procura pena; vistomi, si alza e si scioglie in lacrime, e condanna la mia eccessiva assenza; intanto, fingendo, io prendo falsi abbracci e ne rendo altri falsi.
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65. E chi potria ridir come compose e lusinghe, e melate parolette: come narrò il dolor delle affannose notti, in cui sola da me lungi stette! Chi non avrebbe in ascoltar tai cose fatte in un punto sol mille vendette? Pur la vita non tolsi alla ribalda, e non sapea di aver virtù sì salda. 65 66. Allora isveglio la famiglia, e dico che mi sieno allestiti due cavalli, che mentre poste l’armi ha l’inimico, a tor nuovi sussidi, e armar vassalli con la Pia debbo andarne al nostro antico castel, che dell’Etruria è nelle valli; ella mi ascolta, e con sereno aspetto mostra del voler mio far suo diletto. 66 67. Partiam soletti, e lungo il campo ostile sotto l’ombra passiam dei padiglioni; risuona il vallo di lavor fabrile, e d’altri mille bellicosi suoni: E chi potrebbe ridire come compose e lusinghe e dolci paroline: come narrò il dolore delle notti angosciose in cui stette sola, lontana da me! Chi nell’ascoltare tali cose non avrebbe fatte mille vendette con un colpo solo? Pure non tolsi la vita alla scellerata, e non sapevo di avere una virtù così salda. 66 Allora sveglio la servitù, e dico che mi siano preparati due cavalli, perché, mentre il nemico ha deposto le armi, devo andare con la Pia al nostro antico castello che è nelle valli dell’Etruria, per trarne nuovi aiuti ed armare vassalli; ella mi ascolta, e con aspetto sereno mostra che fa suo piacere del mio volere. 65
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là si fan torneamenti, e qua le file s’addestran de’ cavalli e de’ pedoni, e recano le carra, ed i giumenti viveri ai numerosi alloggiamenti. 67 68. E chi delle venute vettovaglie sulla verdura apppresta le vivande; chi fa trabacche, e chi l’aduste paglie, per giacersi all’asciutto, in terra spande; chi rivede cimier, chi aggiusta maglie, chi fa la sentinella in sulle bande: scorron per tutto i duci, e il campo ferve al moto delle belliche caterve. 68 69. Quanto guerriero popolo! che fiore di gioventù! che valorosa gente! Questi soli potean del Redentore ritor la tomba ai re dell’orïente! Ma per fato l’italico valore solo in pugna civil splende al presente.
Partiamo da soli, e passiamo lungo l’accampamento nemico, sotto l’ombra delle tende; il campo risuona del lavoro dei fabbri e di mille altri suoni di guerra: là si fanno tornei e qua si addestrano le schiere dei cavalli e dei pedoni, ed i carri ed i giumenti portano viveri ai numerosi alloggiamenti. 68 E chi sull’erba prepara il pasto con i viveri arrivati, chi fa baracche, e chi spande in terra le paglie secche per riposarsi all’asciutto; chi controlla elmi, chi ripara maglie, chi fa la sentinella sui lati; i capi si spostano da per tutto, ed il campo ferve per le attività delle guerresche moltitudini. 67
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Se ne vien questo dalle proprie mani, perché lagnarsi degli assalti estrani? 69 70. Oltre passando, valichiam le scarse dell’umil Tressa limpidissime onde; da lunge Radicofani comparse coi balzi d’erbe poveri e di fronde, e verso le sue roccie acute ed arse vedemmo spiagge di viti feconde: in mezzo ad esse il verde monte siede a cui la fata Alcina il nome diede. 70 71. Le ville dal pinifero arboscello dette perdiam di vista andando al basso; ecco di Macereto il ponticello che unisce sulla Marsa il rotto masso; questa è la Farma, lucido ruscello, che torto va con strepitoso passo; ecco il torbido Ombron, che mal si varca: qui, ristorati, traghettiam la barca. 71 Quanto popolo guerriero! che fiore di gioventù! che gente valorosa! Questi soli potevano ritogliere ai re dell’oriente la tomba del Redentore! Ma per destino il valore italico al presente risplende soltanto in guerre civili. Se questo ci viene dalle proprie mani, perché lagnarci degli assalti stranieri? 70 Passando oltre, valichiamo le scarse, limpidissime, acque dell’umile Tressa; di lontano comparve Radicofani con i dirupi poveri di erbe e di alberi, e verso le sue rocce acute e riarse vedemmo distese feconde di viti: in mezzo ad esse siede il verde monte a cui la fata Alcina diede il nome. 69
— Questo monte è Montalcino.
Andando verso il basso, perdiamo di vista le ville che prendono il nome dalla pianta di pino; ecco il ponticello di Macereto 71
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72. E il dì già del meriggio i segni ha scorsi, e ancora al destro, ed al mancino lato l’ispido monte appar nido degli orsi, e quel dal sasso inferïor nomato; qui le rovine di Soana scorsi, e più lontan Grosseto spopolato nei campi inospitali ed insalubri, di nottole ricetto e di colubri. 72 73. E mentre cala il sol, caliamo a valle, e cavalcando verso la marina di Santa Fiora, a noi resta alle spalle la gran montagna che col ciel confina; giunti al più largo, e riposato calle, inattesa su noi notte declina, e son costretto di pigliare alloggio in un povero albergo a piè d’un poggio. 73
che sulla Marsa unisce la pietra rotta; questa è la Farma, limpido ruscello, che corre tortuoso con passo rumoroso; ecco il fangoso Ombrone che si varca con difficoltà: qui, ristoratici, attraversiamo con una barca. 72 Ed il giorno ha già passati i segni del mezzogiorno, e sul lato destro ancora si vede l’ispido monte nido degli orsi, e sul lato sinistro quello che prende nome dal sasso inferiore: qui scorsi le rovine di Soana e più lontano Grosseto spopolato, nei campi inospitali ed insalubri, rifugio di pipistrelli e di serpenti. 73 E mentre cala il sole, caliamo a valle, e cavalcando verso la marina di Santa Fiora, ci resta alle spalle la grande montagna che confina con il cielo; giunti al sentiero più largo e riposato, la notte discende inattesa su di noi, e sono costretto a prendere alloggio in un povero albergo ai piedi di una collina. — La grande montagna che confina con il cielo è il Monte Amiata. — Benché queste indicazioni relative al percorso compiuto siano approssi-
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74. E come era ristretto il loco molto, sendovi un letto sol pei passeggieri, fui con la Pia dal letto stesso accolto, e quivi amor mi vinse di leggieri: fuor di me, le baciai più volte il volto, e al petto me la strinsi volentieri, e per poco scordai la sua mancanza, e fu per vacillar la mia costanza. 74 75. E mentre mi abbandono ai dolci amplessi, e ad un diletto che sarà l’estremo, del giardino i colpevoli recessi tornanmi a mente, onde mi scuoto e fremo, e quasi fra le braccia un serpe avessi, mi si drizzan le chiome, e di me temo:
mate e non sempre identificabili con esattezza, esse sono tuttavia sufficienti a chiarire che Nello e Pia escono da Siena per andare non verso sud–ovest, cioè verso Castel di Pietra, ma verso sud–est, cioè verso Bolsena, percorrendo una di quelle varianti che, lungo il tracciato dell’antica via Cassia, costituivano allora nel loro insieme la via Francigena. Del resto, già l’anonimo autore della Notizia sulle Maremme toscane, premessa alla riedizione di B. Sestini, La Pia. Leggenda romantica, Firenze, Chiari, 1846, p. 33, nota 1, aveva avvertito che il luogo, in cui il Sestini conduce la Pia, è molto diverso dal Castel di Pietra, e che la strada percorsa da Pia e Nello è molto diversa da quella che dovrebbe fare per recarvisi chi partisse da Siena.
Ed essendoci soltanto un letto per i viandanti, perché il luogo era molto stretto, fui accolto con la Pia dallo stesso letto, e qui amore mi vinse facilmente: fuori di me, le baciai più volte il volto e me la strinsi volentieri al petto, e per un poco dimenticai la sua mancanza, e la mia costanza fu sul punto di vacillare. 74
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balzo in terra, e com’uom dal mar scampato mi volgo al letto insidïoso, e guato. 75 76. Con mendicate scuse persuado colei che cede alla stanchezza, e dorme; e quel loco ove già fui mio malgrado per cader, mi spaventa in mille forme, e impetuosamente fuggo, e vado a cielo aperto sopra l’erbe a porme, e sto vegliando tra la densa frasca ad aspettar che il nuovo dì rinasca. 76 77. E volgo i fianchi, e pianger tento, e schermi non trovo incontro all’indefesso affanno; cerco illudermi, e penso che può avermi fatto l’aere scuro, o Ghino, inganno; ma in van consiglia il cor, gli occhi son fermi a far testimonianza del mio danno:
E mentre mi abbandono ai dolci abbracci e ad un piacere che sarà l’ultimo, mi tornano in mente i colpevoli nascondigli del giardino, sicché mi scuoto e fremo, e quasi fra le braccia avessi una serpe, mi si drizzano i capelli e temo di me: balzo in terra, e come uomo scampato dal mare mi volgo al letto insidioso, e guardo con terrore e sospetto. 76 Con scuse trovate a stento, persuado colei che cede alla stanchezza e si addormenta; e quel luogo, in cui mio malgrado ero stato sul punto di cadere, mi spaventa in mille forme, e fuggo impetuosamente, e vado a mettermi a cielo aperto sull’erba, e sto aspettando tra le folte frasche che rinasca il nuovo giorno. 75
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tumultua il sangue, e tra di me con balba bocca parlo, e non dormo, e giunge l’alba. 77 78. E la Pia desto, e col favor del nuovo giorno al castel giungiam. Sorte che sono l’ombre, opportuno all’opra il tempo trovo, e ignara mentre dorme l’abbandono: lascio in custodia il castellano, e muovo per far ritorno onde partito sono, ma fuggo invan la cura, ch’or m’intoppa davante, or del caval la sento in groppa. 78 79. E sì com’era di me stesso uscito, uscii di strada, e da una forza ascosta fui costretto a vagar pel vicin lito, pria di ridurmi alla paterna costa; sempre vita peggior trassi, e infinito duolo il punirla anche a ragion mi costa,
E giro i fianchi, e tento di piangere, e non trovo riparo contro l’instancabile affanno; cerco di illudermi e penso che può avermi fatto inganno l’aria scura o Ghino; ma il cuore consiglia invano: gli occhi sono fermi a fare testimonianza del mio danno; il sangue tumultua, e parlo tra me con bocca balbettante, e non dormo, e giunge l’alba. 78 E sveglio la Pia, e con il favore del nuovo giorno giungiamo al castello. Sorte che sono le ombre, trovo il momento adatto all’opera e, mentre ignara ella dorme, l’abbandono: lascio a custodia il castellano, e mi muovo per tornare là donde sono partito; ma fuggo invano l’angoscia, che ora mi urta davanti ed ora la sento in groppa al cavallo. 77
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ed or mi è dolce, bench’io rea la creda, il trovar chi per lei grazia interceda. » 79 80. Qui tace, e sembra che argomenti chieggia dall’altrui carità, dalla dottrina, che sien sproni al suo spirito, che ondeggia, e per se stesso a perdonar s’inchina: gli par che al mal di lei modo por deggia, tanto il misero amò quella tapina, tanto sui bassi affetti avvien che s’erga amor, se è grande, e in cor gentile alberga. 80 81. Pensando il frate stettesi alcun poco sull’umana miseria, e volti ai cieli gli occhi, e tratto un sospir, da chiuso loco fuori il libro traea degli Evangeli: l’aperse investigando, e aggiunti al fuoco molte d’irsute ariste aridi steli, l’espose al lume della lampa, e in basso, poi che il ciglio aguzzò, lesse tal passo. 81 E come ero uscito da me stesso, così uscii di strada e fui costretto da una forza misteriosa a vagare per la vicina spiaggia, prima di tornare alla collina paterna; trascinai una vita sempre peggiore, ed il punirla, anche a ragione, mi costa un dolore infinito; ed ora, benché io la creda colpevole, mi è dolce trovare chi interceda grazia per lei. » 80 Qui tace e sembra che dalla carità e dalla dottrina altrui chieda ragioni che siano di sprone al suo spirito che ondeggia e che per se stesso inclina a perdonare: gli pare che debba porre un limite al male di lei, tanto il misero amò quella infelice, tanto avviene che amore si innalzi sugli affetti bassi, se è grande ed abita in un cuore gentile. 81 Il frate rimase un poco pensando alla miseria umana, ed 79
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82. Era scritto in latin, perché la Chiesa cattolica santissima di Roma, onde di Cristo la parola offesa non fosse col mutar dell’idïoma, divieto fea ch’ella non fosse resa nella favella, che vulgar si noma: favella che, del Lazio al tronco inserta, fea risuonar l’Italia ancor deserta. 82 83. E il placid’Arno del sermon canoro il primo fior nutria tra i propri gigli, e superbo volgendo arene d’oro, sentia la gloria dei futuri figli; oggi a matrona, il cui primier decoro disparve e la beltà, par che somigli costei che, ricca e bella ancor fanciulla, allattò mille cigni in aurea culla. 83 alzati gli occhi al cielo, ed emesso un sospiro, tirava fuori da un posto chiuso il libro dei Vangeli: lo aprì cercando, ed aggiunti al fuoco molti aridi steli di ispide erbe, lo espose alla luce della fiamma, ed in basso, poi che ebbe aguzzato gli occhi, lesse tale passo. 82 Era scritto in latino, perché la santissima Chiesa cattolica di Roma, affinché la parola di Cristo non fosse offesa con il mutare del linguaggio, faceva divieto che essa fosse tradotta nella lingua che si chiama volgare: lingua che, innestata sul tronco del Lazio, faceva risuonare l’Italia ancora deserta. 83 Ed il placido Arno, volgendo superbo arene dorate, presentiva la gloria dei figli futuri e nutriva tra i propri gigli il primo fiore della lingua sonora; costei che, ricca e bella ancora fanciulla, allattò in culla dorata migliaia di poeti, oggi pare che somigli ad una matrona il cui decoro e beltà originari scomparvero.
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84. Né solo allor fioria, perché presente la madre avesse non ben anco estinta, o perché fatta di straniera gente druda non era, o dall’usanza vinta, ma perché allor degli uomini la mente era alte cose a concepire accinta, né v’eran quei che sull’ingiusta lance fanno alle cose prevaler le ciance. 84 85. Ma ritornando ad ordinar la tela del bel racconto abbandonato, dico che ancor vivea di Tullio la loquela, benché non schietta come al tempo antico, e ogn’uom di non mendica parentela, e non affatto del saper nemico, l’avea familïar così che il testo fu inteso, e acconcio al nostro eloquio è questo. 85
— I gigli sono il simbolo di Firenze e la lingua sonora è la lingua italiana: la lingua « del bel paese là dove ’l sì suona », dice Dante, Inferno, XXXIII, 80.
Né allora fioriva soltanto perché avesse presente la madre non ancora morta del tutto, o perché non era diventata l’amante di genti straniere o vinta dalla usanza, ma perché allora la mente degli uomini era impegnata a concepire cose importanti, e non c’erano quelli che sulla ingiusta bilancia fanno prevalere le ciance sulle cose. 84
— La madre della lingua italiana è la lingua latina.
Ma ritornando a tessere la tela del bel racconto abbandonato, dico che ancora viveva la lingua di Tullio, anche se non più pura come al tempo antico, ed ogni uomo che non fosse di famiglia misera e non del tutto nemico del sapere, l’aveva così familiare che il testo fu compreso, ed adattato alla nostra lingua è questo. 85
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86. « E a Gesù volto al Tempio, i farisei e gli scribi un’adultera mostraro, e ponendola in mezzo: « Or or costei in adulterio colta fu! » — sclamaro; « Or le mosaiche leggi a noi Giudei, che si lapidin queste comandaro. » E seguian per tentarlo, e corre il destro di fargli accusa: « Che ne di’, maestro? » 86 87. Così tendeano allo divin figliuolo con tai dimande insidia manifesta; ma col dito scrivendo egli nel suolo, in giù mirava, e propendea la testa; e sorgendo di poi, disse allo stuolo, che pertinace ripetea l’inchiesta: « Chi senza pecca fra di voi si stima, scagli contro costei la pietra prima. » 87
— La lingua di Tullio è il latino, essendo Tullio il nome di Marco Tullio Cicerone (104–43), il grande oratore e scrittore latino.
« Ed a Gesù diretto al Tempio i farisei e gli scribi mostrarono un’adultera e ponendola in mezzo, esclamarono: « Costei è stata or ora colta in adulterio! Ora le leggi mosaiche hanno comandato a noi Giudei che queste siano lapidate. » E per tentarlo, e cogliere l’occasione di accusarlo, continuavano: « Che ne dici, maestro? » 86
— Per le leggi mosaiche relative alla punizione degli adulteri, vedi la Bibbia, Levitico, 20, 10; Deuteronomio, 22, 22.
Così, con tale domanda, tendevano un’insidia evidente al divino figliolo; ma egli, scrivendo con il dito sul terreno, guardava in basso e chinava la testa; e poi, raddrizzandosi, disse al gruppo: « Chi tra voi si considera senza peccato, scagli la prima pietra contro costei. » 87
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88. E di nuovo chinandosi, col dito sulla terra scrivea; ma partian quegli che di Cristo il responso aveano udito, ad uno ad uno, e precedeano i vegli; restar Cristo e la donna, e in piè salito, a lei che in mezzo stava ancor, diss’egli: « La gente che t’accusa or dove è ita? Nessun la tua condanna ha proferita? » 88 89. Ed ella: « Niun, rispose, o Signor mio. » « Né avrai da me condanna — il Signor disse — più non peccare, e vattene con Dio. » Tal’era il passo che Giovanni scrisse; e qual padre che assolve il figliuol rio, membrando quanto in terra un Dio patisse pei figli rei cui volentier perdona, Nello a quella lettura ascolto dona. 89
E chinandosi di nuovo, scriveva con il dito sulla terra; ma quelli che avevano sentito la risposta di Cristo partivano ad uno ad uno, ed i vecchi andavano avanti; rimasero Cristo e la donna, ed alzatosi in piedi, egli disse a lei, che ancora stava in mezzo: « La gente che ti accusa dove è andata ora? Nessuno ha pronunciato la tua condanna? » 89 Ed ella rispose: « Nessuno, o mio Signore. » Ed il Signore disse: « Né sarai condannata da me. Non peccare più e vattene con Dio. » Tale era il passo che Giovanni scrisse; e come padre che perdona il figliolo colpevole, perché ricorda quanto Dio patisse in terra per i figli colpevoli ai quali perdona volentieri, Nello presta ascolto a quella lettura. 88
— Per il passo evangelico parafrasato dal Sestini, vedi la Bibbia, Vangelo secondo Giovanni, 8, 2–11.
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90. Ma d’abbagliante luce ecco un torrente, scoppia un gran tuon che altissimo rimbomba, par che le sfere squarci lo stridente folgor che d’alto strepitando piomba: i mari e i monti echeggian cupamente, l’aere rintrona una continua romba, rimugghia il turbo, e schianta alberi e fronde, e in grandinosa pioggia il ciel si fonde. 90 91. Crolla il vento la cella, il gel sonante batte e rimbalza a nembi in sul cacume, cader si senton le tegole infrante, e giù dal tetto gronda d’acqua un fiume; sorgendo il fraticel tutto tremante, a cui di man caduto era il volume, « Oh! qual notte, sclamò, forse iracondo pei nostri falli Iddio subissa il mondo? » 91 92. E intuona le letane, e ogni beato chiama, e l’altro risponde: « Ora per noi. »
Ma ecco un torrente di luce abbagliante, scoppia un gran tuono che rimbomba altissimo, pare che lo stridente fulmine, che piomba strepitando dall’alto, squarci i cieli: i mari ed i monti echeggiano cupamente, l’aria rintrona in un rombo continuo, il turbine rimugghia e schianta alberi e foglie, ed il cielo si scioglie in pioggia di grandine. 91 Il vento scrolla la cella, la grandine batte sonante sul tetto e rimbalza in nugoli, si sentono cadere le tegole spezzate ed un fiume d’acqua gronda giù dal tetto; alzandosi tutto tremante, il fraticello, a cui era caduto il libro di mano, esclamò: « Oh! che notte! Forse Dio, irato per i nostri peccati, inabissa il mondo? » 90
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Poi dice: « Da ogni mal, da ogni peccato » — l’altro segue: « Signor, libera noi. » Poi propizio dall’un fu Dio chiamato, e replicava l’altro: « Esaudi noi. » E quando furo al fin delle preghiere, « Di noi — dissero entrambi — miserere. » 92 93. Al cessar delle preci par che allente il temporal, né il turbine più nuoce; ma dal bosco vicin venir si sente un ululato di belva feroce, e un nitrir di cavallo, e una dolente flebil ne vien sull’aure umana voce: l’animoso guerrier, di dare aita altrui bramoso, balza in sull’uscita. 93 Fine del canto secondo.
Ed intona le litanie, ed invoca ogni beato, e l’altro risponde: « Prega per noi. » Poi dice: « Da ogni male, da ogni peccato », e l’altro continua: « Liberaci, Signore. » Poi dall’uno Dio fu invocato propizio, e l’altro rispondeva: « Ascoltaci. » E quando furono al termine delle preghiere, dissero entrambi: « Abbi pietà di noi. » 92
— Nota del Sestini: « E intuona le letane. Si conserva ancora in Toscana, e soprattutto nelle campagne la pia costuma di recitar le litanie dei Santi, nel tempo delle grandini, e altre perturbazioni dell’aria che minacciano le case, e le campagne. »
Al terminare delle preghiere, sembra che il temporale rallenti, ed il turbine non nuoce più; ma dal bosco vicino si sente venire un ululato di belva feroce ed un nitrire di cavallo, e sul vento ne viene una flebile, voce umana dolente: il coraggioso guerriero, desideroso di dare aiuto ad altri, balza sull’uscita. 93
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Canto terzo 1. E colla spada in man, donde proviene il suon, s’avanza, ed un cavallo mira, che legato ad un pin la redin tiene, e ringhia, e soffia, e scalcia, e in volta gira; dell’albero la buccia a romper viene la soga, che il caval di forza tira; quel sibila, vacilla, il crin commove, e un diluvio di stille al terren piove. 1 2. Un lupo intorno gli volteggia, e tenta sulla schiena di lui saltar di furto; il guerrier fulminando a quel s’avventa, l’impiaga, e a terra il fa cader d’un urto; la man nel manto avvolta gli presenta, quand’ei di nuovo furibondo è surto, e come il lupo addosso gli si serra, l’inutil ferro cader lascia a terra. 2
E con la spada in mano si avanza nella direzione da cui proviene il suono, e vede un cavallo che la redine tiene legato ad un pino, e che ringhia, e soffia, e scalcia, e gira in cerchio; la corda, che il cavallo tira con forza, viene a rompere la corteccia dell’albero; questo sibila, vacilla, smuove la chioma, ed un diluvio di gocce piove sul terreno. 2 Un lupo gli gira intorno, e tenta di saltargli di nascosto sulla schiena; come un fulmine il guerriero gli si avventa contro, lo ferisce e con un urto lo fa cadere a terra; quando esso di nuovo si è alzato furibondo, gli presenta la mano avvolta nel mantello, e come il lupo gli si stringe addosso, lascia cadere a terra la spada ormai inutile. 1
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3. La man che il lupo addenta ei spinge e ingozza nelle rabbiose canne, e in stretta zuffa viene alle prese; e la pilosa strozza coll’altra man tenacemente acciuffa, e al suol lo ficca coi ginocchi; mozza la vita ei sente, e si dibatte e sbuffa, travolve gli occhi, e tesi i piè distende, e molto del terren morto comprende. 3 4. Ma intanto l’eremita, che più tardo venia fosse l’etade o la paura, s’era rivolto ove ognor più gagliardo sentia il gemito uman per l’ombra oscura; de’ lampi al lume gli si offerse al guardo stesa nel fango d’un uom la figura, che se fosse uom non era manifesto, tanto era concio in modo disonesto. 4 5. L’anacoreta e il difensore invitto, accorso, nella cella trasportaro
Egli spinge ed ingozza nella gola rabbiosa la mano, che il lupo addenta, e viene alle prese in una zuffa serrata; e con l’altra mano gli afferra saldamente la gola pelosa e con i ginocchi lo ficca a terra; quello sente troncata la vita, e si dibatte e sbuffa, travolge gli occhi e distende i piedi tesi, ed occupa da morto molto del terreno. 4 Ma intanto l’eremita, che fosse per l’età o per la paura veniva più lento, si era diretto dove per l’ombra oscura sentiva sempre più forte il gemito umano; alla luce dei lampi gli si offrì allo sguardo stesa nel fango la figura di un uomo, che neppure era evidente se fosse un uomo, tanto era conciato in modo sconveniente. 3
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sulle pietose braccia il derelitto, e sulla lunga scranna il collocaro. Ma oh! quanto il cavalier divenne afflitto, quando del fuoco allo splendor mal chiaro riconobbe esser Ghin, benché di sangue e di loto coperto, e quasi esangue. 5 6. E Ghino pur lui riconobbe, e mentre vergognoso del suo strazio nefando le minugia premea sorte dal ventre, gli altri scarnati membri invan celando: « Convien — diceagli — omai che in te rientre, che amar più non mi puoi; commiserando deh! non andar le mie mertate sorti, ché al giudicio di Dio passïon porti. 6 7. Io ti cercava, e non mi cal ch’io muora, se ti ritrovo, mentre mi rimane tanto spazio di vita, e tempo ancora per dirti cose che ti sono arcane.
L’eremita e l’invitto difensore accorso trasportarono sulle braccia pietose nella cella lo sventurato e lo posero su una lunga sedia. Ma oh! quanto il cavaliere divenne afflitto, quando allo splendore mal chiaro del fuoco riconobbe essere Ghino, benché fosse coperto di sangue e di fango, e quasi privo di vita. 6 Ed anche Ghino riconobbe lui; e mentre vergognoso del suo terribile strazio si premeva le budella uscite dal ventre, invano nascondendo le altre membra lacerate, gli diceva: « Ormai conviene che rientri in te, perché non mi puoi più amare; deh! non andar compiangendo la mia sorte meritata, perché porti rancore al giudizio di Dio. 5
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Sappi che, mentre tu festi dimora dalla patria lontan, fiamme profane mi arser per la tua Pia, né il labbro tacque; da lei ne fui represso, e ciò mi spiacque. 7 8. E di vendetta nel desire acerbo tutto l’amor che le portai conversi. Appo la rotta il primo dì, per verbo di un comperato messo discopersi che con false divise, a gran riserbo, misto ai fuggiaschi, che riedean dispersi, s’era introdotto nella nostra terra il fratel della Pia, che a noi fa guerra. 8 9. E, ascoso presso un terrazzan sapere avea fatto a colei che, per mirarla anco una volta, a rischio di cadere in man d’altrui, venuto era a trovarla, e che la notte istessa ei fea pensiere di venir nel giardino a visitarla;
Io ti cercavo, e non mi importa che io muoia, se ti ritrovo mentre mi rimane tanto spazio di vita ed ancora tempo per dirti delle cose che ti sono nascoste. Sappi che mentre tu dimorasti lontano dalla patria, fiamme profanatrici mi arsero per la tua Pia, e la mia bocca non tacque; ne fui rimproverato da lei, e questo mi dispiacque. 8 E mutai in aspro desiderio di vendetta tutto l’amore che le avevo portato. Il primo giorno dopo la sconfitta, grazie alle parole di un messo comperato, scoprii che con abiti falsi, in gran riserbo, mescolato ai fuggitivi che ritornavano dispersi, si era introdotto nella nostra terra il fratello della Pia, il quale ci fa guerra. 7
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che di te non temesse, essendo in cura quella notte del campo e delle mura. 9 10. Quell’innocente trama in quale aspetto colorassi, tu il sai tanto che al fine, quando il disegno lor venne ad effetto, un dolor ti recai senza confine; e com’ella per sé nulla avria detto, le cognatizie attese ire intestine, te pure a tacer strinsi, onde a vicenda non vi svelassi la mia tela orrenda. 10 11. Partisti tu, ma tosto giunse in Siena fama ch’era la Pia là prigioniera, ove tanta malizia l’aer mena, che in breve vista avria l’ultima sera. Allor mi corse il fiel per ogni vena, e m’assalse il rimorso in tal maniera, che a chieder pace in supplicanti note pentito corsi ai piè d’un sacerdote. 11 E, nascosto presso un abitante del contado, le aveva fatto sapere che per vederla ancora una volta, a rischio di cadere in mano altrui, era venuto a trovarla, e che egli pensava di venire a visitarla nel giardino quella notte stessa; che non temesse di te, perché quella notte ti prendevi cura del campo e delle mura. 10 In che modo dipingessi quella trama innocente tu lo sai tanto che alla fine, quando il loro progetto venne a compiersi, ti recai un dolore sconfinato; e poiché ella per sé, considerate le ire interne tra cognati, non avrebbe detto alcuna cosa, obbligai anche te a tacere, affinché non vi svelaste a vicenda la mia orribile trama. 11 Tu partisti, ma subito giunse in Siena voce che la Pia era prigioniera là dove l’aria porta così tanta malizia che in breve 9
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12. Quale ordinommi, sotto pene tali da far temenza a un petto di metallo, di venir di te in traccia, e girne in quali lochi tu fossi, e non porvi intervallo, per risarcir la Pia dai duri mali, che fruttar le potea l’apposto fallo; e il fei, ma Dio m’ha tratto al passo estremo, onde, che sia tardo il rimedio, or temo. 12 13. Che forse avrà colei pagato il fio d’un error non commesso in carcer cupo. Or ben mi sta, se gastigommi Iddio entro le zanne del vorace lupo, che quando il nembo fuggir volli e, il mio destrier legato, entrai sotto al dirupo, quatto ei giacea nel mal capace speco, e venni per mio danno in lotta seco. 13
avrebbe visto l’ultima sera. Allora il fiele mi corse per ogni vena ed il rimorso mi assalì in maniera tale che corsi pentito a chiedere pace con parole supplichevoli ai piedi di un sacerdote. 12 Il quale mi ordinò, sotto pene tali da far paura ad un petto di metallo, di venire in cerca di te, ed andarne in qualunque luogo tu fossi, e non porvi indugio, per risarcire la Pia dei gravi mali che le poteva procurare l’errore imputatole; ed io lo feci, ma Dio mi ha condotto al passo estremo, sicché ora temo che il rimedio sia tardivo. 13 Perché forse lei avrà pagato in un cupo carcere la pena di un errore non commesso. Or ben mi sta, se Dio mi castigò tra le zanne del vorace lupo; perché quando volli fuggire la tempesta e, legato il mio cavallo, entrai sotto il dirupo, esso giaceva acquattato nella piccola grotta, e per mio danno venni a lotta con esso.
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14. Or voi che adesso giunti a mirar siete l’esizio miserabile d’un empio, ad esser pii nel mondo apprenderete da questo di giustizia austero esempio. » Qui le pallide guance a lui fur chete, e più non resse al sopportato scempio; e il vecchio pio raccomandò all’Eterno l’anima che aspettata era allo ’nferno. 14 15. Qual consiglio, qual cor, Nello, fu il tuo, ascoltando esser casta la consorte? Che anco rea la stimando, dal mal suo commosso, già sottrar pensavi a morte. Mirar l’estinto veggioti, e in tra duo restar pensoso, e poi sospirar forte, ed esclamar: « O Ghin, dove ne han tratti la mia sciocca credenza e i tuoi misfatti! 15 16. Ma non d’Arbia sul margine patrizia prosapia mi produsse: io nei burroni
Ora voi che adesso siete giunti a vedere la fine miserabile di un empio, da questo severo esempio di giustizia imparerete ad essere pii nel mondo. » Qui le guance pallide gli si quietarono, e non resse più allo strazio subito, ed il pio vecchio raccomandò all’Eterno l’anima che era aspettata all’inferno. 15 Che pensasti, che provasti, o Nello, ascoltando che la sposa era casta? Tu che anche ritenendola colpevole, commosso dal suo male, già pensavi di sottrarla alla morte. Ti vedo fissare il morto e restare pensoso in dubbio, e poi sospirare forte ed esclamare: « O Ghino, dove ci hanno condotti la mia sciocca credulità ed i tuoi misfatti! 14
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nacqui del Tauro o nella dura Scizia, e mi educaro gli arabi ladroni; ch’io non dovea suppor tanta nequizia in beltà che non ebbe paragoni, né agli occhi creder che accusar colei più cara a me degli stessi occhi miei. 16 17. E fui sì crudo? e posi in mortal sito la Pia, di me, d’Italia il più bel fregio? Ah! non sia mai tal vituperio udito ove la cortesia si tiene in pregio. Dirà qualcuno, e mostrerammi a dito della cavalleria tutta in dispregio: « Questi è colui che inerme una vezzosa femmina oppresse; e gli era amante e sposa! » 17
Ma non mi generò una nobile stirpe sui confini dell’Arbia: io nacqui nei burroni del Tauro o nella Scizia selvaggia, e mi educarono i ladroni arabi; perché io non dovevo supporre tanta iniquità in una bellezza che non ebbe confronti, né dovevo credere agli occhi che accusarono colei che mi è più cara dei miei stessi occhi. 16
— L’Arbia è il fiume che scorre ad est di Siena; il Tauro è la scoscesa catena montuosa situata nella Turchia sud–occidentale (Antalya); Scizia è il nome con cui gli antichi indicavano la regione compresa tra il Danubio, il Don ed il Mar Nero.
E fui così crudele? e posi in un luogo mortifero la Pia, l’ornamento più bello di me e dell’Italia? Ah! che una tale offesa non sia mai udita dove si tiene in pregio la cortesia. Qualcuno mi mostrerà a dito, in disonore di tutta la cavalleria, e dirà: « Questi è colui che oppresse una bella donna indifesa; e gli era amante e sposa! » 17
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18. Misera sposa, i guiderdon son questi che sconoscente il coniuge ti diede! Per quell’immenso ben che gli volesti, per tanta a danno tuo serbata fede! Quai giorni lagrimevoli e funesti menati avrai nell’esecrabil sede! Esposta a morte, in man di vili schiavi, e ciò per opra di chi tanto amavi! 18 19. Ma or or, quando avverrà ch’io ti disserri il carcer, come sostener tua vista? Ben chieder non m’udrai che tu mi serri infra le braccia e dal rigor desista; ma chiederò che fra gli stessi ferri me chiuda, a terminar vita sì trista, o di tua man m’uccida, se ti alletta disïanza di subita vendetta. 19 20. Ma in vane querimonie il tempo io spendo, mentre so che la misera languisce, aìta e alleggiamento non avendo
Misera sposa, queste sono le ricompense che lo sposo ingrato ti diede! Per quel bene immenso che gli volesti, per tanta fedeltà conservata a tuo danno! Che giorni lacrimevoli e funesti avrai passati nella esecrabile dimora! Esposta a morte, in mano di vili schiavi, e questo per opera di chi tanto amavi! 19 Ma or ora, quando avverrà che io ti apra il carcere, come sostenere il tuo sguardo? Certo non mi udrai chiedere che tu mi stringa fra le braccia e desista dalla severità; ma chiederò che mi chiuda tra gli stessi ferri, a terminare una vita così cattiva, o che tu mi uccida di tua mano, se ti attrae desiderio di vendetta immediata. 18
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da chi in lei, per piacermi, incrudelisce. Si accorra! e tosto! » E al vecchio si volgendo, che a terra su due lunghe asse ben lisce composto avea di Ghino il corpo estinto, a seppellirlo il dì seguente accinto: 20 21. « Tu vien — disse — e mercé da lei m’impetra, che ti dee l’efficace intercessione. » Ciò detto, ancor che fosse ombroso l’etra, l’uno e l’altro cavallo in ordin pone, e il vecchio fa montar sopra una pietra per porlo agevolmente in sull’arcione, e lo assesta sul proprio palafreno che più dell’altro è obbedïente al freno. 21 22. Partono in coppia e avvolgonsi per fusche vie, dove ancor l’acqua caduta stagna e sono ad or ad or fatte corusche dal balenar che alluma la campagna; e ormai son giunti alle pianure etrusche,
Ma io spendo il tempo in lamentele inutili, mentre so che la misera soffre, non avendo aiuto da chi, per piacere a me, infierisce su di lei. Si accorra! e subito! » E volgendosi al vecchio che aveva composto il corpo di Ghino a terra, su due lunghe tavole ben lisce, pronto a seppellirlo il giorno seguente: 21 « Tu vieni, disse, ed impetrami perdono da lei, che ti è debitrice della tua efficace intercessione. » Ciò detto, benché il cielo fosse ancora oscuro, preparò l’uno e l’altro cavallo, e fece salire il vecchio sopra una pietra per metterlo agevolmente in sella, e lo sistema sul proprio cavallo che obbedisce al morso più dell’altro. 20
— L’altro cavallo è quello di Ghino.
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che l’azzurro Tirren vagheggia e bagna, e in loco dove ascoltano mugghiare da lunge i liti al fremito del mare. 22 23. Cessata affatto è la procella, e i cupi nugoli ai monti si ritiran lenti, e si odon dalle soggiogate rupi, rimbombando, cader gonfi i torrenti; entro ai lor cavernosi ermi dirupi lottan stridendo incatenati i venti, e irate ancor della marina l’onde piangono infrante all’arenose sponde. 23 24. Dice il barone allor, sovra ’l sentiero l’altro aspettando che sen vien più adagio: « Se a me la notte non contende il vero,
Partono in coppia e si addentrano per vie fosche, dove ancora stagna l’acqua caduta e che di tanto in tanto sono rese splendenti dai lampi che illuminano la campagna; ed ormai sono giunti alle pianure etrusche, che l’azzurro Tirreno ammira e bagna, ed in luogo dove da lontano ascoltano mugghiare le rive al fremito del mare. 22
— Le indicazioni relative al viaggio di Nello e dell’eremita, contenute in questa ottava e nella successiva, non hanno la funzione di indicare in maniera realistica il percorso compiuto dai due, così da poterne ricavare l’ubicazione topografica del castello–prigione della Pia, non hanno la funzione di rievocare in maniera suggestiva la grandiosità della tempesta ormai cessata, ma di cui ancora echeggiano sia il mare lontano sia gli altri monti.
La tempesta è cessata del tutto, e le nuvole cupe si ritirano lente ai monti, e dalle rupi sottostanti si odono i torrenti gonfi cadere rimbombando; incatenati dentro le loro solitarie caverne dirupate, i venti lottano stridendo, e le onde irate del mare piangono ancora infrante sulle rive sabbiose. 23
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siam giunti, e prima ch’io non fea presagio. » Innanzi, a questo dir, spinto il destriero, scopre la nera torre del palagio, che giganteggia sopra il bosco opaco e nerissima gitta ombra sul laco. 24 25. Il cor gli balza a cotal vista e, in quella che andando del castel più si discopre, fiso lo guarda, e torbido favella: « Oh! dei grand’avi miei magnifich’opre, complici delle antiche stragi e della malvagità che il tempo in voi ricopre, retaggio io v’ebbi e a me in retaggio venne pur quell’usanza rea che in voi si tenne. 25 26. Qui spesso ai cavalieri pellegrini fur tolte l’armi e fur le donne offense; qui dei vassalli fur tratte pei crini le spose, invan di casto sdegno accense; e il sangue degl’incauti vicini
Allora, mentre aspetta sul sentiero l’altro che se ne viene più adagio, il barone dice: « Se la notte non mi ostacola la verità, siamo giunti, e prima di quanto io prevedessi. » A queste parole, spinto innanzi il cavallo, vede la nera torre del palazzo che giganteggia sopra il bosco opaco e getta un’ombra nerissima sul lago. 25 A tale vista il cuore gli balza e mentre avanzando gli si mostra una parte maggiore del castello, lo guarda fisso e dice cupo: « O magnifiche opere dei miei grandi avi, complici delle antiche stragi e della malvagità che il tempo ricopre in voi, io vi ebbi in eredità ed in eredità mi venne anche quella colpevole usanza che si tenne in voi. 24
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bevuto fu sulle tradite mense, ove di carmi il trovator venduto dava alle sceleraggini tributo. 26 27. Pur, benché della perfida età nostra, in cui lume benigno non si scerne, non degenere io sia, l’atroce chiostra non vidi mai senza dispetto averne; ed or più spaventosa a me si mostra anco la faccia delle mura esterne: or che la mente a santa impresa ho volta che belle vi farà la prima volta. 27 28. Parmi veder sui vostri baluardi a far la scolta morte taciturna, e inalberar due funebri stendardi, in cui teme soffiar l’aura notturna; e par che sulla torre un rogo guardi e accenni con la man sul lago un’urna.
Qui spesso furono tolte le armi ai cavalieri pellegrini e furono offese le donne; qui furono trascinate per i capelli le spose dei vassalli, invano accese di casto sdegno; ed il sangue degli imprudenti vicini fu bevuto sulle mense tradite, dove il trovatore venduto dava tributo di canti alle scelleratezze. 26
— Nota del Sestini: « Son molto cantati dai nostri poeti gli usi prepotenti dei baroni nel tempo della cavalleria, come pure è noto che i poeti così detti Trovatori facevan parte delle loro corti guerriere. »
Benché io non sia diverso dalla nostra perfida età, in cui non si scorge lume benigno, pure non ho mai veduto l’atroce rifugio senza provarne fastidio. Ed ora mi si mostra più spaventoso anche l’aspetto delle mura esterne: ora che ho rivolto la mente ad un’impresa santa che vi farà belle per la prima volta. 27
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Ah! la pira, la tomba e l’adre insegne son per qualcun che in questo punto spegne! » 28 29. Mentre ei delira, ecco dall’alta torre un picciol fuoco uscir che l’ombre fende e vacillando alla sua volta corre, e alfin sui saettati occhi gli splende: e or fugge, or torna, or si va basso a porre, or alto, or si dilegua, or si raccende, or d’intorno lievissimo gli ronza, e i capei ritti per terror gli abbronza. 29 30. Dando addietro tremò, l’occhio travolto volgea d’intorno ricercando scampo, e fuggito sarebbe a freno sciolto, se sparito non fosse il fatuo lampo; sì sgomentossi, ei che di lance un folto bosco affrontò sovente ardito in campo:
Mi sembra di vedere sui vostri baluardi la morte che fa taciturna la guardia ed inalbera due stendardi funebri, nei quali l’aria notturna ha timore di soffiare; e pare che essa guardi un rogo sulla torre e con la mano indichi una bara sul lago. Ah! il rogo, la tomba ed i neri stendardi sono per qualcuno che in questo momento si spegne! » 29 Mentre egli delira, ecco uscire dall’alta torre un piccolo fuoco che fende le ombre, e corre ondeggiando nella sua direzione, ed infine gli splende sugli occhi colpiti: ed ora fugge, ora torna, ora va a porsi in basso ora in alto, ora scompare, ora si riaccende, ora gli ronza lievissimo intorno, e per il terrore gli rende i capelli come di bronzo. 28
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tanto la ruggin di que’ secoli orbi fea gl’intelletti grossolani e torbi. 30 31. La settentrïonal vedova notte, che sparse sull’Italia il nembo goto, non anco appien fugata avean le dotte stelle che ornar d’Arabia il ciel remoto, e che da crasse qualità prodotte fosser tali fiammelle era anco ignoto: anime confinate eran credute non ancor degne d’ottener salute. 31 32. Stimavanle altri savi alme dannate a star dove commiser colpe rie, e a passar nell’abisso riserbate dopo il tremendo novissimo die; quai fosser, dissipar non seppe il frate all’uopo sì fantastiche follie, Balzò indietro tremando, volgeva intorno gli occhi stravolti cercando scampo, e sarebbe fuggito a briglia sciolta, se il fuoco fatuo non fosse sparito; a tal punto si spaventò, lui che spesso in campo affrontò ardito un fitto bosco di lance: a tal punto la rozzezza di quei secoli ciechi rendeva grossolani e confusi gli intelletti. 31 La nordica notte priva di luce che la tempesta gotica aveva sparso sull’Italia non era stata ancora cacciata del tutto dalle dotte stelle che ornarono il lontano cielo d’Arabia, ed era ancora ignoto che tali fiammelle fossero prodotte da sostanze grasse: erano credute anime esiliate, non ancora degne di ottenere salvezza. 30
— La nordica notte è metafora dell’ignoranza portata dai barbari Goti nel mondo latino nei primi secoli del Medioevo, mentre le dotte stelle del cielo d’Arabia sono metafora delle scienze che gli Arabi presero dai Greci antichi e ritrasmisero all’occidente latino negli ultimi secoli del Medioevo.
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perché godea di santo opinïone, ma non era in dottrina un Salamone. 32 33. Pur confortandol, come sapea meglio, si fece avanti e quel venia secondo; giunsero intanto il cavaliero e il veglio all’alta ripa d’un vallon rotondo, che del suddito lago si fa speglio, qual della bolgia è nel bacin profondo: da quell’altura in sull’opposta riva quanto è grande il castel si discopriva. 33 34. Veggion da lunge pei balconi aperti, che ogni sala di lumi sfolgoreggia, e odono un lungo suon di canti incerti, onde la valle e la montagna echeggia; e dove il sacro campanil gli aperti piani e l’annessa chiesa signoreggia,
Altri saggi le ritenevano anime condannate a restare dove avevamo commesso gravi colpe, e destinate a passare nell’abisso dopo il tremendo ultimissimo giorno; quali che fossero, il frate non seppe al bisogno dissipare follie così fantasiose, perché godeva fama di santo, ma quanto a scienza non era un Salomone. 32
— Il tremendo ultimissimo giorno è il giorno del giudizio universale. — Salomone è il re d’Israele ricordato dalla Bibbia, 2 Cronache, 1,1–9,31, per la grande saggezza e la grande scienza da lui chiesta ed ottenuta da Dio.
Pure confortandolo come meglio sapeva, egli passò davanti e quello veniva per secondo; intanto il cavaliere ed il vecchio erano giunti sull’alta riva di un vallone rotondo che si specchia nel lago sottostante che sta nel profondo bacino di quella bolgia: da quell’altura, sulla riva opposta, il castello si mostrava in tutta la sua grandezza. 33
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ascoltan la campana della villa che, a martel tocca, orrendamente squilla. 34 35. Stupiti vanno il lago costeggiando, e tosto giungon dietro a un monticello che, tra il lago e la via la fronte alzando, lor nasconde la lama ed il castello; e il veggiono di nuovo oltrepassando, e di fiaccole e d’uomini un drappello veggion gir, dal palagio, ove si estolle il rusticano borgo in vetta al colle. 35 36. Come chi vien da Vetulonia a Roma per quella via che sul burrato sporge, giù nel profondo il lago, che si noma di Ronciglione, alla man destra scorge; gliel para poi d’un monticel la chioma, indi il rivede, indi altro monte scorge, e mostra il montuoso inegual suolo diversi laghi, e sempre un lago solo. 36
Vedono da lontano, per i balconi aperti, che ogni sala sfolgora di lumi, ed odono un lungo suono di canti indistinti, di cui echeggia la valle e la montagna; e dove il sacro campanile domina la pianura aperta e la chiesa annessa, odono la campana del villaggio che, colpita a martello, squilla orrendamente. 35 Stupiti vanno costeggiando il lago, e ben presto giungono dietro un monticello che, innalzando la cima tra il lago e la via, nasconde loro il lago ed il castello; e passando oltre lo vedono di nuovo, e vedono un gruppo di fiaccole e di uomini andare dal palazzo verso la vetta del colle dove sorge il rustico borgo. 36 Come chi viene da Vetulonia a Roma per quella via che sporge sul burrone, scorge a destra, giù nel profondo, il lago che 34
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37. Così veggendo, trapassar costoro; e giunti dove il terzo colle manca, imprimono a livel del lago i loro vestigi, ed il castello han sulla manca; e già il mattino di porpora e d’oro veste l’alte montagne, e il ciel s’imbianca, e fan gli augelli e gli umidi cristalli novellamente risentir le valli. 37 38. Che omai col nappo argenteo e col canestro pien di manna e di fior sorgea l’Aurora, ponendo in vetta all’Appennino alpestro il piè legger, che il sol da tergo indora: dal ventilar del suo bel vel cilestro la messaggera uscia piacevol ora, e l’annunziava all’umida vallea, ove pigra la notte ancor sedea. 38
si chiama di Ronciglione; poi la cima di un monticello glielo copre, poi lo rivede, poi vede un altro monte, ed il montuoso suolo disuguale mostra laghi diversi, e sempre un solo lago. — Nel primo verso, come chi vien da Vetulonia a Roma, vediamo un’esplicita conferma intrinseca al testo della notizia biografica secondo cui il Sestini scrisse La Pia durante il proprio soggiorno a Roma nell’inverno 1821–1822.
Così vedendo, essi passarono oltre; ed arrivati dove il terzo colle manca, avanzano a livello del lago, ed hanno il castello sulla sinistra; e già il mattino veste di porpora e d’oro le alte montagne, ed il cielo si imbianca, e gli uccelli e le gocce cristalline della rugiada fanno rivivere nuovamente le valli. 38 Che ormai con il calice d’argento e con il canestro pieno di manna e di fiori sorgeva l’Aurora, poggiando sulla vetta del montuoso Appennino il piede leggero, che il sole indora da die37
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39. Dal vallon buio veggiono sul monte, che illuminano i raggi mattutini, il corteo luttuoso, e lor son conte le sentenze dei cantici divini, che il colle quei non salgono di fronte, ma obliquamente, e son tuttor vicini; e quattro sottopongono la spalla ad un feretro che in andar traballa. 39 40. Son della bara funerale ai lati, con torchi in man pel nuovo dì languenti, due lunghi ordini d’uomini incappati, che han nei cappucci le fronti dolenti: i cappucci, in due parti traforati, apron le viste ai loro occhi piangenti; bianche han le cappe, e il primo della schiera porta la croce con la banda nera. 40
tro: dal ventilare del suo bel velo celeste usciva la piacevole aria messaggera, e l’annunciava all’umida valle, dove la notte ancora sedeva pigra. 39 Dal vallone buio vedono sul monte, illuminato dai raggi mattutini, il corteo funebre e distinguono le parole dei cantici sacri, perché quelli non salgono il colle di fronte ma di traverso, e sono ancora vicini; e quattro sottopongono la spalla ad una bara che nell’andare traballa. 40 Ai lati della bara funebre, con in mano torce languenti per il nuovo giorno, stanno due lunghe file di uomini coperti di cappa che hanno nei cappucci le fronti dolenti: i cappucci, traforati in due punti, consentono la vista ai loro occhi piangenti; hanno le cappe bianche, ed il primo del gruppo porta la croce con la striscia nera.
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41. Con oscura zimarra e bianca cotta, leggendo i rituali del mortorio, il sacerdote va tra gli altri in frotta che intuonan supplicanti il responsorio: sul cataletto funebre tal’otta sparge l’acqua lustral coll’aspersorio, ed or mormora basso, ed alto or canta, e lo imita la turba tutta quanta. 41 42. Davide e le fatidiche sibille chiamando in testimon di lor parole, cantan come dovran tra le faville i tempi consumarsi e gli astri e il sole, e d’ira il giorno in cui con le pupille torve Iddio mirerà l’umana prole e i morti lasceran le vecchie tombe allo squillar delle celesti trombe. 42
Con tonaca nera e sopratonaca bianca, leggendo le preghiere del funerale, il sacerdote va in gruppo tra gli altri che supplici intonano le risposte: talvolta sparge con l’aspersorio l’acqua purificatrice sulla bara funebre, ed ora mormora basso, ed ora canta alto, e lo imita tutta quanta la folla. 42 Chiamando David e le sibille fatali a testimoni delle loro parole, cantano come dovranno consumarsi tra le faville i tempi e gli astri ed il sole, ed il giorno d’ira in cui Dio guarderà con gli occhi severi la discendenza umana ed i morti lasceranno le vecchie tombe allo squillare delle trombe celesti. 41
— Questa ottava è una perifrasi dell’inno funebre cattolico Dies irae dies illa, giorno d’ira quel giorno, cioè il giorno della fine del mondo e del giudizio universale, giorno profetizzato sia dal re David sia dalle sibille, cioè dalle profetesse del dio Apollo.
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43. Cantano il Parce, il Tedet ed i tristi del provato da Dio, Giobbe idumeo, e l’elegia che tu, Sionne, udisti cantar dopo il peccato al re jesseo; e par che da lontan cori non visti replichin quel canoro piagnisteo, e sembra ogni boscaglia, ogni caverna chieder luce perpetua e requie eterna. 43 44. Percosso da tristissimo sospetto, dice al compagno il cavaliero allora: « Vanne e che fu domanda; io qui ti aspetto, che andar non so, tanto terror mi accora. » Sprona a quei detti il frate il suo ginnetto, e giunge a sommo il colle appunto allora, quando già sono entrati i funerali della chiesa nei santi penetrali. 44
Cantano il Perdona, il Mi annoia ed i lamenti dell’idumeo Giobbe, messo alla prova da Dio, e l’elegia che tu, Sion, udisti cantare al re jesseo dopo il peccato; e pare che da lontano cori invisibili replichino a quel compianto canoro, ed ogni boscaglia, ogni caverna pare chiedere luce perpetua e pace eterna. 43
— Perdona e Mi annoia sono le parole iniziali di due delle lamentazioni di Giobbe, per cui vedi la Bibbia, Giobbe, 7, 16; 10, 4. — Sion è la rocca di Gerusalemme. — Il re jesseo è il re David; sul suo doppio peccato di adulterio e di omicidio, e sul suo pentimento, a cui segue il lamento e la richiesta di perdono a Dio, vedi la Bibbia, 2 Samuele, 11, 1–7; Salmi, 50.
Colpito da un sospetto tristissimo, il cavaliere dice allora al compagno: « Vai e domanda che fu; io ti aspetto qui, perché non riesco ad andare, tanto è il terrore che mi accora. » A quelle parole il frate sprona il suo cavallo, e giunge in vetta al colle proprio quando i funerali sono entrati nei sacri spazi interni della chiesa. 44
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45. Ciascuno, a lui che attende, si nasconde, e le nenie lugubri più non ode; ma un altro canto ascolta in riva all’onde con dolce malinconica melode: ed era un villanel, che l’infeconde coltivando del lago infauste prode, rompea la zolla con la splendid’arme, alternando il lavor con questo carme. 45 46. « Nelle foreste d’Appennin superno Lisa piangea, perché il prefisso giorno il desïato sposo al suol paterno dalla Maremma più non fea ritorno; scorse l’estate e ritornò l’inverno, e nol rivide nel natio soggiorno; andarne volle a ricercarlo alfine, col padre che scendeva alle marine. 46 47. E riposando un giorno il fianco lasso sopra una selce al termin della via,
Ciascuno si nasconde a lui che attende, ed egli non ode più le nenie funebri; ma ascolta un altro canto in riva all’onde con una dolce, malinconica, melodia: ed era un giovane contadino che, coltivando le infeconde, infauste, rive del lago, rompeva la zolla con l’arma splendente, accompagnando il lavoro con questo canto. 45
— L’arma del contadino è la zappa con cui egli lavora la terra.
« Nelle foreste dell’alto Appennino Lisa piangeva, perché il giorno prefissato lo sposo desiderato non faceva più ritorno al suolo patrio dalla Maremma; passò l’estate e ritornò l’inverno, e non lo rivide nella casa nativa; infine volle andare a cercarlo con il padre che scendeva alle Maremme. 46
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detto le fu che sotto di quel sasso l’ultimo sonno il suo fedel dormia. Rivolse il padre ai patri colli il passo, ma non avea la figlia in compagnia, che dalla tomba la chiamò lo sposo; e in quella ricongiunti hanno riposo. 47 48. Del tosco montanaro ecco le sorti: morte germoglia ov’ei gittò sudore; ma per dar vita ai figli e alle consorti è invidïato fra di noi chi muore, però che d’essi, quando noi siam morti, verace è il pianto come fu l’amore; questa certezza i nostri affanni molce e anco il perder la vita a noi fa dolce. » 48 49. In udir quei concetti al cor gli scende tenace inesplicabile tristezza; l’antiveder, per cui dubbioso pende, gli fan quei detti divenir certezza; freddo ghiaccio le fibre gli comprende: par che di nuovo pianto abbia vaghezza, Ed un giorno, mentre al termine della via riposava il corpo stanco sopra una selce, le fu detto che sotto quel sasso il suo fedele dormiva l’ultimo sonno. Il padre rivolse il passo ai colli natali, ma non aveva la figlia in compagnia, perché lo sposo la chiamò dalla tomba; ed in quella riposano congiunti. 48 Ecco le sorti del montanaro toscano: germoglia morte dove egli gettò sudore; ma tra noi è ammirato chi muore per dare vita ai figli ed alle spose, perché quando noi siamo morti il loro pianto è sincero come fu l’amore; questa certezza addolcisce i nostri affanni, e ci rende dolce anche il perdere la vita. » 47
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ed alfin furibondo e impazïente si spicca e corre alla magion dolente. 49 50. Giunge, e niun vede, e niuno ascolta: regna silenzio intorno spaventoso e muto; nell’uscio invan di penetrar s’ingegna, che il ferreo ponte in alto è sostenuto; e par che dai veroni un fetor vegna d’atro bitume dall’ardor soluto: fumo di torchi a nebbia misto ingombra l’aer maligno, e le pareti adombra. 50 51. Fermo, a gran voce il castellano chiama, e indarno stassi alle risposte intento; e di chiamar la Pia pur’ebbe brama, ma gli mancò la lena e l’ardimento; gira per ogni parte, indi richiama, ma le inutili grida porta il vento, e quei muti balconi e quelle porte tacenti gli favellano di morte. 51 Nell’udire quei concetti gli scende nel cuore una inesplicabile, tenace, tristezza; quelle parole gli fanno diventare certezza il presentimento per cui propende dubbioso; un freddo ghiaccio gli afferra le fibre: pare che abbia desiderio di nuovo pianto, ed infine furibondo ed impaziente si slancia e corre verso la dolente dimora. 50 Arriva, e non vede alcuno, e non ode alcuno: regna intorno un silenzio spaventosamente muto; invano si ingegna di penetrare nella porta, perché il ferreo ponte è trattenuto in alto; e pare che dai balconi venga un puzzo di nero bitume sciolto dal calore: fumo di torce misto a nebbia ingombra l’aria maligna, ed oscura le pareti. 51 Fermo, chiama a gran voce il castellano, ed invano sta 49
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52. Del bronzo i tocchi e delle cere i fumi, l’esequie, il canto e le deserte mura, tutto gli svela della mente ai lumi l’ultima irreparabile sciagura: precipita di sella e va fra i dumi e i massi della costa in ver l’altura, e per non trita via d’altre più pronta con mani e piè verso il villaggio monta. 52 53. Da sassi e spine mal menato, e vinto dal disagio, alla chiesa arriva retro, di terragne muraglie ad un recinto, che i cipressi coniferi fan tetro: fra i lenti rami lor chiama un estinto l’upupa immonda in luttuoso metro, e ben mostrano i simboli di pianto esser quel della villa il campo santo. 53 attento alle risposte; ed ebbe anche gran desiderio di chiamare la Pia, ma gli mancò la forza ed il coraggio; gira per ogni parte, quindi richiama, ma il vento si porta via le inutili grida, e quei balconi muti e quelle porte, tacendo, gli parlano di morte. 52 I rintocchi della campana ed i fumi dei ceri, il funerale, il canto e le mura deserte, tutto gli rivela agli occhi della mente l’ultima, irreparabile sventura: si precipita giù di sella e va tra gli spini ed i massi verso la cima, e con mani e piedi monta verso il villaggio, per una via non frequentata, ma più veloce delle altre. 53 Mal ridotto dai sassi e dalle spine, e vinto dalla sofferenza, arriva dietro alla chiesa, ad un recinto di muraglie di terra che i cipressi coniferi rendono tetro: fra i loro lenti rami l’upupa impura chiama un morto con verso luttuoso, ed i simboli di pianto mostrano bene che quello è il camposanto del villaggio. — Sulla scia di un celebre passo di Ugo Foscolo, Dei sepolcri, 81–86, che sembra confondere l’upupa con la civetta, anche il Sestini considera l’upu-
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54. Giunge, e vede al callar della muraglia il ceduto caval del frate scarco; era questo un destrier di molta vaglia, leggero come stral di partic’arco; caro alla Pia, quand’ei dalla battaglia riedea salvo recando il dolce incarco, d’orzo pingue, e d’avena il fea satollo, tergeagli i crini, e gli palpava il collo. 54 55. Piange il cavallo, e immobile e confuso sogguarda torvo, e i brevi orecchi tende, china al suol la cervice, e il crin diffuso cade nel fango, e per la fronte pende: pel turgido di vene equino muso un rio di grosse lagrime discende, e lava il fren d’argentee borchie ornato, e le briglie che sparse erran sul prato. 55 pa un uccello lugubre ed impuro, mentre in verità l’upupa è un uccello solare, multicolore, quasi privo di canto. Questa scorretta visione dell’upupa si ritrova, per esempio, anche in Antonio Somma, Un ballo in maschera, musica di Giuseppe Verdi, atto primo, scena sesta, aria di Ulrica.
Giunge, ed al passaggio della muraglia vede scarico del frate il cavallo che gli ha ceduto; era questo un cavallo di molto valore, leggero come freccia di un arco dei Parti; caro alla Pia, quando esso tornava dalla battaglia recando salvo il dolce peso, lei lo saziava di orzo abbondante e di avena, gli asciugava i crini, e gli palpava il collo. 54
— Dopo essersi insediati sull’altipiano iranico, nell’ultimo secolo prima di Cristo i Parti, la cui abilità nell’uso dell’arco era proverbiale, scesero verso la Mesopotamia, venendo così a scontrarsi con i Romani.
Il cavallo piange, ed immobile e confuso guarda torvo, e tende i corti orecchi, china il collo al suolo, ed il crine cade sparso nel fango, e pende per la fronte: lungo il muso equino turgido di vene discende un rivolo di grosse lacrime e lava il morso 55
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56. E il caro condottier veduto appena, gli si fa incontro e il guarda, e a mano a mano, saltellandogli innanzi, ov’era il mena, e par dotato d’intelletto umano; e gli accenna nel mezzo all’inamena cerchia un cencioso e debile villano, che allora allor cavata fossa serra, gettando in quella la sottratta terra. 56 57. Corse alla sponda del recente avello e vide: ahi! che non vide! Ei mise un acre grido tal che cader fe’ al villanello la marra dalle man rugose e macre; e nel tumul gettavasi, e di quello
ornato di borchie d’argento e le briglie che errano sparse sul prato. — Nota del Sestini: « Intorno al pianto dei cavalli, vedi Plin. l. 8,1,42, De fletu equorum: Praefugiunt pugnam et amissos lugent dominos/ Lacrymasque interdum desiderio fundunt. — Virgilio l. 11, v. 89: Post bellator equus, positis insignibus, Aethon/ It lacrymans guttisq. humectat grandibus ora. V. Omer. Ili. lib. 17, v. 390. » — Gli autori qui citati dal Sestini sono: Plinio, Storia naturale, VIII, 1, 42, Sul pianto dei cavalli: « Fuggono la battaglia e piangono i padroni perduti, ed intanto versano lacrime di desiderio »; Virgilio, Eneide, XI, 89–90: « Viene poi Etone, il combattivo cavallo, deposte le insegne, piangendo e bagnando il volto con grosse gocce »; Omero, Iliade, XVII, 423–440, dove i cavalli di Achille piangono Patroclo ucciso da Ettore.
Ed appena veduto il caro condottiero, gli si fa incontro e lo guarda, ed a mano a mano, saltellandogli innanzi, lo conduce dove era lei, e sembra dotato di intelligenza umana; e gli accenna in mezzo alla triste cerchia un contadino gracile e cencioso che richiude una fossa scavata proprio allora, gettando in essa la terra tolta. 56
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turbate avria le cavitadi sacre, se il frate ed altre genti di sull’orlo del tristo avel non accorreano a torlo. 57 58. Qui la sua Pia riconosciuta avea, ricoperta di terra insino al mento: morte nel volto suo bella parea, e lui che stava a seppellirla intento, quasi rapito dalla vaga idea, ove un gemino sol vedeasi spento, le caste membra avea coperte e il viso di offender colle zolle era indeciso. 58 59. Ella giacea qual mandorlo fiorito nell’anno giovinetto in riva all’acque: venne la piena e, ruinando il lito, sull’arenoso letto il tronco giacque: lo sbarbicato ceppo è seppellito dal fango, e il fusto che sì schietto nacque,
Corse alla sponda della fossa recente e vide: ahi! che non vide! Egli emise un grido così aspro che al povero contadino fece cadere la zappa dalle mani rugose e magre; e si gettava nella fossa, ed avrebbe sconvolto le sue profondità sacre, se il frate ed altre persone non accorrevano a toglierlo dall’orlo della triste tomba. 58 Qui aveva riconosciuta la sua Pia, ricoperta di terra fino al mento: nel suo volto la morte pareva bella, e colui che stava intento a seppellirla, quasi rapito dalla bella immagine, in cui si vedeva spento un secondo sole, aveva ricoperto le caste membra ed era indeciso se offendere il viso con le zolle. 57
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sol fuor sovrastan le ramose spoglie, mostrando aridi fior, squallide foglie. 59 60. Sorto l’illustrator della natura, lanciando nella tomba il primo raggio, col vagheggiar la santa creatura prestavale il pietoso ultimo omaggio; ma quando vide empir la sepoltura, e coperto di terra il bel visaggio, fra le nubi celossi e gemer parve, e a’ mortali quel dì più non comparve. 60 61. Nello quei pii frattanto aveano scorto nella chiesa vicina; ivi si assise, vergognoso chinando il viso smorto, né pianse, né parlò, né sospir mise: parean, tant’era in pensier gravi assorto, sue membra dallo spirito divise, e fea del duol ritegno alla licenza della casa di Dio la riverenza. 61 Ella giaceva come mandorlo fiorito in riva alle acque nella primavera dell’anno; venne la piena e, franando la riva, il tronco giacque sul letto arenoso: seppellito dal fango è il ceppo sradicato ed il fusto che nacque così dritto, fuori emergono soltanto le spoglie dei rami, mostrando aridi fiori e foglie squallide. 60 Sorto colui che illumina la natura, lanciando nella tomba il primo raggio, con lo sfiorare la santa creatura le rendeva il pietoso ultimo omaggio; ma quando vide riempire la fossa, ed il bel viso coperto di terra, si nascose fra le nubi e parve gemere, e quel giorno non comparve più ai mortali. 59
— Colui che illumina la natura è il sole.
Frattanto quei pietosi avevano visto Nello nella chiesa vicina; qui si sedette, chinando vergognoso il viso smorto, né pian61
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62. Così di sotto alla celeste volta, nelle notti d’april serene e belle, suol del mar la spumosa onda sconvolta riverente acquetar le sue procelle, ed ha pace, mirando andarne in volta del ciel le innumerabili facelle, e quant’ira tuonar sul flutto udissi geme sepolta negli equorei abissi. 62 63. Chi dirà come, la salma rimossa, tornonne al loco ove natura dorme! Ah! dove volgi il piè? Chiusa è la fossa, né più in terra vedrai le amate forme! Inginocchiossi sulla terra smossa, posando il capo sopra un sasso enorme: sparsa non lunge la gente seguace quell’immobile guarda, e immobil tace. 63
se né parlò né emise sospiro: le sue membra parevano separate dallo spirito, tanto era assorto in gravi pensieri, ed il rispetto per la casa di Dio faceva da freno all’eccesso di dolore. 62 Così sotto la volta celeste, nelle notti di aprile serene e belle, la spumosa onda del mare sconvolta è solita acquietare reverente le proprie tempeste, e trova pace nel mirare le innumerevoli luci del cielo muoversi in cerchio, e tutta l’ira che si udì tuonare sui flutti geme sepolta negli abissi di acqua. 63 Chi dirà come, rimossa la salma, se ne tornò al luogo dove la natura dorme! Ah! dove dirigi i passi? La fossa è chiusa, ed in terra non vedrai più le amate forme! Si inginocchiò sulla terra smossa, posando il capo sopra un sasso enorme: la gente che segue sparsa non lontano guarda quell’immobile, e tace immobile.
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64. Tal nel deserto pian di Selinunte le vetuste colonne immote stanno, altre intere, altre tronche, altre consunte dal veglio antico dell’età tiranno, e in file ora interrotte ed or congiunte malinconica siepe all’ara fanno e allo stranier che guarda il marmo sacro, mesto di non trovarvi il simulacro. 64 65. Pretese poi di satisfar la bella anima che dal bel corpo si sciolse, vita menando penitente in quella magion che a lei la dolce vita tolse. In Siena e nelle prossime castella del fiero avvenimento ognun si dolse, et a distorlo venner di lontano i parenti e gli amici, e sempre invano. 65 66. Ma quando si ascoltò per quei contorni suonar la tromba di novella guerra,
Così stanno immobili nella pianura deserta di Selinunte le antiche colonne, alcune intere, altre spezzate, altre consunte dall’antico vecchio tiranno delle età, ed in file ora interrotte ora continue formano una siepe malinconica intorno all’altare ed al visitatore che guarda il sacro marmo, triste perché non vi trova la statua del dio. 64
— L’antico vecchio tiranno delle età è il tempo.
Poi pretese di placare la bella anima che si era sciolta dal bel corpo, conducendo vita penitente in quella dimora che a lei tolse la dolce vita. In Siena e nei borghi più vicini ognuno si dolse del crudele evento, e per farlo desistere vennero di lontano i parenti e gli amici, e sempre invano. 65
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d’avviso fu che terminar suoi giorni meglio era a scampo dell’avita terra; lasciar volle i mortiferi soggiorni, ma il monte non passò che il lago serra: eran già fatte le sue membra inferme, e infuso in esse della morte il germe. 66 67. E riedere al castello gli convenne; né durò molti dì, che una mattina, con quella sepolcral pompa solenne che accompagnò la Pia sulla collina, la morta spoglia sua traslata venne al campo ove giacea quella meschina; e sul comun sepolcro ancor l’acerba sorte ne piange il venticel fra l’erba. 67 68. Sotto l’assiduo martellar dei lustri cadde il castello, e i diroccati brani de’ muri suoi per empietade illustri fer tristo ingombro agl’infelici piani;
Ma quando per quei dintorni si udì suonare la tromba di una nuova guerra, fu del parere che era meglio terminare i propri giorni in difesa della terra degli avi; volle lasciare quei luoghi apportatori di morte, ma non passò il monte che racchiude il lago: le sue membra erano ormai malate, ed in esse era infuso il germe della morte. 67 Così dovette tornare al castello; né durò molti giorni, perché una mattina, con quella solenne pompa funebre che accompagnò la Pia sulla collina, la sua morta spoglia venne trasportata al campo dove giaceva quella misera; e sul comune sepolcro il venticello fra l’erba ne piange ancora la sorte crudele. 66
La Pia. Leggenda romantica
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crebber le limacciose onde palustri e ne coprir le fondamenta immani: or si odon lamentar sotto l’interne volte, converse in umide caverne. 68 69. E dicon che talor da quei rottami voce profonda come d’eco emerge, e sembra che la Pia dal fondo chiami, ed ella appar sull’onde, e vi s’immerge; e quando scuote il vento i bruni rami del folto bosco che sul lago s’erge, vi si odon canti e salmodie lontane, e arcano suon di funebri campane. 69 70. Né qui sveller virgulti o fender zolle l’ausilïario agricoltor s’attenta; e salvo ritornando al natal colle, quando Maremma inospital diventa, la sera assiso sull’erbetta molle
Sotto il continuo martellare degli anni il castello cadde, ed i brani dei suoi muri diroccati, illustri per empietà, fecero triste ingombro alle pianure infelici; le limacciose acque paludose crebbero e ne coprirono le fondamenta gigantesche: ora si odono lamentarsi sotto le volte interne, trasformate in umide caverne. 69 E dicono che talvolta da quei ruderi emerge una voce profonda come di eco, e sembra che la Pia chiami dal fondo, ed ella appare sulle onde, e vi si immerge; e quando il vento scuote i rami scuri del folto bosco che si innalza sul lago, vi si odono canti e salmodie lontane, ed un misterioso suono di campane funebri. 68
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BARTOLOMEO SESTINI
all’adunata gioventude intenta, l’udita istoria, che per lunga scende tradizïon di padri, a narrar prende. 70 71. E ciò narrando alternamente adocchia i parvuli scherzanti, ed or gli abbraccia, or gli fa mobil peso alle ginocchia, or dolce incarco alle robuste braccia; l’ode la moglie intenta alla conocchia, e la luna che a lei risplende in faccia la concetta pietà, che muta cela, sulle bagnate guance altrui rivela. 71 Fine del canto terzo.
Né qui il contadino bracciante si azzarda a sradicare virgulti o ad aprire zolle; e ritornando salvo al colle natale, quando Maremma diventa inospitale, la sera, seduto sulla molle erbetta, comincia a raccontare all’attenta gioventù riunita la storia udita, che discende da lunga tradizione di generazioni. 71 E mentre narra queste cose, osserva ora l’uno ora l’altro dei piccoli che scherzano, ed ora li abbraccia, ora li fa mobile peso alle ginocchia, ora dolce peso alle braccia robuste; lo ascolta la moglie, intenta alla conocchia, e la luna, che le risplende sul volto, rivela agli altri sulle guance bagnate la pietà che lei prova, e nasconde in silenzio. 70
GIACINTO BIANCO PIA DE’ TOLOMEI. DRAMMA STORICO Napoli, 1836
Fig. 4 — Riproduzione del frontespizio di Giacinto Bianco, Teatro, Napoli 1938.
Presentazione Dopo la novella del Bandello ed il poemetto del Sestini, il dramma storico di Giacinto Bianco ritorna al Bandello nell’attribuire Pia alla famiglia dei Tolomei e nel dire Nello signore della Pietra; ma per il resto segue assai da vicino il Sestini. Sembra anzi che la vera differenza tra il Bianco ed il Sestini sia dovuta al diverso genere letterario prescelto: quel che il poemetto del Sestini racconta ed accenna, il dramma del Bianco porta in scena ed amplifica. Così la rivalità tra Nello ed il fratello di Pia, che nel Sestini era soltanto accennata, nel Bianco viene amplificata fino a coinvolgere i Guelfi, tra i quali è Ugo, fratello di Pia, ed i Ghibellini, tra i quali è Nello, marito di Pia; così viene amplificata la figura di Ghino e viene messo in scena il suo incontro–scontro con Pia, il cui fare sdegnoso determina in Ghino la volontà di vendetta; così viene rappresentata la scena dell’incontro di Pia con il fratello, che Ghino mostra a Nello come l’amante di lei. I punti in cui invece il Bianco si allontana dal Sestini sono tre: il modo in cui egli fa morire la Pia, non per malaria ma per veleno; il luogo della morte, non più un castello su un piccolo lago vulcanico, ma un imprecisato castello delle Maremme di cui Nello è signore; la data dell’azione, che dura non due mesi ma una settimana e che, a differenza di quanto avviene nel Sestini, non inizia la sera della sconfitta senese a Colle, 8 giugno 1269, ma la sera del 13 agosto, prima sera di una momentanea tregua tra Guelfi e Ghibellini: una breve tregua che prepara la ripresa di una guerra che, pur rimanendo storicamente imprecisata, sembra preparare la battaglia di Montaperti (4 settembre 1260).
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Nota sull’autore. Giacinto Bianco, scrittore e drammaturgo, nacque a Fasano di Brindisi nel 1812; diede la prima rappresentazione della sua Pia de’ Tolomei, a Napoli, il 19 aprile 1836; morì a Fasano nel 1885. — Sul Bianco, vedi Aquilino Giannaccari, Fasano nella storia e nell’attualità, Fasano di Brindisi, Schena Editore, 1993, p. 64–68. Nota sul testo. Il testo Ai miei lettori ed il testo Pia de’ Tolomei. Dramma storico che qui pubblichiamo sono tratti da Giacinto Bianco, Teatro, Napoli, Tipografia del Guttemberg, 1838, p. 5–67; nello stesso volume, alle p. 68–72 si trova una risposta che il Bianco diede ad alcune critiche mosse alla sua Pia, e che noi non ripubblichiamo.
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Ai miei lettori Voi pertanto, o artisti, che studiate di consolare la noiosa vita de’ mortali, moltiplicando loro i diletti colle opere de’ vostri ingegni, non isdegnate dalla filosofia, cioè dalla osservazione della natura umana, di essere avvertiti, che tanto più vi obbligherete gli uomini, e tanto più avrete da loro di amore e di lode, quanto più darete di esercizio alle intime loro forze. Non cadavi dal pensiere, 1 che l’animo nostro è capace di forti e lunghe agitazioni, di caldi e veementi affetti; e però chiunque si sente uomo, sdegnerà ogni languido e breve dileticare. 2 Vergogna, e gitta gli specchi, e le smaniglie Achille, appena vede lampeggiare spade e brocchieri. 3 (Pietro Giordani, Prose). 4
Egli è qualche tempo, da che volta la mente alle cose teatrali, vari miei lavori di tal natura sono venunon cadavi dal pensiere: non vi cada (esca) dal pensiero: non dimenticate. 2 dileticare: titillare: solleticare. 3 Vergogna … brocchieri: Achille prova vergogna e getta via gli specchi ed i braccialetti, appena vede brillare spade e scudi. — Si dice che, per impedirgli di prendere parte alla spedizione contro Troia, sua madre Teti vestisse Achille da donna e lo nascondesse tra le giovani della regia di Sciro, dove egli fu poi scoperto da Ulisse con lo stratagemma del fargli vedere quelle armi a cui qui si fa allusione. 4 Riformatore ed anticlericale convinto e costante in politica, prosatore raffinatissimo e capofila dei classicisti in lette1
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ti allo sperimento della scena; e le oneste accoglienze, ed il grazioso compatimento, di che mi sono stati larghi i miei concittadini, pare mi abbiano persuaso a durare in una carriera tentata per azzardo, proseguita per inclinazione. Per lo che, grato alla loro benevolenza e punto da un certo stimolo di amor proprio, comune ad ogni anima ben nata, mi è parso assai convenevole cosa richiamare a novello esame questi miei scritti, perché ripuliti alla miglior maniera di quel grezzo inevitabile nel primo getto, più sicuri, se non più degni, potessero venire alla pubblica luce. Non che mi sia entrata in animo la lusinga di dare in tal modo lavori perfetti e finiti, ché ben sento ineguali le mie forze a tanto peso; un dramma perfetto non è l’opera né della fresca età, 5 né di tutti; egli è un’epopea in miniatura; e chi anche de’ più sommi si attenterebbe di ritrarre in piccola tela le immense creazioni dell’Urbinate e del Buonarroti? 6 Ciò non pertanto mi consola il pensiere di sentire in me assai buon volere di toccare questa meta; ed i gentili del mio paese non vorranno certamente accagionarmi 7 né di soverchia confidenza nelle proprie forze, né di una vana presunzione, se incoraggiato da loro mede-
ratura, Pietro Giordani (Piacenza, 1774–1848) fu il primo a scoprire ed a sostenere il genio del giovanissimo Giacomo Leopardi. 5 fresca età: giovinezza. 6 L’Urbinate per antonomasia è Raffaello Sanzio (14831520); il Buonarroti è ovviamente Michelangelo (1475–1564). 7 accagionarmi: accusarmi.
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simi, agognando a belle intraprese, vengo a dar loro una picciola arra 8 di queste sante volontà. Pertanto, scorrendo come di volo sulle condizioni del nostro teatro italiano, e generalmente sulle teorie dell’arte, un numero di questioni la più parte inutili sembra incespicare il cammino a’ buoni ingegni; e tu odi ancora discorrere delle antichissime unità di tempo e di luogo, del giro di sole di Aristotile, 9 e di mille altre quisquilie, che tornerebbe noioso anche il rammentare: e molti, tenaci de’ vecchi precetti, e li predicano, e vi stanno; mentre un drappello di più ardimentosi, rotte queste dighe del genio, han già rinnegate sì fatte dottrine, aprendosi una strada nuovissima in mezzo agli anatemi 10 di molti, ed al plauso dell’universale. Di qui la dubitazione degli spiriti, di qui le polemiche accanite, di qui il discapito dell’arte.
una picciola arra: una piccola caparra: un piccolo pegno. Aristotele, Poetica, 5, 1449b 12–14; 24, 1459b 23–26; 6, 1450a 38–39; rifacendosi a questi passi di Aristotele, a partire dal Rinascimento i teorici teatrali sostennero la necessità, per chi avesse voluto scrivere una tragedia secondo le regole classiche, di trattare una storia unitaria (unità di azione) che si svolgesse in un solo luogo (unità di luogo), e che durasse un “giro di sole”, cioè una sola giornata (unità di tempo); difese dai classicisti conservatori come garanzia di artisticità e combattute dai romantici innovatori come limitazioni della libertà creativa (“dighe del genio” le dice qui il Bianco), le tre unità furono al centro di una lunga polemica letteraria, a cui prese parte anche A. Manzoni con una Lettre à M. Chauvet (1823). 10 agli anatemi: alle condanne. 8 9
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Fra tanti dispareri io stimai necessario, prima di metter mano alle mie cose, dovermi appigliare ad una delle due scuole, e seguirla con animo deliberato, perché i miei parti, 11 qualunque essi fossero stati, si avessero una fisionomia ed appartenessero ad una certa famiglia. Nella fluttuazione mi attenni al fatto, pensando che un artista debbe operare ed affaticarsi pel diletto de’ presenti, e che in fatto di belle arti, se non è il più retto, è almeno il più ricevuto il gusto del pubblico. 12 La fama ed i successi del teatro francese mi avevano incantato; la lettura delle loro opere, piene tutte di anima e di forte sentire, la rinvenni omogenea all’attuale incivilimento, e di qui la mia determinazione a seguirle. Né sia questo per alcuno argomento di scandali, se nato nella terra madre d’ogni bell’arte io vada fin oltremonti a cercare il tipo 13 al mio lavoro; il difetto di tal genere di letteratura non viene a noi dalla incapacità a tentarlo, ma sibbene dalle condizioni del nostro medesimo teatro. Ivi le muse, oltre una verde fronda di lauro, danno a’ loro cultori ben altra mercede, per cui si godono di quegli ozi beati tanto graditi al pastor
parti: scritti. pensando … pubblico: pensando che un artista deve lavorare ed affaticarsi per il piacere dei presenti, e che in fatto di belle arti il gusto del pubblico, se non è il più giusto, è se non altro quello più accettato. 13 il tipo: il modello. 11 12
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mantovano, 14 e ne’ quali gl’ingegni si deliziano, e lavorano a loro talento. Ma qui non è mia intenzione muover querela di sorta alcuna. Tropp’oltre io trascorrerei, se volessi venire sponendo 15 ad una ad una tutte le ragioni che han ritardato, e che tuttavia 16 ritardano tra noi siffatto sviluppamento; e forse il naturale seguito delle cose mi menerebbe a scrivere innanzi tratto 17 un’apologia di questi miei drammi invece di due parole di prefazione; per lo che 18 altri, se n’ha voglia, potrà sul proposito consultare le nuove poetiche, in cui e dottamente e profondamente si va ragionando sullo scopo e sui principi dell’arte, mentre io contento alla mia semplice profession di fede letteraria vengo a’ fatti. Leggete, e state sani.
pastor mantovano: questo pastore mantovano è Titiro, il protagonista della prima ecloga di Virgilio, Bucoliche, I, beneficato dal mecenatismo dell’imperatore Augusto. 15 sponendo: esponendo. 16 tuttavia: ancora. 17 innanzi tratto: fuori luogo. 18 per lo che: pertanto. 14
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Personaggi Pia de’ Tolomei. Messer Nello della Pietra. Messer Ugo de’ Tolomei. Messer Ghino. Magalotto. Piero. Oliverotto. Quattro cavalieri. Un donzello.
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Atto primo La scena è in Siena. Il teatro finge 1 il palazzo de’ signori della Pietra: gran sala di architettura gotica: uno scrittoio e delle sedie in costume: in fondo gran balcone a vetri di più colori che guarda sulla strada fuori la città: a destra la porta d’ingresso: a sinistra porta che mena alle stanze di Pia.
Scena prima. Pia sola. Quanto son io turbata! Un sinistro presentimento mi sta nell’animo che mi va ragionando come di vicina sciagura! Ah! questo cuore uso 2 a tremar sempre or per lo sposo or pel fratello non sa fingersi 3 che disgrazie! Giusto Cielo, deh! abbiano fine una volta queste cittadine contese che da tanto tempo lacerano sì crudelmente la misera Italia. Quante madri, quante spose non sarebbero consolate col restituirsi 4 alle une i figliuoli, alle altre i mariti! È già un anno da che arde fra noi guerra sì vergognosa ed io vivo lontana da una tenera madre, da un vecchio genitore, da un amato fratello; e perché? Per un folle impegno di parte! Ed il mio Nello? Il mio Nello, anch’es-
finge: raffigura. uso: abituato. 3 fingersi: immaginarsi. 4 col restituirsi: se venissero restituiti. 1 2
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so obliando 5 i legami dell’amicizia e del sangue non isdegna combattere contro i propri congiunti, e me lascia nella dubbia tema di crederlo or pericolante per valore or morto per insidia 6. Ma deh! cessi un sì funesto augurio. (Siede pensierosa.)
Scena seconda. Magalotto con un foglio, e detta. Magalotto: — (Inosservato.) Siam già sulla sera e Ghino non si vede. È forza 7 consegnarlo. Pia: — Chi è di là? Magalotto: — Nobile signora. (Inchinando.) Pia: — Magalotto! Che rechi? Magalotto: — Un foglio. Pia: — Di Nello forse? Magalotto: — Non credo. Me lo consegnò in fretta un uomo, il quale me lo die’ appena nelle mani, che si dileguò subitamente: la sua aria era di chi sfugge gli altrui sguardi per tema 8 di essere riconosciuto. Pia: — Porgilo. (Con contegno.) Magalotto: — (Consegnando il foglio.) Sempre ad un modo. Pia: — (Guardandone il carattere grida involontariamente.) Cielo! Mio fratello!
obliando: dimenticando. e me lascia … insidia: e lascia me nel dubbioso timore di crederlo ora in pericolo a causa del suo valore ora ucciso con inganno. 7 È forza: si deve. 8 tema: paura. 5 6
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Magalotto: — Suo fratello. (Fra sé.) Pia: — (Legge.) « Amatissima suora, 9 avvenga di me quel che il Ciel voglia. Io ho fermato di vederti anche una volta 10 nella prossima notte. La lontananza di tuo marito, l’oscurità delle tenebre favoriscono il mio disegno. Fia che in tal guisa 11 io metta in pace questo cuore agitato e ritorni ad affrontar con vieppiù 12 coraggio i pericoli della guerra dopo aver dato l’ultimo abbraccio alla diletta mia suora. » Mi scorrono le lagrime dagli occhi. Magalotto: — (Fra sé.) Piange! Pia: — « Inviami un tuo fedele, il quale mi sia di scorta alla tua abitazione. Eccoti il mio indirizzo: Via Barrongelli, Taverna della Cappa Bianca: nel primo salone a man dritta. Il segnale di convenzione sarà il motto Campaldino. Addio. Il tuo Ugo » Il mio Ugo, sì, il mio buon fratello. Ah! il mio cuore mi balza per l’allegrezza! Erano dieci mesi che desiderava di ascoltar la sua voce, di raccogliere dal suo labbro certa nuova dei nostri vecchi genitori. Magalotto: — Si rallegra! (Fra sé.) Pia: — Ma come quivi introdurlo! Se mai si scoprisse! Un guelfo in casa della Pietra! Inviami un tuo fedele, il quale mi sia di scorta alla tua abitazione. Magalotto: — Si consiglia! (Fra sé.) Pia: — Quasi straniera tra que’ che mi circondano, di chi fidarmi? Sovente il più buono è quegli che sa suora: sorella. ho fermato … volta: ho deciso di vederti ancora una volta. 11 Fia che in tal guisa: Avvenga che in tal modo. 12 vieppiù: sempre più. 9
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meglio infingersi. 13 (Guarda Magalotto.) Se quest’uomo… Magalotto: — (Fra sé.) E quando? Pia: — Sì; vinca questa volta l’amore sopra di ogni altro e si riveda il fratello. Si esplori l’animo di costui. — Magalotto. Magalotto: — Son qua, signora. Pia: — Dimmi: è da molti anni che tu servi in questa casa? Magalotto: — Potete contare una buona dozzina. Pia: — In questo frattempo, credo, avrai dato certi contrassegni 14 di tua fedeltà? Magalotto: — Eh! signora, si può dire che sono figlio del mestiere. Voi siete da poco entrata in questa casa, ma forse avrete inteso a parlare di un tal Michele detto per soprannome il Malvivente; eppure era il più fidato servo di famiglia. Ebbene un giorno, mentr’egli sedeva giù sulle pietre del cortile, venne a lui il padrone e gli disse: « Michele, questa notte avrò bisogno di te. » « Eccomi pronto. » egli rispose. La mattina seguente il padrone tornò a casa sano e salvo, ma il povero Michele non parlava più. Pia: — (Fa un atto di compassione.) Dimmi: messer Nello si è mai prevaluto 15 della tua opera in qualche segreto affare? Magalotto: — Si addimestica. 16 — Le mille volte; e non posso mai scordarmi cinque anni fa, quando i infingersi: fingersi. certi contrassegni: prove sicure. 15 prevaluto: avvalso. 16 si addimestica: diventa più docile. 13 14
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signori di casa Visconti erano rinchiusi in Milano; 17 messer Nello passeggiava con volto accigliato nella sala delle armi; di tanto in tanto brontolava non so quali parole; allora io che per un pezzo non gli avea tolto gli occhi da dosso, gli dico: « Ch’è stato, signor padrone? » Egli mi guarda in faccia, e mi dice: « Questo foglio — e l’avea nelle mani — deve senz’altro essere in Milano o il migliore dei miei amici è perduto. » « A me quel foglio. » — risposi subito. Pia: — E tu? Magalotto: — Glielo recai in men di due giorni. Pia: — Ma in qual modo? Magalotto: — Travestito da pezzente; pareva il diavolo che cercasse l’ele mosina; l’accartocciai in una grossa canna di Limonta 18 e tanto feci, tanto importunai, finché giunsi a metter piede nel castello de’ Visconti. Pia: — (Fra sé.) Avessi trovato l’uomo che mi abbisogna. — Ebbene, Magalotto, io voglio mettere a pruova la tua sagacia, il tuo attaccamento. Magalotto: — Non avete che a parlare. — Stai fresca, se parli. Pia: — Io attendo questa notte un uomo che desidero rivedere ardentemente; egli è poco esperto delle vie della città; i tumulti della guerra potrebbero essergli d’inciampo; senz’altro io bramo che tu gli sii di scorta. I Visconti furono signori di Milano dal 1277 al 1447; si noti quanto la cronologia del Bianco sia approssimativa. 18 canna di Limonta: canna di palude (dal gr. lìmne) usata come bastone? 17
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Magalotto: — Pronto ai comandi della mia signora. Pia: — Anzi il tuo racconto mi fa sorgere un pensiere. Va nelle mie stanze; spogliati di questi abiti da bravo; indossa uno dei giubetti del tuo signore e, deposta la daga, 19 affibbiati al fianco forbita spada da cavaliere. Magalotto: — È il mezzo più sicuro per non essere importunato. Pia: — Scendi nella sottoposta scuderia e scegli il più bel cavallo che si abbia il vanto di esser tornato vincitore dal torneo o dalla quintana; 20 sali in arcione e recati in fretta alla Taverna della Cappa Bianca, in Via Barrongelli, che mena al Campo. Magalotto: — E là? Pia: — E là, nel primo salone a man dritta, ti fia noto un cavaliere che potrai con facilità riconoscere al motto di convenzione Campaldino. Unisciti secolui, 21 e pel sentiero il più sconosciuto qui cautamente lo conduci. Magalotto: — Ho inteso. Pia: — Magalotto, eseguisci i comandi della tua signora e lascia a me il pensiere di compensare i tuoi servigi come meriti.
daga: spada corta e larga a doppio taglio. quintana: giostra in cui il cavaliere correva a cavallo contro una sagoma ruotante, vestita da saraceno, cercando di colpirne con la propria lancia lo scudo, senza farsi a sua volta colpire dalla mazza appesa all’altro braccio della sagoma colpita. 21 secolui: con lui. 19 20
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Magalotto: — Sarete soddisfatta. Pia: — Va. (Ritirandosi.) Cielo, seconda tu i miei onesti desideri. (Via.)
Scena terza. Magalotto solo. Eh! il proverbio non falla mai: chi la dura la vince. Era propriamente in dispetto con me medesimo per non poter cavar di bocca a questa nobile signora neppure un et dei suoi segreti; e sì che ne avea anche de’ suoi. Alla fine me ne ha regalato uno che mi ha compensato delle perdite. Pareva che quel galantuomo di messer Ghino mi pagasse sempre sulla parola! Non dargli mai un contrassegno, una prova palpabile della mia vigilanza! Oh! come sarà lieto appena gli avrò scoperto il tutto; ma possa morire di subito, se non gli smungo uno scudo per parola; sono i proventi del mestiere. Ma adagio, adagio un po’: io cerco di vendere la mia roba a troppo caro prezzo ed ho paura di essermi ingannato sul suo valore intrinseco. Quale importanza per messer Ghino sapere che stanotte un uomo, cioè, siamo un po’ più amanti del vero, suo fratello, venga a colloquio con lei? Non è poi un rivale? Un guelfo, non altro che un guelfo! — Alla fin fine varrà perché mi creda men neghittoso 22 nel riferirgli quanto si passi in questa casa. Oh! ma eccolo.
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neghittoso: pigro.
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Scena quarta. Messer Ghino, e detto. Ghino: — E così, Magalotto? (Pensieroso.) Magalotto: — Novità, messer Ghino. Ghino: — Novità! Magalotto: — E della più alta importanza. Ghino: — Buona lana, vorresti prenderti gioco di me! Magalotto: — Io vi parlo del miglior senno del mondo. Ghino: — Ma ch’è avvenuto? Magalotto: — In questa notte, qui v’ha un ritrovo. Ghino: — Un ritrovo! Magalotto: — Né più né meno. Ghino: — Torna suo marito? Magalotto: — Oibò! È poi un ritrovo con suo marito? Ghino: — Con un amante dunque? Magalotto: — Nemmeno. Ghino: — E con chi? (Adirato.) Magalotto: — Con un uomo. Ghino: — Magalotto! Da banda 23 gli scherzi. Magalotto: — Messer Ghino, da più tempo che vi servo avreste dovuto già conoscermi. Ghino: — Che sei un birbo astuto da ficcarla anche al demonio. Magalotto: — E che ne’ suoi negozi non usa mai giuocare alla zara. 24 Ghino: — Ma che intendi di dire? 23 24
Da banda: da parte. zara: gioco d’azzardo con tre dadi.
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Magalotto: — (Fa segno di voler moneta.) Ghino: — Che chiedi? Magalotto: — Oro; senza una buona borsa di scudi belli e suonanti non sperate già che esca dal mio labbro una sola parola. Ghino: — (Fra sé.) Maledetto! Magalotto: — Il segreto è massimo e vi accerto in fede da galantuomo che ve lo vendo per poco. Ghino: — Dell’oro? Tieni. (Gli getta una borsa.) Magalotto: — Benissimo. Ghino: — Parlerai in tua malora? (Con ira mal repressa.) Magalotto: — Eccomi a voi. Ma prima di mettervi a notizia del tutto mi darete licenza di dirvi anche la mia. Possibile! Tanta premura per espugnare questa torre d’amore, e ne abbandonate la guardia per un intero giorno? Chi tardi arriva male alloggia. Ghino: — Ma dove tendono questi tuoi discorsi? Magalotto: — In breve e vi spiego tutto. (A voce bassa.) La Pia questa notte attende qui suo fratello. Ghino: — Ugo! Magalotto: — Ugo in persona. Ghino: — Ma egli milita dalla parte de’ Guelfi e non potrebbe senza grave pericolo rientrare nelle mura di Siena. Magalotto: — Lo so; ed è per questo che la nobile signora ne ha fidato a me, propriamente a me, il delicato incarico, ed io in parodia da cavaliere 25 lo scorterò qui col favor delle tenebre. Ghino: — Dici tu il vero? 25
in parodia da cavaliere: travestito da cavaliere.
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Magalotto: — Verissimo. Ghino: — Ma a che viene? Magalotto: — Non lo so. Ghino: — (Fra sé.) Sta in guardia, Ghino: qui si trama sicuramente contro di te. Si fosse ella accorta del mio progetto e qui chiama il severo Ugo. Ugo pieno di certa austerità. Ah! questo improvviso arrivo di suo fratello disturba tutti i miei disegni, 26 e nel momento in che io credeva [di tenere] in pugno la preda, ella mi scappa dalle mani. Magalotto: — Messer Ghino, se la mia persona non vi serve in altro. (In atto di partire.) Ghino: — E per dove? (Intertenendolo.) 27 Magalotto: — Alla Taverna della Cappa Bianca ad aspettare il mio incognito. Ghino: — Malandato! Tu dunque vuoi perdermi. Magalotto: — Mi fate un torto anche a pensarlo. Chi vi ha detto « guarda! » non vuol ferire. Ghino: — Magalotto! Quel tuo sangue freddo… Magalotto: — Ma pretendereste che io restassi qui colle mani in mano? Ghino: — No, ma almeno… Magalotto: — Il mio incarico è finito. La scolta 28 vi ha dato la voce; armi dunque sul bastione e coraggio nel ricevere l’inimico. Ghino: — L’inimico! Sì. (Si ferma un momento, e poi fra sé.) Ma quale idea mi si affaccia alla mente! Qualche volta si concede alla pietà ciò che si è negato all’adisegni: progetti. intertenendolo: trattenendolo. 28 scolta: sentinella. 26 27
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more; sì, egli giunge all’uopo. 29 Ugo è un Guelfo ed un Guelfo non può senza violare le più sante leggi militari metter piede qui ove abitano Ghibellini; bastevole pretesto a catturarlo. E poi, Nello l’odia, forse… Ah! che un genio protettore mi soffia nell’anima. Magalotto: — (Fra sé.) Pare un mago nello scongiuro. Ghino: — Magalotto. Magalotto: — Son qua. Ghino: — Sono grato a’ tuoi servigi. Magalotto: — Non quanto dite. Ghino: — Vuoi oro? Ne avrai, ed a tua posta; 30 ma scolpisciti bene in mente le mie parole e studia di eseguirne attentamente i comandi. Magalotto: — Parlate. Ghino: — Va, ti affretta al luogo designato: ritrova il cavaliere e cerca di trattenerlo colà, finch’io non sia comparso. Fra poco io ti raggiungerò; appena mi avrai veduto sedere a mensa, dileguati ad un tratto e quivi mena l’incauto avventuriere. Magalotto, un pensiero mi ronza nel capo e se la fortuna mi seconda, la ritrosa cadrà 31 nelle sue stesse reti. Magalotto: — Ma si potrebbe… Ghino: — Tu devi ignorar tutto, finché l’opera non sia perfetta. 32 Magalotto: — Ma almeno…
all’uopo: a proposito. a tua posta: a tuo piacere. 31 se la fortuna … cadrà: se la fortuna mi asseconda, la scontrosa cadrà. 32 perfetta: compiuta. 29 30
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Ghino: — Va, sollecita, non indugiare un altro istante. Magalotto: — Ho capito; si tratta di fargli fare il cammino più corto. (Toccando la sua daga.) Ci rivedremo. Ghino: — All’osteria della Cappa Bianca. Magalotto: — All’osteria della Cappa Bianca.
Scena quinta. Ghino solo. Ghino: — Oh! questa volta non mi fuggirà sicuramente; la mia tela è sì bene ordita, che sfido a distornarla: sì, cadrà nel suo medesimo laccio. Ella ama troppo il suo Ugo, e se lo vede in pericolo, che non farà per salvarlo? Ah! la mia anima già s’inebria del piacere della vicina vittoria, e tutta intesa nel vicino avvenire sente raddoppiare le forze intorno al cuore. Giammai la fortuna arrise così propizia a’ miei progetti. — Ma odo rumore; è dessa; 33 coraggio; ella è in mio potere. (Si cela.)
Scena sesta. Pia, e detto. Pia: — (Va al balcone.) È già sera, finalmente. Oh! con quanta impazienza vedo appressarsi questa notte a cui ho affidato il più caro ed il più pericoloso dei segreti; ah! no, tu non mi tradirai.
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dessa: essa.
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Ghino: — (Fra sé.) Che mai cercherà col suo cupido 34 sguardo? Pia: — Sì; io lo rivedrò, lo abbraccerò, il mio Ugo. (Un servo porta de’ lumi e messer Ghino vien fuora.) Ghino: — Nobile signora. (Inchinando.) Pia: — (Fra sé con sorpresa.) Ghino! Ghino: — (Fra sé.) Ella si turba! Pia: — (Ricomponendosi subitamente.) Qual nuova mi rechi dello sposo, o Ghino? Ghino: — Niuna. 35 Pia: — Verrà egli a casa questa sera? Ghino: — Non credo. Pia: — E perché? Ghino: — Affari di grave momento 36 forse lo tratterranno al campo, e libero dal suo ufficio a notte avanzata credo sceglierà meglio dormir sotto la tenda che tornare alle domestiche mura. Pia: — Respiro. (Fra sé.) Ghino: — A quel che vedo, nobile signora, sì fatta nuova non lascia di arrecarvi un infinito piacere. Pia: — Non quanto ne arrechi a Ghino! (Con ironia.) Ghino: — Perché niuno 37 meglio di me può valutare il bene inestimabile di essere un’ora da solo a solo con voi, d’intendere quella voce, di bearsi in que’ sguardi; di…
cupido: bramoso. niuna: nessuna. 36 grave momento: grande importanza. 37 niuno: nessuno. 34 35
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Pia: — (Interrompendogli freddamente il discorso.) Ghino, ti sono poi noti i particolari di simile trattativa? Ghino: — Sempre la stessa. — Sì, signora. Pia: — E quali sono? Ghino: — Corre voce che l’inimico stanco del continuo battagliare ed estenuato di forze per la calda stagione che anche gli fa la guerra, ha domandato qualche giorno di tregua; si sono ragunati 38 i capi del Municipio e forse delibereranno per l’armistizio. Pia: — Il Ciel lo voglia! Ma credi tu che possa tutto fermarsi per la prossima notte? Ghino: — No, signora; e voi non avrete sicuramente obliato l’attacco, tre giorni fa, sostenuto dai nostri, quando i guelfi imbaldanziti per subitaneo vantaggio respinsero l’esercito fuggitivo fino alle porte della città; e se non era il valore di Nello e di altri pochi scelti guerrieri, la nostra causa si sarebbe forse decisa in quella giornata. D’allora i capi dell’esercito fremono di rabbia e ciascuno numera 39 delle fresche ingiurie ed anela di vendicarle. Pia: — Vendetta e sempre vendetta! fatale ognora per chi la compie e [per] quegli su cui ricade! Ghino: — Molti inclinano alla pace e parleranno per questa, ma non senza lungo disputare seguirà il voluto armistizio. Pia: — Piaccia al Cielo, ed abbiano finalmente riposo e Siena e Verona e Firenze e tutto questo bel
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ragunati: radunati. numera: enumera.
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Paese che diviso da lunghe guerre cittadine si fa segno di onta 40 allo straniero. Ghino: — I vostri sensi sono degni dell’animo che li concepisce, ma è pure onesta cosa vendicare le domestiche ingiurie, mantener saldi i dritti della propria città, pugnare per le ceneri de’ nostri maggiori. 41 E poi qual rammarico per una vostra pari? Pia: — Ghino, tu parli in tal guisa 42 perché, educato alle armi, fai tacere ogni altro affetto, quando ti parla quello dell’ira e del sangue; ma se tu fossi padre, se possedessi de’ figliuoli, se ti avessi una consorte… Ghino: — Una consorte! (Con espressione.) Pia: — Oh! quanto diverso sarebbe il tuo linguaggio. Costretto in ogni momento a tremare or per la vita dell’uno or pei giorni degli altri, terresti come esecrata 43 l’ora in cui si accese la prima scintilla di guerra. Ghino: — Voi dite il vero! Pia: — E quali angosce non ti strazierebbero l’anima, se il malnato spirito di parte, peste e rovina di tutta Italia, venisse ad impadronirsi degl’individui della propria famiglia o di altre a te care persone? Allora il fratello fugge dal fratello, il padre arma la mano contro del figliuolo, e pieni di rabbia e di mal talento corrono sul campo per distruggersi a vicenda; né mai un italiano fu visto tornar vincitore, il onta: vergogna. pugnare … maggiori: combattere in difesa delle tombe dei nostri antenati. 42 in tal guisa: in questo modo. 40 41
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quale non dovesse spargere lagrime sui frutti della propria vittoria. Ghino: — Signora, voi ne parlate in modo… Pia: — Come se ne fossi la vittima. Ghino: — La vittima! Pia, sarebbe questa una lusinga? E se io vi proponessi un mezzo, il più facile, con cui ravvicinarvi alla vostra famiglia, rendervi a due vecchi ed affettuosi genitori, ad un fratello che vi ama più degli occhi suoi, Pia, qual compenso otterrei dalla vostra generosità? Pia: — Tutto, o Ghino. Ghino: — Ma l’intrapresa non va scompagnata da pericoli. Pia: — Son pronta ad affrontarne mille, purché di tutti i Tolomei e quei della Pietra io vegga formarsi una sola famiglia. Ghino: — Una sola famiglia! Ebbene ascoltate e fate tesoro de’ miei avvisi. Già vi è noto; Nello è al campo: le faccende della guerra non comportano che si allontani per questa notte; i miei fedeli sono già pronti: una buona scorta ci terrà immuni da ogni sinistro; fidatevi di me: fuggiamo! Pia: — Fuggire! E dove? Ghino: — Nelle nemiche trincee; colà ritroverete il fratello, e fatti di tutti una comitiva muoveremo al padre. Pia: — E Nello? Ghino: — Che induri a sua posta 44 nelle fatiche della guerra, se ha tanto a schivo le delizie della pace. 43 44
esecrata: empia. induri a sua posta: si ostini a suo piacere.
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Pia: — Ed il fratello? ed il padre? Ghino: — Applaudiranno alla nostra intrapresa. Pia: — Ed il mio nodo con lui? Ghino: — Resterà sciolto. Pia: — Ghino! (Sdegnosamente.) Ghino: — Qual maraviglia! Se egli mosso da turbolento spirito di parte non ha ritegno di armar la mano contro i propri congiunti, se vago 45 di armi e di civile dissenso trascura i doveri di tenero marito, si apporrà poi a delitto 46 alla moglie se fugge in seno della propria famiglia, salvandosi così da un uomo barbaro e disumano? Pia: — Ghino, tu mi fai raccapricciare. Ghino: — Meno raccapriccio, meno sbigottimento, o signora, e ponete mente alle mie parole. Pia: — Ma quali sono dunque le tue mire? Ghino: — Quelle di togliervi ad un marito che vi trascura, di ricondurvi al seno di un’amata famiglia. Pia: — E poi? Ghino: — E poi se tante mie sollecitudini, se tante mie cure valgono a destarvi un qualche sentimento di riconoscenza, di amo… Pia: — Ah! non terminare: il tuo insidioso discorso già mi fa presentire i desideri del tuo cuore; la maschera finalmente è caduta e tardi mi avvedo della tua malvagità. Ghino: — Calmatevi. (Guardando sospettoso d’intorno.)
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vago: desideroso. si apporrà poi a delitto: si imputerà poi come un delitto.
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Pia: — Sì, io credei che la tua assiduità, i tuoi modi gentili fossero cortesia, attaccamento per l’amico, ed invece gli ho ritrovati insidiosa seduzione. Va, esci da queste pareti; la tua presenza le contamina; i tuoi sguardi mi avvelenano. Ghino: — Pia, io perdono ad un primo moto di sdegno… Pia: — Ghino, parti, lasciami per pietà. L’anima mia in tempesta ha bisogno di riprender coraggio, di persuadere a se stessa che tutto quanto udii fu un’illusione, un sogno col quale tu volesti mettere a prova la mia debolezza. Ghino: — Che dite mai? Ditemi piuttosto che attendendo 47 meglio alle mie parole, apprenderete da questo punto a vieppiù stimarmi, 48 a tener più conto della mia tenerezza, dell’amor mio. Sono già più mesi da che quest’anima, ardente in un incendio di amore, agognava 49 al piacere di questo desiderato momento; io l’ho agognato più e più volte, ed ora che vi giungo, volete anche privarmi del bene di una momentanea illusione? Pia: — È questo dunque un fermo proponimento? Ghino: — Fermissimo. (Risoluto.) Pia: — Disgraziato! Ma giuro al Cielo, e non vi riuscirai: Pia de’ Tolomei non rompe fede a suo marito. Ghino: — Badate che l’amore non si cangi in odio. Pia: — Ed aggiungi delle minacce! Ah! che il mio sdegno non conosce più limite. attendendo: riflettendo. a vieppiù stimarmi: a stimarmi di più. 49 agognava: aspirava con forza. 47 48
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Ghino: — Pia, oramai sono stanco. Pia: — Fa’ senno, 50 o Ghino: parti o ad un solo mio cenno tu non oltrepasserai vivo la soglia di questa casa. Ghino: — (Con calma beffarda.) Un momento di calma ed ascoltatemi. Voi dunque non vi piegherete mai all’amor mio? Pia: — Non mai. Ghino: — Ebbene da cavaliere vi prometto di vendicarmi, ed atrocemente. Pia: — Qualunque vendetta non potrà mai agguagliare l’offesa tentata contro l’onore mio. Ghino: — (Piano all’orecchio.) Pia, voi in questa notte, qui, attendete un Guelfo. Pia: — (Sbigottita.) Un Guelfo! E chi? Ghino: — Ugo in persona. Pia: — Cielo! Ghino: — Egli cogliendo il destro 51 dell’assenza del marito, verrà inosservato a colloquio in queste stanze. Pia: — E come il sapesti? Ghino: — Non vi curate come io mel sappia. 52 Ugo è un nemico; Ugo è in odio a Nello. I miei fidi 53 già sono all’agguato e non aspettano che un mio cenno, un mio solo cenno, ed il fratello resterà trucidato. Ora scegliete: o la morte di Ugo e l’indignazione di Nello, o l’amor mio che solo può rendervi felice. senno: attenzione. il destro: l’occasione favorevole. 52 mel sappia: me lo sappia. 53 fidi: fedeli. 50 51
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Pia: — Ah! che io sono tradita. Ghino: — Riflettete e decidetevi liberamente; ma non vi sfugga al pensiero un tenero fratello che proscritto, ramingo 54 pone a rischio i suoi giorni per rivedere, per riabbracciare una suora, 55 la quale colla sua ritrosia qui, qui stesso gli prepara la morte; presente sia alla vostr’anima l’agonia mortale di due vecchi genitori, i quali privi di ogni sostegno lagrimeranno di dolore all’annuncio della perdita di questo figliuolo, unica speranza a’ loro anni cadenti; essi ripeteranno da voi 56 la loro sciagura, e prossimi a spirar dall’affanno, esecrando l’ora 57 in che vi misero alla luce, forse morranno maledicendovi. Pia: — Ah! tolga il Cielo un sì funesto augurio. Ma io sono ancora in tempo di riparare al male operato. — Magalotto, Magalotto! Ghino: — Inutile domanda. Egli è già all’osteria della Cappa Bianca, e forse a quest’ora viaggia col suo incognito a questa volta. 58 Pia: — Voi dunque siete tutti in lega contro di me! Ghino: — Pia, una vostra parola e tutti siam salvi. Pia: — No, non mai. Va, corri, scanna la tua vittima, renditi un assassino, e contento a vedermi spirare fra le più penose ambasce, 59 godi del frutto della proscritto, ramingo: bandito, fuggiasco. suora: sorella. 56 ripeteranno da voi: faranno derivare. 57 esecrando l’ora: detestando il momento. 58 col suo incognito a questa volta: con il suo sconosciuto in questa direzione. 59 ambasce: sofferenze. 54 55
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tua vendetta; ma viva il Cielo, e morendo io saprò sfidare un seduttore. Ghino: — Pia! (Fa moto di avvicinarsi.) Pia: — Scellerato, allontanati! Ma oh! Dio, mentr’io qui parlo, forse l’innocente vittima già s’incammina al macello: i scherani han forse cerchiate 60 queste mura, e qui, qui stesso, nel buio della notte, sotto a’ miei occhi, il fratello morto: oh! Dio… (Cade svenuta sopra una sedia.) Ghino: — Ella è svenuta! Ma vincerò. (Fugge temendo di esser sorpreso da solo a solo con lei.)
i scherani han forse cerchiate: gli sgherri forse hanno accerchiate. 60
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Atto secondo È notte. Larga osteria di campagna; sulla porta d’ingresso un rozzo dipinto rappresentante un uomo ravvolto in cappa bianca; due tavole da mangiare.
Scena prima. Quattro cavalieri di parte Guelfa con bicchieri alla mano, ed Oliverotto. Tutti: — (Bevendo.) Evviva l’Italia! evviva gl’italiani! Oliverotto: — Che sia benedetta la sera del 13 agosto; almeno non si odono più a gridare quei bruttissimi nomi di Guelfi e Ghibellini. Cavaliere 1: — Eh! eh! il nostro Oliverotto; a quel che sento una qualche daga Ghibellina ti avrà misurate le spalle. Oliverotto: — Mi guardi il Cielo, o cavaliere, che mi dicono di pesar più libbre. Cavaliere 2: — Allora un qualche Guelfo non ti avrà pagato lo scotto. 1 Oliverotto: — Di questa gente poi ve n’ha fra gli uni e fra gli altri, ma non diceva per questo. Cavaliere 3: — E perché dunque tant’odio contro di questi Guelfi e Ghibellini? Oliverotto: — È perché quante volte si comincia a salutare 2 ai loro nomi dapprima si scambiano i bic1 2
lo scotto: il conto. salutare: brindare.
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chieri, di poi si tirano fuori le spade e finisce per lo meno con una sfida. (Scoppio di risa.) Cavaliere 3: — Ah! tu sei dunque un uomo di pace. Oliverotto: — Certo: nella pace si mangia e si beve allegramente, e quel boccone che vi scende nello stomaco fa la sua via ritta ritta senza trovare alcun intoppo. 3 Cavaliere 2: — Poltrone! Oliverotto: — Eh! cavaliere, non mi date così presto del poltrone; ché anch’io in tempi più burrascosi, quando viveva la buona memoria di mia madre, ho servito da scudiere ad un tal di casa Amedei, 4 ed ho maneggiata la mia daga. Cavaliere 2: — Ed hai ucciso? Oliverotto: — Neppure un’anima vivente. Cavaliere 3: — Va là, portaci del buon di Volsina. 5 Oliverotto: — Del buon di Volsina. (Via.) Cavaliere 1: — È un buon diavolaccio ed ha ragione di odiare tutto quanto gli fa dammaggio. 6 Cioè senza trovare il passaggio ostruito da qualche spada! Casa Amidei è l’antica famiglia fiorentina a cui una tradizione, ripresa da Dante, Paradiso, XVI, 136–147, faceva risalire la divisione tra guelfi e ghibellini in Firenze: poiché Buondelmonte dei Buondelmonti, mancando alla promessa fatta di sposare una donna di casa Amidei, ne aveva sposata una di casa Donati, gli Amidei si vendicarono dell’offesa subita, uccidendo lo stesso Buondelmonte (1216); la lotta sarebbe quindi continuata coinvolgendo sia i sostenitori dei Buondelmonti, che furono guelfi, sia quelli degli Amidei, che furono ghibellini. 5 del buon di Volsina: del buon vino di Bolsena; cfr. Sestini, Pia, I, 60, 8. 6 dammaggio: danno. 3 4
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Cavaliere 2: — Per verità, quando ci salta la mosca al naso, noi altri non la risparmiamo né a uomini né a donne, e molto meno a fiaschi ed a bicchieri. Cavaliere 3: — Massime 7 se ci riscalda un po’ il generoso di Volsina. Cavaliere 2: — Ma infine si sa. Chi vive in mezzo alle armi addiviene senza volerlo rabbioso iracondo, e alla menoma parola va subito in collera. Cavaliere 3: — Ed allora si menano le mani a dritta ed a manca senza remissione.
Scena seconda. Oliverotto con de’ fiaschi di nuovo vino, e detti. Oliverotto: — Del buon di Volsina. Cavaliere 1: — Da bravo il nostro ostiere. 8 Tutti: — Beviamo! Evviva l’Italia! Evviva gl’Italiani! Cavaliere 3: — Ma adagio, compagni, noi dimenticavamo il primo ed il più essenziale dovere: un buon cavaliere italiano non beve mai senza salutare la sua donna. Tutti: — Certo. Che vivano dunque le belle donne! Che vivano pure! (Bevono.) Cavaliere 3: — A proposito, Oliverotto, tu che sei istrutto delle istorielle 9 della città, ci sapresti dire chi gode fama di bellezza in tutta Siena? massime: soprattutto. ostiere: oste. 9 istrutto delle istorielle: informato sulle chiacchiere. 7 8
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Oliverotto: — Ahi! ahi! che incomoda domanda. Scappo dalla pendola10 e cado nella bracia. 11 Cavaliere 3: — E così? Oliverotto: — Ma se si comincia colle donne, o cavaliere, io ho paura che mi facciano più male di tutti i Guelfi e i Ghibellini. Cavaliere 3: — E perché? Oliverotto: — Ma sì perché, a raccontarvela schietta, ne ho veduto delle brutte per questa buona razza del genere umano. Cavaliere 4: — E quando parlerai? (Con ira.) Oliverotto: — Ecco qui; non appena entrano le donne e la festa è già ita 12 in fumo. Ma prima che io risponda alle vostre domande, ditemi di grazia: la guerra è poi finita? Cavaliere 4: — No, ma intermessa: 13 ci si è accordata la tregua di cinque giorni. Cavaliere 3: — Ma perché tale inchiesta? Oliverotto: — Perché! Perché in tempo di guerra tutti sono intesi alle armi: le case restano senza i maschi e le povere donne… Cavaliere 1: — Affè di Dio! 14 che tu la sai più lunga di qualunque altro. Oliverotto: — Eh! cavaliere questi sono pericoli troppo noti: cui non notis, come diceva la buon anima di mio nonno, cui non notis Ulyssis? 15 pendola: pentola, ché pende dalla catena sul fuoco. bracia: brace. 12 ita: andata. 13 intermessa: interrotta. 14 Affé di Dio: a fede di Dio. 15 cui non notis; cui non notis Ulyssis: « a chi non sono 10 11
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Cavaliere 2: — Anche del latino! Oliverotto: — Un po’ di tutto, cavaliere: in una pubblica osteria v’è bisogno di tener merce di ogni sapore. Cavaliere 4: — Ma ti spiccerai una volta? Qual è dunque la più bella donna di Siena? Oliverotto: — Ebbene, giacché dunque lo volete e me lo comandate con un certo tuono 16 ve lo dirò: Pia de’ Tolomei. Cavaliere 4: — Pia de’ Tolomei. (Con voce cupa.) Cavaliere 2: — È dunque vero quel che ne racconta la fama. Oliverotto: — Verissimo: è un angelo di bellezza. Tutti: — Evviva. (Toccando i bicchieri.) Cavaliere 3: — Evviva Pia de’ Tolomei. (Bevono.) Tutti: — Evviva.
Scena terza. Messer Ugo colla visiera calata, e detti. Ugo: — (Fra sé, fermandosi alquanto sull’uscio.) Qui si beve al nome di mia sorella! Oliverotto: — Perdonate, signori, giunge un altro avventore.
noti? »; « a chi non è noto Ulisse? » — Se avesse conosciuto anche le regole della concordanza latina, l’oste avrebbe detto: cui non nota (pericula ista); cui non notus Ulyxes; locuzione forse ricollegabile a Virgilio, Eneide, II, 44. 16 tuono: tono.
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Ugo: — La tavola è vuota; sediamo. (Siede a man dritta.) Oliverotto: — Vuol qualche cosa il cavaliere? (Ad Ugo.) Ugo: — No. Oliverotto: — (Fra sé.) Parola da debitore. Ugo: — (Fra sé.) Ma non vedo l’uomo, che io cerco: questi son tutti cavalieri; avesse mentito abito? 17 Ma non sederebbe con essi! Cavaliere 2: — Oliverotto. Oliverotto: — Son qua. Cavaliere 2: — (Piano ad Oliverotto.) Conosci quel cavaliere? Oliverotto: — È tutto chiuso in armatura, ed ha lasciato appena fuggir dalla visiera un cupo no. Cavaliere 2: — Ma tu credi… Oliverotto: — Che sia o un disgraziato o… Cavaliere 2: — Finisci. Oliverotto: — O un amante. Cavaliere 2: — E perché? Oliverotto: — E perché questa gente pazza per donne suol farsela ordinariamente o ne’ cantoni delle vie ovvero nelle taverne, ove si danno alla voce coi… 18 voi già mi capite. Cavaliere 2: — Benissimo. Cavaliere 3: — (Riprendendo il discorso a voce alta.) Ma finisci dunque di raccontarci la novella; sicché l’eroina di Siena è Pia de’ Tolomei. Oliverotto: — Pia de’ Tolomei. 17 18
mentito abito: finto vestito. coi … : con i ruffiani.
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Cavaliere 3: — Ma l’orsa maggiore non va mai sola per le vie del cielo: avrà senza fallo 19 il suo amante. Oliverotto: — Altro che amante; ha un marito bello e rosso come il sole, e dicono che tiri certe stoccate… 20 Cavaliere 3: — Tanto meglio; un più degno competitore da scavalcar di sella. (Ugo fa un atto di sorpresa.) Oliverotto: — Ma che competitore, che sella mi andate raccontando; sapete voi che messer della Pietra ci metterebbe poco a spacciarli tutti? Cavaliere 4: (Con aria cupa.) Forse sì e forse no. Oliverotto: — Eh! messere, state attento ché in tale affare non si burla. 21 Cavaliere 4: — E via, balocco, 22 portaci dell’altro vino. Oliverotto: — Pronto dell’altro vino. (Via.)
Scena quarta. Magalotto in abito da cavaliere, e detti. Magalotto: — (Fermandosi maravigliato sulla porta.) Guelfi! Ed in sì gran numero! Avesse Ugo menato seco de’ compagni! (Fra sé.)
senza fallo: senza errore. stoccate: colpi di spada. 21 burla: scherza. 22 balocco: sciocco. 19 20
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Cavaliere 3: — Ma almeno questa tregua ci lascia il campo di bevere 23 e cantarellare a nostro talento: dopo cinque altri giorni fiato alle trombe e di nuovo in arcione. Cavaliere 1: — Sicuramente. Magalotto: — (Fra sé.) Una tregua! Comprendo tutto. Cerchiamo del mio uomo. (Entra.) Primo salone a man dritta; se non m’inganno, eccolo. (Stringendo la mano ad Ugo.) Campaldino. Ugo: — Campaldino. Siedi. (Piano a Magalotto.) Magalotto: — (A voce bassa.) Messer Ugo, io sono incaricato dalla mia signora di scortarvi a casa in questa notte. Ugo: — È sola? Magalotto: — Sì. Ugo: — Bene. (Restano come ragionando fra loro.)
Scena quinta. Messer Ghino chiuso nel mantello, e detti. Ghino: — Magalotto dovrebb’esser qui in compagnia di Ugo. Eccoli; son dessi. (Fermandosi maravigliato sulla porta.) Guelfi! (Entra.) Vi saluto. Cavaliere 3: — Ed un altro! A me. (Ai compagni, poi al nuovo arrivato.) Nobile cavaliere, che siate il bene arrivato; quivi siam tutti amici, e se la vostra donna non vi fa disdetta, 24 potete sedere liberamente.
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il campo di bevere: la comodità di bere. disdetta: ostacolo.
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Ghino: — Un Ghibellino! (Allarga la cappa mostrando l’insegna ghibellina ricamata sul petto.) Cavaliere 3: — Per cinque giorni non v’ha più né Guelfi né Ghibellini; la tregua è segnata. Ghino: — Già segnata! Cavaliere 3: — Sì. Ghino: — (Fra sé.) Sono con voi. (Siede mentre Magalotto parte con Ugo.)
Scena sesta. Oliverotto di ritorno con degli altri fiaschi di vino, e detti. Oliverotto: — Del nuovo vino. Cavaliere 2: — Qua, qua, ne beveremo tutti. (Ministra 25 nelle coppe.) Oliverotto: — Cresce la brigata. Cavaliere 3: — E ciascuno saluterà la padrona de’ suoi pensieri. Gli altri tre: — Sì, alla padrona de’ nostri pensieri. Tutti: — Evviva colei che m’innamora! Evviva! Ghino: — Sono fallite le mie speranze! (Fra sé.) Cavaliere 3: — Cavaliere, poneste mente a que’ due che poco fa uscirono di qui? Ghino: — Sì. Cavaliere 2: — Avevano del misterioso. Ghino: — Sì. Cavaliere 3: — Il primo è entrato in silenzio e colla visiera calata; si è seduto colà e dopo pochi minuti si è visto comparire un secondo che, chiuso nella cap25
ministra: serve.
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pa, gli ha prima stretta la mano e poi, mormorando non so quali parole, gli si è situato vicino. Oliverotto: — Imbrogli! Imbrogli! (Fra sé.) Cavaliere 3: — In tempi in cui arde una guerra sì pericolosa e nella stessa notte in che si è pattuito un armistizio simili figure sono di sinistro augurio. Cavaliere 2: — Di sinistro augurio, o cavaliere. (Con espressione.) Cavaliere 1: — Giuro al Cielo, e se qualcuno osa insidiarci alle spalle prometto che non vedrà il sole di domani. (Si alza.) Cavaliere 4: — Possa io riputarmi indegno del nome di Guelfo, se con la mia azza 26 non gli spacco la fronte. (Si levano tutti.) Tutti: — Un tradimento. Ghino: — Placatevi, nobili cavalieri; un italiano non ferisce mai alle spalle. Cavaliere 1: — Sì, ma talvolta… Cavaliere 3: — (Dopo aver guardato Oliverotto.) Quale sospetto! Oliverotto? Oliverotto: — Che chiedete? Cavaliere 3: — (Prendendolo per mano.) Dimmi e guardati dal mentire, ci anderebbe della tua vita: saresti tu per avventura a parte delle insidie di que’ vili? (Lo circondano tutti.) Oliverotto: — Che dite, signore? Cavaliere 3: — Tu menti. Oliverotto: — Ma qual idea vi è saltata in capo; così il Cielo mi scansi da ogni malanno come io dico
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azza: mazza da combattimento.
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il vero. Chi sa cosa giri nel capo a que’ due meschini, e voi… Cavaliere 3: — Erano due cavalieri. (Insistendo.) Oliverotto: — Ma gli avete ben conosciuti? Cavaliere 3: — Due cavalieri dico, ed in incognito. Oliverotto: — Ed allora è bella ed indovinata. A quest’ora faran già la ronda sotto qualche balcone. Ghino: — Di fatti… Oliverotto: — Di fatti, credetemi, ne avevano tutta l’aria e specialmente quel primo; il quale armato da capo a piedi e con una certa voce da disperato indicava bene il risentimento per una qualche infedeltà sofferta. Tutti: — Eh! (Guardandosi li uni gli altri.) Oliverotto: — E poi, si sa, quando un nobile di notte tempo arriva all’osteria in visiera bassa e pugnale al fianco, tenete per certa una impresa di amore. Cavaliere 3: — Un’impresa d’amore! Oliverotto: — Senza dubbio: se conosceste quante di queste facce da Rodomonte 27 mi capitano alla settimana; ma già non mi danno un soldo di guadagno. Seggono muti muti come statue e dopo un lungo paio d’ore di fermata, al comparire di un qualche giubetto, 28 via e chi sa.
Rodomonte: reso popolare da grandi episodi del poema ariostesco, Rodomonte è il guerriero valoroso, feroce, orgoglioso per antonomasia, quale egli si mostra soprattutto durante l’assalto dei Mori a Parigi e nel duello finale con Ruggero, con cui si chiude L. Ariosto, Orlando furioso, XVI, 19–XVIII, 25; XLVI, 101–140. 28 giubetto: farsetto. 27
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Ghino: — Io non so che risolvere. (Fra sé.) Cavaliere 3: — Basta, basta, sarà. Cavaliere, ma voi siete pensieroso. Ghino: — Sì. Cavaliere 3: — Allora un altro bicchiere e vi lasceremo in pace. Ghino: — Come vi aggrada. Cavaliere 3: — Da buoni amici. (Toccando i bicchieri.) Tutti: — Da buoni Italiani. (Bevono.) Cavaliere 2: — Sul campo e da prodi, se l’uopo 29 lo richiede. Tutti: — Addio Oliverotto. (Gli danno una borsa.) Oliverotto: — Servo di vostre signorie. (Accompagnandoli.) Sono scudi belli e suonanti.
Scena settima. Ghino solo, camminando a passo concitato per la stanza. Ghino: — Tregua malaugurata! Ma chi mai pose in animo a’ Ghibellini di pattuire in sì brev’ora un armistizio! E non valsero a distornarli le antiche ingiurie ed i novelli oltraggi della poco fa sofferta ritirata! Tutta Italia non respira che guerra e quando un’ora di guerra vogl’io, la guerra è spenta. Per cinque giorni non v’à più né Guelfi né Ghibellini; Ugo è già tornato un buon senese: già senza niun pericolo può mostrarsi sulle vie, presentarsi a lei; ed il mio
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l’uopo: il bisogno.
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divisamento 30 di catturarlo e ridurre così alle mie voglie la superba donna: tutto è svanito! Ma ogni altro, vinto per sì improvviso accidente, piegherebbe al suo destino; Ghino non mai. Oh! sì, io le insegnerò come quest’anima sa trar partito 31 dalla stessa contrarietà e che, se mi è tolto ogni mezzo per espugnare la di lei costanza, non per questo mi vien meno la volontà di vendicarmi. (Resta alquanto pensieroso e poi.) Sì, ho risoluto! 32 Ti avrai invece il mio odio. Oliverotto! Oliverotto!
Scena ottava. Oliverotto, e detto. Oliverotto: — Son qua, signore. Ghino: — Un uomo. Oliverotto: — Un uomo? Ghino: — Sì; e che sia pronto ed intelligente. Oliverotto: — Eh! per la prima potrei compromettermi, poiché, grazie al Cielo, a gambe stiamo bene; per la seconda poi… Ghino: — Balordo, io ti chiedo un uomo! Oliverotto: — Allora se vi accomoda Rienzo, il garzone dell’osteria… Ghino: — È anche molto. Oliverotto: — Ma vi prevengo che il povero diavolo è cieco da un occhio e coll’altro sonnacchia fino alla mattina due ore dopo la levata del sole. divisamento: progetto. partito: profitto. 32 risoluto: deciso. 30 31
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Ghino: — Io non so chi mi tenga. (Con impazienza.) Oliverotto: — Ma perdonate, cavaliere, qual è poi la vostra intenzione? Poiché se l’affare è di somma premura, potrei… Ghino: — Tu stesso? Oliverotto: — Se il bisogno è urgente. Ghino: — Urgentissimo, e ne sarai largamente ricompensato. Tu devi montare in sella subitamente e di stretto galoppo recarti al campo. Ivi cercherai con ogni sollecitudine di messer Nello della Pietra, e palesatogli 33 il mio desiderio di volerlo vedere per questa notte in quest’osteria, qui lo conduci. Oliverotto, adempisci esattamente a’ miei voleri e ti prometto tant’oro quanto non ne guadagni in tre mesi dell’anno. Oliverotto: — Corro come un daino. Ghino: — Ma ascolta. Se qualcuno…
Scena nona. Messer Nello, e detti. Nello: — Ehi dell’osteria? (Entra.) Ghino: — Chi vedo! Nello: — Ghino! Ghino: — Nello! Oliverotto: — Diavolo! (Fra sé.) Ghino: Nello, tu giungi ed opportunamente. Nello: — E perché? Ghino: — Per cosa a te di sommo rilievo. 33
palesatogli: fattogli conoscere.
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Nello: — Tu dunque venivi in traccia di me? Ghino: — Sì. Oliverotto: — Signore, il tempo passa. Ghino: — Va, non ho più bisogno di te. Oliverotto: — Ma come, poco fa… Ghino: — Va, ti dico, ho rinvenuto chi cercava. Oliverotto: — Addio il saldaconto di tre mesi dell’anno. (Via.) Nello: — Ebbene parla; che avvenne? (Dopo aver poggiato l’elmo e la spada sulla tavola.) Ghino: — Simuliamo pietà. — Nello, sfortunato Nello, quanto ti compiango! Ahi! qual doloroso ufficio mi apparecchio a compire: rinnegherei quasi questa santa amicizia. Nello: — Ghino, le tue parole mi agghiacciano! Ghino: — E sì che la tua sciagura è tale da farti cader freddo al suolo. Nello: — Ghino, non mettere più indugi: ogni istante che si frappone all’annunzio di un mal che si teme è un nuovo male. Ghino: — Sì, io ti paleserò tutto, io ti dirò tutto, ma prima tu dei promettermi che farai uso della tua prudenza. Nello: — È dunque grave la disavventura? Ghino: — Gravissima. Nello: — Ma che? Mi han forse calunniato? Mi han morto 34 il padre? Ghino: — Ben altro, o Nello. La calunnia si smentisce; si vendica il padre; ma il proprio disonore… Nello: — Disonore! 34
mi han morto: mi hanno ucciso.
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Ghino: — Sì, cercano disonorarti, se non l’hanno di già fatto. Nello: — Disonorarmi! (Con ira e poi placato.) Ghino, tu menti. Ghino: — Così pur fosse. Nello: — Ghino! Ah! no, io conosco troppo la fedeltà della mia donna, il suo affetto per me; no, non posso prestar fede alle tue parole; un demone al certo mi parla per la tua bocca: tu menti per la gola. 35 Ghino: — Bella ricompensa in vero che tu dai a’ miei servigi! Io mentire! Or va’, compi scrupolosamente gli uffici di tenero amico; disvela a’ mariti i preparati tradimenti, che di grazie invece aspettati mercede di rampogne e di dileggi. 36 Nello: — Ghino, mio Ghino, dimmi che m’ingannasti. (Fremendo.) Ghino: — Io lo vorrei, ma la tua infamia è troppo nota. Nello: — Già nota! Ah! Ghino, se vuoi che io non ti stimi un mentitore e non ti costringa col ferro alla mano a rendermi ragione di una simile ingiuria, dammi, sì dammi più certa prova di quanto mi asserisci. Ghino: — Ed allora? Nello: — Ed allora sì, io ti avrò pel mio vero, pel solo amico.
tu menti per la gola: tu menti tanto da meritare di essere impiccato per la gola. 36 disvela … dileggi: rivela ai mariti i tradimenti così che invece di ringraziamenti aspettati un compenso di rimproveri e di scherni. 35
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Ghino: — Ella è perduta. — Ebbene innanzi tutto giurami da onesto cavaliere che non farai motto all’infedele di quanto ti apparecchi a vedere. Nello: — Vedere! Ghino: — E che non recherai alcun male a colui che ti offende. Nello: — E perché? Ghino: — Nello, i doveri di amico mi stanno a cuore quanto quelli del sangue, ed io non potrei senza rimorsi adempire agli uni conculcando 37 gli altri. Sì, colui che sconsigliatamente macchia il tuo nome, io tel dirò, mi è stretto coi vincoli della più prossima parentela. Nello: — Un tuo congiunto! Ghino: — Misero! Accecato dall’amore, ammaliato dagli artifici della bella ma pure insidiosa donna, non seppe farsi schermo di virtù contro gli assalti del proprio cuore; restò vinto, e ciò mi cagiona un immenso dolore. Nello: — Quanto maggiore è il mio! Ah! Nello, tradito Nello! Ma chi, chi mai avrebbe anche sospettato che la modesta 38 figliuola de’ Tolomei, Pia, la quale dopo tante contrarietà superate e del padre e del fratello giurava di non amar che me, me solo, così in un subito cangiarsi, 39 tradirmi… Ghino: — Amore non fu mai durevole in cuor di donna; leggiere come la piuma piegano facilmente al nuovo adoratore. conculcando: calpestando. modesta: costumata. 39 in un subito cangiarsi: con un cambiamento improvviso. 37 38
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Nello: — E tu tenero, impareggiabile amico, a prezzo di tanto sacrificio qui venivi e correvi sulle mie tracce per disvelarmi il fatale arcano ed io ti oltraggiava! (Si ferma per un istante, e poi come già risoluto nel pensiero della vendetta con voce cupa.) Ma sarò vendicato. Ghino: — Ma rammentati che io esigo prima il tuo giuramento. Nello: — Sì, te lo giuro da onesto cavaliere. (Ponendo la mano sul petto.) Ghino: — (Fra sé.) Ho vinto. Nello: — Ricada sull’infedele tutto il peso della mia collera, ed impari morendo come si serbi fede ad un Ghibellino. Ghino: — La tua mano. Nello: — Eccola. Ghino: — Vieni e vedrai se Ghino mentiva. (Via.)
Scena decima. Il teatro è lo stesso del primo atto. Pia sola. Pia: — Io non ho più sangue nelle vene; una mano di ghiaccio mi stringe il cuore; e ad ogni ora parmi ascoltare il lamento del mio Ugo moribondo. Ah! che in pensarlo soltanto io muoio. (Si odono delle grida lungo la via.) Gran Dio! quali grida si elevano nel buio! Ah! che il perverso Ghino già compie i suoi atroci disegni. Son queste le grida di un popolo infuriato. Ugo, mio Ugo, tu muori e per soverchio amarmi. (Viene al balcone per accertarsi.)
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Scena undicesima. Messer Ugo con Magalotto, e detta. Ugo: — Lasciami solo con lei. (Piano a Magalotto.) Magalotto: — Ubbidisco. — Si eviti il primo incontro. (Via.) Ugo: — Pia. Pia: — Ugo! ma sei tu, Ugo! (Abbracciandolo.) Ugo: — Sì, io, io stesso. Ah! tu non più mi ravvisi, sparuto 40 come sono dal lungo esilio e dalle durate fatiche. Pia: — Ugo! Ma ti è forse qualcuno alle spalle? La plebe infuriata che domanda la tua vita, il tuo sangue? Ugo: — No! Pia: — Qui, qui a questo seno tu ritroverai il più sicuro asilo. (Lo abbraccia e quasi lo nasconde dietro di sé.) Ugo: — Pia! Pia: — No, che i perfidi non compiranno il loro desiderio; i loro ferri passeranno me prima di trafiggerti. Ugo: — Pia! Ma tu vaneggi! Pia: — Malaccorto! 41 Ah! tu non sai che mentre qui parli lo scherano 42 già forse t’insegue, già è per alzare il compro 43 pugnale. Ah! lascia, sì lascia che io prima provveda alla tua sicurezza. sparuto: smagrito. Malaccorto: Incauto. 42 scherano: sgherro, sicario. 43 compro: venduto. 40 41
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Ugo: — Ma è vana la tua cautela! Pia: — Ma quel crescer di popolo, quelle grida lungo la via? Ugo: — Ed erano le voci di una plebe impazzata, già lieta per la seguita tregua. Pia: — Una tregua! Ugo: — Sì, dopo dieci lunghi mesi di continuo combattimento al fin ci è dato respirare alquanto, e mettere nuovo sangue nelle vene per essere più pronti alle nuove offese. Pia: — Una tregua! dicesti tu una tregua! Dio, io ti ringrazio. Ugo: — Pia, ma tu poco fa parlavi come fossi certa di una tesa insidia? Pia: — No. Ugo: — Ma quella tua confusione… Pia: — No, l’ignoranza del conchiuso armistizio, la tema pei tuoi giorni, la vigilanza degl’iniqui, quelle grida poco fa lungo la via: tutto mi rendeva inquieta. Ugo: — Povera suora! 44 Ne hai ben ragione. Di fatti, se non era la tregua, Ugo de’ Tolomei non poteva senza rischiare la sua vita rientrare nelle mura di Siena, recarsi a casa della suora, giungere fin qui. Fatalità crudele! Pia: — Ugo, mio Ugo; ma di’, qual nuova tu mi apporti del nostro vecchio genitore, della nostra buona madre? Che dicono essi? Che fanno? Ugo: — Miseri! Essi vivono al dolore ed all’affanno. Da quel giorno che tu [fosti] presa d’amore per 44
suora: sorella.
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codesto Nello che ora combatte contro i propri congiunti, spogliati dell’unica figliuola che lor rimaneva, traggono 45 una vita di pianto e di pene. Il tuo nome ritorna ognora sulle loro labbra, e dolenti ricercano per la vuota abitazione la figlia che non è più. Pia: — Povero padre! Madre infelice! Ugo: — Te non condanno che fedele a’ tuoi primi giuramenti serbasti in fine la data fede, ma sin da quel tempo era a me presente l’irreparabile sciagura che or senza volerlo tutti ci grava; erano a me noti i sensi 46 di Nello: egli usciva da un sangue troppo odiato; era un Ghibellino, ed alla prima rottura di pace io me lo attendeva nemico. Pia: — Ma e perché non parlar per la pace? Ugo: — Pace! Essa non è più per noi; Guelfi e Ghibellini han divisa tutta Italia e la nostra terra sarà campo a loro discordie eternamente. (Prendendole la mano.) Pia, gli eventi della guerra sono incerti ed è ben fortunato colui che dopo una giornata di armi può dire a sé, a’ suoi cari, « io vi fui ». Un dì o l’altro, se questo civile accanimento non ha posa, il tuo Ugo potrebbe anch’egli cadere sotto il ferro nemico; ma prima di esalare l’ultimo fiato, forte mi stringeva la voglia di saper di te, del tuo stato, ed abbracciarti anche una volta. Pia: — Amoroso fratello. (Lo abbraccia.) Ugo: — Ma dimmi e guardati da una menzogna: ti ama Nello?
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traggono: conducono. sensi: sentimenti.
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Pia: — Assai, e malgrado tutti questi odi cittadini non mi trascura; e sovente lo udii a ripetere con generosi sensi il tuo non meno che il nome del padre. Ugo: — Durante la sua assenza, ti avesse alcuno rivolto uno sguardo men che rispettoso? Pia: — Quale domanda! No. Ugo: — Ma dici tu il vero? Pia: — Sì… Ugo: — Mi accheto al tuo detto. Pia: — Ma perché un simile dubbio? Ugo: — Non ti farò un mistero. Questa notte, mentr’io muoveva a queste soglie, nobili cavalieri seduti a mensa parlavano di te, e nei loro discorsi, nei loro detti mi parve scorgere un certo che d’insidia, di amaro dileggio per la tua virtù. Pia: — No, mio Ugo; l’amore spesso ci finge 47 de’ pericoli là dove non sono. Ugo: — Nello fa dono della sua amicizia a men discreti; 48 Nello è un cavaliere dedito alle armi, e sovente per desio di gloria passa le intere notti lungi dalle domestiche mura. Pia: — (Fra sé.) Ah! ch’egli indovina il mio stato! Ugo: — I nipoti di della Pietra 49 sono gelosi, ed una furia è la gelosia. Pia: — Fratello! Ugo: — Basta, basta così. Ora che tutto vidi co’ miei occhi e che ti ho stretta fra queste braccia, io finge: raffigura. a men discreti: a persone poco riservate. 49 i nipoti di della Pietra: i discendenti dei della Pietra. 47 48
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torno più animoso a confortare i nostri vecchi genitori, loro apportando nuova di te e della tua felicità. Pia: — Tu dunque ti allontani? Ugo: — È forza separarci. L’ora è già trascorsa; i miei affetti si sono alquanto disfogati e posso con maggior lena 50 tornare agli usati esercizi. Se Nello giungesse… Pia: — Ti comprendo. Ugo: — Non guastiamo l’opera già fatta. Addio sorella. Pia: — Mio Ugo, prendi questo tenero amplesso, 51 e voglia il Cielo… Ugo: — Che non sia l’ultimo. Pia: — Per di qua, per la scala segreta del giardino. (Incamminandosi verso la porta segreta del giardino, ove entrano abbracciati.)
Scena dodicesima. Messer Ghino, Messer Nello, e detti. Ghino: — (Inosservati sull’uscio.) Eccoli. Nello: — Gran Dio! (Corre colla mano sull’elsa della spada.) Ghino: — (Intertenendolo.) Nello, ti ricorda il tuo giuramento. Nello: — (Con una cupa calma.) Sì, ma sarò vendicato.
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lena: vigoria. amplesso: abbraccio.
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Atto terzo Il teatro finge 1 l’interno del castello delle Maremme: gran sala gotica con finestre tutte inferriate; a destra porta che mena nelle stanze interne; a sinistra balcone che dà sul cortile; in mezzo porta che conduce al di fuora: delle sedie in costume.
Scena prima. Magalotto solo. Magalotto: — Eccomi addivenuto ad un tratto 2 il castellano delle Maremme, il confidente di Ghino, il bravo di messer Nello. Eh! la mia destrezza la vince sopra ogni altro. Però da che mi ritrovo in questa torre a custodire la mia padrona, una voce di mal’augurio mi va cantando all’orecchio: « Sta attento, Magalotto; chi vuol mangiare a due ganasce corre rischio di soffogarsi ». Per ora tutto è all’oscuro: ma se alla mia signora vien la voglia di parlare, non mi do di vita neanche fino a domani. Ma quel messer Ghino è un vero demonio incarnato: ha imbrogliato così le cose che sfido a trovarne il capo. Ma qual rumore? Il ponte è calato: qualcuno arriverà. Oh! è il padrone! Pare che soffra gli esorcismi.
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finge: raffigura. addivenuto ad un tratto: diventato di colpo.
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Scena seconda. Messer Nello tutto in rivolta, 3 e detto. Nello: — Magalotto! Sei qui? Magalotto: — Ai vostri ordini. (Inchinando.) Nello: — Che fa ella? (Dopo di aver poggiato sulla sedia il berretto e la cappa.) Magalotto: — È tutta rammaricata 4 per la vostra lontananza. Nello: — (Con un sorriso amaro.) Rammaricata! Magalotto: — Ma non anche ha compreso il vostro disegno. 5 Domanda continuamente di voi. Nello: — Ingrata! Ma come negar fede agli occhi miei? Ma non la vid’io abbracciarsi? Oh rabbia! Magalotto: — Male! Cominciano gli atti di contrizione. (Fra sé.) Nello: — E come gentilmente l’accomiatava: 6 « Per di qua, per la scala segreta del giardino. » Ma e se ella… Ah! io temo di scoprire un arcano, 7 e che pure tanto mi pesa sull’animo. (Dopo di essere rimasto alquanto pensieroso.) Sì, parlarle un’altra volta e raccogliere dal suo labbro medesimo l’ultima prova di sì dispiacevole certezza. Magalotto, Pia a me. Magalotto: — Obbedisco — Ahi! ahi! che io vedo aperto il trabocchetto. (Via.)
in rivolta: stravolto. rammaricata: afflitta. 5 non ha anche compreso il vostro disegno: non ha ancora capito il vostro progetto. 6 accomiatava: mandava via. 7 arcano: segreto. 3 4
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Nello: — Più rifletto, più l’anima quasi mi ragiona della sua innocenza; mi fossi ingannato? Ah! sarebbe la più dolce, la più desiderevole delle avventure. Ghino, crudele amico, tu hai distrutto in un punto il più bel sogno di mia vita: tu hai piantato in questo cuore il freddo pugnale della gelosia.
Scena terza. Pia, Magalotto, e detto. Pia: — Eccolo! Come è cangiato! Io non ardisco di avvicinarmi. (Fra sé.) Nello: — (Fa cenno a Magalotto di partire.) Pia: — Mio Nello, che mai ti affligge? Sul tuo volto sta l’agitazione, il dolore, ed invano ti studii occultare a’ miei occhi quella segreta ambascia che da più giorni ti crucia. 8 Nello: — Sì. (Con voce cupa.) Pia: — Ma non son io la tua amorosa consorte? La compagna colla quale hai tu giurato innanzi al Cielo ed agli uomini di dividere i dispiaceri non meno che le tue allegrezze? Nello: — Sì. (Con voce cupa.) Pia: — E perché nel punto in cui forse abbisogni vieppiù dell’amor mio, della mia tenerezza tu fuggi lontano e quasi abborri la mia presenza? 9 Nello: — No. (Con voce cupa.) ed invano ti studii … crucia: ed invano cerchi di nascondere ai miei occhi quella angoscia segreta che da più giorni ti tormenta. 9 aborri la mia presenza: hai orrore della mia presenza. 8
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Pia: — Ma tu non mi vieni innanzi che in aria mesta, conturbata e sì mi accogli che ho pur ritegno di avvicinarmi allo sposo, all’amico… Nello: — Pia, non più: i tuoi detti sono un coltello che mi passano l’anima; ma sì, te ne assicura, io sento un’altra forza che mi comanda severità, disdegno. Pia: — E contro chi? Nello: — Contro di… (Con ira, e poi calmato.) Contro tutti gli uomini. Pia: — Nello, confidati alla sposa. Dimmi: ti avesse qualcuno soverchiato? 10 Nello: — Soverchiar me! Pia: — Io ti conosco e so… Nello: — Che l’ingiuria mi offende e che la vendetta mi è dolce sopra ogni altra cosa. Pia: — Tu dunque la mediti? Nello: — Sì, ed atroce. Pia: — Ah! dunque ti sovrasta un forte pericolo. Nello, palesalo alla tua amica. Nello: — Ma v’è tormento uguale al mio? (Fra sé.) Pia: — Ma tu taci e fremi. Ho dunque perduto la tua confidenza. Nello: — No. (Prende una sedia e la fa sedere.) Pia, ascoltami e da savia come mi apparisci, giudica tu dello strano avvenimento. Viveva un marito tenero, innamorato, contento per possedersi una donna quanto bella altrettanto virtuosa. Egli non respirava che per lei; ogni suo detto, ogni suo fatto era rivolto a pro-
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soverchiato: fatto prepotenza.
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cacciare 11 all’arbitra del suo cuore nuovo argomento da insuperbire 12 del proprio compagno. Un giorno, mentre lieto tornava a casa per depositare a’ suoi piedi le nuove palme 13 raccolte in campo a forza di sudore e di stenti, un amico, no! un demone lo trattiene e tutta gli fa nota l’infedeltà della moglie. Pia: — Quale istoria! (Fra sé.) Nello: — Il generoso, che a troppe prove conosceva di quanto affetto lo amasse la sua compagna, die’ sulla parola al calunniatore. Il cavaliere ammutì e forte pungendogli la voglia di dar credito a’ suoi detti, gli disse: « Vieni e vedrai coi propri occhi il tuo disonore. » Pia: — Quale orrore! Nello: — Non è per anco 14 tempo d’inorridire, di fremere. Entrano di soppiatto nella città; col favor delle tenebre giungono a casa ed ahi! quale infamia! là il marito si fa testimone della propria ignominia, e coi propri occhi, (Si tradisce per un momento.) sì, con questi occhi, vede la perfida abbracciare l’amante. Pia: — Giusto Cielo! Nello: — Accomiatarlo. Pia: — (Balzando improvvisamente sulla sedia.) Nello, dimmi in qual giorno l’infelice marito si ebbe la piena certezza dell’infedeltà della moglie? Nello: — La notte del tredici agosto. procacciare: procurare. insuperbire: essere orgogliosa. 13 palme: glorie. 14 per anco: ancora. 11 12
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Pia: — Nello, io ti compresi. Nello: — Che! Pia: — Ah! tu sei tradito. Nello: — Scellerata! (Dando di piglio subitamente alla cappa ed al berretto.) Pia: — Ascoltami. Nello: — Taci, io ho sorpreso il tuo segreto. Pia: — No, ascoltami per pietà. Nello: — Taci, non rendermi uno spergiuro. (Fugge disperatamente.) Pia: — Nello, Nello, tu sei ingannato. Cielo! egli è partito; la mia rovina è compiuta; Ghino si è vendicato. (Via nelle sue stanze facendo battere la porta.)
Scena quarta. Magalotto maravigliato nel sentir battere l’uscio con troppa forza. Magalotto: — Siamo salvi. Eh! io non la sbaglio mai. Dal primo momento che intesi « Al castello delle Maremme! », dissi fra me « È bella e spacciata! » Questa torre ne ha vedute non poche di queste cerimonie e non v’è angolo o salotto, il quale non ripeti 15 la sua istoria: il mio signore non ismentirà il buon nome di famiglia. Poco fa uscendo mi è parso un indemoniato. Domani… Ma che altra figura è questa? Oh! sì non m’inganno, è desso, 16 quella faccia da responsorio, il solitario Piero. Arriva giusto in tempo. 15 16
non ripeti: non ripeta. desso: esso.
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Scena quinta. Piero, e detto. Piero: — Buon giorno, Magalotto: che il Cielo ti dia salute e bene. Magalotto: — Grazie del buono augurio. Ma tu come sai il mio nome? Piero: — Eh! io conosco ad uno ad uno tutti gli abitanti di questo castello ed anche i servi del signor della Pietra. Magalotto: — È dunque da molto che tu abiti qui? Piero: — Circa cinquant’anni. Magalotto: — E ne hai? Piero: — Ottanta. Magalotto: — Fino al secolo. Piero: — Che il Cielo te ne accordi altrettanti. Magalotto: — Sicché di vent’anni 17 l’aria di Siena ti parve malsana? Piero: — Sì, la guerra mise a sacco ed a fuoco l’abitazione di mio padre: il maggiore de’ miei fratelli morì sul campo e dopo due mesi, poiché chiusi gli occhi alla mia buona madre, volli abbandonare il tumulto della città e venni a ricoverare 18 in questi luoghi. Magalotto: — Ed ora abiti? Piero: — Qui vicino, a’ piedi della montagna. Magalotto: — A proposito, Piero; tu esci mai di notte? Piero: — Qualche volta allorché la tempesta che è sì frequente nelle gole di queste montagne, infurian17 18
di vent’anni: quando eri ventenne. ricoverare: rifugiarmi.
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do, fa straripare il torrente ed i bisogni di un qualche mio simile smarrito per istrada mi chiamano ad esercitare gli uffici della fraterna carità. Magalotto: — Mi figuro già che ti sarai spesso incontrato con quella larva, con quel fantasma ravvolto in un bianco lenzuolo che si dice di aggirarsi intorno a questo castello. Piero: — No, ma è un’antica tradizione. Magalotto: — Dicono che nelle lunghe notti d’inverno, quando è quieta la campagna e la luna è prossima a tramontare, apparisce una donna a bianco: ha in mano un funicello, 19 ed ora ritta ritta si ferma nell’atrio a contemplare le finestre del castello, ora si vede in cima alla torre come volesse discoprire persona che arrivi da lontano. Già la storia ti è nota. Piero: — Sì, vogliono che il vecchio signor della Pietra l’avesse fatta strangolare per gelosia. Magalotto: — È vizio di famiglia. Piero: — E quando questo demonio si caccia in corpo di un uomo lo rende capace di ogni eccesso. Il Cielo gli conceda remissione. — Ma la tua padrona non è qui? Magalotto: — Sì. Piero: — Potrei vederla, salutarla? Magalotto: — E perché no? Ma temo non sia tanto di buon umore. Piero: — È forse ammalata? Magalotto: — Poco meno. Piero: — Povera signora! Magalotto: — Ma zitto; eccola; viene ella stessa. 19
funicello: piccola fune.
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Scena sesta. Pia, e detti. Magalotto: — (La inchina.) Piero: — Nobile signora. Pia: — (Fa segno a Magalotto di partire.) Magalotto: — Finirà questa tua superbia. (Fra sé per via.) Pia: — Buon solitario, io ti ho veduto dal balcone entrare le porte 20 del castello e mi sono affrettata all’incontro. Piero: — Quanta bontà! Pia: — Ah! qui t’invia certamente il Cielo ed io comincio a riguardarti da questo punto 21 non altro che come un suo messo. Piero: — Iddio sovente si avvale de’ deboli per mandare a fine le sue opere. Pia: — Sì, buon Piero. Piero: — Ma siete forse inferma? Pia: — E quanto, o Piero! E la mia infermità è qui. (Facendo segno al cuore.) Piero: — Ma che! Non vi ama forse l’illustre signore messer Nello? Pia: — Mi amava, ma da che un falso amico pose nel di lui animo il veleno della gelosia, io sono addivenuta l’oggetto del suo dispregio, il segno alla sua collera. Piero: — Che ascolto! Pia: — Non appena gli cadde in animo il sospetto che altri avesse su di me rivolti gli sguardi desidero20 21
entrare le porte: entrare nelle porte. punto: momento.
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si, che pieno di amaro disdegno qui mi ha tratta 22 lontano dalla città, abbandonandomi in preda al più vivo dolore. Piero: — Ma la colpa non macchiò già la vostra fede? Pia: — Mi gastighi il Cielo, se anche un pensiero spuntò nella mia anima, il quale non fosse puro. Piero: — E dunque? Pia: — Ma uno scellerato che sotto le sembianze di tenera amicizia frequentava la mia conversazione, preso da sconsigliato amore tentò la mia onestà; io lo discacciai, egli fremé di rabbia e giurò di perdermi 23 nella grazia del mio signore. Piero: — Ed in qual modo? Pia: — Nel modo il più strano, il più inaudito, ed io, sì io medesima, duro fatica ad indovinare le fila di questa trama vilissima; ma Nello dichiarò apertamente che la notte del tredici agosto, notte malaugurata! raccolse le prove della pretesa infedeltà. Piero: — Ma venne alcuno in quella notte? Pia: — Sì, ma egli era tale da non ingelosire l’animo di Nello; Ugo, il fratello. Piero: — Ma egli militava dalla parte de’ Guelfi? Pia: — Ed ecco il suo delitto. L’astuto Ghino, sì l’ho pur nominato! ecco il perfido che maestro d’ogni male artificio trasse partito da sì sfortunato accidente per ingannare il mio sposo. A te è già noto come Ugo, il quale ben prevedeva la prossima guerra, me distornava dalle nozze col signor della Pietra, 22 23
tratta: condotta. perdermi: rovinarmi.
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poiché certo del suo attaccamento a’ Ghibellini; quindi stabilita fra loro irreconciliabile inimicizia; quindi l’uno guardingo sull’operar dell’altro; quindi sospetta la fede del fratello. All’annunzio che il misero rientrato in Siena veniva per rivedere la figliuola de’ Tolomei, tutte forse si riaffacciarono al suo animo le cause dell’antica discordia, ed attizzato dalle parole di Ghino fu facile persuadergli una fuga, un tradimento… Piero: — Ma e perché non dirgli tutto? Pia: — Io lo tentai, ma nell’atto che il mio labbro confuso, tremante si accingeva a ripetere quel nome abborrito, egli chiuse colle mani le orecchie e fuggì dicendo: « Taci, non rendermi uno spergiuro! » Piero: — Uno spergiuro! Pia: — Io non intesi il senso di quelle parole, ma certamente chiudono una nuova insidia. Piero: — Come i malvagi spesso si avvalgono della religione per mandare a fine i loro pravi disegni! 24 Ma fate cuore, nobile signora; forse passato il primo eccesso di gelosia, messer Nello non tarderà a riconoscere l’innocenza della sua sposa. Pia: — No, Piero, non lo sperare; un presentimento mi dice che io non lo rivedrò più, che egli oggi o domani addivenuto smanioso, furente sfogherà su di me, sulla mia vita la sua collera. Piero: — Che dite mai! Pia: — Non la prigione, non i patimenti, non la morte mi addolora, ché un peso è la vita se si passa nel dispregio de’ buoni; ma l’idea sola che la nuova 24
pravi disegni: malvagi progetti.
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della mia pretesa infamia giunga all’orecchio de’ Tolomei che finora tennero un nome intatto ed onorato; il pensiero di lasciar dopo di sé una memoria abbominata, causa di rossore a’ congiunti, agli amici, ah! questo mi toglie ogni coraggio e fa mancare la mia costanza. Piero: — E pensate? Pia: — Di riparare, e nel miglior modo possibile, alla mia disgrazia. Piero: — Ed in qual maniera? Pia: — Richiamando qui prontamente il mio Ugo, il quale colla sua voce disveli a Nello il tremendo arcano. 25 Piero: — Ma egli fra un giorno 26 è già tornato un Guelfo. Pia: — Ed in ciò la tua opera, o buon Piero, può giovarmi, e moltissimo. Piero: — Imponete. Pia: — Tu sei un vecchio venerando; la fama delle tue eccellenti virtù ti concilia l’amore e la riverenza anche degli uomini di armi; quindi potrai senza verun 27 sospetto attraversare il campo nemico, recarti alla tenda di Ugo. Tu lo informa del mio stato, digli la mia disgrazia e lo vedrai subito montare in sella e venire al castello. Allora se il Cielo acconsenta che io riveda un’altra volta il mio signore, la trama sarà scoverta, palese la mia innocenza. arcano: segreto. fra un giorno: da un giorno. — La tregua di cinque giorni è scaduta il giorno prima. 27 verun: alcun. 25 26
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Piero: — Eseguirò i vostri voleri. Pia: — Ah! Piero, quanto io debbo alla tua virtù; io mi affido interamente a te. Piero: — Ed al Cielo che vorrà benedire la nostra opera. Pia: — Va, dunque; ti affretta: io sono nelle tue mani. (Via Piero. Pia rientra nelle sue stanze battendo la porta.)
Scena settima. Magalotto solo. Magalotto: — Ah! ah! come è corrucciosa! 28 Scommetto che non l’avrà risparmiato neppure a fratel Piero. Eh! buona signora, se cammini di questo passo non troverai un cane che ti soccorra nella disgrazia, e questa non è lontana.
Scena ottava. Ghino, e detto. Ghino: — (Tutto sollecito ed anzante.) 29 Vi sono finalmente arrivato, Magalotto. Magalotto: — Oh! messere, vi siete ben fatto aspettare. Poco fa pensava propriamente a voi e diceva fra me: « Possibile? che messer Ghino, il diavolo presente a tutte le cose, non ha per anco spiato 30 ove si rimpiatti la lepre! » corrucciosa: pronta a sdegnarsi. anzante: ansimante. 30 pur anco spiato: ancora indagato. 28 29
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Ghino: — (Turbato.) Dimmi: Pia dov’è? Magalotto: — Eh! messere, meno ciera brusca 31 e più buona grazia col castellano delle Maremme! Ghino: — Che? Tu il castellano delle Maremme? Magalotto: — Tanto bella! Ma che? Voi pare ne siete sorpreso! E non son io destro quanto ogni altro per tirare su un ponte, serrare un chiavistello, calare fra l’oscuro un pugnale in gola al primo baffone sanese 32 ed in modo da non fargli profferir parola? Ghino: — (Fra sé.) Meschina, in quali mani si ritrova! Magalotto: — Ma da quanto in qua, messer Ghino, con questa faccia da pentito? Ah! avea ben ragione io, quando diceva di non volermi impacciare in simili affari: era certo di non ritrovar petti fermi come il mio. Ghino: — Messer Nello è qui? Magalotto: — No, e non tornerà per questa mattina. Ghino: — Allora potrei parlarle. Magalotto: — No. Ghino: — E perché? Magalotto: — Poco fa ebbe che dire col solitario Piero: voi già lo conoscete: non la risparmia né a baffi neri né a barbe bianche. Sarà andata in collera, e quando io son rientrato, il povero vecchio se la sfilava per di qua ed ella si ritirava per di là: ha fatto battere l’uscio in maniera che mi è parso cadesse la saracinesca del castello. 31 32
ciera brusca: faccia sgarbata. sanese: senese.
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Ghino: — (Fra sé.) Se ella mi dispregia, a che tanta nequizia? 33 Magalotto: — Ma che? Voi mi fate una certa cera! Ve ne dispiace forse? Non si è piegata alle vostre voglie, dunque che muoia: così avremo una taglia in meno sul nostro capo. Ghino: — (Fra sé.) Io inorridisco! Magalotto: — Per me ho sempre avuto in sistema: quando si è appuntato lo stiletto 34 al collo di uno, non bisogna ritirarlo prima di averlo passato da parte a parte. Ghino: — Questi mi fa tremare. — Dunque? Magalotto: — Dunque venite qua, ascoltatemi e poi dite se Magalotto non meriti il vanto del primo bravo sanese. 35 Noi abbiamo la volpe in trappola. Messer Nello l’ha già finita colla Pia; due ore fa, uscendo da questa sala tutto infuriato, mi prese per un braccio e chinandosi al mio orecchio con voce soffocata dall’ira mi disse: « Magalotto, la tua vita mi risponde della buona guardia di questa donna: quando avrai ricevuto il mio anello, che sia avvelenata. » Ghino: — Avvelenata! Magalotto: — Già, bevanda di uso, ultimo regalo da nozze 36 che un nobile cavaliere fa alla sua donna tre mesi dopo il matrimonio.
se ella … nequizia: se ella mi disprezza, a che scopo tanta (mia) malvagità? 34 lo stiletto: il pugnale. 35 sanese: senese. 36 da nozze: di nozze. 33
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Ghino: — E tu? Magalotto: — Ed io alla prima occasione spero farle tracannare il mio dolce sonnifero, ed ho fede che non si sveglierà più. Ghino: — Ah! che il mio delitto è consumato. (Via subitamente.) Magalotto: — Delitto! Il nome di delitto nella sua bocca! Ah! non c’è più dubbio: il cervello di messer Ghino è dato di volta. Ma non vorrei, basta! si solleciti di eseguire i comandi del padrone e poi che venga a darsi in colpa del peccato e farmi il penitente ravveduto. (Via per la porta di mezzo, facendo suonare al fianco le sue chiavi.)
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Atto quarto Comincia la notte. La capanna dell’Eremita; sulla porta una rozza trave per sospendervi la lanterna; a sinistra cammino 1 con fuoco acceso: da lontano veduta del torrente che straripa: durante tutto quest’atto si udranno ininterrottamente de’ tuoni con qualche lampo.
Scena prima. Piero solo. Piero: — Qual terribile uragano! Il tuono rimbomba nella valle ed ai spessi lampi pare s’infiammi il cielo: gli elementi si sono scatenati. Dio di bontà soccorri tu a’ miseri viandanti e sii loro di guida nel pericoloso cammino. (Si affaccia alla porta.) Ma che vedo! Un cavaliere tutto ravvolto nel mantello cavalca sul ciglione della montagna; già scende al piano; come passa attraverso il folto degli alberi tra le folgori che lo accendono; già galoppa lungo il torrente! Ei cercherà senza dubbio un qualche ricovero: ah! potessi apprestargli 2 un qualche soccorso. Sì, sospendiamo all’usata trave 3 la lanterna dell’eremita, onde diriga qui i suoi passi. La religione mostra ovunque una fiaccola di rifugio nel faro della vita. (Sospende alla trave la sua lanterna.) Ora sono più cammino: camino. apprestargli: portargli. 3 sospendiamo all’usata trave: appendiamo alla solita trave. 1 2
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consolato: l’adempimento di una buona opera porta nel nostro animo una segreta consolazione. (Torna sulla porta.) Ma no, io non m’inganno: è questo il calpestio di un cavallo che cammina pel viottolo. Ah! il Cielo ha esaudito la mia preghiera; sì, sì eccolo. Cavaliere! cavaliere, chiunque voi siate, entrate, in nome del Cielo qui troverete un asilo.
Scena seconda. Messer Nello tutto ravvolto nel mantello grondante acqua, e detto. Nello: — (Con voce soffocata.) Sì, un asilo; la tempesta mi cerchiava per ogni parte ed io come un maledetto fuggo dall’ira del Cielo. (Si toglie il mantello.) Piero: — Messer Nello! (Fra sé.) Nello: — Sono tutto bagnato. Piero: — Come è travolto. 4 — Potete rasciugarvi, nobile signore. Ecco qui delle legna accese nel cammino. Nello: — Sì. (Con voce cupa. Spande il mantello e si siede al cammino.) 5 Piero: — Se non sdegnate, posso anche imbandirvi una parca mensa: v’è del pane di elemosina ed una buona quantità di ortaggio che questa mattina ho raccolto dall’orticello che io coltivo colle mie proprie mani. Nello: — Ti ringrazio: poche ore di riposo e poi 4 5
travolto: stravolto. cammino: camino.
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ritornerò a sperdermi nella foresta. Piero: — Ma perché non ritornare al vostro castello? Non è molto lungi di qui. Nello: — Al mio castello! No. Piero: — Ma l’uragano cresce, e se viene a dileguarsi per qualche momento, ritornerà senza fallo. Una lunga esperienza mi ha insegnato che simili tempeste suscitate nel caldo della stagione sogliono durare tutta la notte, e parte anche del giorno vegnente, 6 non senza danno de’ poveri viandanti. Nello: — (Fra sé.) Venga almeno un fulmine e m’incenerisca. Piero: — E poi lasciar sola, desolata, l’illustre vostra signora… Nello: — (Con ira.) Ma chi vi parlò di lei? Piero: — Il suo arrivo nel castello delle Maremme ha posto tanta letizia negli animi di tutti, che rapida se ne sparse la voce ed a me, quantunque diviso 7 dal resto degli uomini, giunse anche la grata nuova. 8 Nello: — Mentisci. Piero: — Signore! Nello: — (Fra sé.) A tutti oggetto di ammirazione, a me di dolore! Piero: — Ah! nobile signore, ne’ vostri atti, nelle vostre parole, traluce una feroce ambascia che vi tormenta e vi crucia. 9 Nello: — (Con voce cupa.) Sì. vegnente: successivo. diviso: apportato. 8 la grata nuova: la gradita notizia. 9 traluce … crucia: traspare una terribile angoscia che vi tormenta e vi crocifigge. 6 7
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Piero: — È questo il retaggio 10 di coloro che vivono quaggiù. Nello: — No, di’ meglio: de’ buoni. Piero: — Sovente il Cielo invia la disgrazia per mettere a prova le anime forti. Nello: — Ma a questa che io sostengo, il mio coraggio vien meno. Piero: — È dunque disperato il vostro dolore? Nello: — Sì, disperato. Piero: — Ma qual colpa nella virtuosa, nella modesta Pia? Perché ricader su di lei l’opera de’ tristi? 11 Nello: — Qual colpa! E se ti dicessi che ella n’è la prima, la sola cagione? Piero: — Ah! ingannato signore. Nello: — Lo sospettai un inganno, ma la malignità de’ casi miei distrusse anche questa illusione, la quale poteva per poco rendermi soffribile questa esistenza. Piero: — Ma se il mio domandar non vi torna importuno, qual è poi il suo fallo? 12 Nello: — Quello che addolora il cuor d’un marito, e che ricoprendolo di ignominia lo sprona ad una giusta vendetta. Piero: — Dunqu’ella? Nello: — Fu infe… ma tu già mi comprendi. Piero: — Cielo, dammi tu che io possa togliere il
il retaggio: l’eredità. tristi: malvagi. 12 fallo: errore. 10 11
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velo dagli occhi di questo cieco. — Ma ne avete voi ben certa prova? Nello: — Questi occhi stessi videro la propria infamia, e n’ebbero vergogna. Piero: — E conoscete voi colui che vi offese? Nello: — Nol posso. 13 Piero: — E perché? Nello: — Perché temo rendermi ad un tempo marito crudele ed amico spergiuro. Piero: — Spergiuro! Nello: — Sì, Piero, la sequela 14 delle mie sciagure è strana, stranissima; e tu intendila dal mio labbro e compiangimi. Piero: — Parlate, signore; i mali narrandosi altrui si fan men gravi. Nello: — Un giuramento, o Piero, un terribile giuramento mi obbliga ad ignorare e per sempre il seduttore. Piero: — Ah! nobile signore, come i tristi han teso un laccio alla vostra credulità; come la gelosia vi accieca sul più manifesto errore. Nello: — Piero! Piero: — Sì, il mio parlare è libero perché non teme la verità, e voi siete per anco 15 in tempo di vedere il suo lume. Nello: — Piero, non mettere in maggiore tempesta quest’anima. Piero: — Anzi, no. Ah! potess’io rendervi alla Nol posso: Non lo posso conoscere. la sequela: la successione. 15 per anco: ancora. 13 14
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calma. Ditemi, nobile signore, la notte del tredici di agosto v’erano più nemici per Siena? Nello: — Tu dunque sei a notizia. 16 Piero: — Silenzio su di ciò, e rispondetemi liberamente. Nello: — No; la tregua era già segnata. 17 Piero: — V’era alcuno che militava sotto le insegne de’ Guelfi, il quale per antico odio o per nimistà di parte 18 non osava più vedere la nobile figliuola de’ Tolomei? Nello: — Non so! Piero: — Neanche un congiunto? Nello: — Suo fratello! Ugo! Piero: — Ed era un Guelfo? Nello: — Sì! Piero: — E se egli tenero amatore di una sorella, già divisa dalla propria famiglia da questa italiana mania, 19 se desideroso di rivederla dopo dieci mesi di penosa lontananza, avesse osato riporre il piede 20 nella vostra abitazione? Nello: — Un Guelfo in casa della Pietra! Fosse anche Ubaldo de’ Tolomei, il padre, era un nemico. Piero: — Ed aborrito nemico, perché Ugo fiero contradiceva a queste nozze. Nello: — Lo rammento!
a notizia: a conoscenza. segnata: firmata. 18 nimistà di parte: inimicizia di partito. 19 questa italiana mania: questa italiana follia delle divisioni politiche. 20 riporre il piede: rimettere piede. 16 17
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Piero: — Ebbene Ugo, Ugo stesso, quantunque già sicuro dagli insulti de’ propri concittadini per la seguita tregua, timoroso d’intorbidare 21 la pace di un affettuoso marito, la tranquillità di una amata sorella, come uomo, il quale si ritira da commesso delitto, abbandonava furtivo le vostre soglie in quella notte, abbracciando e forse per l’ultima volta la sua unica, la sua buona sorella. Nello: — Piero! Piero: — Sì, nobile signore, ed in ciò vi sia manifesta la virtù della donna che vi possedete ed il nobile contegno di un cavaliere, il quale sebbene più e più volte provocato da’ vostri ingiusti rimproveri, pure non obliava i doveri di tenero congiunto. Nello: — Piero, è questa una ingegnosa istoria per velare l’altrui delitto? Piero: — La verità, nobile signore. Nello: — E come la sapesti? Piero: — Vi dirò tutto senza riserva. Ieri fui al castello delle Maremme e chiesto ad un familiare se poteva inchinare 22 vostra signoria, mi fu risposto di no; salutai invece la nobile signora de’ Tolomei. Ella era abbattuta, dimessa e con un bianco lino si asciugava ad ora ad ora 23 le lagrime che le cadevano dagli occhi. Un naturale sentimento di compassione mi fe’ curioso di domandarne la cagione; la sfortunata singhiozzava, e con fioca voce ed a parole dimezzate mi intorbidare: turbare. e chiesto … inchinare: e chiesto ad uno del servizio se potevo riverire. 23 ad ora ad ora: di tanto in tanto. 21 22
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narrò la strana avventura. Nello: — (Con un amaro sorriso.) Per muovere a pietà gli stolidi! Piero: — Ah! signore, se in quel punto vi era dato di vederla, di ascoltarla, io son certo che una lagrima involontaria sarebbe spuntata sui vostri occhi. Ella colle mani prostese 24 al Cielo giurava di essere innocente e ne chiamava Iddio in testimonio; ed io quantunque carico di anni e di disgrazie, non potei fare a meno di piangere. Nello: — (Commosso.) Piangere! Piero: — E poiché mise termine al racconto, rivolta a me disse: « Piero, ah! se avvien che tu lo riveda, tu lo rassicura, tu lo disinganna, tu lo riconduci al fianco della sconsolata Pia. » Nobile signore, non è questo il linguaggio della colpevole; il delitto indura il cuore; ed il pianto scorre solo sulla guancia dell’infelice e dell’innocente. Nello: — (Sempre più commosso.) Ah! fossero pur veri i tuoi detti. 25 Piero: — Verissimi; e se il vostro divieto non l’avesse impedito, ella già sarebbe sui vostri passi per tutta discoprirvi la vilissima trama; ma la severità de’ vostri ordini, la durezza del castellano le vietarono l’uscita. Nello: — Fuggire! Piero: — Ma per disingannarvi, per… (Si ode un lamento nella montagna.) Un lamento lungo la via! Nello: — Sì. (Tremando e dubitando.) 24 25
prostese: protese. i tuoi detti: le tue parole.
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Piero: — E parmi di persona che domandi aiuto! Nello: — (Fra sé.) Cielo! Avess’ella… Piero: — Ma la pioggia cade a dirotto, il vento soffia orribilmente. (Si torna ad ascoltare il lamento.) Nello: — (Risoluto.) Sì, anderò io stesso. Piero: — E dove, signore? (Intertenendolo.) Nello: — A cercare il languente. (Afferrando convulso il suo mantello.) Piero: — Signore, fermatevi. Nello: — No! Piero, un dubbio… Piero: — I vostri giorni sono troppo preziosi. Nello: — No, Piero, lasciami, lasciami in preda al mio avverso destino. (Esce in fretta.) Piero: — (Sulla porta.) Messer Nello, messer Nello, che fate? ove traete? 26 Egli fugge come un lampo, dirige i suoi passi verso la scorciatoia, là dove si ascolta il lamento, già si perde nel buio, io non lo vedo più. — Ah! che il mio animo è combattuto da mille timori; la sua mente è ammalata, travolta; l’ira lo invade; il temporale imperversa… Dio, stendi tu la tua mano in soccorso di questi smarriti. Chi sa quale disgrazia avrà colto il viandante! Questi luoghi montuosi, deserti; la campagna piena di pericoli, d’inciampi; la vicina selva infestata da malviventi. Dio, soccorri tu a chi ha in animo di operare il bene. (Torna sulla porta.) Ma che ascolto? No, non è questo il cader della pioggia sul tetto; non il sibilo del vento; è l’affrettarsi di persona che si avvicina a questo tugurio! Tornasse egli a salvamento dopo aver liberato quell’infelice. Ne riceverebbe da Dio sicura merce26
ove traete: dove andate.
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de. (Dopo di aver meglio guardato.) Ma sì, è desso. 27 (Chiamandolo.) Messer Nello! messer Nello! Nello: — (Di dentro la scena.) Per di qua, cavaliere, per di qua. Piero: — È la sua voce: che sia benedetto. Nello: — Pochi altri passi e siamo arrivati.
Scena terza. Messer Nello sostenendo Messer Ghino ravvolto nella cappa, col cappello tirato sugli occhi, e detto. Ghino: — Io manco! 28 Piero: — Un cavaliere colle tempia insanguinate! Nello: — (Gli toglie il cappello.) Ah! Piero: — Messer Ghino! Ghino: — Sì, Ghino già prossimo ad esalare l’ultimo fiato. Nello: — Ghino! (Prendendolo per la mano.) Ghino: — Nello! Io ti ritrovo. Piero: — (Fra sé.) Qual contratempo! Ghino: — È un giorno da che scorro come un forsennato per tutta la foresta: io sospettai non fossi più tra i viventi. Nello: — (Fremendo.) Morto! Ghino: — Ma tu fremi, e mi fissi sulla persona un occhio di fuoco! Sì, tu ne hai ben ragione. Nello: — Ah! che i detti di Piero si avverano. (Fra sé.) 27 28
desso: lui. Io manco: io vengo meno.
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Ghino: — Ascoltami; ricevi la confessione di un moribondo; in quest’ora non si mentisce. Sì, Nello, non appena mi fu nota la tua indignazione contro della donna meritevole di purissimo amore, che mi cadde dagli occhi la benda: io fremetti all’idea del mio attentato e desiderava troncarne almeno i funesti effetti. Nello: — Finisci, Ghino. (Con ira repressa.) Piero: — Signore, un pronto ravvedimento sana ogni colpa. Ghino: — La mano degli assassini ha compita la tua vendetta. Piero: — Fate animo, signore. Ghino: — Io raccolgo sulle labbra l’ultimo fiato: Pia è innocente, l’incognito 29 fu Ugo. Nello: — Ah! sciagurato! (Fa atto di volerlo uccidere.) Piero: — (Intertenendolo.) Disdice a nobile cavaliere insultare un debole che muore. Ghino: — Io muoio. (Cade.) Piero: — Egli è morto. Nello: — (Guardandolo disperatamente.) Ghino, disgraziato Ghino. La tua iniquità non ha misura. Ah! Piero, salvami da quest’inferno: non mi resta che la disperazione. Pia! ella forse in questo momento già beve al nappo avvelenato. 30 Ella muore: io uccisi un’innocente. (Nell’atto di fuggire incespica sulla porta e cade.)
29 30
l’incognito: lo sconosciuto. al nappo avvelenato: al calice avvelenato.
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Atto quinto Il teatro è lo stesso dell’atto terzo.
Scena prima. Pia sola. Pia: — (Sfinita.) Sono trascorsi tre giorni, tre lunghi giorni di abbandono, di pianto. Ad ogni girar di chiavistello, ad ogni batter di porta credo rivederlo ed in vece mi torna innanzi la sinistra figura del castellano. Io tentai di uscire da questa prigione, correre in traccia di lui e men fu vietato il passaggio. E quale maggiore certezza di essere io caduta in disgrazia del mio signore e che fra breve mi attende la morte! Ecco avverato il presagio di Ugo: « Sta attenta — egli diceva — i nipoti di della Pietra sono gelosi, ed una furia è la gelosia. » E Piero? Egli anche mi ha dimenticata. Quale stato lagrimevole è il mio! Ah! le forze cominciano a mancarmi: estenuata dalla veglia, dal digiuno, dall’ambascia 1 continua, forse non vedrò né anche il dimani. (Siede.)
Scena seconda. Magalotto con un foglio, e detta. Magalotto: — (Fra sé sull’uscio.) Il veleno è dato. Che vengano ora lettere, cavalieri, archibugieri e se la portino in anima ed in corpo. 1
ambascia: angoscia.
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Pia: — Magalotto! Magalotto: — Illustre signora, v’è un foglio. Pia: — E per chi? Magalotto: — Per vostra signoria. Pia: — Ah! fosse di lui! — Porgimi. Magalotto: — (Fra sé.) Avrai un bel aspettare il padrone. Pia: — (Nel vedere la soprascritta.) Ugo! Piero non mi ha dunque abbandonata. — Chi lo ha recato? Magalotto: — Un vecchio da’ grigi baffi. Aveva una cicatrice sulla fronte ed all’abito, al portamento mi è parso un soldato. Pia: — È egli qui? Magalotto: — No, signora: appena me lo consegnò, mi disse di ricapitarvelo sollecitamente, e poi se l’è data a gambe. Pia: — Bene. (Apre la lettera.) Magalotto: — (Fra sé.) Quale premura! Pia: — Ritirati; se qualcuno giunto alle porte del castello darà fiato alla cornetta, che sia subito calato il ponte ed introdotto nelle mie stanze. Magalotto: — Se fossi uno scimunito. — Sarà ubbidita. — Ti accorgerai fra poco qual serpe hai in seno. (Via.) Pia: — (Dopo di aver chiuso l’uscio.) Ah! mio Ugo, da te solo io attendo la mia salvezza. (Legge.) « Sono istruito di tutto: ecco avverati i miei dubbi. Ti rincuora. Resta ancora Ugo per te. Attendimi questa mattina. » — Oggi dunque! Ah! io son salva. Ah! da quanto tempo io desiderava un tal conforto: io già l’ottengo e sì mi ricerca tutte le membra che quasi mi agita, m’inquieta. Sì, la gioia non meno che il dolore,
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se eccedenti, ci rendono infermi. Un brivido mi scorre per le vene, ma è brivido di piacere, di contentezza. Ma quale scalpitar di cavallo sento approssimarsi a questa volta? (Si affaccia al balcone.) No, i miei occhi non s’illudono. Io lo riconosco alla sua bruna armatura. Sì, è lui, il mio Nello, in compagnia di Piero, arrivano sotto il fossato. Magalotto! Magalotto! Già odo la scolta 2 che chiama all’arme. Magalotto! Magalotto!
Scena terza. Magalotto, e detta. Magalotto: — Signora. Pia: — Va, corri, arriva il tuo signore. Magalotto: — Messer Nello! Pia: — Sì, io l’ho veduto entrare nell’atrio del castello; è con lui il solitario Piero. Magalotto: — Maledizione! (Via sollecitamente.) Pia: — (Sulla porta.) Ah! eccolo; come è lieto! Io gli leggo in volto i segni della gioia, del contento; respinge per ogni parte i servi, che gli fanno il debito omaggio, e Piero che a fatica lo segue. Nello, mio Nello!
2
scolta: sentinella.
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Scena quarta. Messer Nello, Piero, e detta. Nello: — (Di dentro la scena.) Magalotto! Magalotto! Pia: — (Sulla porta.) Nello, mio Nello, son qua. Nello: — (Abbracciandola.) Pia, io ti rivedo, io ti stringo un’altra volta al mio seno. Pia: — Sì, io ti ho finalmente riacquistato. Nello: — Pia, ma è questo un sogno. Pia: — No, tu sei fra le mie braccia: fra le braccia della tua amorosa consorte. Nello: — Ma dimmi, sei tu forse ammalata? La sofferta ambascia, 3 la mia lontananza… Magalotto! (Chiamandolo.) Pia: — No, no; io mi sento bene: questo momento mi compensa di tutto. Piero: — Ottima signora. Pia: — Piero, buon Piero, quanto io debbo alla tua generosità. Nello: — Sì, tutto si dee a quest’uomo. Ah! se egli non era, la mia gelosia, te lo confesso, mi avrebbe irreparabilmente perduto. (Guarda sempre d’intorno cercando di Magalotto.) Piero: — Il Cielo non lascia mai di rischiarare la mente de’ ciechi. Pia: — Ma tu sei inquieto, i tuoi occhi si aggirano d’attorno e pare cerchino anziosamente 4 una qualche cosa.
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ambascia: angoscia. anziosamente: ansiosamente.
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Nello: — Sì. — Dio! fa che ella non sia la vittima della mia gelosia! Pia: — Nello! Nello: — Ma dimmi, Ugo dov’è? Pia: — Ah! tu già lo sai? Nello: — Sì, tutto mi disse questo buon vecchio che nulla omise per tirarmi d’inganno. Pia: — Sì, egli verrà questa mattina; in quest’ora medesima; tieni, eccoti un suo foglio. (Gli dà il foglio.) Nello: — E tu lo richiamavi? Pia: — Per disingannarti, per acquietare i tuoi dubbi. Nello: — Se tu me lo dici, io sono abbastanza rassicurato. 5 Pia: — Ma dimmi, e perché in quel giorno, quando cogli occhi pieni di lagrime io ti richiamava per discoprirti l’infernale arcano, 6 perché chiudendo la via ad ogni mio detto… Nello: — Io fuggii, sconsigliato! Piero: — Signora, un fatale giuramento lo legava al segreto. Pia: — Vedi, ah! vedi se i tristi invidiavano alla nostra felicità. Nello, mio Nello, s’è vero che io ho riacquistato l’antico tuo affetto, se in questo momento di riconciliazione, di pace le mie preghiere non ti tornano noiose, fammi una grazia.
5 6
io sono … rassicurato: basta a rassicurarmi. arcano: segreto.
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Nello: — Pia, da questo punto tu comandi al tuo signore. Pia: — Io son donna, io son debole, deh! allontana per pietà, sì allontana quell’uomo, di cui il solo sguardo ci avvelena, ci contamina. Nello: — Quell’uomo! Il tuo voto è stato già esaudito. Pia: — Come! Piero: — Sì, nobile signora, egli ha finito di vivere, e morendo confessava il suo delitto. Pia: — Che! Piero: — Sì, messer Ghino, che acceso per voi d’impuro amore aveva conculcata 7 la più santa amicizia, poiché al vostro virtuoso rifiuto vide spenta ogni speranza, già correva sulle tracce del marito per far nota l’innocenza della moglie. Pia: — Cielo, io ti ringrazio! Piero: — Ma una mano 8 di ladroni o per dir meglio Iddio lo ha colto: egli è morto. Pia: — Morto!
Scena quinta. Magalotto tutto sbigottito fermandosi inosservato sull’uscio, e detti. Magalotto: — (Fra sé, con voce cupa.) Morto! Piero: — Sì. Pia: — Non più dunque una parola di oltraggio per chi non è fra i viventi. 7 8
conculcata: calpestata. mano: manipolo.
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Magalotto: — Io non mi ritrovo più ne’ miei panni! (Fra sé.) Nello: — Pia! ma tu tremi; il tuo volto si scolora; l’annunzio forse della di lui morte… Pia: Sì; Nello, io mi sento male. (Contorcendosi sulla sedia.) Nello: — Pia! (Torna a chiamare.) Magalotto! Magalotto: — (Fra sé.) E come si fa a dirgli che è avvelenata? Piero: — Signora. (Sostenendola.) Nello: — Pia, un freddo sudore già bagna la tua fronte. Magalotto! I tuoi occhi nuotano in un livido… Pia: — (Sempre più contorcendosi.) Ah! Nello… Nello: — (Rivoltandosi e non finendo né anche la parola.) Magalotto. Magalotto: — (Piano a Nello.) Signore, ella è avvelenata. Nello: — Ah! sciagurato! Piero: — Che avvenne? Nello: — Dio! ella è già avvelenata. Piero: — Avvelenata? Nello: — Sì. Ah! perché eseguisti sì pronto i miei cenni? Magalotto: — Signore! (Mostrandogli l’anello.) Nello: — Va, iniquo, t’invola a’ miei sguardi, 9 alla mia collera. (Magalotto fugge.) Pia: — (In ginocchio a’ piedi della moglie.) Pia: — Nello!
9
iniquo … sguardi: malvagio, nasconditi ai miei occhi.
Pia de’ Tolomei. Dramma storico
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Nello: — Tu hai sorbito 10 il veleno. Piero: — E chi a lei lo diede? Nello: — Io, io stesso. Ah! che io sono punito della mia gelosia. Piero, un antidoto, un rimedio… Piero: — Signore, non siamo più in tempo. Pia: — Nello, io muoio; io ti perdono; il tuo amore, la tua stima già riacquistata mi rendono men dura la morte. Nello: — Dio! Piero, un rimedio per pietà. Piero: — Signore, ella spira…
Scena ultima. Un donzello, 11 quindi Messer Ugo. Donzello: — (Sull’uscio.) Messer Ugo. Nello: — Oh! mio rossore! (Covrendosi il volto colle mani. Entra Ugo.) Pia: — Fratello… (Sforzandosi di levarsi in piedi, ed abbracciare il fratello, scusando coi gesti il marito.) Ugo: — Pia! Pia: — Io muoio. (Cade.) Ugo: — Ah! (Un grido disperato.) Ella è spirata!
Fine.
10 11
sorbito: bevuto. donzello: giovane servo.
SALVATORE CAMMARANO PIA DE’ TOLOMEI. TRAGEDIA LIRICA Venezia, 1837
Fig. 5 — Riproduzione del frontespizio di [Salvatore Cammarano], Pia dei Tolomei. Tragedia lirica, Venezia 1837.
Presentazione Dal dramma storico del Bianco deriva la tragedia lirica del Cammarano, il quale introduce alcune importanti innovazioni che nobilitano la figura di Ghino. Il foglio anonimo con cui Rodrigo, fratello di Pia, avverte la sorella della propria venuta, viene consegnato dal servitore non a lei, ma a Ghino che, per vendicarsi di Pia, decide di far conoscere a Nello il prossimo incontro di lei con quello che egli crede un suo amante. Nonostante le precauzioni prese, Nello non riesce a coglierli insieme, sicché, furente, relega Pia nel castello delle Maremme. Qui, mentre Nello torna al campo, giunge Ghino, per chiedere ancora una volta l’amore di lei: dalle parole di Pia, egli apprende che quella notte ella non aveva incontrato un amante, ma il fratello. Pentito per averla accusata innocente, Ghino corre in traccia di Nello che, sconfitto dai guelfi di Rodrigo, si è rifugiato in un eremo; avvertito da Ghino, che vi giunge ferito dai guelfi e morente, Nello vola al castello, dove trova Pia avvelenata dal custode in esecuzione di un suo ordine precedente. Quanto alla data della morte di Pia, il Cammarano la pone alle prime luci del 5 settembre 1260, l’indomani della battaglia di Montaperti, che egli peraltro pare confondere con quella di Colle, perché a Montaperti i ghibellini senesi furono vincitori e non vinti, come invece sarebbe avvenuto nove anni dopo nella battaglia di Colle.
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Nota sull’autore. Salvatore Cammarano nacque a Napoli nel 1801; librettista molto prolifico, scrisse, oltre alla Pia de’ Tolomei, altri trentacinque libretti, tra cui Lucia di Lammermoor per Donizetti ed Il trovatore per Verdi; proprio mentre ultimava la stesura del Trovatore, egli morì, a Napoli, nel 1853. Nota sul testo. Il testo che qui pubblichiamo è tratto da Salvatore Cammarano, Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica in due parti, Venezia, Tipografia di Commercio, 1837; l’opera fu rappresentata a Venezia, nel febbraio del 1837, con musica di Gaetano Donizetti; l’anno successivo, essa fu data a Napoli con un finale lieto: Nello giunge in tempo per salvare Pia.
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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Personaggi Nello della Pietra. Pia, sua moglie. Rodrigo de’ Tolomei, fratello di Pia. Ghino degli Armieri, cugino di Nello. Piero, solitario. Bice, damigella di Pia. Lamberto, antico famigliare de’ Tolomei. Ubaldo, familiare di Nello. Il custode della Torre di Siena. Coro di damigelle, familiari di Nello, guerrieri guelfi, guerrieri ghibellini, romiti. Comparse di soldati senesi, soldati fiorentini, scudieri di Nello, servi di Nello. L’avvenimento ha luogo prima nelle vicinanze di Siena, quindi nella Maremma toscana. L’epoca è dell’anno 1260.
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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Parte prima Scena prima. Sala terrena entro un castello de’ Tolomei. Familiari di Nello. Coro
I. Ancor del fosco notturno velo tutto spogliato non era il cielo, quando ravvolto nel suo mantello segreto messo giunse al castello. II. Fu tratto forse dinanzi a Pia? Nello, il consorte, quell’uomo invia? I. Lo accolse Ubaldo… II. Ei viene appunto!
Scena seconda. Ubaldo, e detti. I. Di’, quel messaggio?… Dal campo è giunto? II. I. Reca novelle tristi, o felici? II. Parla!… I. Disvela!… Ubaldo
Udite, amici. (A voce bassa, ed in tuono misterioso.) Né Pia né quanti le son dappresso denno contezza aver del messo. Crudel mistero colui m’apprese… (Gli altri vorrebbero interrogarlo.) sol debbe a Ghino esser palese. V’allontanate.
350
Coro
SALVATORE CAMMARANO
Fatal messaggio! Fra noi tremendo egli apparì!… Qual di cometa sanguigno raggio che di spavento la terra empì! (Si dileguano.)
Scena terza. Ghino, e detto. Ubaldo
Signor, giungi opportuno. Il mio sospetto
Ghino
forse?… Ubaldo
Divien certezza. Sorpresi un foglio.
Ghino
Di tue cure, Ubaldo, premio condegno avrai. (Ubaldo gli porge uno scritto, ed egli legge.) « Quando sepolto fia nel silenzio della notte il mondo, inosservato per la via del parco a te verrò: l’assenza del tuo sposo abborrito a me concede d’abbracciarti la gioia, e tal mercede soffrir mi fa la vita. » — O Pia mendace! Ov’è il rigor, l’austera virtude ov’è, che rampognar ti fea l’amor di Ghino? Ah! sempre, o fatal donna, separati ne avesse quella tremenda eredità degli avi,
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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la vendetta, il furor, né ghibellino talamo accolta chi nascea di Guelfi, che tanto sventurato or non sarei, né vinto e lacerato da rimorso infernal, d’un mio congiunto la sposa amando! E che risolvi, o Ghino?
Ubaldo Ghino
Chiesi vederla… Oh! se repulse ardisci oppormi ancor, paventa… un detto mio ti perde… Ove trascorro!… Ah! ne morrei da fiera doglia oppresso…
Ubaldo
E tanto l’ami ancor?
Ghino
Più di me stesso. Non può dirti la parola qual desìo m’incalza e punge… La speranza che s’invola nuove fiamme al foco aggiunge. Pia m’abborre, Pia mi fugge… ma non fugge dal mio cor. Ah! l’incendio che mi strugge è delirio, e non amor!
Scena quarta. Bice, e detti. Ghino
Ebben?
Bice
Venirne davanti a lei più non ti lice.
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SALVATORE CAMMARANO
Chi a me lo vieta?
Ghino Bice Ghino Bice
Pia. La cagione? Saper la dei. E Nello, anch’egli potria… T’acqueta.
Ghino
Troppo dicesti! Bice
Nel mio linguaggio ella ti parla: pensavi, e trema. (Parte.)
Ubaldo
Muto rimani a tanto oltraggio!
Ghino
Non ha favella un’ira estrema. (Dopo un momento di riflessione rende il foglio ad Ubaldo.) Rechi all’infida ignoto messo quel foglio…
Ubaldo Ghino
Intendo: riposa in me. Al campo io volo… e Nello, ei stesso, udrà qual onta costei gli fe’. Mi volesti sventurato? Sventurata sarai meco… I miei pianti avranno un eco, il mio duol vendetta avrà.
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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O mio core, o cor sprezzato, gemi indarno in questo petto… dei bandir qualunque affetto che somigli alla pietà. Ubaldo
Sì, tu fosti provocato… sarìa stolta la pietà. (Partono da opposta via.)
Scena quinta. Appartamenti di Pia. Due porte laterali: quella a destra mena alla stanza da letto: altra porta nel fondo, dietro la quale un verone che risponde sul giardino. Bice, e Lamberto. Lamberto
Surse la Pia?
Bice
Surse anzi l’alba, e parmi più dell’usato ancora gemente, irrequieta.
Lamberto
Il suo cordoglio purtroppo è giusto! D’esecranda pugna il dì s’appressa: per lo sposo insieme e pel fratello, armati l’un contro l’altro e di vendetta ardenti, ella tremar dovrà!
Bice
Malvagia etade!… Di sangue cittadin grondar le spade vedremo ancor!
354
SALVATORE CAMMARANO
Lamberto
Di Nello fu prudente consiglio la sposa allontanar dal suo palagio, che scopo fia di militar licenza, se la tremenda oste di Flora 1 irrompe nella cittade.
Bice
E questa rocca, antico de’ Tolomei retaggio, scampo securo estimi tu? Fu dessa
Lamberto
inespugnabil sempre. Lo sventurato genitor di Pia, quando funesta ardea gara civile, qui ricovrò da Siena e l’ira ostile respinse a lungo; ma consunto alfine ogni alimento, per segreto calle (Egli getta come involontariamente uno sguardo sulla parete in fondo.) fuggì, sull’Arno raggiungendo i figli pargoli ancora e la consorte. Io poscia tuttor qui m’ebbi solitaria stanza… Bice
Ver noi la Pia s’avanza.
Lamberto
Io mi ritraggo… Alle sue donne accanto libero sgorghi dell’afflitta il pianto. (Parte pel fondo.)
1
la tremenda oste di Flora: il tremendo esercito di Firenze.
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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Scena sesta. Pia, damigelle, e detta. Dame
(Invitando la Pia a sedere presso il verone.) Qui posa il fianco. È vivida quest’ora del mattino, imbalsamata è l’aura che muove dal giardino: di vaghi fior smaltato ve’ come ride il prato, qui tutto spira e parla celeste voluttà… (È vano! A confortarla uman poter non v’ha!)
Pia
A voi son grata… ma non è quest’alma (Sorgendo smaniosa.) più di gioia capace. Almen di calma
Bice
lo sia… Pia
Trista per me, funerea luce il sol diffonde e l’universo piange!
Bice
Misera!
Pia
In cor se mi leggessi, o Bice, del mio stato infelice maggior pietade avresti!… (Oh! incertezza crudel!… Giunger dovea pria del giorno l’avviso… Al suo fuggir, compro dall’oro, è forse
356
SALVATORE CAMMARANO
un ostacolo insorto?… Della torre il custode potria con empia frode tradirmi?… Ah! no, ché di Rodrigo ei stesso mi fe’ l’arcana prigionia palese. Eppur, donde l’indugio?… Ah! ch’io mi perdo! E fra tante dubbiezze in cui smarrita è la ragion, nel core certo, ah! certo soltanto è il mio dolore! O tu, che desti il fulmine, che al nembo il fren disciogli, le mie dolenti lagrime in tua pietade accogli… Quell’innocente vittima salva e conduci a me. No, tu non puoi respingere chi fida in te, buon Dio… Il voto, che fra i gemiti al tuo gran soglio invio, è puro come gli angeli che stanno in ciel con te.) Bice
Dame
(Geme tutt’or la misera!… Calma per lei non v’è!)
Scena settima. Lamberto, e dette. Lamberto
Pia… (Traendola in disparte.)
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
357
Pia
Che fu?… Smarrito in volto sei Lamberto!…
Lamberto
(Sottovoce.) M’odi. Ascolto.
Pia
Lamberto
(Come sopra.) Tra le querce… accanto al rio… dove il parco è più solingo, accostarsi a me vegg’io un uom tacito e guardingo… Ei gettandomi dappresso questo foglio, in tuon sommesso di recarlo a te mi dice, quindi fugge al par d’un lampo.
Pia
(Pia prende il foglio e l’apre.) (Le sue note… Me felice!… (Dopo aver letto.) Tolto è omai qualunque inciampo!…)
Lamberto
(Osservando il cambiamento dal volto di lei.) (Il tormento a lei dà tregua!)
Pia
(Qui fra poco il rivedrò!…)
Bice
(L’atra nube si dilegua
Dame
che la fronte a Pia velò!)
358
Pia
SALVATORE CAMMARANO
(Di pura gioia in estasi è l’alma mia rapita!… A lui dirò: « Sei libero, io ti salvai la vita!… » E amplessi, e baci, e palpiti confonderemo intanto… e verserem quel pianto che di dolor non è!)
Bice, Lamberto, Dame
(Ella cessò dal pianto! Al ciel ne sia mercé.) (Pia si ritira a destra; gli altri dall’opposto lato.)
Scena ottava. Interno del padiglione di Nello. Nello
Giurai svenarlo, ch’egli ardì col sangue de’ miei congiunti violar la pace da noi giurata, quando a Pia mi strinse sacro legame. Or della morte il ferro gli sta sul capo, e gemo! Gridato fu dal militar consesso nemico della patria… Era concesso al mio pregar soltanto che nel segreto carcere la scure tronchi sull’alba il procelloso corso di sua fatal giornata. Almen la sventurata Pia, che l’ama cotanto, il fine acerbo non udrà del fratello… Qualcun s’appressa…
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
359
Scena nona. Ghino, e detto. Nello?
Ghino
Nello
Ghino!… Tu qui! Mi tragge
Ghino
alta cagion. Nello
Sembri agitato!… È vero…
Ghino
A palesarti orribile mistero, a trafiggerti il petto io venni. Nello
Ogni tuo detto mi fa tremar!
Ghino
Tu n’hai ben donde! — Pia…
Nello
Qual nome profferisti!… e qual mi turba nero sospetto!… No… spirto d’averno lo desta in me… Soccorri (Abbandonandosi fra le braccia di Ghino.) al tuo fratello: dimmi che fida è la consorte… Sgombra, deh! sgombra il mio spavento estremo. (Ghino getta sopra di lui un cupo sguardo, e rimane in silenzio.) Oh silenzio funesto!… Io gelo!… Io tremo!
360
SALVATORE CAMMARANO
È men fero, è meno orrendo il silenzio della tomba. Ghino
Nello
Ghino
Nello
Ghino
Il mio dir fia più tremendo. Ahi!… la morte in cor mi piomba! Infelice! Omai favella. Sei tradito! Il ver dicesti?
Nello
Ghino
Ah! pur troppo! Io fremo!… Ed ella?…
Nello
Ghino
Nello
(Esitante.) Ella… O Ghino, a che t’arresti?
Ghino
È un’infida.
Nello
(Tremante d’ira.) L’onor mio?…
Ghino
D’atra macchia ricoprì!
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
361
Nello
E il tuo fulmine, gran Dio, la spergiura non colpì? (Cade sur uno sgabello. Pausa.) Parea celeste spirito (Sorgendo e con tutta l’effusione del dolore.) ascoso in uman velo!… Per me quel riso angelico schiudeva in terra il cielo!… Il disinganno è giunto! Tutto distrugge un punto!… Il viver mio di lagrime sorgente omai si fé!
Ghino
(Seppi nel cor trasfondergli parte del mio veleno: le mie gelose furie squarciano pur quel seno. È omai scoccato il dardo… ogni rimorso è tardo… Gioia dell’alme perfide io già ti sento in me!)
Nello
(Come colpito da rapido pensiero afferra Ghino per la destra affissandolo acutamente, in guisa di chi cerca per gli occhi scrutare l’animo altrui.) Tu mentisti: un tanto eccesso no, quel cor non ha macchiato.
Ghino
Testimon sarai tu stesso dell’oltraggio a te recato. Come il ciel di luce privo chiami al sonno ed al riposo,
362
SALVATORE CAMMARANO
alla Pia verrà furtivo chi t’offende… Nello
(Con estremo furore.) Andiam!… Fui sposo! Sol, che tardi… Il corso affretta… cedi all’ombre… Ah! m’odi ancor…
Ghino
Nello
Più non odo… Almen…
Ghino
Vendetta…
Nello Ghino
Pria…
Nello
Son cieco di furor. (Qual uomo privo affatto di ragione.) Del ciel che non punisce emenderò l’errore… Già il mio pugnal ferisce, dei rei già squarcia il core… Le palpitanti vittime io premo già col piè.
Ghino
(Sei pago, amor furente? S’appresta orrendo scempio… Le mie virtudi hai spente, m’hai reso un vile, un empio… Gioisci, esulta, o demone,
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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e lei perdesti… e me!) (Nello esce furibondo, seco traendo Ghino per un braccio.) Scena decima. Orrido sotterraneo, appena rischiarato da una tetra lampada: in fondo un rastello di ferro, dietro cui passeggia un uomo d’armi. Rodrigo. Rodrigo
In questa de’ viventi orrida tomba, ove per sempre il raggio tace del giorno, il suon di fioca squilla giunge soltanto; dell’ombroso velo or si ricopre il cielo, e le stelle silenti spargon luce suave… Ah! l’ora è questa arbitra di mia sorte! Fra speranza e timor, fra vita e morte mi balza il cor!… Pavento forse l’estremo fato? No; ma un pensiero!… Ah! pende dalla mia un’altra vita!… Oh dolce suora! oh Pia!… Mille volte sul campo d’onore i perigli più crudi sfidai, mille volte la morte sprezzai, or la temo… ah! la temo per te! S’io cadessi, al pietoso tuo core scenderebbe un acuto pugnale; e dischiusa la pietra ferale non sarebbe soltanto per me!
364
SALVATORE CAMMARANO
Scena undicesima. Custode, e detto. Custode
(Deponendo sur una tavola una brocca d’acqua e togliendone i pochi oggetti che servirono ad imbandire la parca mensa del prigioniero, dice sommessamente, ed in guisa che l’uomo d’armi non possa notare che egli volge la parola a Rodrigo.) Omai l’istante è presso del tuo fuggir. — M’ascolta: del custodito ingresso cangiata fia la scolta; quella che dee succedere compra è da me. — Fa cor. (Egli parte: odesi battere una campana.)
Rodrigo
Il sen mi scuote un palpito ignoto a me finor. (Un momento di silenzio. Comparisce nel fondo un drappello di armigeri: la guardia è cangiata.) L’astro che regge i miei destini (Sfavillante di gioia.) sparge d’intorno nuovo fulgor! Impallidite, o Ghibellini, io riedo al campo… io vivo ancor! (Il custode si mostra sull’ingresso, avvolge Rodrigo in un lungo mantello, gli pone sul capo un elmo, di cui abbassa la visiera, gli porge una spada, ed escono cautamente frettolosi.)
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
365
Scena dodicesima. Appartamenti di Pia, come nella scena quinta. Nello, Ghino, Bice, e scudieri di Nello dalla porta a sinistra. Un doppiere arde sopra una tavola: la porta del verone è chiusa. Bice
Dell’inatteso tuo venir la nuova sarà conforto alla dolente. (Entra nella stanza da letto.)
Ghino
(Agli scudieri.) Udiste? Ascosi fra le piante, ove la notte regna più densa e scura, cautamente vegliate: a queste mura un uom s’avanzerà; libero accesso egli abbia, uscir gli sia vietato. (Gli scudieri partono pel fondo; Ghino serra nuovamente la porta del verone.)
Nello
E tanto deggio aspettar la mia vendetta! Nello,
Ghino
pensa che un detto, un guardo può dell’ordita trama scompor le fila!… Nello
Non temer. Che dei
Ghino
frenarti al suo cospetto… Eccola!
366
Nello
SALVATORE CAMMARANO
Oh! mio furor!… Lo cela in petto.
Ghino
Scena tredicesima. Pia, Bice, e detti. Bice si ritira per la porta a sinistra. Nello Pia
Pia… (Abbracciandola con calma simulata.) Signor…
Nello
Tu sei turbata!… Il tuo cor tremare io sento!
Pia
No… la gioia inaspettata… la sorpresa… (Oh mio spavento!)
Nello
(Empia!)
Pia
Eppur non hai tu stesso un rammarco in volto impresso?…
Nello
Io rammarco!…
Pia
E sdegno… parmi.
Ghino
(Piano a Nello onde esortarlo a rattenersi.) Nello!…
Nello
È ver… giungeva al campo nuova infausta a rattristarmi…
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
nuova tal che d’ira avvampo! Il signor di Roccaforte… Pia
Sigifredo?…
Nello
La consorte sai di quale, e quanto affetto egli amava.
Pia
E riamato…
Nello
No… chiudea l’indegna in petto turpe foco abbominato… Un codardo… un seduttore… vilipeso fu l’onore… Nell’onor son io ferito… (Cieco di rabbia.) Il tuo fallo è noto, è certo… Donna infida m’hai tradito!… M’hai d’infamia ricoperto!… (Avvertito da uno sguardo furtivo di Ghino, ripiega immantinente.) Sigifredo così disse, strinse il brando e si trafisse.
Pia
Ed estinto?…
Ghino
Vive ancora, ma per poco: Iddio lo chiama. Pria che giunga all’ultim’ora, abbracciar l’amico ei brama. (Accenna Nello.)
367
368
SALVATORE CAMMARANO
Pia
(O sospetto!…)
Ghino
E quindi Nello, onde girne al suo castello, trasse innanzi a queste mura… E il vederti, amata sposa, fu mia prima e dolce cura. (Figger gli occhi in me non osa!)
Nello
Ghino
Nello, andiam, che l’ora stringe.
Pia
(Con gioia inconsiderata.) Parti?
Nello
Sì. T’incresce! È ver…
Pia
Nello
Pia
Nello
Troppo m’ami! (Cielo!… ei finge!) Io ti leggo nel pensier! (Ogni sguardo, ed ogni accento manifesta il suo delitto! Il suo nero tradimento come in core, in fronte ha scritto! Taccia ancor… ma più tremenda la vendetta poi discenda… Onor mio contaminato, la rea coppia immolo a te.)
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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Pia
(Egli asconde un rio furore sotto il vel di finta calma! Ah! d’ambascia, di terrore circondata, ingombra ho l’alma!… Odo un gemito… un lamento!… Veggo oggetti di spavento!… Un avello insanguinato par che s’apra innanzi a me!)
Ghino
(Ella ardea di fiamma impura, e scherniva l’amor mio! Di sue colpe la spergiura con la morte paghi il fio… Con la morte? A questo accento fremer l’alma in petto io sento!… Il mio foco dispregiato tutto estinto ancor non è!) (A Nello.) Vieni…
Nello Pia
Sposa… Nello…
Nello
Addio. (Parte seguito da Ghino per l’uscio a sinistra.)
Pia
M’atterrì la sua presenza pel fratello!… In ciel v’è un Dio (Con ristoro.) protettor dell’innocenza. (Chiude la porta a sinistra, ed apre quella del verone.)
370
SALVATORE CAMMARANO
Scena quattordicesima. Lamberto, e detta. Lamberto Pia
Lamberto
Pia
(Nella massima agitazione.) Ah! Signora… Tu, Lamberto!… Deh! che fu?… Si tende al certo un agguato… gente in armi si nascose… (Indicando dalla parte onde è venuto.) Egli è perduto!
Lamberto
Donna! il sangue fai gelarmi! Di’?… non oso… Hai tu potuto?…
Pia
L’uom che attendo è mio fratello…
Lamberto
Egli!… Ciel, che festi! E Nello! Ahi! sciagura!… tardi apprendo… Io potea…
Pia Lamberto
Chi giunge? È desso…
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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Scena quindicesima. Rodrigo, e detti. Rodrigo
Pia… Qual fulmine tremendo!…
Pia
Rodrigo
Che!
Lamberto
(Corre a chiudere la porta del verone.) Respira: è salvo adesso.
Pia
E fia ver?…
Lamberto
Segreta via, donde il padre un dì fuggìa… (Si accosta alla parete in fondo, e rimossa una porta della tappezzeria, scopre un uscio segreto.) Mira.
Pia
Oh gioia!… (A Rodrigo.) Ne minaccia grande rischio, ed incalzante… Esci…
Lamberto Pia
Ah! sì… Fra queste braccia un istante, un solo istante. Il fratel stringendo al petto pianger deggio… e palpitar!
372
SALVATORE CAMMARANO
Rodrigo
Tanto duolo… e tanto affetto mi costringe a lagrimar…
Pia
(Sempre tenendosi l’uno in braccio dell’altro e tergendosi a vicenda le lagrime.) Ah! ne tolse orrenda guerra l’adorato genitore!… Cruda morte di dolore poi la madre c’involò!… Sventurati!… sulla terra solo il pianto a noi restò!
Scena sedicesima. I suddetti, e Nello di dentro. Nello
L’uscio dischiudi, o perfida!
Lamberto
Nello!… Colui!…
Rodrigo
(Odonsi frequenti colpi sulla porta a sinistra.) Non senti?
Pia
Va… Nello
Pia
Traditori! (Rodrigo, fremente di rabbia, pone la mano sull’elsa, ma viene trattenuto da Lamberto.) Ahi misera!… Che indugi omai?… che tenti?…
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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Rodrigo
Egli osa provocarmi!… Io voglio…
Pia
Ah! tu vuoi farmi spirar d’angoscia, o barbaro, e di terror… (Intanto, soccorsa da Lamberto, ha condotto Rodrigo presso l’uscio segreto.)
Scena diciassettesima. Nello, Ghino, e detti. Ch’io sveni
Nello
entrambi… (Prorompendo dalla porta spalancatasi, con pugnale denudato.) Pia
Nello
Ah! fuggi… (Rovescia il doppiere nel punto istesso in cui Nello entra.) Oh rabbia!…
Ghino
Ubaldo? Ubaldo?
Lamberto
(Piano a Rodrigo e uscendo per l’uscio segreto, e tosto si rinchiude.) Vieni… di lei pietade…
Pia
Orribile sul cor mi piomba un gel!…
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SALVATORE CAMMARANO
Scena diciottesima. Servi con altri doppieri, Ubaldo, familiari, damigelle, uomini d’armi. Bice, e detti. Nello
Fuggì quel vil!…
Ghino
Raggiungasi… (Molti uomini d’armi escono pel fondo.)
Nello
(Scagliandosi, per uccidere la Pia.) Mori… T’arresta… (Disarmandolo.)
Ghino, Familiari
Bice, Dame
Oh ciel!… (Tutti insieme.)
Nello
Son ebbro di sdegno… respiro veleno, non sangue, ma foco mi scorre nel seno… Quel ferro mi rendi… L’iniqua s’uccida… parola di calma non giunge al mio cor… Egli ode soltanto la voce che grida: sterminio tremendo, vendetta, furor.
Ghino
Quell’ira bollente per poco raffrena…
Familiari
Per poco sospendi la giusta sua pena…
Ubaldo
Pria vegga l’indegna spirar quell’ardito e senta le vene gelarsi d’orror;
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
375
poi tutto grondante del sangue abborrito, il ferro di morte le immergi nel cor. Ah! m’odi… raffrena quell’odio feroce… Per lui di ragione è muta la voce!… In terra sprezzato, al trono di Dio il grido s’innalzi d’un misero cor… Qui sangue si chiede; ah! versino il mio, ma basti… ma plachi un empio furor. Bice, Dame Ei d’ira è furente… non ode consiglio… ha in petto l’inferno, la benda sul ciglio! Ah! fuggi… sottratti al fero consorte… non vedi ch’egli arde d’insano furor? Le pende sul capo sospesa la morte! O notte funesta!… oh! scena d’orror! (Pia sviene, intanto che Nello è condotto altrove.) Pia
Fine della parte prima.
376
SALVATORE CAMMARANO
Parte seconda Scena prima. Accampamento dell’esercito fiorentino, presso una porta del sobborgo di Siena. Coro di guerrieri, indi Rodrigo e Lamberto. Coro
Cinto di rosse nubi, sorgi, deh! sorgi, o sole: vieni a mirar se prole non siam d’Italia ancor! Col lampeggiar dell’armi, col fero suon di guerra t’invoca l’alma terra che madre è del valor! Sorgi, e vedrai gremito, come di tronche biade, il suol di lance e spade, tinti di sangue i fior!
Lamberto
Rodrigo…
Rodrigo
Lamberto
Chi vegg’io!… Tu qui!… Pur giungo, pur giungo al tuo cospetto! Ben dieci lunghi giorni palpitar mi fu d’uopo, e vincer guerra di rinascenti ostacoli. Son io (Ad un cenno di Rodrigo i guerrieri si ritirano.) apportator di trista nuova.
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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Oh! Dio!…
Rodrigo
Che avvenne? Lamberto
Al tuo fuggir, Nello, fremente di cieco sdegno, a trucidar la sposa il ferro alzò… Perverso!…
Rodrigo Lamberto
Rodrigo Lamberto Rodrigo
A lui sottratta fu l’innocente, ma del crudo in seno l’ira non tacque: gemebonda, oppressa, vota di sensi, quella notte istessa nella Maremma trascinar la fece, ove tra i morti stagni aura letal si beve, or che infuocati raggi saetta il dì: nel suo funebre castello, a Pia dell’inumano un cenno prigion dischiuse acerba, ed ivi… (Con orrore.) Che? Forse… a morir la serba. Ahi! sì barbara minaccia di spavento il cor m’agghiaccia! Fosco il sole, e tolta parmi la favella, ed il respir!… Se costar doveano a lei tante pene i giorni miei, rio destin perché non farmi
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SALVATORE CAMMARANO
cento volte pria morir? (Squillo di trombe, e movimento nel campo; tutto come segue.) Lamberto Rodrigo
Lamberto Rodrigo
Oh! qual tumulto!… Squillano le trombe in suon di guerra!… Duci e guerrieri accorrono!… Rimbomba e cielo e terra!…
Scena seconda. Seguaci di Rodrigo, e detti. Seguaci
Signor… Che fu?
Rodrigo
Prorompono
Seguaci
ad inattesa pugna l’orde nemiche… Affrettati, l’acciar temuto impugna. Lamberto
Oh! fero giorno!…
Rodrigo
Traggasi quel vecchio in securtà. (Alcuni scudieri partono con Lamberto.)
Seguaci
Vieni…
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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(A Rodrigo. — Vedesi nel fondo l’esercito fiorentino marciare affrettatamente.) Rodrigo
Tremenda folgore il brando mio sarà. A me stesso un Dio mi rende… Corro all’armi… alla vendetta… i tuoi nodi, o Pia diletta, io tra poco infrangerò. Questa brama il cor m’accende, non desìo di falsa gloria… pel cammin della vittoria al tuo seno io volerò.
Seguaci
Foco d’ira il cor n’accende… sangue a flutti spargeremo… Ghibellini, al fato estremo nulla omai sottrar vi può. (Partono velocemente.)
Scena terza. Vecchia sala d’armi nel castello della Maremma: ingresso nel fondo, due porte sui lati: una di esse mette alla prigione di Pia. Ghino, ed Ubaldo. Ubaldo
Ghino Ubaldo
Tu, Ghino, alle Maremme! Ah! di’: la Pia?… Geme fra quelle mura, e si distrugge per lenta febbre.
380
Ghino
SALVATORE CAMMARANO
Ho d’uopo vederla, Ubaldo… qui la traggi. (Ubaldo entra nella prigione di Pia.) Ancora sull’adorato labbro starà l’oltraggio e la repulsa? O vinta dalla sciagura?… Fra la speme ondeggio, e fra il timor.
Scena quarta. Pia, e detto. Pia Ghino
Chi veggio!… L’uomo che salvarti e vuole, e può. Tu!… Come?
Pia Ghino
All’amor mio t’arrendi, e pronta fuga…
Pia
Taci, lingua d’averno… Chi sono io scordasti?
Ghino
(Con disprezzo.) E chi sei tu?
Pia
(Dignitosamente.) La sposa di Nello.
Ghino
Infida sposa.
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
Pia
Ghino
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Io!… Non tradisti il tuo dover, l’onore?… In quella orribil notte un seduttore non accogliesti?…
Pia
Ghino
Ciel!… Che dici!… Accolsi Rodrigo, il fratel mio… Donna… fia vero!…
Pia
Crudele inganno!… Ah! dunque spergiura anch’ei, Nello, m’estima?… E quanto credei furor di parte, era gelosa rabbia!… Il fosco nembo, che intorno a me ruggìa, sparisce!
Ghino
(Abbassa la fronte, e rimane alquanto silenzioso, come persona che medita a qual partito attenersi.) Odimi, o Pia. Per sempre dai viventi di Nello un cenno ti separa, e Nello sveller giurò dalla sua fronte i rai anzi che più vederti: Ubaldo è schiavo del mio voler: tu sei già nella tomba; dalla tomba Ghino sol può sottrarti, ed egli t’offre il suo core… o morte.
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SALVATORE CAMMARANO
Iniquo!…
Pia
Scegli.
Ghino Pia
Morte o colpa? Tu ben sai la mia scelta. Forsennata!…
Ghino
Scegli?… Pia
Morte.
Ghino
Ah! tu morrai dalle genti abbominata… e l’infamia un negro velo sul tuo nome stenderà.
Pia
Benedetta e pura in cielo il Signor m’accoglierà. De’ miei giorni tronco il corso fia tra poco… ah! pensa, o Ghino, quale in cor ne avrai rimorso!
Ghino
(Ahi! tormento!…)
Pia
Errar vicino uno spettro ti vedrai… il mio spettro!…
Ghino
Taci… (Ahimé!) (Ghino raccapricciato: Pia cangia il tuono severo in quello della più commovente pre-
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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ghiera, giungendo le palme e cadendo genuflessa innanzi a lui.) Pia Ghino Pia
Deh! ti cangia… Ciel!… che fai?… Tu prostrata innanzi a me! Ti muova il gemito dell’innocente… la prece ascolta d’un cor morente; sorga del fallo in te l’orrore, rendimi, ah! rendimi vita ed onore… e la tua colpa fia cancellata, ed io col Cielo perdonerò.
Ghino
(Mi scende all’anima il suo lamento a ragionarvi di pentimento! Potrei lasciarla fra le ritorte in braccio a lunga, terribil morte, e senza colpa disonorata?… No, tanto perfido il cor non ho.)
Pia
Ah! nel tuo seno atroce non giunge la mia voce!… Addio… (Avviandosi alla sua prigione.)
Ghino
(Nella estrema commozione.) T’arresta…
Pia
Oh! giubilo!… Veggo negli occhi tuoi… (Ghino cerca nasconderle il volto.)
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SALVATORE CAMMARANO
La mal frenata lacrima invan celar mi vuoi. Ghino
Donna… Perché t’arresti?…
Pia
Finisci… Ghino
Pia Ghino Pia
Ah! sì, vincesti… Corro a squarciar le tenebre d’inganno sì fatale… Corro di Nello a spegnere l’ira crudel, mortale… Quindi a me stesso in core un ferro immergerò. Che dici!… qual furore!… Omai decisi. Ah! no.
Ghino
Può la mia fiamma estinguersi col viver mio soltanto… Meglio morir, che vivere in disperato pianto… Ah! sul mio freddo cenere spargi talvolta un fiore… a chi negasti amore concedi almen pietà.
Pia
Sgombra sì nere immagini…
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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a Dio solleva il core, e forza avrai per vincere un condannato amore. Scosso dal reo delirio, alla virtù rinato, raggio del ciel placato il viver tuo sarà. (Ghino parte; Pia si rende alla sua prigione.)
Scena quinta. Ubaldo. Egli viene dalla carcere di Pia, e ne rinchiude la porta. Si avanza uno scudiere, gli porge un foglio, ed esce. Ubaldo legge. Ubaldo
« Divamperà tremenda oggi la guerra, ed io spento sul campo forse cadrò. Non voglio che alla pena fuggir possa la colpa; quindi, se rivocato il cenno mio non è sin che biancheggi l’alba del dì novello, mora la Pia, mora, lo impongo. — Nello. » (Resta cogitabondo, qualche istante, poi volge un guardo dove entrò Pia, e si ritira dall’opposto lato.)
Scena sesta. Atrio d’un eremitaggio: a traverso dell’intercolunnio si veggono le incolte lande della Maremma. La notte è inoltrata, il cielo è nerissimo, ed imperversa una tremenda bufera. Piero, ed altri romiti.
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SALVATORE CAMMARANO
Tutti
Il mugghiar di sì fera procella par del Cielo funesta minaccia: par di Dio la tonante favella quando all’empio la colpa rinfaccia! No, giammai più terribile guerra il creato sconvolto non ha! (Si prosternano.) Divo Spirto, il cui sguardo penetra ogni via degli abissi profondi, al cui cenno raggianti per l’etra l’ampio giro descrissero i mondi, ah! placato sorridi alla terra, e del nembo l’orgoglio cadrà.
Piero
(Sorgendo, e seco gli altri.) Un calpestio di rapidi cavalli, fra il sibilar de’ venti, l’udito mi colpì. (Mettendosi presso la soglia con un fanale sospeso nella destra.) Qualunque sia che dal furor di sì malvagia notte cerchi un asil, qui tragga il passo errante.
Scena settima. Nello, con seguaci e detti. Piero…
Nello
Io non traveggo!
Piero
Nello!
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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Nello
Sconfitte dal nemico brando fur di Siena le squadre, e strascinate pel campo, entro la polve di Manfredi le insegne… Al mio castello movemmo, e l’orme nostre seguìa dappresso un folto stuol repente di Guelfi… l’uragano, e la sorgente notte ad essi ne tolse… I giorni miei deggio alla fuga!… Oh! rabbia!
Piero
Gli ardenti spirti acqueta; ed al voler t’inchina di Lui, che a torto non punisce. (Con grave accento.)
Nello
O vecchio, una parola onde ferirmi hai detta!
Piero
Di tua crudel vendetta il grido risuonò: viva sepolta fu la tua sposa… Io di quell’alma, o figlio, i più riposti affetti conosco appieno, ché la tenni al seggio ove il mortal riceve de’ falli suoi perdono. A me t’affida: rea di nefando eccesso non è la tua consorte.
Nello
Solo un istante dubitar vorrei dell’onta mia; darei per quell’istante mille vite. Ahi! cruda certezza ho della colpa!…
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SALVATORE CAMMARANO
Pietà sì viva di colei tu senti? E pietade non hai de’ miei tormenti? (Gettandosi nelle braccia di Piero con abbandono di dolore.) Lei perduta, in core ascondo una serpe… un dardo acuto… Per me tomba è fatto il mondo; parmi il ciel aver perduto. Ah! la perfida consorte io detesto… ed amo ancor!… D’ogni strazio, d’ogni morte la mia vita è assai peggior! (Si ode uno strepito d’armi, quindi un grido lamentevole.) Fragor di spade!… Un gemito!…
Piero
Nello
Si corra…
Scena ottava. Ghino, e detti. Egli è ferito mortalmente: si avanza a lenti passi, ed appoggiandosi alla spada. Tutti tranne Ghino
Nello
Oh! Ciel!… Tu, Ghino!…
Piero e Coro
Scena funesta, orribile!…
Ghino
Compiuto è il mio… destino…
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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Nello
Ahi!…
Ghino
Mi svenò… drappello di Guelfi… E d’onde?…
Nello
Ghino
O Nello… mi tragge… a… te benefica, celeste man… La Pia non è… non è colpevole…
Nello
Fia vero!… E l’uom che ardìa Venir fra l’ombre avvolto?…
Ghino
Era… il fratel… Che ascolto!
Nello
Ghino
Lei salva… ed il mio… cenere non maledir… l’amai… fui dispregiato… e… perderla entro al mio cor… giurai…
Nello
O Pia… Malvagio… (Mettendo la mano sull’elsa.)
Piero e Coro
Arrestati…
Il Ciel ti vendicò. Ghino
Io muoio… deh! perdonami…
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SALVATORE CAMMARANO
(Supplichevoli a Nello.) Signor…
Piero e Coro
Ghino
Per… do… (La sua parola tronca dall’ultimo singulto: Nello protende la destra sul di lui capo, in atto di perdono.)
Piero e Coro
Spirò!
Nello
Dal mio ciglio è tolto un velo!… Sì, Rodrigo… in campo egli era!… Ed il foglio!… ed ella!… Oh! Cielo!… (Alla sua gente d’armi.) Mi seguite…
Piero
Ah! trista e nera è la notte… i nembi orrendi imperversano tuttor… qui soggiorna, e l’alba attendi…
Nello
(Come tocco dal fulmine.) L’alba!… l’alba!… Oh! mio terror! (Preso da tremito convulso, e con prorompimento di lagrime.) Dio pietoso, un cor ti parla pien d’angoscia e di spavento… Tu soltanto puoi salvarla… opra, o Nume, un tuo portento… Ah! quell’angelo d’amore serbi a me la tua pietà. E l’inferno che ho nel core ciel di gioia diverrà.
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
Piero
(Onde in lui cotanto orrore!…)
Coro
(Quale arcano asconderà?) (Nello parte precipitosamente; i di lui guerrieri lo seguono.)
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Scena nona. Prigione di Pia. Sull’alto una finestra con spranghe di ferro: scala in fondo, alla cui sommità la porta. Pia seduta sur uno sgabello, con la testa appoggiata ad una rozza tavola: ella è immersa in torbido sopore, pallida n’è la fronte, difficile è il respiro, e sovente un tremore agita le sue membra. Ubaldo viene dalla scala, rilegge tacitamente il foglio di Nello, alza gli occhi alla finestra, albeggia: egli si trae dalle vesti una ampolla, e ne versa il licore entro una tazza colma d’acqua, che sta sulla tavola.
Ubaldo
A questo nappo beverà tra poco il tuo labbro assetato, e dormirai ben altro sonno!
Pia
Eterno Dio! (Con grido acutissimo e balzando in piedi spaventata.) Respiro… Il mio pensier deliro creò nel sonno immagini feroci! A questo sen pentito (Come riandando ciò che le parve in sogno.) il consorte io stringea… quando nel fianco
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SALVATORE CAMMARANO
l’acciaro insidioso gl’immerse un Guelfo… a’ piedi miei lo sposo cadde spirando: balenò sanguigno un infernal sorriso dell’omicida in volto… ed era il volto di Rodrigo! Frattanto, spaventevole a dirsi! la morta spoglia alto levossi, e forme vestì di truce dèmone!… Gli artigli nell’uccisor figgendo, mise un urlo tremendo, e con la preda si lanciò nell’imo de’ spalancati abissi!… Orribil sogno!… Ah! la febbre cocente più cresce!… atroce sete mi divora!… (La coppa fatale si presenta al di lei sguardo, ed ella vi stende ansiosa la mano. Ubaldo rimasto sempre indietro fa un moto, quasi involontario, per trattenerla, ma ristà immantinente. Pia beve.) Ubaldo
(Meglio è penar brev’ora, e poi riposo eterno! Al dì novello respirar più liete aure mi fia concesso.)
Pia
(Abbandonandosi a sedere.) Ah! La pietade, o Ghino, l’ale impenni al tuo corso… E tu vien, crudel che amai cotanto, a rasciugar d’un’infelice il pianto. Sposo, ah! tronca ogni dimora…
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
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al mio sen deh! vola, o Nello; dimmi: « T’amo… » ed all’avello questo accento mi torrà. Ah! la Pia, se indugi ancora, preda fia d’acerba morte, ed al bacio del consorte più risponder non potrà.
Scena decima. Nello con seguaci e detti. Nello
Pia Nello
(Ancor dentro.) Pia? La voce!… (Come sopra.) Sposa?… Pia?…
Pia
Ubaldo Nello
Pia Nello Pia
Egli!… Ah! dunque i miei sospiri Cielo udisti!… (Ahimè! che fia!…) Non vaneggio!… Tu respiri!… Gioia immensa!… Rea non sono… Sì, m’è noto… Il tuo perdono… (Volendo inginocchiarsi.) (Abbracciandolo.)
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SALVATORE CAMMARANO
Al mio sen… Gran Dio!… non reggo all’eccesso del contento… tremo… agghiaccio… nulla veggo… Nello? Nello
Pia!… (Adagiandola sopra lo scabello.) Mancar mi sento…
Pia Nello
(È compreso da un atroce sospetto: i suoi occhi si rivolgono a Ubaldo che in preda al terrore cerca d’involarsi.) Che facesti, sciagurato?
Ubaldo
(Gettandogli innanzi ai piedi il di lui foglio.) Surse il dì, né rivocato fu quel cenno…
Nello
(Con orrenda ansietà.) Ebben?…
Ubaldo
(Esitante.) Le porsi…
Nello
Parla, o crudo… (Odesi un procedere di passi concitati, e voci di spavento che gridano.) I Guelfi!…
Nello
Parla.
Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica
Ubaldo
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Un veleno. (Nello alza un grido disperato.)
Scena ultima. Rodrigo seguito da una schiera di Guelfi, e detti. In tempo corsi
Rodrigo
a salvarti… A vendicarla.
Nello
Io la uccisi. Che!…
Rodrigo Nello
Nel seno ella chiude un rio veleno…
Rodrigo
Ah!… (Scagliandosi per trucidar Nello.)
Nello
Ferisci.
Pia
(Raccogliendo le sue ultime forze, e cadendo a pie’ di Rodrigo.) No… che fai?
Rodrigo
Donna…
Pia
Colpa in lui non è… sposa infida… gli sembrai… un rival credeva… in te.
396
SALVATORE CAMMARANO
(Rodrigo resta immobile atteggiato d’estremo dolore. Ella si volge ora allo sposo, ora al fratello nell’ambascia degli estremi aneliti.) Ah! di Pia… che muore… e geme se pietà… vi… scende in petto… fine all’odio… un santo affetto l’alme vostre… unisca… ognor… E per me… versate insieme… qualche… lagrima… talor… (Tutti piangono amaramente: la spada fugge di mano a Rodrigo. Nello si precipita fra le sue braccia, ed una lagrima di gioia spunta negli occhi di Pia.) Or la morte… a cui… son presso… non ha duol… non ha spavento… è un sorriso… di contento… è del giusto… la mercé… Da quel caro… e santo amplesso incomincia… il… ciel… per… me… Rodrigo
Pia!…
Nello
Consorte!… (Ella spira fra le loro braccia.) Agli occhi miei
Rodrigo, Nello
fosco vel ricopre il dì!… Coro
Ella è spenta, ma per lei Non la tomba, il ciel s’aprì! Fine.
CARLO MARENCO LA PIA. TRAGEDIA Torino, 1837
Fig. 6 — Riproduzione del frontespizio di Carlo Marenco, Tragedie, I, Torino 1837.
Presentazione Negli stessi anni in cui a Napoli appaiono il dramma storico del Bianco e la tragedia lirica del Cammarano, a Torino va in scena la tragedia in endecasillabi sciolti di Carlo Marenco che in parte si attiene al poemetto del Sestini ed in parte introduce alcune innovazioni strutturali. Queste innovazioni sono evidenti soprattutto negli ampi dialoghi tra i personaggi che, se da un lato sono suggeriti dal diverso genere letterario, dall’altro approfondiscono in maniera significativa la dimensione psicologica del dramma. Così, mentre segue il Sestini nel presentare Pia come vittima innocente di una calunnia d’amore e nel farla morire di malaria in un solitario castello maremmano, il Marenco se ne allontana invece nel mostrare che Rinaldo, il marito di Pia, fin dall’inizio diffida di lei, tanto che, partendo per la guerra, ne affida la custodia al proprio amico Ugo, il vendicativo amante respinto ed umiliato, che un giorno egli aveva riscattato dalla prigionia e che nella tragedia morirà, non per i morsi di un lupo feroce, come invece avviene nel Sestini, ma per le ferite da lui riportate in duello con il padre di Pia: un duello che rappresenta una novità assoluta, simile a quella per cui Pia e Rinaldo hanno una figlia bambina. Anche nella datazione il Marenco segue il Sestini e pone la tragedia di Pia in connessione con la battaglia di Colle (8 giugno 1269); ma, a differenza del Sestini, egli identifica Rinaldo con Provenzan Salvani, il signore ghibellino di Siena che proprio a Colle venne sconfitto, ucciso e decapitato dal guelfo Cavolino dei Tolomei.
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Nota sull’autore. Dopo aver compiuto studi di giurisprudenza, Carlo Marenco da Ceva (1800–1846) si dedicò interamente alla letteratura, scrivendo diverse tragedie di argomento storico, la migliore delle quali è proprio La Pia. Tradotta in francese, spagnolo, tedesco, e rappresentata anche in America, questa tragedia del Marenco fece conoscere anche fuori d’Italia il nome di Pia da Siena e fornì la trama di base ai molti film che dai primi anni del Novecento fino alla metà del secolo ne riprendono la vicenda. Nota sul testo. Il testo che qui pubblichiamo è tratto da Carlo Marenco, Tragedie, I, Torino, G. I. Reviglio e figlio librai, 1837. Questa tragedia del Marenco è stata tradotta in francese: Pia des Tolomei, tragédie en 5 actes, en vers, de Charles Marenco, Paris, Michel Lévy frères, 1855; in tedesco: Pia, Trauerspiel in 5 Akten, von Carl Marenco, Paris, Morris, 1856; in spagnolo: Pia de Tolomeo, tragedia en 5 actos, de Carlos Marenco, traducida libremente al castellano, Paris, Thunot, 1857. Questa tragedia costituisce anche il punto di riferimento principale per i film che nel corso del Novecento sono stati dedicati alla Pia (1908; 1910; 1921; 1941; 1958), sui quali vedi Mauro Civai, E detto si sarìa: « parlan costoro ». Multimedialità novecentesche della Pia, in Pia de’ Tolomei. Una leggenda romantica, Torino, Umberto Allemandi, 1998, p. 68–70.
La Pia. Tragedia
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Prefazione La Pia de’ Tolommei, bellissima gentildonna sanese, maritata in Nello della Pietra cittadino di Siena, e possente barone in Maremma, 1 nel fior dell’età scomparve improvvisamente di mezzo ai viventi, e il modo, e la cagione della sua morte sono coperti di dense tenebre storiche. In ciò concordano le tradizioni tutte, che l’ultim’ora le venisse affrettata per opera del marito vendicatore di una vera, o falsaNota del Marenco: « Benvenuti Imolensis Comment. in Dantis Comm. ad Cant. V. pag. 1162. » — Il testo a cui il Marenco rinvia è il Commento sulla Commedia di Dante di Benvenuto Rambaldi da Imola, il quale, commentando i versi che Dante, Purgatorio, V, 130–136, dedica a Pia, scrive, in latino, un passo che qui traduciamo in italiano: « Ed affinché la scrittura presente sia più chiara, bisogna anzitutto sapere che questa anima fu una certa nobile signora senese della stirpe dei Tolomei, la quale fu moglie di un certo nobile milite, il quale fu chiamato signor Nello dei Pannocchieschi di Pietra, il quale era potente nella Maremma di Siena. Accadde dunque che una volta, mentre avevano cenato, e questa signora se ne stava per proprio sollievo ad una finestra del palazzo, un certo donzello, per ordine di Nello — non so a causa di quale sospetto —, prese questa signora per i piedi e la precipitò attraverso la finestra, sicché essa morì immediatamente. E da questa morte crudele nacque un grande odio tra il detto signor Nello ed i Tolomei parenti della stessa signora. » 1
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CARLO MARENCO
mente creduta, od anche perfidamente supposta infame colpa di lei: 2 in que’ tempi, in cui la forza individuale quella delle leggi di gran lunga vincea, siffatta violenza d’un uomo potente, qualunque si foss’ella, rimase impunita. 3 I pochi versi di Dante, che accennano a questa catastrofe, pel loro laconismo 4 creder fanno, o che presso ai contemporanei stessi fosse la medesima, rispetto ai motivi, un arcano, o ch’egli commiserando alla femminea debolezza, come già quella dell’ariminese, 5 così la morte della Nota del Marenco: « Vedi l’illustrazione degli ultimi quattro versi del Canto quinto del Purgatorio nel commento del P. Baldassarre Lombardi, edizione di Padova 1822. » — Il testo a cui qui il Marenco rinvia è La Divina Commedia di Dante Alighieri col commento del p. Baldassarre Lombardi M. C. ora nuovamente arricchito di molte illustrazioni edite ed inedite, Padova, Tipografia della Minerva, 1822. 3 Nota del Marenco: « Da nessuno scrittore rilevo, che l’omicidio di Nello sia stato punito. Tomasi (stor. di Siena lib. VII.) sta contento al dire che l’insolenza del medesimo diede materia di gravi ragionamenti. » — Nella edizione a stampa di Giugurta Tommasi, Dell’historia di Siena, Venezia 1625, libro VII, per gli eventi del 1295, p. 138, si legge: « Diede anchora quest’anno nuova materia di gravi ragionamenti l’insolenza di Nello da Pietra, il quale avendo, senz’altra cagione averne, uccisa Pia Tolommei sua donna, s’era proposto di farsi moglie la contessa Margherita, la seconda volta rimasta vedova; ma caduto di quella speranza e gettatosi alla disperazione, tentò di vituperarla. » — La contessa in questione è Margherita Aldobrandeschi di Soana (1254 – dopo il 1213). 4 pel loro laconismo: per la loro brevità. 5 L’ariminese è Francesca da Rimini, protagonista, insieme al cognato ed amante Paolo, della tragica storia d’amore narrata da Dante, Inferno, V, 73–142. 2
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sanese donna volesse d’un pietoso e pudico velo adombrare. Né siavi pertanto chi di rilassata morale accusi il poeta: ché altro si è la malizia di chi tenta, infiorandole, scemar bruttezza alle colpe; altro la modestia di chi, sapendo quant’arduo sia il sentiero della virtù, compatisce fraternamente a chi cade. Dall’aver Dante collocata nel Purgatorio e non già nell’Inferno la Pia, sembra, considerando l’inflessibil giustizia di quel severo, sembra dico, a prima giunta ch’egli del supposto peccato la riputasse innocente. Ma a chiunque rifletta, ch’essa trovasi accompagnata a quell’anime negligenti, che il pentimento delle gravi lor colpe fino all’estremo della vita procrastinarono, 6 sarà forza convincersi che rea dal medesimo fosse tenuta. 7 E veramente quando all’idea di donna si associa l’idea indeterminata di colpa, a quella colpa tosto ricorre il pensiero, che nel suo sesso è la più vergognosa, e nel giudizio di molti la più degna di compatimento. Poiché se il giglio, perduto il candore, ogni suo pregio ha perduto, chi vorrà non compiangere alla sorte d’un fiore, cui natura per tutto pregio diede un candor sì dilicato e fugace? Tornando ai citati versi dell’Alighieri, da ciò che la Pia s’aggira nel Purgatorio co’ peccatori, che di vioNota del Marenco: « “Noi fummo tutti già per forza morti, / e peccatori infino all’ultim’ora: / quivi lume del Ciel ne fece accorti / sì, che, pentendo e perdonando, fuora / di vita uscimmo a Dio pacificati, / che del disio di sé veder n’accuora”. Ivi. » — Questi versi sono tratti da Dante, Purgatorio, V, 52–57. 7 sarà forza… tenuta: bisognerà convincersi che essa fosse ritenuta colpevole dal medesimo Dante. 6
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lenta morte perirono, convien, parmi, inferirne, 8 che tal sia stata la forma del suo supplizio, che spazio alla conversione le concedesse. Infatti, comunque un istante basti nel cuor umano al concetto d’un espiatorio dolore, 9 pure l’infelice Francesca, che colta dal marito in atto disonesto, fu da quello con subito colpo tolta di vita, non esitò il poeta a porla fra gli eternamente dannati. 10 Non correva dunque voce a’ tempi di Dante, né che un paggio per comando del suo signore mandasse capovolta giù dal balcone la Pia, 11 né che il geloso consorte, trattala seco 8 9
convien, parmi, inferirne: si deve, mi sembra, concluderne. al concetto … dolore: per concepire un dolore di espiazio-
ne. Dante, Inferno, V, 73–142. Nota del Marenco: « “Accidit ergo, quod dum semel coenasset (Nellus), et ista Domina (Pia) staret ad fenestram palatii in solatiis suis, quidam domicellus de mandato Nelli cepit istam Dominam per pedes, et praecipitavit eam per fenestram, quae continuo mortua est.” Benven. Imol. loc. cit. — Il Postillatore del Codice Caetano con poco diverse parole dice lo stesso: “Ista fuit la Pia nobilis Domina de Tholomeis de Senis, et uxor Domini Nelli de Petra de Panoteschis in maritima, quae cum staret ad fenestram per aestatem, maritus eius misit unum famulum, qui coepit eam per crura, et proiecit deorsum, propter suspectum, quem habuit de ipsa, et ex hoc ortum est magnum odium inter illas domos” . » — Questi due commenti, concordi nel sostenere la defenestrazione di Pia, possono essere tradotti così: 1) « Accadde dunque che una volta, mentre (Nello) aveva cenato e questa signora (Pia) per proprio sollievo se ne stava ad una finestra del palazzo, un certo donzello, per ordine di Nello, prese questa signora per i piedi e la precipitò attraverso la finestra, sicché essa morì immediatamente. » 2) « Questa fu la Pia, nobile signora dei Tolomei di Siena e moglie del signor Nello della Pie10 11
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in Maremma, la facesse quivi per mezzo de’ suoi sergenti o col laccio, o col ferro perire: 12 ma il dir che Maremma la disfece, sembrami un’evidente allusione a quella lenta e dolorosa fine, cui l’aria pestilenziale, e il dolore di vedersi abbandonata dovevano finalmente condurla. Né qui mi s’opponga il titolo di pectra dei Pannocchieschi in Maremma, la quale mentre per l’estate se ne stava alla finestra, il marito di lei — per un sospetto che ebbe su di essa — mandò un servo che la prese per le gambe e la gettò di fuori, e da questo nacque grande odio tra quelle case. » 12 Nota del Marenco: « “Alcune cronache per verità narrano che Nello usò il pugnale ad accelerarne la morte.” Così Foscolo illustrando i versi citati. Scrisse il Bandello su questo lagrimevole caso una novella a suo modo, la quale finisce così: “Messer Nello … deliberando incrudelir contra le donne (la Pia, e la sua damigella), e non osando far niente in Siena, ove il parentado della moglie era potente, messo ordine alle cose de la lite, si levò a l’improvviso con la famiglia di Siena, e giunto in Maremma, ove era Signore, poi che con forza di tormenti ebbe la verità da la bocca de la damigella, quella fece strangolare, ed a la moglie, che già presaga del suo male miseramente piangeva, disse: — Rea femina, non pianger di quello che volontariamente hai eletto: pianger dovevi a l’ora… Raccomandati a Dio (se punto de l’anima ti cale) che io vo’, come meriti, che tu muoia. — E lasciatala in mano de i suoi sergenti, ordinò che la soffocassero, la quale dimandando mercé al marito, ed a Dio divotamente perdono de i suoi peccati, fu da quelli senza pietà alcuna subito strangolata.” Ma le novelle di Bandello non fanno testo di storia. » — Per la citazione foscoliana, vedi Ugo Foscolo, Studi su Dante. Parte prima: Articoli dalla Edinburgh Review — Discorso sul testo della Commedia, in Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, vol. IX, Firenze, Le Monnier, 1979. — Per la citazione del Bandello, vedi la novella da noi ripubblicata in questo volume.
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catori infino all’ultim’ora, onde gli spiriti, fra’ quali costei s’annovera, vengono qualificati: ché il poeta non s’attien nelle frasi a matematica esattezza, ed ultima ora della sua vita poteva enfaticamente dirsi l’intero corso del morbo, che la consumò lentamente, e fu come una lunga agonia di quell’infelice. Nella qual opinione mi conferma vie più quella dell’eruditissimo Foscolo, 13 col quale vorrei poter esser d’accordo anche in ciò, che l’innocenza della Sanese dai riferiti versi risulti. Ma quantunque negar non si possa, che dalla condizion degli spiriti, cui Dante l’associa, ell’appaia nel suo concetto rea d’un qualche grave peccato, non poteva egli forse dalle volgari credenze, come altre volte fu, anche questa esser tratto in inganno? Ad ogni modo il segreto sovra tal morte diffuso; il discordar de’ cronisti nel narrare le circostanze di quella; la tristezza e perpetuo silenzio, Nota del Marenco: « “Difficile riesce al presente il decidere, se affatto innocente fosse la donna; ma Dante la rappresenta per tale (donde ciò appaia io nol veggo). Il marito la condusse nella Maremma, che ora, come allora, è distretto insalubre e mortifero. Egli mai non disse alla sventurata moglie le ragioni del suo esilio in paese così pericoloso ed infesto. Egli mai non degnossi di proferire lagnanza alcuna od accusa; ma visse insieme con lei in freddo silenzio, senza rispondere alle interrogazioni della donna, senz’ascoltare i richiami. Con tutta pazienza egli aspettò sinché l’aria pestilenziale ebbe distrutta la salute di questa giovine dama. In pochi mesi ella morì. Alcune cronache per verità narrano che Nello usò il pugnale ad accelerarne la morte. È certo ch’egli sopravvisse a lei, ma avvolto in tristezza ed in perpetuo silenzio.” Foscolo. » — Per questa citazione, vedi Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, vol. IX, Firenze, Le Monnier, 1979. 13
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in che, al dir di Foscolo, visse poi sempre il marito; l’autorità per ultimo di alcuni storici, che innocente la Pia, e calunniatore della medesima lo stesso consorte asseriscono; 14 queste tutte cose insieme prese, se la mia eroina non assolvono pienamente, spargono almeno sulla reità di lei non lieve dubbio: e nel dubbio il sentenziar benignamente è cosa non lecita soltanto, ma doverosa: né io stimo il poeta così esente dai doveri di storico e d’uomo, che siano in lui innocenti fantasie i giudizii temerarii e mal coscienziosi. Così a un dipresso parmi la pensasse il Sestini, la cui bella ed affettuosa leggenda nell’orditura del presente dramma ho seguita in parte, e in gran parte pur non ho seguita, come a chiunque l’un poema coll’altro vorrà confrontare, si farà manifesto. E siccome il prelodato Autore assevera 15 nella prefazione, d’aver su quanto nelle Maremme ha raccolto da vecchie tradizioni e da altri documenti degni di fede, tessuta la sua poetica novella, non sarò, mi lusingo, biasimato per questo, che nel disporre la mia drammatica tela io non credetti dovermi dilungar troppo dalla narrazione di tale, che su documenti degni di Nota del Marenco: « “Diede ancora quest’anno nuova materia di gravi ragionamenti l’insolenza di Nello da Pietra, il quale avendo, senz’altra ragione, uccisa Pia Tolommei sua donna, s’era proposto di farsi moglie la Contessa Margherita, la seconda volta rimasta vedova; ma caduto da sì alta speranza, e gittatosi alla disperazione, tentò di vituperarla.” Tomasi St. di Siena lib. 7. fog. 138. » — Per questa citazione, vedi G. Tommasi, Dell’historia di Siena, Venezia 1625, VII, 1295, p. 138. 15 assevera: afferma. 14
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fede, o storici o tradizionali che siano, dichiara di averla fondata: parendomi anzi esercizio non indegno di poeta, su non vergine tema, e sovra già note situazioni, ispirarsi a novità di pensieri. Io prego bensì l’indulgente lettore, che mi perdoni alcune storiche violazioni, delle quali, siccome innocenti mi parvero, e molto m’attagliavano inoltre, 16 così non mi feci grande scrupolo: e son le seguenti. 1) L’aver il nome di Nello, del marito cioè della Pia, che facilmente coll’articolo del medesimo suono si confonde, l’averlo, dico, mutato in quel di Rinaldo. 2) L’avere a Rinaldo medesimo data a prestanza la qualità di Signore e Governatore di Siena; della qual dignità era invece in que’ tempi insignito Provenzano Salvani, quello che Dante cita ad esempio della vanagloria delle umane posse; quello del cui nome Toscana un tempo risuonò tutta, poi appena nella sua patria sen bisbigliava; quello che capitanò i Sanesi a Montaperti contro i Fiorentini e la Lega guelfa toscana, e fu vincitore; li capitanò poscia 17 contro gli stessi avversarii presso a Colle di Valdelsa, e fu vinto, e il suo capo reciso, inalberato sur una lancia, fu portato, quasi trofeo di vittoria, per tutto il campo nemico. 18 3) L’aver per ultimo al mio stese molto m’attagliavano: e mi giovavano molto. poscia: poi. 18 Nota del Marenco: « Dant. Purg. C. XI. — “Iste fuit quidam nomine Provincianus Silvanus, Dominus nobilis civitatis Senarum, qui cum gente Regis Manfredi dedit illum terribilem conflictum Florentinis ad Montem Apertum… Hic Provincianus in 1269 cum Comite Guidone Novello, et cum gente Manfredi venit ad obsidionem ad quoddam castrum, quod dicitur 16 17
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so Rinaldo, per vie più immedesimarlo collo storico Colle in comitatu Florentiae, et habuit 1400 equites, et octo millia peditum. Tunc Florentiae erat quidam Vicarius Caroli Veteris, nomine Zannes Bertaldus, qui cum sua gente Gallica, et Florentinis ivit contra praedictos. Senenses timentes sibi voluerunt recedere: sed in recessu fuerunt invasi ab hostibus, et faciliter debellati. Provincianus captus decapitatus fuit, et in campo, per dictum Zannem Bertaldum. Cuius caput abscissum affixum fuit hastae longae, et circum portatum per campum.” Benven. Imol. p. 1187. Chi desiderasse conoscer meglio le circostanze della battaglia di Colle, veggale descritte da Gio. Villani, lib. VII. Cap. 31. » — Per la battaglia di Montaperti (4 settembre 1260), vedi Dante, Inferno, X, 85–86; per la battaglia di Colle di Val d’Elsa (8 giugno 1269), vedi Dante, Purgatorio, XIII, 115–119; per la figura di Provenzan Salvani, vedi Dante, Purgatorio, XI, 121–142. — Proprio a questi versi danteschi si riferisce il passo latino del Commento di Benvenuto da Imola citato dal Marenco, che possiamo tradurre così: « Costui fu un tale di nome Provenzano Salvani, nobile signore della città di Siena, il quale con la gente del re Manfredi diede ai fiorentini quel terribile conflitto a Montaperti … Questo Provenzano nel 1269, con il conte Guido Novello e con gente di Manfredi, venne a porre l’assedio ad un certo castello, che è detto Colle, nel contado di Firenze, ed ebbe mille e quattrocento cavalieri ed ottomila fanti. Allora in Firenze c’era un certo vicario di Carlo il Vecchio, di nome Gian Bertaldo, il quale andò contro i predetti con la sua gente francese e con i fiorentini. I senesi, timorosi, vollero ritirarsi, ma nella ritirata furono assaliti dai nemici e facilmente sconfitti. Provenzano, preso, venne decapitato sul campo dal detto Gian Bertaldo; ed il suo capo tagliato venne infisso su una lunga lancia e portato in giro per il campo. » — Per la battaglia di Colle, vedi Giovanni Villani, Nuova Cronica, VIII, 31. — Il Carlo che il testo dice Vecchio, per distinguerlo dal suo figlio e successore, è Carlo I d’Angiò, che fu re di Sicilia dal 1266 al 1285 ed a cui successe il figlio Carlo II lo Zoppo (1285–1309).
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eroe suddetto, attribuito quel raro esempio di generosa amicizia, che Dante accenna di Provenzano: 19 e Nota del Marenco: « Così nell’undecimo del Purgatorio parla di Provenzano Salvani l’anima d’Oderisi d’Agobbio: “Quegli è, rispose, Provenzan Salvani, / Ed è qui, perché fu presuntuoso / A recar Siena tutta alle sue mani. / … / Quando vivea più glorioso, disse, / Liberamente nel campo di Siena, / Ogni vergogna deposta, s’affisse; / E lì, per trar l’amico suo di pena / Che sostenea nella prigion di Carlo, / Si condusse a tremar per ogni vena.” Dante Purg. Canto XI. Il qual passo così commenta Benvenuto da Imola (pag. 1188): “Quum quidam amicus Provinciani, captus in conflictu Conradini, detineretur in carcere Caroli victoris, adiuticatus morti, nisi intra certum breve tempus solvisset decem millia aureorum, ipse Provincianus exposuit se ad mendicandum suffragia pro redemptione amici. Nam posito banco cum tapeto in platea civitatis (campo chiamavasi la piazza di Siena), coepit humiliter rogare unumquemque ut conferret redentioni istius. Et sic in brevi collecta pecunia necessaria, liberavit amicum.” L’Anonimo spiegando il verso “Si condusse a tremar per ogni vena”, dice: “E il tremare intendo che inducesse la vergogna del chiedere. Altri dice che il tremare nacque in lui dallo stare in abito allora da poter esser morto lievemente da’ nemici suoi, de’ quali in Siena avea copiosamente”. » — I versi citati dal Marenco, in cui Oderisi da Gubbio parla di Provenzan Salvani, sono in Dante, Purgatorio, XI, 121–142. — Il passo latino del Commento di Benvenuto citato dal Marenco, può essere tradotto così: « Poiché un certo amico di Provenzano, catturato nella battaglia di Corradino, era detenuto nel carcere di Carlo vincitore, condannato a morte, se entro un certo breve tempo non avesse pagato diecimila monete d’oro, Provenzano stesso si espose a mendicare aiuti per il riscatto dell’amico. Posto infatti un banco con un tappeto nella piazza della città, cominciò umilmente a pregare chiunque affinché contribuisse al riscatto di costui. E così, raccolto in breve tempo il denaro necessario, liberò l’amico. » — Quella che Benvenuto da Imola chiama battaglia di Corradino è la battaglia di Tagliacozzo (23 agosto 1268), in cui Carlo d’An19
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si è questo, che fatto prigioniero un suo amico nella battaglia di Tagliacozzo, e da Carlo d’Angiò, che incarcerato il tenea, dannato a morire se non pagava la somma di dieci mila fiorini; Provenzano, le cui ricchezze a cotanto sborso non erano sufficienti, solo ed inerme piantossi nel foro di Siena: quivi, steso per terra un tappeto, nulla curando il pericolo cui egli invidiato signore, fra tanti nemici ed emoli 20 la propria vita esponea, in sembianza di mendico dimandò ai cittadini l’elemosina pel riscatto del suo amico prigione. Il qual atto, che mentre lo scrivo, fammi, come suole in me il pensiero d’ogni atto magnanimo, correr per le chiome un piacevol brivido di commozione, fece conoscere al mondo e quanto possa in nobile petto l’amicizia, e come quel grande non fosse dalla suprema possanza così corrotto, che non potessero ancor molto in suo cuore gli affetti privati; e come sia imponente anche fra gl’invidiosi e nemici lo spettacolo di una coraggiosa virtù. Delle quali licenze le due ultime opportune mi sembrarono a crescer dignità al protagonista, ed importanza all’intero dramma, e a far sì che colla magniloquenza del dialogo non contrastasse la poca altezza dei personaggi. E siccome nell’arti belle non poco suol darsi all’autorità degli esempi, valga a mia
giò sconfisse Corradino di Svevia (1252–1268), sceso dalla Germania per recuperare, con l’aiuto dei comuni italiani ghibellini, quel regno di Sicilia su cui avevano regnato i suoi avi: catturato pochi giorni dopo la battaglia di Tagliacozzo, il sedicenne Corradino fu fatto decapitare a Napoli sulla pubblica piazza. 20 emoli: rivali.
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difesa l’esempio di un sommo tragico italiano vivente, il mio caro e venerato Niccolini, il quale nell’Antonio Foscarini, lodatissima tragedia, 21 non dubitò fingere contro la storia, che il padre di Antonio fosse Doge della Repubblica veneta: perocché non isfuggiva a quel maestro dell’arte quanto, più che d’un semplice cavalier veneziano, sarebbero eroiche e drammatiche le sventure di un figlio di Doge. Questa ragione per analogia appropriata al mio caso, tanto più deve giovarmi, quanto gli annali di Siena sono di que’ di Venezia men conosciuti e famosi. Nell’altre allusioni ai tempi mi attenni il meglio che potei fedelmente alla storia. Instabile, come in tutte le città libere d’Italia dalle fazioni divise, fu in Siena la costituzione politica. Qual si fosse precisamente al tempo di cui si tratta, dalle storie o cronache da me consultate non consta. 22 Sembra per altro che un Podestà, un Signore o Governatore con limitata possanza in pace, e senza limiti in guerra, i Consoli, nome caro alle cittadinanze italiane, ed alcune assemblee popolari, tenessero in allora lo stato di quella terra, di cui più tardi gli ordini dei Nove, dei Riformatori, e del Popolo si divisero alternamente il turbolento governo. 23 Il Carroccio, ritrovato italico dei mezzi tempi, 24 G.B. Niccolini, Antonio Foscarini, Firenze, Piatti, 1827. non consta: non risulta. 23 Nota del Marenco: « Vedi la Cronica sanese di Andrea Dei sino all’anno 1280 inclusivamente. » — Per questa citazione, vedi A. Dei, Cronica, ed. Muratori, dalla colonna 11, relativa all’anno 1186, fino alla colonna 37, relativa all’anno 1280. 24 ritrovato italico dei mezzi tempi: invenzione italica del medioevo. 21 22
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guidava alla guerra il sanese esercito. 25 San Giorgio non indarno invocato nella battaglia di Montaperti, vedevasi effigiato sul principale stendardo, qual suole comunemente dipingersi, in atto da liberare da immane drago una vergine. 26 Gli armeggiamenti, e le giostre, il giuoco delle pugna, e quello assai pericoloso dell’Elmora, nel quale i due terzieri della città, non senza spargimento di sangue e morte di cittadini, tra
Nota del Marenco: « Cron. San. di Andrea Dei all’anno 1264. » — Per questa citazione, vedi A. Dei, Cronica, ed. Muratori, colonna 34. 26 Nota del Marenco: « I Sanesi attribuirono la vittoria di Montaperti all’intercessione di San Giorgio, il nome del quale forse era il loro grido di guerra (Vedi gli Statuti di Siena nella Cronica di Andrea Dei pag. 31. e 32. nelle note). A eterna ricordanza di questo trionfo, e della protezione del Santo, i Cavalieri di Siena di ritorno dalla battaglia fecero edificare una Chiesa in suo onore, ed ordinarono che ogni anno nel giorno a lui dedicato si facesse una solenne festa così descritta da Nicolò Ventura: “In prima una selva, di poi uno uomo armato in forma di San Giorgio combatta col dragone, e la donzella istia in orazione: questa si faccia a similitudine di San Giorgio, che nella città di Silenza liberò il Re, e la figliuola con tutto il popolo; e così a similitudine e’ Sanesi, perché furono diliberati da tanta fortuna, ordinaro, che ogni anno si combattesse dinanzi alla Chiesa di S. Giorgio uno Drago contrafatto, e una donzella stesse in orazioni, e questo combattesse con un uomo armato in modo di fera, e fusse ogn’anno a perpetua memoria.” (Cron. Citata pag. 32. nelle note). » — Per queste citazioni, vedi A. Dei, Cronica, ed. Muratori, anno 1260, nota 26, colonne 29–34. — In coda a questa nota, il Marenco riporta una Legende de S. George, che egli trova nella Revue Germanique, anno 1836, distribuzione di dicembre, e che noi omettiamo. 25
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di loro con pertiche e a furia di sassi combatteano, erano a’ Sanesi d’allora non ingrato spettacolo. 27 Insalubre non men che in oggi era a que’ dì la Maremma, e tomba sovente de’ suoi forestieri cultori. 28 Il virtuoso coraggio di questi rustici, che pagano non di rado a troppo caro prezzo lo scarso pane, che procacciano ai figli, il loro amore per la poesia, che sgorga spontanea da quelle labbra inerudite, son cose note abbastanza. 29 Nel 1264 i Tolommei, ch’eran guelfi, essendosi contro la dominante fazion ghibellina levati a rumore, vinti da questa, sgombraron la terra, e il lor palazzo dal furibondo popolo venne distrutto. Nel 1270 gli espulsi guelfi, tra i quali senza dubbio i Tolommei, dopo la battaglia di Colle rimessi in città,
Nota del Marenco: « Cron. San. di Andrea Dei nelle note N° 11 e 36. » — Per questa citazione, vedi A. Dei, Cronica, ed. Muratori, anno 1291, nota 36, colonna 41. 28 forestieri cultori: braccianti stagionali. 29 Nota del Marenco: « “I campagnoli che abitano l’Appennino toscano, e massimamente quelli della provincia pistoiese sogliono andare per vari mesi dell’anno a coltivare la Maremma; il frutto delle loro fatiche e privazioni serve di sostegno a quella parte che rimane al paese nativo; ivi ritornano nell’estate, meno alcuni che di frequente muoiono per l’aria malsana, ove gli trasse il generoso desiderio di sollevare gl’indigenti congiunti. Questa generazione d’uomini è piena di virtù, e pochi sono quelli che non cantino con grazia le loro leggende, e i canti del Tasso: molti di essi anche improvvisano in versi”. Sestini nelle note al Canto I. della Pia. » — Per questa citazione, vedi B. Sestini, La Pia, I, 6, nota, ripubblicata in questo volume. 27
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fecero per allora coi Ghibellini, ma non con sincero animo, pace. 30 Dimostrare con drammatica evidenza quanto la virtù sia bella per sé stessa ed augusta; e quanto il virtuoso, caduto all’imo 31 della miseria e dell’abbiezione, sia pur sempre invidiabile a paragon del vizioso esaltato; collocar la virtù in cuor di donna: accoppiare cioè colla maggiore delle bellezze fisiche la maggiore delle morali bellezze, e rendere in tal guisa quest’ultima altrettanto amabile quanto veneranda: pagar infine un giusto tributo d’onore a quel sesso, cui sol per lo più vilipende chi già un troppo interessato ed ignobil culto gli rese, ecco lo scopo della presente tragedia. All’autore meditante il carattere della Pia, due grandi tipi stavan dinanzi: due famose donne cioè, da due famose storie celebrate, la romana Lucrezia, e l’ebrea moglie di Gioachimo. Vissuta la prima sotNota del Marenco: « “In questo anno (1265) si levaro in Siena e’ Guelfi contra li Vintiquattro, e contra al popolo, e i Tolommei cominciarono la battaglia a la Piazza a San Cristofano; e il popolo l’andò addosso, e sconfisserli, e arsero il palazzo de’ Tolommei.” Cron. di Andr. pag. 34. “In questo anno (1270) tornaro e’ Guelfi di Siena, rifecero Montelcino, e vennero a Lucigniano di Vald’Arbia, e poi posero oste a Munistero presso a Siena un miglio; e fu loro Capitano il Conte di Monforte; e poi tornaro a Lucignano, e fecesi la pace co’ Guelfi, e tornaro in Siena li usciti Guelfi per la festa di Santa Maria d’agosto.” Ivi pag. 36. A questa pace, comunque di breve durata, accennano i nove primi versi della Scena terza, Atto quarto della Tragedia. » — Per queste citazioni, vedi A. Dei, Cronica, ed. Muratori, colonna 34 e 36. 31 all’imo: nell’abisso. 30
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to l’influenza d’una morale, che il pregio della virtù più quasi nel nome che nella virtù stessa ponea, e d’una religione non atta per nulla ad incoraggiar l’uomo al più magnanimo de’ sacrifizii, l’ignoto; posta nel bivio di perdere o la castità, o la fama di quella, volle anzi pudica non essere che impudica parere. Virtuosa nondimeno in ciò, che alla virtù conosciuta a’ suoi tempi non mancò punto; ed abbandonando alla contaminazione le membra, serbò profondo nell’animo il sentimento dell’offeso pudore; e vergognando per ultimo del maculato suo corpo, vi aperse col ferro tal varco, per cui l’animo inviolato ne uscisse. Così il nome di casta, che colla vita s’avea meritato, meritossel pur colla morte: né un atto solo, cui, quasi a durissima necessità, repugnando si sottopose, cancellò in essa il lungo abito della virtù. 32 Nota del Marenco: « “Vestigia viri alieni, Collatine, in lecto sunt tuo. Ceterum corpus est tantum violatum: animus insons: mors testis erit … Consolantur aegram animi, avertendo noxam ab coacta in auctorem delicti: mentem peccare, non corpus: et unde consilium abfuerit, culpam abesse. Vos, inquit, videritis quid illi debeatur: ego me, etsi peccato absolvo, supplicio non libero: nec ulla impudica Lucretiae exemplo vivet”. Tit. Liv. Hist. lib. I. cap 58. » — Il testo latino citato, tratto da Tito Livio, Historiae ab Urbe condita, I, 58, può essere tradotto così: « Le tracce di un uomo estraneo, o Collatino, sono nel tuo letto. Tuttavia soltanto il corpo è violato: l’anima è innocente: la morte ne sarà testimone … Confortano l’afflitta di cuore, allontanando la colpa da chi è stata costretta sull’autore del delitto, dicendo che pecca la mente non il corpo, e che dove mancò l’intenzione manca la colpa. Vedrete voi, disse, quel che sia dovuto a lui; io, anche se mi assolvo dal 32
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Posta nel medesimo bivio l’ebrea Susanna, inorridì sulle prime al pensiero, che il suo nome intemerato soggiacer dovesse ad una prepotente calunnia. Ma l’idea d’un Testimone invisibile, e del suo giorno palesatore, rincorarono la desolata; e ai due perversi vecchioni gridò francamente, esser assai minor male affrontare innocente una rabbia caduca, che colpevole uno sdegno immortale.33 E s’anco il gemito di quella vittima rimasto fosse inesaudito, s’anco Iddio a farne trionfar l’innocenza non avesse suscitato la spirito del giovane Daniello, io terrei di gran lunga più felice Susanna che non i suoi comunque fortunati oppressori. Questi due modelli sublimi tentai di fondere, per così dire, in un solo, e formarne quello della mia eroina, la quale, se l’opera rispondesse al pensiero, unito all’altero e sdegnoso sentimento del proprio decoro, e alla maschia fierezza della Romana, avrebbe della giovine ebrea l’amor della virtù per sé stessa, e la fede in una giustizia futura.
peccato, non mi libero dalla pena, affinché nessuna viva impudica per l’esempio di Lucrezia. » 33 Nota del Marenco: « Daniel. cap. XIII. » — Per questa citazione, vedi la Bibbia, Daniele, XIII, 1–64.
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Personaggi Pia de’ Tolommei, moglie di Rinaldo della Pietra, Capitano di Siena. Tolommei, padre della Pia. Ugo. Un castellano. Un guerriero. Una contadina. Una fanciulla di sette anni. Sei castellani. La Scena è in Siena, e nella Maremma Sanese.
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Giornata prima Casa di Rinaldo in Siena. Rinaldo, Ugo, i sette castellani. Rinaldo
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Voi, quanti siete alle castella mie di Maremma preposti, oggi adunati non senz’alta cagion tutti qui v’ebbi. Già di Fiorenza ai danni, ecco, ridesta Siena le mal sopite ire: già schiude il guerriero suo tempio, e per novelli trofei bello e terribile fuor n’esce il sacro carro guidator dell’oste: già di Colle alle mura alta rovina minacciando s’avvia. Voi, mentre in campo i’ m’affretto a guidar feroce in armi questo popol, ch’io reggo entro le mura con pacifici studi, udite! Ovunque la mia privata Signoria s’estende, a questo fido (Additando Ugo.) in fra’ più fidi miei obbedienza e onor da voi si presti come a un altro me stesso. I contrassegni delle mie rocche ei da me tien. Né d’armi terror, né di minacce, e non aspetto pur di squallida fame a scuoter basti la fede vostra sì, ch’uom non difeso da tai simboli in esse unqua penètri, se non per porte dall’ariete aperte, e a gran prezzo di sangue. 1
Rinaldo: Voi, quanti siete preposti ai miei castelli di Ma-
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Il sangue mio cadrà, Signor, sui custoditi merli fino alla goccia estrema, anzi ch’io manchi al mio dover. Sulla mia spada il giuro. 2
Primo castellano
Gli altri sei castellani
(Ponendo ciascuno la destra sull’elsa della spada.) Il giuriam tutti! 3 Rinaldo
A questa guerra Iddio propizio arrida, e a’ campion nostri in petto
remma, non senza una grave ragione oggi vi ho radunati tutti qui. Ecco Siena già risveglia ai danni di Firenze le mal sopite ire: già apre il suo tempio di guerra, e bello e terribile, per nuovi trofei, ne esce fuori il sacro carro che guida l’esercito: già si dirige verso le mura di Colle, minacciando grande rovina. Voi, mentre io mi affretto a guidare in campo questo popolo feroce in armi, ma che dentro le mura io governo con occupazioni pacifiche, udite! Ovunque si estende il mio potere privato, si presti da voi obbedienza ed onore come ad un altro me stesso a questo fedele tra i miei più fedeli. Egli riceve da me i simboli delle mie fortezze. Né terrore di armi né di minacce, e neppure la vista della squallida fame basti a scuotere la vostra fedeltà, sicché uomo non difeso da quei simboli non penetri mai in esse, se non attraverso porte aperte dall’ariete, ed a prezzo di molto sangue. — Il sacro carro è il carroccio, simbolo della libertà comunale. — L’ariete era una trave, con una testa di ferro, usata per colpire e sfondare porte e muraglie.
Primo castellano: Prima che io manchi al mio dovere, signore, il mio sangue cadrà fino all’ultima goccia nella difesa delle mura. Lo giuro sulla mia spada. 3 Gli altri sei castellani: Lo giuriamo tutti! 2
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spiri come quel dì, che in Montaperti sotto i pie’ nostri umilïò di Flora la superba cervice, e nel lor sangue cancellò il patto delle tosche ville contro noi collegate. E quel celeste, il cui gran nome è a noi tromba di guerra, de’ mostri il domator, la cui virtude all’innocenza e a la beltà fu scampo, per noi combatta coll’invitta lancia l’equestre Divo. Ei delle sue bandiere l’onor tuteli; e qual risplende in esse effigïato, tal per noi si mostri, eroe tremendo e pio, che dalla polve solleva i miti, e i vïolenti atterra. 4
Rinaldo: Iddio arrida propizio a questa guerra e spiri nel petto dei nostri campioni come quel giorno che in Montaperti umiliò il collo superbo di Firenze sotto i nostri piedi, e cancellò nel loro sangue il patto delle città toscane alleate contro di noi. E quel celeste, il cui grande nome è per noi tromba di guerra, il vincitore dei mostri, la cui virtù fu scampo all’innocenza ed alla bellezza, il divino cavaliere combatta per noi con la sua invincibile lancia. Egli protegga l’onore delle sue bandiere; e si mostri per noi come risplende raffigurato in esse, eroe tremendo e pio, che solleva dalla polvere i miti ed atterra i violenti. 4
— La battaglia di Montaperti, dove i ghibellini senesi sconfissero duramente i guelfi fiorentini, ebbe luogo il 4 settembre 1260. — Il divino cavaliere è San Giorgio, alla cui protezione i senesi ghibellini attribuirono la vittoria di Montaperti, costruendo in suo onore una chiesa.
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Scena seconda. Rinaldo, Ugo. Ugo
Di Montaperti al glorïoso nome quel di Colle, Signor, ne’ patrii fasti aggiungerassi a far più grande e bella del tuo valor la fama. 5 A me ragiona
Rinaldo
assai diverso il cor. Ugo Rinaldo
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Che ascolto! 7 Io temo la gran giustizia dell’alterne sorti. Parmi che Iddio nella fatal stadera di Montaperti e Colle equilibrando stia la fortuna, e rie sconfitte, e stragi, terribili del loco illustratrici, con altre stragi e avversità bilanci. 8
Ugo
Pugna ragion dal lato nostro, mentre dell’inimica in sui vessilli siede
Ugo: Nelle glorie patrie, signore, al glorioso nome di Montaperti si aggiungerà anche quello di Colle, per fare più grande e bella la fama del tuo valore. 6 Rinaldo: A me il cuore parla in modo molto diverso. 7 Ugo: Che sento! 8 Rinaldo: Io temo la grande giustizia delle sorti alterne. Mi pare che Iddio stia equilibrando sulla bilancia del destino la fortuna di Montaperti e di Colle, e bilanci colpevoli sconfitte e terribili stragi che hanno reso illustre il luogo, con altre stragi ed avversità. 5
La Pia. Tragedia
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auspice il torto, e i suoi guerrier discora il malaugurio d’una causa iniqua. Dio nel ciel poserassi indifferente alle mortali cose, anzi che surga propugnator d’ingiusta guerra. 9 Rinaldo
Ingiusta d’ambe le parti, poich’ell’è fraterna. Allor ch’io miro là schierati a fronte due per vesti, per armi, e per favelle non dissimili eserciti: « Ove sono i segni qui d’inimicizia? » — io grido. « Gli eversor delle nostre are temuti son questi forse, i barbari alle patrie leggi, e ad ogni civil culto funesti? E non potrian questi due campi avversi un sol campo formar, mescere in pace i lor vessilli, ed io che nell’un d’essi l’ire comando scellerate e stolte, esser d’entrambi il duce, e di qui lunge con auspici miglior moverli a guerre, ove il vincer sia lode, e non vergogna? » 10
Ugo: La ragione combatte dalla nostra parte, mentre sulle bandiere della parte nemica siede auspice il torto, ed il malaugurio di una causa iniqua scoraggia i suoi guerrieri. Prima che si alzi a sostenere una guerra ingiusta, Dio siederà in cielo indifferente alle cose umane. 10 Rinaldo: Ingiusta da entrambe le parti, perché è tra fratelli. Quando guardo là schierati di fronte due eserciti non diversi per vestiti, per armi e per lingue, io grido: «Dove sono qui i segni di inimicizia? Sono forse questi i temuti demolitori dei nostri altari, barbari per le leggi patrie, e funesti per 9
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CARLO MARENCO
Ugo
Signor!… 11
Rinaldo
Di ciò non più. — Dimmi: di [Carlo d’Angiò rammenti la prigion? La scure sul tuo collo pendea, ché immensa taglia al tuo riscatto avea posta il tiranno, tal che vincea d’assai qual è più pingue privata sorte. Al maggior Foro in mezzo, solo, in squallide vesti, inerme e nudo di satelliti il fianco allor di Siena il Dittator piantossi. Un negro panno sul suol distese, e di mendico a guisa con supplichevol voce i cittadini invitava a gittar ciascun pietoso, onde fornir del tuo riscatto il prezzo, su quello una moneta. I circostanti quella vista commosse: e ratto piovve sovra ’l funebre drappo un cumul d’oro… 12
ogni cultura civile? E questi due campi avversari non potrebbero formare un solo campo, mescolare in pace le loro bandiere, ed io, che in uno di essi comando le ire scellerate e stolte, essere il capo di entrambi e guidarli con migliori auspici in guerre lontano da qui, dove il vincere sia lode e non vergogna? » 11 Ugo: Signore!… 12 Rinaldo: Non più di questo. — Dimmi: ricordi la prigione di Carlo? La scure pendeva sul tuo collo, perché per il tuo riscatto il tiranno aveva posto una taglia immensa, tale che superava di molto ogni più ricca fortuna privata. Allora il signore di Siena, solo, vestito poveramente, senza guardie accanto, si pose in mezzo alla piazza più grande. Stese per terra un panno nero e come un mendicante invitava con voce sup-
La Pia. Tragedia
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Ugo
Ed io redento fui. 13
Rinaldo
De’ miei nemici (il supremo poter molti ne crea) gremita era la piazza: ond’io mi stetti quella lunga ora della mia vita in forse. Pur non tremai, tanta pietà mi vinse. 14
Ugo
(Con aperto risentimento.) Duolmi quandunque ricordar mi sento, non ancor rimertato, il beneficio. Le vie d’esserti grato alfin m’insegna. 15
Rinaldo
Fin ch’io starommi in campo, e tu, se altrove pubbliche cure non ti chiaman, veglia sulle mie case; e del lontano amico
plichevole i cittadini a gettare, ciascuno pietoso, una moneta su quello, per raccogliere il prezzo del tuo riscatto. Quella vista commosse i presenti ed un cumulo d’oro piovve rapido sul quel drappo funereo. — Il Carlo qui citato è Carlo I d’Angiò, chiamato in Italia, contro Manfredi di Svevia, da papa Clemente IV (1265). — Per questo episodio di storia senese, vedi Dante, Purgatorio, XI, 121–142.
Ugo: Ed io fui riscattato. Rinaldo: La piazza era gremita dei miei nemici — il potere supremo ne genera molti — sicché io stetti quella lunga ora in pericolo di vita. Tuttavia non tremai, tanto grande fu la pietà che mi vinse. 15 Ugo: Mi fa male ogni volta che mi sento ricordare il beneficio non ancora ricambiato. Insegnami finalmente il modo di esserti grato. 13 14
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CARLO MARENCO
l’onore almen, mentr’ei la vita arrischia, l’onor tutela. 16 Ugo
(Attonito.) Io? (Rimettendosi.) Che? Di casta donna avventuroso possessor non sei? Quell’angiol di virtude ahi! troppo offende l’ombra sol del sospetto. 17
Rinaldo
È ver, [l’oltraggio. Pur mi s’è fitto in l’anima sì addentro questo gelido verme, che a snidarlo finor fur vani e il suo costante affetto, e il lungo studio delle sue virtudi. Ah! pria che casta all’uom d’amor la face splenda, tal far nel giovenile errore suol del fragile sesso esperienza, che dagli strali del sospetto ei poscia più riparo non ha; né trionfato
Rinaldo: Finché io me ne starò in campo, se necessità pubbliche non ti chiamano altrove, tu veglia sulle mie case, e mentre lui rischia la vita, tu proteggi l’onore, almeno l’onore, dell’amico lontano. 17 Ugo: Io? Che? non sei il fortunato possessore di una donna casta? Ahi! la sola ombra del sospetto offende troppo quell’angelo di virtù. 16
La Pia. Tragedia
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difficilmente il verginal pudore, né profferto sull’ara il giuramento. 18 Ugo
La Pia de’ Tolommei dal volgo tutto dell’altre donne, e dal comun costume lontana è sì, che convenir non puote giudizio a lei, che singolar non sia. 19
Rinaldo
Tu, sua stirpe nomando, il dubbio accresci che mi tormenta. Ella sbanditi pianse di Siena il padre ed il fratello, e tutta de’ Tolommei la schiatta; e può dall’alto di sue stanze mirar tepido ancora fumare il cener dell’ostel natìo. Del furor delle parti, a cui non puote resister uomo, e cui m’opposi indarno, ella forse in suo core un mio ne incolpa intemperante, e di compagni schivo
Rinaldo: È vero, l’offendo. Tuttavia questo gelido verme mi si è conficcato così addentro nell’anima che finora, per snidarlo, furono vani sia il suo affetto costante sia la lunga osservazione delle sue virtù. Ah! prima che la fiamma d’amore risplenda casta all’uomo, nel suo errore giovanile egli suole fare esperienza tale del sesso femminile che poi non ha più riparo contro le frecce del sospetto; e non giova né il pudore verginale da lui conquistato con difficoltà né il giuramento nuziale pronunciato sull’altare. 18
— Il gelido verme è il tarlo della gelosia che già possiede l’animo di Rinaldo.
Ugo: La Pia dei Tolomei è così lontana dalla massa di tutte le altre donne e dal costume comune che a lei non può addirsi giudizio che non sia singolare. 19
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CARLO MARENCO
desìo d’alta possanza: e del rancore già la segreta ruggine… 20 Ugo
(Con gioia mal repressa.) Tu ’l credi?… E n’hai tu prove… o qualche indizio? 21 Niuno
Rinaldo
finor… tranne il sospetto. Ugo
22
(Rimettendosi.) Ebben, [dal seno questo sospetto ingiurïoso scaccia. D’alma pura e gentil sincero specchio è quell’ingenua fronte; e il suo bel core non è terren, dove il rancore alligni. Pur io qui tutto esplorerò, t’affida, con guardo acuto. 23
Rinaldo: Tu, nominando la sua stirpe, accresci il dubbio che mi tormenta. Ella pianse scacciati da Siena il padre ed il fratello, e tutta la stirpe dei Tolomei; e dall’alto delle sue stanze può vedere fumare la cenere ancora tiepida della casa in cui è nata. Del furore di parte, a cui non può resistere uomo alcuno ed a cui io invano mi opposi, forse ella in cuor suo dà la colpa ad un mio smodato desiderio di potere supremo senza compagni; e già la segreta ruggine del rancore… 21 Ugo: Tu lo credi? E ne hai tu prove… o qualche indizio? 22 Rinaldo: Finora nessuno… eccetto il sospetto. 23 Ugo: Ebbene, scaccia dal petto questo sospetto ingiurioso. Quella libera fronte è specchio sincero di un’anima pura e gentile; ed il suo bel cuore non è terreno in cui metta radici il rancore. Tuttavia, fidati, io qui controllerò tutto con sguardo penetrante. 20
La Pia. Tragedia
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Ella qui vien. 24
Rinaldo
Ti [lascio. 25
Ugo
(Si ritira a sinistra.)
Scena terza. Rinaldo, la Pia, che esce dalla destra, avente nelle mani una spada. Pia
Questo brando, ch’io stessa ho con industre lavor fregiato, e pur di pianto asperso, dalle mie man ricevi. Esso del sangue fra l’ebbrezza, e ’l furor della vittoria ti rammenti, che spose han pure i vinti: e, pietoso di me, sii mite allora a chi più non resiste. 26
Rinaldo
Oh donna! Oh [sensi d’alma più che gentil!… Ma che? Tu piangi? Possano a più ragion pianger nell’ora, ch’ansie daranno a’ lor più cari addio, le donne fiorentine. 27
Rinaldo: Ella viene qui. Ugo: Ti lascio. 26 Pia: Ricevi dalle mie mani questa spada che io stessa ho adornata con ricamo sottile, ed anche bagnata di pianto. Essa ti ricordi, tra l’ebbrezza del sangue ed il furore della vittoria, che anche i vinti hanno spose, ed allora, pietoso di me, sii mite verso chi non resiste più. 27 Rinaldo: Oh donna! Oh sentimenti di anima più che gen24 25
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CARLO MARENCO
Pia
Ah! se ti cinga di nuovi allori il crin, se alla mie braccia ti torni illeso Iddio; per quel soave amor, ch’ambo ne lega, un mio fervente prego esaudisci! Il brando tuo si tinga sol di sangue stranier. Rispetta, o sposo, di que’, che Siena un dì chiamò suoi figli, le prezïose vite. 28
Rinaldo
Intendo. Il Cielo me pei sentieri dell’esilio amari spinga com’essi, e ad implorar mi tragga, qual essi fanno, la pietà straniera; e il santo amor di patria in me si cangi nel morbo che delira il natio loco o in empia sete di vendetta, ov’io, qual sia de’ tuoi, che nella pugna incontri, non n’eviti l’affronto: e se macchiato ritorno a te del sangue tuo, ch’io possa d’obbrobrio andar coverto, esser nomato un vile, e agli occhi della Pia parerlo. 29
tile!… Ma che? Tu piangi? Possano con più ragione piangere le donne fiorentine nel momento in cui ansiose daranno l’addio ai loro più cari. 28 Pia: Ah! se Iddio ti coroni di nuovi allori, se ti riporti illeso alle mie braccia, per quell’amore soave che ci lega entrambi, esaudisci una mia fervente preghiera. La tua spada si tinga solo di sangue straniero. O sposo, rispetta le vite preziose di quelli che un giorno Siena ha chiamato suoi figli. — Tra questi sono il padre ed il fratello di Pia che, esiliati perché guelfi, ora combattono con i fiorentini contro Rinaldo.
Rinaldo: Capisco. Il Cielo mi spinga, come essi, sui sentieri amari dell’esilio, e mi conduca ad implorare, come essi 29
La Pia. Tragedia
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Pia
Tu dell’alta tua sorte inver sei degno, anima generosa. 30
Rinaldo
Assai compiango a’ tuoi palpiti, o donna, a quel destino, che a paventare, a deprecar ti sforza del conflitto vicin, qualunque sia, l’evento. I cari tuoi movon le insegne contro i tuoi cari, e fia, chiunque vinca, perdente Siena, e tu congiunta ai vinti. Sei tu ben conscia a chi vittoria preghi, se a Fiorenza, od a noi? Se a que’ vessilli, che il tuo sposo dispiega, o forse a quelli, ch’esule il padre, ed il fratello or segue? 31
fanno, la pietà straniera; ed il santo amore di patria si cambi in me nella malattia che fugge il luogo natale od in empia sete di vendetta, se io non eviti lo scontro di qualunque dei tuoi io incontri in battaglia; e se ritorno a te macchiato del tuo sangue, che io possa andare coperto di vergogna, essere detto vile, e parerlo agli occhi della Pia. 30 Pia: Anima generosa, tu sei davvero degno della tua alta sorte. 31 Rinaldo: Compiango molto i tuoi timori, o donna, e quel destino che ti costringe a temere il risultato del prossimo conflitto, quale esso sia. I tuoi cari muovono le bandiere contro i tuoi cari e chiunque vinca sarà sconfitta Siena, e tu sarai congiunta ai vinti. Sei tu ben consapevole per chi preghi vittoria, se a Firenze oppure a noi? Se a quelle bandiere che il tuo sposo dispiega, o forse a quelle che il padre ed il fratello esiliati ora seguono?
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CARLO MARENCO
Pia
Pace per tutti io prego: e se la guerra è nel senno di Dio, questo è il mio voto: vinca il mio sposo, e sia pietoso ai vinti. 32
Rinaldo
A chi più sa benignamente usarla dia ’l Ciel vittoria. Ah! tu obbliar non devi della guerra civil chi primo diede il segnal qui: come da’ tuoi respinta fu mia mite parola, e tu, che posta qual bandiera di pace eri fra noi, sai di quanto furor surse commosso contr’essi il popol tutto, e che impotente a resistergli er’io, però ch’io sono rettor qui, non tiranno. 33
Pia
Io so, che degno di miglior parentado era ’l mio sposo. 34
Pia: Pace per tutti io prego; e se la guerra è nella saggezza di Dio, il mio augurio è questo: vinca il mio sposo, e sia pietoso verso i vinti. 33 Rinaldo: Il Cielo dia vittoria a chi sa usarla più benignamente. Ah! tu non devi dimenticare chi per primo qui diede il segnale della guerra civile: come dai tuoi fu respinta la mia mite parola, e tu, che eri posta come bandiera di pace tra noi, sai mosso da quanto furore tutto il popolo si sollevò contro di essi, e che io ero impotente a resistergli, perché qui io sono reggitore, non tiranno. 34 Pia: Io so che il mio sposo era degno di un parentado migliore. 32
La Pia. Tragedia
Rinaldo
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Ah no!… Ma forza è separarci. Parte di me ti lascio nella figlia. Addio. 35 (Parte dal mezzo, e la Pia in un prolungato amplesso lo accompagna.)
Scena quarta. Ugo. Ugo
Io l’amava in segreto. E mentre all’ombra del carcere straniero Ugo gemea, tu di tanta beltà lieto all’amplesso, o Rinaldo, volavi. Oh! ti fruttaro le mie catene! E allor che di fruttarti cessato avean, tu le sciogliesti, e vanto di generoso or n’hai. Quand’anco il tuo favor superbamente ricordato non m’avessi testè, come poss’io grato esser mai della serbata vita a chi pace mi tolse? Al cor mi rendi la libertà, se del disciolto piede vuoi che grado io ti sappia. Oro, null’altro Ugo a Rinaldo costa. A me Rinaldo costa il sangue del cor: costa il più caro pensier dell’alma. Ah! per mio male ei nacque! e onor supremi, e bellici trionfi, persin della beltà l’inestimabile sorriso, tutto egli ha: tutto ei mi toglie, fuor che la vita, che per esso ho in ira. E della tua felicità starommi
Rinaldo: Ah no!… Ma dobbiamo separarci. Ti lascio parte di me nella figlia. Addio. 35
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CARLO MARENCO
spettator sempre? Se il civile scettro di man strapparti, e dalla fronte i lauri non posso, almen di lei ch’amo (ed oh quanto l’amo ad onta del tempo e del destino!) involarti gli affetti or ché non tento? E già forse i miei taciti sospiri ella, o ch’io spero, interpretò. Già forse nel suo petto… D’ardir vie più m’accende quest’insolita speme. Oh! che vuoi dirmi tardo, importun rimorso? Or che sì bella alfin mi arride occasïon… Malcauto! Non fia mal scelta all’amorose insidie l’ora d’un mesto addio?… Ma se al consorte, com’ei sospetta, ella rancor portasse?… Eccola. Oh! quanta pur malgrado mio reverenza m’inspira! 36 Ugo: Io l’amavo in segreto. E mentre Ugo gemeva all’ombra del carcere straniero, tu, o Rinaldo, volavi lieto all’abbraccio di tanta bellezza. Oh! ti hanno fruttato le mie catene! E quando avevano smesso di fruttarti, tu le sciogliesti, ed ora ne hai il vanto di generoso. Se anche poco fa non mi avessi ricordato con superbia il tuo favore, come posso io mai essere grato di avermi conservato la vita a chi mi ha tolto la pace? Rendimi la libertà al cuore, se vuoi che io ti sia grato per avermi sciolto il piede. Ugo a Rinaldo non costa altro che oro. A me Rinaldo costa il sangue del cuore: mi costa il più caro pensiero dell’anima. Ah! egli è nato per il mio male! Ed onori supremi, e trionfi di guerra, persino l’inestimabile sorriso della bellezza, egli ha tutto: tutto egli mi toglie, eccetto la vita, che io ho in ira per causa sua. E me ne starò sempre spettatore della tua felicità? Se non posso strapparti lo scettro civile dalla mano e gli allori dalla fronte, perché ora non tento almeno di rapirti gli affetti di colei che amo — ed oh! quanto l’amo, malgrado il tempo ed il 36
La Pia. Tragedia
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Scena quinta. Pia, Ugo. Pia
Ugo!… 37 Che [miro,
Ugo
donna! Molli di lagrime recenti son le tue gote. 38 Pia
Meraviglia, credo, non fia; sì fresca è la cagion del pianto. 39
Ugo
Pera… Se cara anco mi fosse, pera del tuo duol la cagion! Ma tu pensosa del periglio de’ tuoi, (Maliziosamente.) qualunque sieno, non esser tanto. Di speranze liete i tuoi timor conforta. 40
destino! Ed ella forse già interpretò, od io lo spero, i miei silenziosi sospiri. Forse già nel suo petto… Questa insolita speranza mi accende ancora di più ad osare. Oh! che vuoi dirmi tardivo, importuno, rimorso? Ora che finalmente mi arride una così bella occasione… Incauto! L’ora di un mesto addio non sarà mal scelta per le insidie amorose?… Ma se, come lui sospetta, ella portasse rancore al marito?… Eccola. Oh! quanta reverenza mi ispira, benché mio malgrado. 37 Pia: Ugo!… 38 Ugo: Che vedo, donna! Le tue gote sono bagnate di lacrime recenti. 39 Pia: Non sarà meraviglia, credo; così fresca è la causa del pianto. 40 Ugo: Perisca… Se anche mi fosse cara, perisca la causa del
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CARLO MARENCO
Pia
Ah! d’una sposa mal tu comprendi il fero stato quando a cento ostili punte è fatto scopo quel cor ch’ell’ama. E non potergli usbergo far del suo petto! E invidiar quel ferro, cui data in guardia è una sì cara vita! 41
Ugo
Ben fra gli uomini tutti il più felice può nomarsi colui, che di tal donna il cor possiede. E qual suo merto, io grido, lui di tal sorte e tanto onor fea degno? E s’ei non ne va altero, e s’ei del proprio destin si lagna, è cieco: il don di Dio forsennato sconosce. O Pia! Tal avvi, che i favor tutti di fortuna a scherno avria di questo al paragon: che fero minacciar di tiranni, ardor di plebe, e invidia, e avversità, la stessa morte al tuo fianco sfidar, donna, oserebbe. 42
tuo dolore! Ma tu non essere così preoccupata per il pericolo dei tuoi, quali che siano. Conforta con liete speranze i tuoi timori. 41 Pia: Ah! tu comprendi male lo stato crudele di una sposa, quando quel cuore che ella ama è fatto bersaglio di mille punte nemiche. E non potergli far da corazza con il proprio petto! Ed invidiare quel ferro a cui è affidata la difesa di una vita così cara! 42 Ugo: Può ben dirsi il più felice tra tutti gli uomini colui che possiede il cuore di simile donna. E qual suo merito, io grido, faceva degno lui di tale sorte e di tanto onore? E se egli non ne va fiero, e se egli si lagna del proprio destino, è cieco: misconosce, da pazzo, il dono di Dio. O Pia! Vi è uno
La Pia. Tragedia
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Pia
Offri ai numi l’incenso, né del peso opprimer me di non mertata lode. 43
Ugo
Del domestico lare è nume vero donna a te ugual, se v’ha. Dovria Rinaldo, qual fa in segreto ogni anima gentile, reverente a’ tuoi pie’, come celeste cosa adorarti, o Pia: non già dall’alto signoreggiare una beltà, di cui molti felici si terrian se il lembo della veste baciar dato lor fosse. 44
Pia
Quanto amar puossi, ed onorar mi debbe, m’ama ed onora il mio consorte. Ei certo con lodi insidiose il mio non tenta orgoglio femminil. Certo all’uffizio di molle adulator la sua non piega marital dignità. 45
che disprezzerebbe tutti i favori della fortuna in confronto a questo: che al tuo fianco, o donna, oserebbe sfidare minacce feroci di tiranni, rabbia di folla, ed invidia ed avversità. 43 Pia: Offri agli dei l’incenso, e non opprimermi con il peso di una lode non meritata. 44 Ugo: Vera divinità del focolare domestico è una donna uguale a te, se pure c’è. Come ogni anima gentile fa in segreto, o Pia, Rinaldo dovrebbe adorarti come una cosa celeste, reverente ai tuoi piedi: non già dominare dall’alto una bellezza di cui molti si riterrebbero felici, se fosse loro concesso di baciarne l’orlo della veste. 45 Pia: Il mio sposo mi ama ed onora quanto si può amare e si deve onorare. Certo egli non tenta con lodi insidiose il mio orgoglio femminile. Certo egli non piega la sua dignità di marito alla funzione di languido adulatore.
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CARLO MARENCO
Ugo
Non la piegasse così a rei dubbi, e al dubitar giammai. 46
Pia
Che? 47
Ugo
(Con trasporto.) Ma s’uom v’ha, per Dio! che creder [debba, donna, il tuo sesso di virtù capace, questi è il marito di colei, che in Siena è di virtù sovrano esemplo. Ah! troppo nelle scuole del vizio ammaestrato fu da’ prim’anni, e sol nel vizio ha fede. D’un tal angiolo a me se tocca in sorte fosse quaggiù la compagnia, ti giuro che tributato a’ suoi gran pregi avrei non fede solo, religïoso culto. 48
Pia
Tu la virtude femminil miscredi più ch’uom in terra: e poi che mal la guarda dall’insidie il mio sposo, assai le crede. 49
Ugo: Così non la piegasse ai dubbi colpevoli ed alla diffidenza. 47 Pia: Che? 48 Ugo: Ma se c’è uomo, per Dio! che debba, donna, credere il tuo sesso capace di virtù, questi è il marito di colei che in Siena è l’esempio supremo di virtù. Ah! troppo fu ammaestrato fin dai primi anni nelle scuole del vizio, e crede soltanto nel vizio. Se la compagnia di un simile angelo quaggiù fosse toccata in sorte a me, ti giuro che ai suoi grandi pregi avrei tributato non solo fiducia, ma culto religioso. 49 Pia: Tu più di ogni uomo in terra credi poco alla virtù fem46
La Pia. Tragedia
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Ugo
Donna!… 50
Pia
Del sacro titolo d’amico te su tutti onorò dunque, de’ suoi più arcani sensi ei te fea conscio, salva t’ha dunque a rischio della sua la vita, perché di rei sospetti a me accusarlo dovessi, ingrato, e i suoi pensier tradirmi: que’ pensier, che sua grande alma rifiuta non appena concetti, ond’è che appunto per porli in basso loco a te li fida? 51
Ugo
Siffatti accenti… 52
Pia Ugo Pia
Addio. 53 Fermati! 54 Ed [osi?…
minile: e poiché la protegge male dalle insidie, il mio sposo le crede molto. 50 Ugo: Donna!… 51 Pia: Egli dunque ha onorato te più di tutti con il sacro nome di amico, ti ha rivelato i suoi sentimenti più segreti, ti ha dunque salvato la vita a rischio della sua, perché tu, ingrato, dovessi accusarlo davanti a me di sospetti colpevoli e svelarmi i suoi pensieri: quei pensieri che la sua grande anima respinge appena concepiti, così che, proprio per deporli in un luogo spregevole, li affida a te. 52 Ugo: Parole simili… 53 Pia: Addio. 54 Ugo: Fermati!
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CARLO MARENCO
Te del mio sposo l’amistà soverchia fa riverito qui: ma pensa… 55 Ugo Pia
Ugo
Ah! m’odi, te ne scongiuro, un solo istante m’odi! 56 Se né la donna del Signor di Siena, né dell’amico in me rispetti, questa ora solenne del mio duol rispetta. Lasciami. 57 E le mie lunghe ore di duolo, immenso duol, che ognor represso, scoppia oggi malgrado mio, non m’otterranno da te pietà, che all’ardir mio perdoni? Sai tu da quanto tempo ardo e sospiro per te? Qual sia dolor, quand’altri un bene possentemente agogna, ed ecco giunge chi di tanto disìo, di tanti affanni gl’invola il premio, né un sospir gli costa? Pur non si cruda a me sembrasti il giorno, che grave in un torneo colpito m’ebbe l’avversa lancia; e di spavento un grido dal tuo bel labbro allor s’intese, e viste fur del tuo volto impallidir le rose. 58
Pia: Ed osi?… L’eccessiva amicizia del mio sposo ti rende rispettato qui, ma pensa… 56 Ugo: Ah! odimi, te ne scongiuro, ascoltami soltanto un istante. 57 Pia: Se non rispetti in me né la donna del signore di Siena né la donna dell’amico, rispetta questa ora solenne del mio dolore. Lasciami. 58 Ugo: E le mie lunghe ore di dolore, dolore immenso che, sem55
La Pia. Tragedia
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Pia
Pera un senso incolpabile, che seme fu a te di rie speranze! Io d’or innanzi soffocherò nel nascer suo fin questo turbamento gentil d’alma ben nata, che s’appella pietà, poi che non lice a donna impunemente esser pietosa. 59
Ugo
Tanto m’odii tu dunque? 60
Pia
Io? Se tu forse ti lusinghi l’onor dell’odio mio, sappi che odiarti io non potrei, volendo; e che la Pia… 61
Ugo
Prosegui. 62
pre represso, oggi scoppia mio malgrado, non mi otterranno da te una pietà che perdoni al mio ardire? Sai tu da quanto tempo ardo e sospiro per te? Che dolore sia, quando uno desidera grandemente un bene, ed ecco che arriva chi gli toglie il premio di tanto desiderio, di tanti affanni, e non gli costa neppure un sospiro? Eppure non mi sembrasti così crudele il giorno che in un torneo la lancia avversaria mi ebbe gravemente colpito; ed allora un grido di spavento si udì dal tuo bel labbro, ed i rosei colori del tuo volto furono visti impallidire. 59 Pia: Perisca un sentimento incolpevole che fu per te seme di speranze colpevoli! D’ora in poi io soffocherò sul suo nascere anche questo turbamento gentile di un’anima nobile che si chiama pietà, visto che non è lecito ad una donna essere pietosa impunemente. 60 Ugo: Mi odi dunque tanto? 61 Pia: Io? Se tu forse ti compiaci dell’onore del mio odio, sappi che, anche volendo, io non potrei odiarti; e che la Pia… 62 Ugo: Continua.
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CARLO MARENCO
Pia
Ama, o [dispregia. 63
Ugo
Pia
Donna! Educato a tollerar gli oltraggi non fui. 64 Né io. 65 Che intendi? 66
Ugo Pia
E l’uom [che meco parla un linguaggio seduttor, m’oltraggia. 67
Ugo
Se un istante d’obblio conoscer fetti il debol lato del mio cor, la parte più robusta a tuo grande agio scoprirne potrai, tel giuro, in avvenir. 68
Pia
(Fieramente.) Malvagio farai scoprirti in avvenir più sempre. 69
Pia: Ama o disprezza. Ugo: Donna! Non sono stato educato a sopportare gli insulti. 65 Pia: Neppure io. 66 Ugo: Che vuoi dire? 67 Pia: E l’uomo che con me parla un linguaggio seduttore, mi insulta. 68 Ugo: Se un istante di oblio ti fece conoscere il lato debole del mio cuore, in futuro potrai scoprirne a tuo grande agio la parte più robusta: te lo giuro. 63 64
La Pia. Tragedia
Ugo
Pia
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Non insultar, malcauta, ad uom che farti puote infelice. 70 Farmi rea chi ’l puote? 71
Ugo
Seppellir posso in lagrime perenni quegli occhi a me fatali: sotto il peso delle sventure umilïar, nel fango cotesto orgoglio traggere, forzarti a maledir la tua virtù. 72
Pia
(Con entusiasmo.) Nol puoi. 73
Ugo
Del tuo sposo l’amor toglierti. 74 Ahi [tristo!…
Pia
Ma chi torragli il mio? 75
Pia: In futuro ti farai sempre più scoprire malvagio. Ugo: Non insultare, incauta, un uomo che può renderti infelice. 71 Pia: Farmi colpevole, chi lo può? 72 Ugo: Posso seppellire in lacrime perenni quei tuoi occhi a me fatali: umiliare sotto il peso delle sventure, trascinare nel fango codesto orgoglio, costringerti a maledire la tua virtù. 73 Pia: Non lo puoi. 74 Ugo: Toglierti l’amore del tuo sposo. 75 Pia: Ahi malvagio!… Ma chi gli toglierà il mio? 69 70
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CARLO MARENCO
Ugo
Rea farti agli [occhi suoi. 76
Pia Ugo Pia
Ma agli occhi di Dio sarò innocente. 77 Non temi il disonor? 78 Temo la colpa. 79
Ugo: Renderti colpevole ai suoi occhi. Pia: Ma agli occhi di Dio sarò innocente. 78 Ugo: Non temi il disonore? 79 Pia: Temo la colpa. 76 77
La Pia. Tragedia
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Giornata seconda Luogo deserto. A destra un fianco della casa di Rinaldo. A sinistra, e nel fondo rovine praticabili della casa de’ Tolommei. Notte. Rinaldo, Ugo. Ugo
Ufficio a entrambi doloroso imposto m’hai, sì che grave or mi s’è fatto il peso del beneficio tuo, poi che mi sforzi a tal ricambio, che virtù sarebbe l’esser ingrato. 1
Rinaldo
Non è dunque un sogno? Non è un delirio?… (In tuono di cupa minaccia.) Ascolta, Ugo. Se forse di me gioco ti prendi, incauto sei. 2
Ugo
Tu quel Rinaldo in sospettar sì dotto, quando più pura agli occhi miei parea, di tua donna la fede? 3
Ugo: Mi hai imposto un compito doloroso per entrambi, sicché ora mi si è fatto grave il peso del tuo beneficio, poiché mi costringi a ricambiarlo in un modo che l’essere ingrato sarebbe virtù. 2 Rinaldo: Dunque non è un sogno? Non è un delirio?… Ascolta, Ugo. Se per caso ti prendi gioco di me, sei un incauto. 3 Ugo: Sei tu quel Rinaldo così abile nel sospettare, quando la fedeltà della tua donna appariva più pura ai miei occhi? 1
450
CARLO MARENCO
Rinaldo
E tu quell’Ugo, che i miei sospetti già biasmar s’udiva, e della donna mia magnificando gìa la virtù? Di’: m’ingannavi allora, o m’inganni tu adesso? 4
Ugo
Oh! non avesse unqua me tratto d’un mio caro inganno esperïenza! 5
Rinaldo
Sì diverso han suono da quel di pria le tue parole, ch’io quel che mi creda inver non so. Vorrei mal conosciuto infin’ad oggi averti: d’un mentitor, d’uno sleal, d’un vile stato finora esser vorrei l’amico: vorrei con mille oltraggi averti dato di tradirmi il diritto, anzi che compra col beneficio la crudel certezza della tua fedeltà. Tutto, piuttosto che credere a’ tuoi detti, oggi vorrei. 6
Rinaldo: E sei tu quell’Ugo che allora andava rimproverando i miei sospetti e lodando la virtù della mia donna? Dimmi: mi ingannavi allora o mi inganni adesso? 5 Ugo: Oh! non mi avesse mai mosso la prova di un mio caro inganno. 6 Rinaldo: Le tue parole hanno un suono così diverso da quello di prima che davvero non so cosa credere. Vorrei averti conosciuto male fino ad oggi; vorrei essere stato finora l’amico di un mentitore, di uno sleale, di un vile; vorrei averti dato con mille offese il diritto di tradirmi, anziché aver comprato con il beneficio la crudele certezza della tua fedeltà. Oggi vorrei tutto, piuttosto che credere alle tue parole. 4
La Pia. Tragedia
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Ugo
Agli occhi tuoi, non a’ miei detti credere dei tu. 7
Rinaldo
(Mestissimo.) Meglio non era il nascer cieco? 8
Ugo
A prestar fede a’ sensi miei fatica durai non poca anch’io: però non fora stupor, se un giorno a negar fede a’ tuoi traesser te poche parole sue di lagrime condite e di lusinghe; e ’l tuo giusto furor l’infida moglie cader facesse accortamente intero sull’amico fedel. 9
Rinaldo
Tu… Non t’illuse una falsa apparenza? Era ben d’essa, la mia sposa, la Pia, colei ch’hai vista col favor delle tenebre alle sue stanze guidar furtivamente un uomo? Ma quelle stesse tenebre a’ tuoi lumi velo far non dovean? 10
Ugo: Tu devi credere ai tuoi occhi, non alle mie parole. Rinaldo: Non era meglio nascere cieco? 9 Ugo: Anch’io feci non poca fatica a credere ai miei sensi; perciò non sarebbe meraviglia se un giorno poche sue parole, condite di lacrime e di carezze, portassero te a non credere ai tuoi; e la moglie infedele facesse abilmente cadere tutto il tuo furore sull’amico fedele. 10 Rinaldo: Tu… Non ti ha ingannato una falsa apparenza? Era proprio lei, la mia sposa, la Pia, quella che con l’aiuto delle tenebre hai visto condurre furtivamente un uomo nelle sue 7 8
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CARLO MARENCO
Ugo
Splendea la luna in ciel sereno. Da vicin, non visto, i sembianti spiarne, e la sua voce intender potev’io nascoso all’ombra, qual io mi stava, de’ cadenti muri, vigile in mio sospetto. 11
Rinaldo
E udisti?… Oh! [degni d’invidia, oh! cento volte avventurati que’ che, di Colle nel fatal certame per la patria pugnando, han ricoperto di lor lacere salme il pian cruento, e al disonor dell’armi nostre chiusi eternamente i lumi! In fumo or ita di Montaperti cerco la gloria. Oh! allori troppo presto appassiti! Ed io sostengo pur questa luce? E da sì orrendo scempio de’ miei fratelli io duce lor qui riedo? E in tanto scorno della patria e mio trar consento la vita?… Ugo, il diresti? Nel campo là malaugurato, all’oste perdente in mezzo, e a le bandiere nostre d’ogni parte cadenti, in fra la rabbia, la vergogna, il dolore, al pensier mio corse l’imago della donna amata,
stanze? Ma quelle stesse tenebre non dovevano fare velo ai tuoi occhi? 11 Ugo: La luna splendeva nel cielo sereno. Da vicino, non visto, potevo spiarne i volti ed ascoltare le voci, nascosto come stavo all’ombra dei muri cadenti, vigile nel mio sospetto.
La Pia. Tragedia
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e del mesto suo pianto: e tal mi punse pietà di lei, ch’a eterno lutto in preda abbandonar temea, che un disperato desir repressi, e ’l mio destrier, che a morte contro le fiorentine aste spronato mi portava, frenai; né più de’ vinti l’ignominia temei, né punitore dell’infortunio il popolar scontento, né l’esule che torna. Oh infamia! Oh fossi colà gloriosamente anch’io caduto! 12
Rinaldo: E hai udito?… Oh! degni di essere invidiati, oh! cento volte fortunati quelli che nella fatale battaglia di Colle, combattendo per la patria, hanno ricoperto con le loro lacere salme la pianura insanguinata, ed hanno chiuso per sempre gli occhi al disonore delle nostre armi! Ecco ora andata in fumo la gloria di Montaperti. Oh! lauri troppo presto appassiti! Ed io sopporto ancora questa luce? E da una così orribile strage dei miei fratelli, io, il loro comandante, ritorno qui? Ed in così grande smacco della patria e mio, io acconsento a continuare la vita?… Ugo, lo diresti? Là, nel campo sfortunato, sconfitto, in mezzo al nemico ed alle nostre bandiere che cadevano da ogni parte, tra la rabbia, la vergogna, il dolore, corse al mio pensiero l’immagine della mia donna e del suo pianto triste: e mi colpì una tale pietà di lei, che temevo di abbandonare in preda ad un lutto eterno, che repressi un desiderio disperato, e frenai il mio cavallo che, spronato, mi portava a morire contro le lance fiorentine; e non temetti più né la vergogna dei vinti, né lo scontento popolare punitore della disgrazia, né l’esule che ritorna. Oh! infamia! Oh! fossi anch’io caduto colà gloriosamente! 12
— La battaglia di Montaperti, in cui i ghibellini senesi avevano sconfitto i guelfi fiorentini, era avvenuta il 4 settembre 1260; la battaglia di Colle di Val d’Elsa, in cui i guelfi fiorentini sconfissero i ghibellini senesi, avvenne l’8 giugno 1269.
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CARLO MARENCO
Ugo
Tempra del duol l’eccesso. A’ miei consigli, regger ti lascia: e tua parola espressa mi dona in pria, ch’alla tua sposa noto né per blandizie mai né per preghiere del fallo suo lo scopritor farai. 13
Rinaldo
Vil sarei, se il facessi: e ancor ch’a’ vili strettamente congiunto, io vil non sono. 14
Ugo
Giura inoltre, che tacito ed occulto dell’empia trama testimone or ora sarai qui meco, né trarrai la spada, né farai motto, e placido nell’ira del mio disegno le ingegnose fila non turberai: bensì al mio zelo intera, qual già dell’onor tuo, di tue vendette affiderai la cura. 15
Rinaldo
È mia la cura della vendetta: è mia. 16
Ugo: Modera gli eccessi del dolore. Lasciati guidare dai miei consigli; e per prima cosa dammi esplicitamente la tua parola che né per carezze né per preghiere renderai mai noto alla tua sposa chi ha scoperto la sua colpa. 14 Rinaldo: Sarei vile, se lo facessi; e benché strettamente congiunto ai vili, io non sono vile. 15 Ugo: Giura inoltre che tra poco sarai qui con me testimone silenzioso e nascosto dell’empia trama, né tirerai fuori la spada, né dirai parola e restando tranquillo nell’ira, non turberai le fila ingegnose del mio piano; ma, come già per il tuo onore, affiderai completamente al mio zelo la cura delle tue vendette. 16 Rinaldo: È mia la cura della vendetta: è mia. 13
La Pia. Tragedia
Ugo
455
Ma il tempo e il [modo dispor ne lascia a me; né tu per troppo impeto cieco di furor guastarla. Quanto diss’io lo giuri? 17 Alla vendetta
Rinaldo
mi guiderai? Ugo
18
Ti guiderò. 19 Lo giuro. 20
Rinaldo Ugo
Or fra quelle rovine — e son rovine della magion de’ Tolommei — celiamci. 21
Rinaldo
(Raccapricciando.) Ugo!… E possibil fia?… 22 (Si odono suonare le tre di notte.) Silenzio! L’ora
Ugo
segnata appunto suona.
23
Ugo: Ma il tempo ed il modo lasciali disporre a me; e non guastarla per un eccessivo impeto di cieco furore. Quanto ho detto, lo giuri? 18 Rinaldo: Mi guiderai alla vendetta? 19 Ugo: Ti guiderò. 20 Rinaldo: Lo giuro. 21 Ugo: Ora nascondiamoci tra quelle rovine — e sono rovine della casa dei Tolomei. 22 Rinaldo: Ugo!… E sarà possibile?… 23 Ugo: Silenzio! Suona appunto l’ora fissata. 17
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Rinaldo
CARLO MARENCO
(Sottovoce.) Infame schiatta è questa inver de’ Tolommei. La patria contr’essi irata il suo furor sfogava in poche pietre d’ogni senso prive. Io la vendetta mi farò nel sangue. 24 (Si ascondono dietro le rovine.)
Scena seconda. La Pia dalla casa, Rinaldo e Ugo nascosti. Pia
È questa l’ora del convegno. È questo il loco. O fratel mio, qui favellarmi segretamente hai desïato, ed io, benché un esul tu sii, quand’anco deggia appormel Siena a imperdonabil colpa, tel consentii, poi ch’una legge eterna fa ch’io stimi dover ciò, che delitto noma la patria in sue caduche leggi. (Alzando la voce nel caldo dell’affetto.) Oh vien! t’affretta: ché la Pia t’attende Impazïente. (Con voce più sommessa.) E dal tuo labbro certe della battaglia udir novelle anela. Un secol d’affanni e di timori
Rinaldo: Questa dei Tolomei è davvero una razza infame. La patria, irata contro di essi, sfogava il proprio furore su poche pietre prive di ogni senso; io farò la mia vendetta nel sangue. 24
La Pia. Tragedia
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si rivolse per me dacché il mio sposo dal mio fianco s’è tolto. E ancor non riede!… Per la città sinistre voci intanto spargonsi… (Si ode di dentro il tintinnio di una spada che batte due volte sopra un elmo.) Il segno convenuto ascolto. Ei giunge. Il luccicar veggo dell’armi. È desso. 25
Scena terza. I precedenti. Un guerriero armato di tutto punto, e ravvolto nel mantello, s’avanza con circospezione. Guerriero
(Sotto voce.) Pia!… 26
Pia
(Sotto voce.) Gualtier!…
Pia: Questa è l’ora dell’incontro. Questo è il luogo. O fratello mio, hai desiderato qui segretamente, ed io, benché tu sia un esiliato, anche se Siena dovesse imputarmelo a colpa imperdonabile, ho acconsentito, perché una legge eterna fa sì che io consideri mio dovere ciò che la patria nelle sue leggi effimere chiama delitto. Oh vieni! affrettati, perché la Pia ti attende impaziente e brama sentire dalle tue labbra notizie sicure della battaglia. Da quando il mio sposo si è staccato dal mio fianco, per me è trascorso un secolo di affanni e di timori. Ed egli ancora non torna!… Intanto per la città si diffondono voci infauste… Sento il segnale concordato. Egli giunge. Vedo il luccicare delle armi. È lui. 26 Guerriero: Pia!… 25
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CARLO MARENCO
(Il guerriero si slancia verso di lei, e l’abbraccia, dimostrando un qualche ritegno.) Te dopo un [lustro, il sai, riveggo: e mal ti raffiguro qui delle stelle al debil raggio, e tutto, qual sei, nell’arme chiuso. 27 Guerriero
(Con voce affettuosa.) O suora! 28
Pia
(Con affetto pur essa.) O [mio fratel diletto!… (Di nuovo dubitando.) Ha suon più maschio e rude la tua voce, già sì gentil. 29
Guerriero
L’han fatta roca l’assiduo militar comando, e la polve de’ campi. 30
Pia: Gualtiero!Dopo cinque anni, lo sai, ti rivedo; e ti riconosco male qui, alla debole luce delle stelle, e tutto chiuso come sei nelle armi. 28 Guerriero: O sorella! 29 Pia: O mio amato fratello!… la tua voce, un tempo così gentile, ha un suono più maschio e più rude. 30 Guerriero: L’hanno resa roca il continuo comando militare e la polvere dei campi di battaglia. 27
La Pia. Tragedia
Pia
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(Con ansietà.) Or ben, quai nuove della pugna?
Guerriero Pia
Guerriero
31
Vittoria! 32 Oh gioia!… Ahi [stolta! Un inimico favellò. Chi furo i vincitori? 33 Noi. 34
Pia
Dunque perdente fu il mio sposo, e la patria. 35
Guerriero
Odi. La [patria d’ora innanzi siam noi. Me della strage nell’impeto rattenne, e qui mi spinse, qui, ’ve tornar trionfalmente io deggio, d’esul pure in furtivo atto mi spinse amor di te: che di qui trarti agogno pria che te del marito a involver abbiano le sventure. 36
Pia: Or bene, che notizie della battaglia? Guerriero: Vittoria! 33 Pia: Oh gioia!… Ahi stolta! Parlò un nemico. Chi furono i vincitori? 34 Guerriero: Noi. 35 Pia: Dunque fu sconfitto il mio sposo, e la patria. 36 Guerriero: Ascolta. La patria d’ora in poi siamo noi. Nell’im31 32
460
CARLO MARENCO
Che di’?… Lassa! Fors’io
Pia
vedova son?
37
Guerriero
Tu d’un proscritto moglie sarai fra breve. Ricondurti al padre degg’io prima che seco a duro esilio colui ti guidi. 38
Pia
A lui rapirmi?… Crudo! Ciò nomi amor? 39
Guerriero
Vieni… 40
Pia
Mi lascia. (Veggonsi fra le rovine del fondo Rinaldo ed Ugo. Il primo colla mano sull’elsa della spada sta per iscagliarsi contro la Pia. Il secondo è in atto di trattenerlo.)
Pia
(Con voce resa più forte dallo sdegno.) In [Siena
peto della strage l’amore che ti porto mi ha trattenuto e mi ha spinto a venire in modo furtivo, da esule, qui, qui dove io devo tornare in trionfo, perché da qui bramo portarti via, prima che le sventure del marito abbiano a coinvolgerti. 37 Pia: Che dici?… Me infelice! Sono forse vedova? 38 Guerriero: Tra poco tu sarai la moglie di un esiliato. Io devo ricondurti dal padre prima che colui ti conduca con sé nel duro esilio. 39 Pia: Rapirmi a lui?… Crudele! Questo chiami amore? 40 Guerriero: Vieni…
La Pia. Tragedia
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fa’ che Rinaldo non ti colga. (Forte come sopra, ma con affetto.) Ah! temo Per te! (Abbassando la voce, come atterrita.) Funesto al vincitor potrebbe del vinto esser l’incontro. 41 (Ugo e Rinaldo sono scomparsi.) Guerriero
E quale al [padre, che a te le braccia desïose tende, farò risposta? 42
Pia
(Con dignità.) « La tua figlia, digli, morir non dee nel loco, ov’ella nacque; e agli agi, al fasto del paterno ostello preferisce l’esilio. » 43
Guerriero
E deggio… 44
Pia: Lasciami. Fa che Rinaldo non ti trovi in Siena. Ah! temo per te! L’incontro con il vinto potrebbe essere funesto al vincitore. 42 Guerriero: E quale risposta darò al padre che tende verso di te le braccia desiderose? 43 Pia: Digli: « La tua figlia non deve morire nel luogo in cui è nata; ed ai comodi, allo splendore della casa paterna, preferisce l’esilio. » 44 Guerriero: E devo… 41
462
Pia
CARLO MARENCO
Voi mirate al volger dell’umane cose, né siate come que’, ch’han nulla appreso dalla sventura. 45
Guerriero
Or dunque addio. 46
Pia
Me [misera! Fatale è a me, qualunque parte in Siena sormonti, o caggia, che da’ cari miei l’esilio ognor mi scevri. (Con voce forte, piangendo.) E quando fia che tutti in pace un muro sol ne chiuda? 47
Guerriero
(Forte.) Non pianger, cara. Rivederti io spero fra poco. Addio. 48 (L’abbraccia e parte. La Pia rientra in casa.)
Pia: Voi osservate il mutamento delle cose umane, e non siate come quelli che dalla sventura non hanno imparato. 46 Guerriero: Or dunque addio. 47 Pia: Misera me! Per me è fatale che, qualsiasi parte prevalga o cada in Siena, l’esilio mi separi sempre dai miei cari. E quando sarà che un solo muro racchiuda tutti in pace? 48 Guerriero: Non piangere, cara. Spero di rivederti tra poco. Addio. 45
La Pia. Tragedia
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Scena quarta. Rinaldo, Ugo. Ugo
Frenati! 49
Rinaldo
Ah! no che [dato 50 più non vi fia di rivedervi mai! (Mette mano alla spada.)
Ugo
Nelle vene de’ prodi hai consecrata questa tua spada, e profanarla or vuoi? Vendetta oscura a oscura man commetti. 51
Rinaldo
(Prima trattenuto da Ugo, poi come mutando proposito.) Di lei, di lei vendetta io voglio! Oh! come ansia a vedersi, e irrequieta ell’era! Come tardar del suo notturno amante la venuta pareale! E se accolto in sue stanze non l’ha, disonorati se non ha i lari miei, come solea, non pudor, non orror di sì gran colpa, ché già affatto n’è spoglia, era temenza di me, che posso (a chiare note il disse), d’ora in ora sorprenderla. Ah! di molte lor parole al mio orecchio il suon non giunse…
Ugo: Trattieniti. Rinaldo: Ah! no, che non vi sia mai più permesso rivedervi! 51 Ugo: Nel sangue dei valorosi hai consacrato questa tu spada, ed ora vuoi profanarla? Affida un’oscura vendetta ad una mano oscura. 49 50
464
CARLO MARENCO
Pur intesi abbastanza. (Dopo un istante di riflessione.) Hai tu veduto come agli atti, alla voce, rampognarlo parea talor, respingerlo talora quasi sdegnata? 52 Ugo
E chi non sa che tutta suol di sdegni e di paci avvicendarsi degli amanti la vita? 53
Rinaldo
È vero. — Oh! [quante volte il brando snudar volli, e sovr’essi fulminando scagliarmi, e mi rattenne, più che ’l tuo braccio, il giuramento mio, e del mio giuramento ancor più forte uno stupido orror, ch’anima e membra tutto legommi all’incredibil vista! 54
Rinaldo: Di lei, di lei, io voglio vendicarmi! Oh! come sembrava ansiosa ed inquieta! Come pareva tardarle la venuta del suo amante notturno! E se non lo ha accolto nelle sue stanze, se non ha disonorato la mia casa, come era solita, non era pudore né orrore, di cui è completamente priva, per una colpa così grande, ma era timore di me, lo disse chiaramente, che posso sorprenderla ad ogni momento. Ah! il suono di molte loro parole non è giunto al mio orecchio… tuttavia ho sentito abbastanza. Hai visto come dai gesti, dalla voce, talvolta sembrava rimproverarlo, talvolta respingerlo quasi sdegnata? 53 Ugo: E chi non sa che la vita degli amanti è solita essere tutto un avvicendarsi di liti e di paci? 54 Rinaldo: È vero. Oh! quante volte volli sguainare la spada e scagliarmi come un fulmine su di essi, e più che il tuo brac52
La Pia. Tragedia
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Ugo
Gli occhi tuoi stessi a mie parole alfine acquistar fede. La vendetta, or vieni, mediterem congiunti. 55
Rinaldo
Han veramente, quel ch’io a te mal credea, l’han veramente questi occhi scorto, e queste orecchie udito? Certa è dunque la colpa, ovver m’inganna non so che di fallace? Eppur de’ sensi miglior strumento all’uom qual die’ natura a conoscer le cose? E se mendaci son essi, allor dirò che tutta mente natura a me d’intorno, e l’universo è un’eterna menzogna. (Breve pausa.) In error tratto m’avria l’averno co’ prestigi suoi? Un demone non puote, o più maligno d’un demone, un umano invido spirto, a turbar la mia pace avvolger oggi di sembianze ingannevoli i miei sensi, dell’intelletto con orribil’arti offuscarmi la luce, in mille guise aggirarmi, sedurmi…
cio mi trattenne il mio giuramento ed uno stupido orrore, ancora più forte del mio giuramento, che alla vista incredibile mi legò tutto anima e membra. 55 Ugo: Alla fine i tuoi stessi occhi hanno procurato credibilità alle mie parole. Ora vieni, mediteremo uniti la vendetta.
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CARLO MARENCO
(Con voce terribile.) e tu esser quello? 56 Ugo
Ben lo diss’io, che ’l tuo furor cadrebbe sovra l’amico. 57
Rinaldo
Io t’oltraggiai: perdona. Ciò, di ch’io quasi vagheggiar parea dianzi il debil sospetto, or mi spaventa siffattamente, che certezza è reso, che la smarrita mia ragion d’un velo tenta coprirsi, e dal mirar rifugge così trista evidenza. — O tu che spinto sì duramente al disinganno m’hai, donna che amai cotanto, e de’ mortali tu il più infelice, o perfida, mi rendi,
Rinaldo: Quello per cui io stentavo a crederti, questi occhi l’hanno visto veramente e queste orecchie l’hanno udito? La colpa è dunque certa, ovvero m’inganna un non so che d’ingannevole? Eppure quale strumento migliore dei sensi la natura ha dato all’uomo per conoscere le cose? E se essi sono menzogneri, allora dirò che mente tutta la natura che ci circonda e che l’universo è un’eterna menzogna. Mi avrebbe tratto in inganno l’inferno con i suoi prodigi? Per turbare la mia pace, un demone o, più maligno di un demone, uno spirito umano invidioso, non potrebbe oggi avvolgere i miei sensi con apparenze ingannevoli, offuscarmi la luce dell’intelletto con arti orribili, raggirarmi in mille modi, sedurmi… e quello spirito essere tu? 57 Ugo: Ben lo dissi io che il tuo furore sarebbe caduto sopra l’amico. 56
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trema! Non m’avrai tratto impunemente a negar fede alla virtù. — Mi segui. 58
Rinaldo: Io ti ho offeso: perdona. La cosa di cui prima io sembravo quasi accarezzare il debole sospetto, ora che è diventata certezza mi spaventa a tal punto che la mia ragione cerca di coprirsi con un debole velo e rifugge dal guardare un’evidenza così triste. — O tu che così duramente mi hai spinto al disinganno, o donna che amai tanto e tu, o perfida, mi rendi il più infelice degli uomini, trema! Non mi avrai condotto impunemente a non credere più alla virtù. — Seguimi. 58
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CARLO MARENCO
Giornata terza Interno d’un vecchio castello in Maremma. Rinaldo, Pia. Pia
Questa dunque a’ tuoi piacque avi temuti fra lande incolte e paludosi stagni romita, orrida stanza? A me sorride il ciel, dolci son l’aure ovunque meco le spira il Signor mio. Pur, nol t’ascondo, lo squallor della vedova campagna, e l’aer faticoso, il cor m’han pieno d’inusata tristizia. Eppur la stessa inamabil Maremma asilo t’offre men di questo insalubre, e al par securo. Sposo, qui sempre abiterem? 1 Qui sempre
Rinaldo
abiterà chi d’abitarvi è degno . 2
Pia
Che l’animo ti morda acerba cura, celar mel tenti invano. Tacito e fosco
Pia: Dunque ai tuoi temuti antenati piacque questa solitaria, orribile, dimora tra campagne incolte e stagni paludosi? A me il cielo sorride, le arie sono dolci, dovunque il mio signore le respira con me. Tuttavia, non te lo nascondo, lo squallore della campagna desolata e l’aria pesante mi hanno riempito il cuore di un’insolita tristezza. Eppure la stessa non amabile Maremma può offrirti rifugio meno nocivo ed altrettanto sicuro di questo. Sposo, abiteremo sempre qui? 2 Rinaldo: Qui abiterà sempre chi è degno di abitarvi. 1
La Pia. Tragedia
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t’ebb’io compagno della mesta via, e al mio frequente interrogar risposta eran rotte parole, e mal repressa impazïenza, e fremiti, e sospiri. E me pur della patria il desiderio accora: e in te quest’angosciosa spina dal perduto poter resa è più acuta: pur sai, che speme di felice accordo i consoli ne dier. 3 Rinaldo
Pia Rinaldo
Son vane cure, cui la pace del cor piangere è forza, patria e poter. Ho l’anima temprata contro qualunque stral della sventura, questo sol tranne. 4 Qual? 5 Tu ’l chiedi?… [Oh! niuno! 6
Pia: Che un’aspra preoccupazione ti morda l’animo, cerchi invano di nascondermelo. Lungo la mesta via ti ho avuto compagno silenzioso e cupo, ed alle mie frequenti domande le risposte erano parole spezzate, ed impazienza mal repressa, e fremiti, e sospiri. Il desiderio della patria accora anche me, ed in te questa spina angosciosa del potere perduto è resa più acuta; eppure sai che i consoli hanno dato speranza di un accordo felice. 4 Rinaldo: Patria e potere sono preoccupazioni vuote per chi è costretto a rimpiangere la pace del cuore. Ho l’anima indurita contro ogni colpo della fortuna, tranne soltanto questo. 5 Pia: Quale? 6 Rinaldo: Tu lo chiedi?… Oh, nessuno. 3
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CARLO MARENCO
Pia
Rabbrividisco! — Per pietà mi spiega de’ tronchi accenti, e del fulmineo sguardo il tremendo mistero! 7
Rinaldo
Nulla. 8
Pia
Ah! mi [sembra orrido più del loco il tuo pensiero! 9
Rinaldo
(A parte.) Qui dunque ella morrà? Né la cagione… Ma l’ignora ella forse? 10
Pia
Oh! Ciel! Che [vanno mormorando i tuoi labbri in suon di sdegno? Sposo, che hai? La voce della Pia non ha più forza in sul tuo core alcuna? 11
Rinaldo
La voce della Pia?… L’ho udita in punto!… 12
Pia: Rabbrividisco! — Per pietà, spiegami il tremendo mistero delle parole spezzate e dello sguardo fulminante. 8 Rinaldo: Nulla. 9 Pia: Ah! il tuo pensiero mi sembra più spaventoso del luogo. 10 Rinaldo: Dunque ella morirà qui? Né le dirò la causa… Ma che forse lei la ignora? 11 Pia: Oh Cielo! Che vanno mormorando le tue labbra con tono sdegnato? Sposo, che hai? La voce della Pia non ha più alcuna forza sul tuo cuore? 12 Rinaldo: La voce della Pia?… L’ho udita bene!… 7
La Pia. Tragedia
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Pia
Segui. Non mi fissar, deh! con quel tuo severo piglio insolito. Serena l’aspetto, e a me, siccom’io fo, sorridi 13.
Rinaldo
(A parte.) La vittima sorride a chi l’immola 14.
Pia
Il volto altrove a che ritorci? 15
Rinaldo
(Abbracciandola in forza d’un involontario trasporto.) Oh! sposa!… Ché morir non poss’io nella dolcezza di quest’amplesso, (Da sé.) che sarà l’estremo! 16
Pia
Che parli di morir? Ben io d’affanno, se così fai morrò. 17
Rinaldo
(Fieramente.) Trarti di vita
Pia: Continua. Deh! non mi fissare con quella tua espressione insolitamente severa. Rasserena il tuo volto, e sorridimi, come faccio io. 14 Rinaldo: La vittima sorride a chi la sacrifica. 15 Pia: Perché rivolgi altrove lo sguardo? 16 Rinaldo: Oh sposa!… Perché non posso io morire nella dolcezza di questo abbraccio … che sarà l’ultimo! 17 Pia: Che parli di morire? Se fai così, certo morirò io di affanno. 13
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CARLO MARENCO
sol dovrian la vergogna e il pentimento. 18 Pia
Vergogna io? Pentimento? 19
Rinaldo
Or chi veggendo quella tua fronte intrepida e secura, non ti diria innocente? E allor che il vizio a se stesso fa plauso, e inverecondo l’onesto ardir della virtude usurpa, chi può l’ira frenar, premere in petto il desìo di vendetta, e udir l’estreme voci della pietà, che dolcemente va susurrando all’anima « perdona »? 20
Pia
Strano linguaggio! Io nol comprendo, e quindi scolorar non mi fa. 21
Rinaldo
Lo so, infedele, che dal tuo volto è ogni pudor disperso,
Rinaldo: La vergogna ed il pentimento soli dovrebbero farti morire. 19 Pia: Vergogna io? Pentimento? 20 Rinaldo: Chi vedendo ora quella tua fronte coraggiosa e sicura non ti direbbe innocente? E mentre il vizio applaude se stesso e senza vergogna usurpa l’ardire onesto della virtù, chi può frenare l’ira, reprimere in petto il desiderio di vendetta ed udire le voci estreme della pietà che dolce va sussurrando all’anima « perdona »? 21 Pia: Strano discorso! Io non lo capisco, e perciò non mi fa scolorare. 18
La Pia. Tragedia
473
e d’averti sì tardi io conosciuta rossor m’investe, ed ira. 22 Pia
Indegno [oltraggio!… Sposo! Se me vituperar non temi, te stesso almen rispetta. 23 Oh! quel ch’io [deggio
Rinaldo
a me medesmo il so. 24 Pia
Ma che ti feci, crudel? Ti spiega. In che t’offesi? 25
Rinaldo
Ingrata! Io t’amai da’ prim’anni: e non pur conscio d’amarti, io te vedea già ne’ miei sogni quasi un angiol del Ciel, che l’uom saluta di lieta visïone: e, desto, a lungo mi durava nell’alma inebbrïata del sogno la dolcezza. Ognor poi crebbe quel primo affetto, e si fe’ adulto meco. Sacro all’imagin tua mi fei nell’alma
Rinaldo: Lo so, infedele, che dal tuo volto è sparito ogni pudore, e mi prende vergogna ed ira per averti conosciuta troppo tardi. 23 Pia: Insulto indegno!… Sposo! Se non ti importa di offendere me, rispetta almeno te stesso. 24 Rinaldo: Oh! quello che io debbo a me stesso lo so. 25 Pia: Ma che ti ho fatto, crudele? Spiegati. In che cosa ti ho offeso? 22
474
CARLO MARENCO
segreto un tempio, e t’adorai, non come donna mortal, ma qual del bello istesso la diva idea, che nel pensier sol vive. Ché se breve follia dal sentier retto me talvolta sviava, alla tua cara imago i’ ricorrea, siccome suole ad imagine santa un uom pentito, e rinascermi in petto allor sentìa della virtù l’amore. E tutto questo altro stato non fia che un lungo inganno? E tu, Pia, m’hai tradito? E tu mi spogli d’ogni sua dolce illusïon la vita? Tu nella trista aridità del vero la ricacci aspramente? Oh vicinanza malaugurata delle case nostre! Oh! ben cadute al suol de’ Tolommei le infaustissime case, onde mi venne di te, quasi malefica influenza, la prima vista, e ’l primo tuo pensiero! 26 Rinaldo: Ingrata! Io ti ho amata fin dai primi anni; e benché non consapevole di amarti, io ti vedevo già nei miei sogni come un angelo del Cielo che salva l’uomo con lieta visione, e destatomi, nell’anima inebriata, mi durava a lungo la dolcezza del sogno. Poi quel primo affetto crebbe sempre e si fece adulto con me. Nell’anima mi feci un tempio segreto sacro alla tua immagine, e ti adorai non come donna mortale, ma come la divina idea del bello stesso che vive soltanto nel pensiero. Sicché, se talvolta una breve follia mi sviava dal retto cammino, io ricorrevo alla tua cara immagine, come suole un uomo pentito ad una immagine santa, ed allora sentivo rinascermi in cuore l’amore della virtù. E tutto questo non sarà stato altro che un lungo inganno? E tu, Pia, mi hai tradito? E tu mi spogli la vita di ogni sua dolce illusione? Tu la ricacci aspramente nella triste aridità del vero? Oh infausta 26
La Pia. Tragedia
475
Pia
Questi di gelosia furori insani, Ugo, il tuo falso ed esecrabil Ugo gli accende in te. 27
Rinaldo
L’amistà sua paventi, perché non fu come il tuo amore infida: quindi a me la calunnii. In quella notte (ahi! notte abbominevole!), che in Siena giunse l’annunzio della mia sconfitta, dov’eri tu? Con chi, sleal, ristretta a furtivo colloquio? Ah! nol sapevi, che le tenebre stesse ed il silenzio, per rivelar le colpe, hann’occhi e voce. 28
Pia
(Con aria di trionfo.) Or sì, che assume l’innocenza oppressa il suo nobile orgoglio, e d’un’infame calunnia a trionfar tutta si veste la maestade, ed il poter del vero. Io lo dirò, benché sdegnarten meco
vicinanza delle nostre case! Oh ben rase al suolo le funestissime case dei Tolomei, dalle quali, come un influsso malefico, mi venne la prima vista di te ed il tuo primo pensiero! 27 Pia: Questi tuoi folli furori di gelosia, Ugo, il tuo falso e spregevole Ugo, li accende in te. 28 Rinaldo: Temi la sua amicizia, perché non fu infedele come il tuo amore: per questo me la calunni. In quella notte — ahi notte abominevole! — che giunse a Siena la notizia della mia sconfitta, tu dov’eri? Con chi, sleale, appartata in segreto colloquio? Ah! non lo sapevi che, per rivelare le colpe, le tenebre stesse hanno occhi e voce?
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CARLO MARENCO
dovessi poi. L’uom, che accennasti, quello, era… 29 Rinaldo Pia
Rinaldo
Pia
Chi dunque? 30 Il mio fratel, [Gualtiero 31. (Con tremenda ironia.) Or sì profonda nella colpa, e dotta appien nell’arte del mentir ti veggo, e la giusta ira mia tutto si veste l’inesorabil suo rigore. Or sappi, che il tuo fratello — a te finor ciò tacqui da più gran cura assorto… 32 Ebben? 33 Di [Colle
Rinaldo
nella pugna cader lo vidi estinto Pia: Ora sì che l’innocenza oppressa prende il suo nobile orgoglio e, per trionfare di una calunnia infame, si riveste tutta della maestà e del potere del vero. Io lo dirò, anche se poi tu dovessi sdegnartene con me. Quell’uomo, a cui hai accennato, era… 30 Rinaldo: Dunque chi? 31 Pia: Il mio fratello Gualtiero. 32 Rinaldo: Ora sì ti vedo profonda nella colpa e pienamente esperta nell’arte del mentire, e la mia ira si riveste di tutto il suo inesorabile rigore. Ora sappi che il tuo fratello — finora, assorbito da preoccupazione più grande, non te l’ho detto… 33 Pia: Ebbene? 29
La Pia. Tragedia
477
nel primo assalto: né di Siena teco fra le mura abboccarsi unqua potea, se forse l’ombra sua colà non venne a rampognarti delle tue vergogne 34. Pia
(Confusa all’estremo si lascia cadere sopra una sedia.) Questo colpo m’atterra! 35
Rinaldo
(Preso da impetuoso sdegno vorrebbe ucciderla.) Ora… (Trattenendosi, dice da sé.) Ah! non [macchi di ria femmina il sangue il braccio mio. Il mio primo pensiero omai si compia. S’abbandoni. 36 (Fa per partire.)
Pia
(Veggendo partire Rinaldo, si alza e corre a trattenerlo.) Rinaldo!… E qui mi lasci?…
Rinaldo: L’ho visto cadere morto, al primo assalto, nella battaglia di Colle; e non poteva mai incontrarsi con te tra le mura di Siena, a meno che la sua ombra non venisse là a rimproverarti le tue vergogne. 35 Pia: Questo colpo mi abbatte! 36 Rinaldo: Ora… Ah! il sangue di una femmina colpevole non disonori il mio braccio. Si compia il mio primo pensiero. Sia abbandonata. 34
478
CARLO MARENCO
Ah m’odi pria! Per quanto in terra e in Cielo v’ha di più sacro… 37 Scostati. 38
Rinaldo
Deh m’odi!
Pia
Innocente son io.
39
Perfida! 40
Rinaldo
Il giuro.
Pia
D’un nero inganno vittima…
Io, spergiura,
Rinaldo
l’ingannato son io.
42
Deh per l’antico
Pia
amore… Rinaldo
41
43
Osi invocarlo? Oh! dell’indegna Mia debolezza al mondo orma non resti. (Trasportato da eccessivo furore vuol dal
Pia: Rinaldo!… E mi lasci qui?… Ah prima ascoltami! Per quanto in Cielo ed in terra c’è di più sacro… 38 Rinaldo: Scansati. 39 Pia: Deh ascoltami! Io sono innocente. 40 Rinaldo: Perfida! 41 Pia: Lo giuro. Vittima di un oscuro inganno… 42 Rinaldo: Io, sono io l’ingannato, spergiura. 43 Pia: Deh per l’antico amore… 37
La Pia. Tragedia
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dito strapparle l’anello maritale.) Pera… 44 Pia
(Opponendosi) Che fai? 45
Rinaldo
D’un esecrato nodo pera il segno esecrato. 46
Pia
Ahi crudo! E speri, ch’egualmente si franga un vincol santo? 47
Rinaldo
(Gettando a terra l’anello, e calpestandolo.) Ogni vincol qual sia, che a te mi stringa, io lo frango, il calpesto. 48
Pia
Almen risparmia tal cosa in tuo furor, che a te mi lega più strettamente ancora. 49
Rinaldo: Osi invocarlo? Oh! nel mondo non resti traccia della mia antica debolezza. Perisca… 45 Pia: Che fai? 46 Rinaldo: Perisca il segno disprezzato di un legame disprezzato. 47 Pia: Ahi crudele! E speri che ugualmente si spezzi un vincolo santo? 48 Rinaldo: Qualsiasi vincolo mi stringa a te, io lo spezzo, lo calpesto. 49 Pia: Nel tuo furore risparmia almeno quella cosa che a te mi lega ancora più strettamente. 44
480
CARLO MARENCO
E che? 50
Rinaldo
La [figlia.
Pia
E strappar dalla figlia osi la madre? 51 Rinaldo
Iniqua madre, da innocente prole ti divido per sempre 52. Oh! chi fia mai,
Pia
che pietoso m’uccida? Rinaldo
53
Empia! Il [rimorso. 54 (Parte, chiudendo la porta in faccia alla Pia, che vorrebbe seguirlo.)
Scena seconda. Pia. Pia
M’ha ripudiata. Si partì. Più mai non lo vedrò. (Ponendosi in ascolto.) Già da me lunge il porta con precipite corso il suo destriero. Ecco, scomparve a me dinanzi il mondo!
Rinaldo: E cosa? Pia: La figlia. Ed osi strappare la madre dalla figlia? 52 Rinaldo: Madre iniqua, ti divido per sempre da una figlia innocente. 53 Pia: Oh! chi sarà mai che, pietoso, mi uccida? 54 Rinaldo: Empia! Il rimorso. 50 51
La Pia. Tragedia
481
Al mio morir chi assisterà? Qual nome invocherò fra queste sorde mura? (Aggirandosi per la scena.) A chi volgermi più, lassa! Chi m’ode In quest’orrenda solitudin? 55 Scena terza. Ugo, che esce improvvisamente da una porta segreta, Pia. Ugo
Io. (La Pia mette un grido, al quale succede breve silenzio.) Di che stupisci or tu? Possanza diemmi Rinaldo, il sai, nei suoi castelli intera. Quel, che fratel credesti, era un venale stranier. (Dopo breve silenzio.) Non lusingarti. Oh! del suo labbro all’eterno silenzio io già provvidi. Di molt’anni l’assenza, un’opportuna somiglianza di forme, e ’l dubbio lume favoriron l’inganno. (La Pia inorridisce.) Or questo ammira
Pia: Mi ha ripudiata. Se ne è andato. Non lo vedrò mai più. Il suo cavallo con corsa precipitosa già lo porta lontano da me. Ecco, davanti a me il mondo scompare! Chi assisterà alla mia morte? Quale nome invocherò tra queste sorde mura? Infelice, a chi rivolgermi? In questa orribile solitudine chi mi ascolta? 55
482
CARLO MARENCO
magistero di fraudi, e ’l poter mio. Donna, ho ben io la mia promessa attesa? 56 Pia
No. La virtù non maledissi ancora. 57
Ugo
Quando della salute il fior consunto l’aure nocenti a mano a mano, e i pigri vapor delle mortifere lagune t’avranno, e l’egre membra, ed affannoso l’anelito più sempre, accuseranti omai vicino il tuo sospiro estremo, al tuo sdegnoso orgoglio, a’ tuoi rigori allor tu forse imprecherai, ma tardi. 58
Pia
Non che temerlo, affretterò co’ voti il mio estremo sospiro, e avidamente spirerò l’aure, in cui si bee la morte. Oh! ti sien rese grazie almen per quel consiglio,
Ugo: Io. Ora tu di che ti meravigli? Rinaldo, lo sai, mi ha dato pieno potere nei suoi castelli. — Quello che hai creduto fratello, era uno straniero prezzolato. Non farti illusioni. Oh! ho già provveduto al silenzio eterno della sua bocca. L’assenza di molti anni, una opportuna somiglianza di aspetto e la scarsa luce hanno favorito l’inganno. Ora ammira questa maestria di frodi ed il mio potere. Donna, ho io ben mantenuta la promessa fatta? 57 Pia: No. Ancora non ho maledetto la virtù. 58 Ugo: Quando le arie nocive e le lente esalazioni delle mortali paludi ti avranno a poco a poco consumato il fiore della salute, e le membra malate ed il respiro sempre più affannoso ti annunceranno ormai vicino il tuo ultimo sospiro, allora forse, ma tardi, tu imprecherai al tuo sdegnoso orgoglio, alla tua severità. 56
La Pia. Tragedia
483
se pure è tuo, che por mi fece in loco, onde più agevolmente al Ciel si varca. 59 Ugo
Di questo loco a trarti appunto io venni, donna. 60
Pia
Di tanto eccesso, e che? tu forse pentito… Ahi stolta! Scellerato a mezzo io te già quasi supponea. Perdona. 61
Ugo
Fa senno. Il guardo intorno movi, e dimmi: quest’ostinata tua virtù finora che ti giovò? 62
Pia
Quel ch’io soffrii per essa. L’ama più assai che pe’ suoi premii il forte, pe’ suoi travagli, alma codarda! Questi son che nobile e bella a lui la fanno. La seguiresti tu, s’ardua non fosse. 63
Pia: Anziché temerlo, affretterò con le preghiere il mio ultimo sospiro e respirerò con avidità le arie in cui si beve la morte. Oh! ti siano rese grazie almeno per quel consiglio, se pure è tuo, che mi fece porre in un luogo da cui più facilmente si trapassa in Cielo. 60 Ugo: Io sono venuto proprio a portarti via da questo luogo, o donna. 61 Pia: E che, forse tu pentito di una così grande enormità… Ahi stolta! Io già quasi ti credevo scellerato soltanto a metà. Perdona. 62 Ugo: Rifletti. Guardati intorno, e dimmi: che cosa ti ha dato finora questa tua ostinata virtù? 63 Pia: Quello che ho sofferto per essa. Assai più che per i suoi 59
484
Ugo
Pia
CARLO MARENCO
Superbi sogni, splendide follie ti seducon la mente. Io ti compiango. Ma più ancor che uno sterile compianto offrir ti posso. A strugger io son pronto l’opra mia stessa. Al tuo consorte ordire un’opposta saprò tela d’inganni tal, che a te valga la sua grazia antica. Lunge, se il vuoi, poss’io da’ toschi lidi guidarti sì, che poi si stanchi indarno chiunque corra sui vestigi nostri: e la patria mi fia così perduta felicità suprema. Io per te posso cosa qualunque (In tuono di disperato rammarico.) che virtù non sia. 64 Se me dell’universo anco potessi crear regina, al regio stato io questa innocente miseria anteporrei. Una corona glorïosa in fronte qui mi pon la sventura: e mal di gemme
premi, o anima vile, il forte l’ama per le sue sofferenze! Sono queste che gliela rendono nobile e bella. La seguiresti anche tu, se non fosse difficile. 64 Ugo: Sogni superbi, splendide follie, ti seducono la mente. Io ti compiango. Ma ti posso offrire anche più che uno sterile compianto. Io sono pronto a distruggere la mia stessa opera. Al tuo consorte saprò ordire una trama opposta di inganni tali che ti riporti il suo antico favore. Se lo vuoi, posso guidarti così lontano dai lidi toscani che poi si stanchi invano chiunque corra sulle nostre tracce. E la patria così perduta mi sarà felicità suprema. Per te io posso qualsiasi cosa, che non sia virtù.
La Pia. Tragedia
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s’adorneria sul trono il capo mio coronato d’infamia. 65 Ugo
A te sul capo quest’infamia temuta è omai discesa. Scuoter la tenti invan. Che più ti resta? Cogliere in pace dell’infamia il frutto. 66
Pia
Oh spavento! — E fia ver che tanto possa la menzogna quaggiù? Dunque il mio nome intemerato, il mio buon nome è spento? Inulta giacerà pur dopo morte la mia memoria, e per me sola un giorno non sarà di giustizia il giorno estremo? Ma che mi lagno io più? Forse ch’io sono men per questo innocente, o tu men empio? Se al mio sposo in onore anco tornarmi tu, mentendo, potessi, e nel più eccelso seggio di gloria matronal ripormi, sdegno una lode, cui dissente il core; ed è lode l’infamia allor che i tristi compartono la fama. Oh! sia longeva quant’esser può: sul sepolcral mio marmo scritta altamente la menzogna duri,
Pia: Se anche tu potessi crearmi regina dell’universo, alla condizione regia io preferirei questa miseria innocente. Qui la sventura mi pone in fronte una corona gloriosa, e sul trono il mio capo, coronato d’infamia, mal si adornerebbe di gemme. 66 Ugo: Questa infamia temuta ormai ti è discesa sul capo. Invano tenti di scuoterla. Che ti resta più? Cogliere in pace il frutto dell’infamia. 65
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Ugo
Pia
CARLO MARENCO
e di secolo in secolo travolga nell’obbrobrio il mio nome: il vero è eterno, e non s’affretta a rivelar sé stesso per questo appunto, che non muor giammai. Tu, che d’umano testimon non temi, che nella maestria delle tue frodi superbisci, paventa. È un occhio in Cielo che le fosche caligini del mondo penètra, e pien di verità, di luce oltre i secoli un dì… 67 Da me frattanto 68 chi ti salva infelice? (Atterrita.) Ugo!… Ardiresti?…
Pia: Oh spavento! — E sarà vero che quaggiù la menzogna abbia tanto potere? Dunque il mio nome immacolato, il mio buon nome, è morto? Anche dopo la morte la mia memoria giacerà invendicata, e soltanto per me l’ultimo giorno non sarà un giorno di giustizia? Ma perché mi lamento ancora? Forse che per questo io sono meno innocente o tu meno empio? Se anche tu, mentendo, potessi riportarmi in onore al mio sposo e ricollocarmi sul trono più alto della gloria femminile, io disprezzo una gloria che il cuore non condivide; e quando i malvagi attribuiscono la fama, la lode è un’infamia. Oh! la menzogna viva quanto può, duri a lungo scritta sulla mia pietra tombale e travolga il mio nome di secolo in secolo nella vergogna: la verità è eterna, e proprio per questo non si affretta a rivelare se stessa: perché non muore mai. Tu che non temi testimone umano, che insuperbisci per la maestria dei tuoi inganni, trema. In Cielo c’è un occhio che penetra le fosche nebbie del mondo, e pieno di verità, di luce, oltre i secoli, un dì… 68 Ugo: Nel frattempo, infelice, chi ti salva da me? 67
La Pia. Tragedia
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(Con disperato coraggio.) Sull’alma mia tu nulla puoi. Di questo mio fral privarti anco poss’io. 69 (Si accosta ad una finestra, e si pone in attitudine risoluta ed imponente.) Ugo
Che [tenti?… (Vuole appressarsele: ma ad un suo gesto, che gl’impone di arrestarsi, colpito da involontaria reverenza, si ferma.) Ond’è che il piede una possanza arcana par che m’arresti? Minacciosa e balda guata ella a me, che al suo cospetto tremo. Donna!… 70
Pia
(Con maestà e forza.) Lo sguardo temerario abbassa. Volgilo al fango vile, a cui somigli, e al qual sovente declinar lo suoli per non mirare il Ciel. 71
Pia: Ugo!… Oseresti?… Sulla mia anima tu non puoi nulla. Io posso privarti anche di questo mio corpo. 70 Ugo: Che cerchi di fare? — Perché un potere misterioso pare trattenermi i piedi? Ella mi guarda così minacciosa e superba, che davanti a lei io tremo. — Donna!… 71 Pia: Abbassa il tuo sguardo insolente. Volgilo al fango vile a cui somigli ed a cui sei solito abbassarlo spesso per non guardare il Cielo. 69
488
CARLO MARENCO
M’insulti ancora?
Ugo
Ah ch’io!…
72
Pia
(Fatta maggiore di sé stessa dal sentimento della propria dignità, gli dice con gran forza.) Più oltre il venerando asilo Non profanar della sventura. Parti. 73
Ugo
(Attonito e quasi fuor di sé.) Non è dunque virtude un nome vano? 74 (Mentre Ugo parte, cade il sipario.)
Ugo: Mi insulti ancora? Ah che io!… Pia: Non profanare più oltre il rifugio venerando della virtù. Parti. 74 Ugo: Dunque virtù non è una parola vuota? 72 73
La Pia. Tragedia
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Giornata quarta Casa di Rinaldo. Camera con finestra praticabile. Notte. Rinaldo, una Fanciulla. Rinaldo
Figlia! Tu sola a me rimani. 1 Padre!… 2
Fanciulla Rinaldo Fanciulla Rinaldo
E a te rimango io solo. 3 Ah! dimmi… 4 Ed [eri tu comune d’entrambi affetto e speme. Per te sovente io d’imprecar m’astengo a quel nodo infelice, onde tu sei sì caro frutto… ed ahi! talvolta in fronte di quel nodo esecrato aver mi sembri la maledetta impronta, e allor m’è forza dal mio petto divellerti. 5
Rinaldo: Figlia! Tu sola mi rimani. Fanciulla: Padre!… 3 Rinaldo: Ed a te rimango soltanto io. 4 Fanciulla: Ah! dimmi… 5 Rinaldo: E tu eri affetto e speranza comune di entrambi. Per te io mi trattengo spesso dal maledire quel legame infelice, di cui tu sei così caro frutto… ed ahi! talvolta mi sembri avere in fronte l’immagine maledetta di quel legame odiato, ed allora sono costretto a strapparti dal mio petto. 1 2
490
Fanciulla
CARLO MARENCO
(Sbigottita.) Dal giorno che disparve di qui la madre mia, tu mi fai pianger sempre. Ov’è? Quand’io di lei ti chieggo, e perché taci, o padre? 6
Rinaldo
Cessa! 7
Fanciulla
Forse morì? Pur non la vidi alla tomba recar. Pur non vestisti le brune spoglie, che portar tu suoli, se alcun de’ nostri a morte vien. 8
Rinaldo
Le [donne, che a tua madre somigliano, assai pria che scendano alla tomba morte sono: e pria che nelle vesti, altrui nell’alma pongono il lutto, e nol depon giammai. 9
Fanciulla
Che di’? Fors’ella provocotti ad ira un qualche fallo commettendo? Anch’io
Fanciulla: Dal giorno in cui la madre mia è scomparsa da qui, tu mi fai sempre piangere. Dov’è? E perché, o padre, quando ti chiedo di lei, tu taci? 7 Rinaldo: Smetti. 8 Fanciulla: Forse è morta? Eppure non l’ho vista portare alla tomba. Eppure non hai messo i vestiti scuri che sei solito portare quando muore qualcuno dei nostri. 9 Rinaldo: Le donne che somigliano a tua madre assai prima di scendere nella tomba sono morte: e prima che nei vestiti, mettono il lutto nell’anima altrui, e non ve lo tolgono mai più. 6
La Pia. Tragedia
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fallii talvolta, e ti chiedea perdono, e l’ottenea. Non l’implorò peranco? Io per la madre, a te ’l chiegg’io. Perdona. 10 Rinaldo
Sei tu un angiol del Ciel, che a me favella? Sei la voce di Dio, che mi ricorda la dolce legge del perdon? (Quasi da sé per tutta la parlata.) Che dissi! È dolce il perdonar quando l’oltraggio di sangue sì, non di rossor ti copre, e lode di magnanimo, non taccia d’uom senza onore è il non punir la colpa. È dolce il perdonar quando colui, che t’offese, è stranier, né mai tuo core palpitò contro il suo, né fu concetto fra le braccia tue stesse il tradimento. Ma la metà di te medesmo offesa all’altra non perdona: e Iddio clemente fu bensì della polve all’umil figlio, ma l’angiol fulminò. 11
Fanciulla: Che dici? Forse lei ti ha provocato all’ira, commettendo qualche colpa? Talvolta ho sbagliato anch’io, e ti chiedevo perdono, e lo ottenevo. Ancora non l’ha chiesto? Te lo chiedo io per la madre. Perdona. 11 Rinaldo: Sei tu un angelo del Cielo che mi parla? Sei la voce di Dio che mi ricorda la dolce legge del perdono?… Che ho detto!… Il perdonare è dolce quando l’offesa ti copre di sangue, non di vergogna, ed il non punire la colpa è lode di animo grande, non accusa di uomo senza onore. Il perdonare è dolce quando chi ti offese è straniero, ed il tuo cuore non ha mai palpitato contro il suo, ed il tradimento non fu concepito tra le tue 10
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CARLO MARENCO
Che parli?… 12
Fanciulla
Oh! [lasciami. 13
Rinaldo
Fanciulla
A chi n’andrò, se tu mi scacci?
Rinaldo
(Come punto sul vivo, tragge un profondo sospiro.)
Fanciulla
Padre! Che hai? Di’, che ti feci?… Ah! se la madre teco qui fosse, non saresti mesto e sdegnoso qual sei. 14 Taci! 15
Rinaldo Fanciulla
(Piangendo.) Respinta ella non m’ha sì duramente mai. 16
stesse braccia. Ma la metà di te stesso che è stata offesa non perdona all’altra metà; e certo Iddio fu benigno verso l’umile figlio della polvere, ma fulminò l’angelo. — Il figlio della polvere è Adamo, mentre l’angelo è Lucifero; per le loro rispettive colpe, vedi la Bibbia, Genesi, 3, 1–24; Vangelo secondo Luca, 10, 18.
Fanciulla: Che dici?… Rinaldo: Oh! lasciami. 14 Fanciulla: Da chi andrò, se tu mi scacci? Padre! Che hai? Dimmi, che ti ho fatto?… Ah! se la madre fosse qui con te, non saresti triste e sdegnoso come sei. 15 Rinaldo: Taci! 16 Fanciulla: Lei non mi ha mai respinta così duramente. 12 13
La Pia. Tragedia
Rinaldo
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(Altamente commosso.) Figlia! Oh ambascia! Non più. (Con impazienza.) Lasciami. 17
Fanciulla
(Partendo.) Oh [madre! 18
Scena seconda. Rinaldo. Rinaldo
Sin l’effigie sua stessa ho fastidita, poi che della beltà delle sue forme mi ridesta l’imago: e a me sol giova l’idea de’ vizii, che le bruttan l’alma. Ogni altra è a me rimorso. Or donde sorge di sì giusta vendetta in me il rimorso? Stato infelice il mio! Non so se il fallo più m’attristi, o la pena: e più che ’l fallo e la pena, d’orror m’empie la nostra sì ria natura, e ’l nome d’uom vergogna mi fa, pensando a chi simil mi rende! — Chi giunge?… Il padre di colei! 19
Rinaldo: Figlia!… Oh! angoscia!… Basta. Lasciami. Fanciulla: Oh! madre! 19 Rinaldo: Persino la sua stessa somiglianza mi infastidisce, perché mi risveglia l’immagine della bellezza delle forme di lei, ed a me giova solo l’idea dei vizi che le imbruttiscono l’anima: ogni altra mi è causa di rimorso. Ma donde nasce ora in me il rimorso per una vendetta così giusta? La mia condizione è infelice! Non so se mi rattristi più la colpa o la pena; e più che la 17 18
494
CARLO MARENCO
Scena terza. Tolommei padre, Rinaldo. Tolommei
Rinaldo! 20
Rinaldo
Quando i consoli teco a nome mio fermar quel patto, onde un sol muro entrambi e una fossa or ne cinge, io della patria teco bensì la signoria divisi, questa non già dei miei privati lari non turbanda quiete. Ah! troppo lunga una de’ Tolommei dimora fece nell’ostel mio già sì felice; e ’l Cielo poi d’infortunio e di dolor colmollo! 21
Tolommei
E tu quel sei, che d’animo alla pace restìo, fiero, ostinato accusar tutta la mia gente solevi? A te più assai, che la prosperitade a noi già fosse, maestra di superbia è la sventura. 22
colpa e la pena mi riempie di orrore la nostra natura così malvagia, ed il nome di uomo mi fa vergogna, pensando a chi mi rende simile! — Chi giunge?… Il padre di colei! 20 Tolomei: Rinaldo! 21 Rinaldo: Quando in mio nome i consoli firmarono con te quel patto, per cui ora ci cinge entrambi un solo muro ed un solo fossato, io divisi con te la signoria della patria, ma non anche questa quiete della mia casa privata, che non deve essere turbata. Ah! già una Tolomei restò troppo a lungo nella mia casa un tempo così felice, e poi il Cielo la colmò di disgrazia e di dolore! 22 Tolomei: E tu sei quello che era solito accusare tutta la mia gente di avere animo contrario alla pace, fiero, ostinato? La sventura ti è maestra di superbia più di quanto la prosperità lo sia stata a noi.
La Pia. Tragedia
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Rinaldo
L’encomio accetto, e aver mi vanto un core qual non è il vostro, a superbir sol uso negl’improsperi casi. — Or qui che cerchi? 23
Tolommei
Quel ch’è mio cerco: e saper vo’, s’io deggio sovra la pietra sepolcral d’un prode figlio nel campo dell’onor caduto pianger soltanto, o sull’oscura tomba d’una figlia qual vittima immolata lagrimar anco: se il destin sol deggio maledir della guerra, e insiem l’umana ferocità d’ogni destin più cruda. 24
Rinaldo
Il reo tuo sangue maledir dovresti, e quell’istinto, ch’ha il peggior sovente di riprodur sé stesso, onde si faccia la terra al seme de’ migliori angusta, e l’alito de’ tristi al buono infetti l’aure ch’ei spira. 25
Rinaldo: Accetto l’elogio, e mi vanto di avere un cuore diverso da come è il vostro, perché il mio è abituato ad insuperbirsi soltanto negli eventi infelici. — Che cerchi ora qui? 24 Tolomei: Cerco quello che è mio; e voglio sapere se devo piangere soltanto sulla pietra tombale di un figlio valoroso caduto sul campo dell’onore od anche versare lacrime sulla tomba oscura di una figlia immolata come vittima: se devo maledire soltanto il destino della guerra od anche la ferocia umana, più crudele di ogni destino. 25 Rinaldo: Dovresti maledire il tuo sangue colpevole e quell’istinto di riprodurre se stesso che spesso ha chi è il peggiore, sicché la terra diventi troppo stretta per il seme dei buoni e l’alito dei malvagi infetti al buono l’aria che egli respira. 23
496
Tolommei
Rinaldo
CARLO MARENCO
Dalle tue parole, figlio (ché tal nomarti anco mi giova), dalle delire tue parole io traggo non ira, ma pietà, ma reverenza d’un immenso dolore. Oh! della prisca sua fierezza il crin bianco, e i duri affanni quest’anima spogliaro. Odi. La morte fe’ taciturno del vegliardo il tetto, già popolato: ed io qui vengo, e questi luoghi interrogo, ov’io trovar credea di mia famiglia almen l’unico avanzo che rimaso mi fosse: ed ahi! risponde all’iterate inchieste mie silenzio misterïoso; e stupefatta mormora in vario infausto suon la città tutta sovra ’l destin della mia figlia. Dimmi: viv’ella? 26 Vive. 27
Tolomei: Dalle tue parole, figlio, perché ancora mi piace chiamarti così, dalle tue parole deliranti io ricavo non ira, ma pietà, ma rispetto, per un immenso dolore. Oh! i capelli bianchi e le dure sofferenze hanno spogliato questa anima della sua antica fierezza. Ascolta. La morte ha reso silenziosa la casa del vecchio, un tempo popolata; ed io vengo qui, ed interrogo questi luoghi, dove io credevo trovare almeno l’ultimo resto della mia famiglia che mi fosse rimasto; ed ahi! alle mie ripetute richieste risponde soltanto un silenzio misterioso; e tutta la città mormora stupefatta con diverse voci infauste sul destino di mia figlia. Dimmi: lei vive? 27 Rinaldo: Vive. 26
La Pia. Tragedia
Tolommei
497
Oh gioia!… 28
Rinaldo
Aver conviene d’ogni alterezza inver l’anima spoglia, basso invero il pensier per rallegrarsi d’una figlia all’onor sopravvissuta, e non piuttosto deplorar che in fasce morta non sia; che il fulmine divino non la colpisse il dì, che a me solenne giurò una fede, che in suo cor tradiva. 29
Tolommei
Sovra il tuo capo il fulmine divino, sovra il tuo capo, o disuman, che tolta alle dolcezze del natìo soggiorno una vergin, sospir di mille cori, la seppellisti — ove non so — ma certo in loco orrendo, inabitabil, dove a umano orecchio ignoto, inutil, solo il suo gemito suoni. Ov’è mia figlia? Della paterna autoritade in nome altamente io t’interrogo. Rispondi. 30
Tolomei: Oh gioia!… Rinaldo: Bisogna avere l’anima veramente spoglia di ogni fierezza, avere il pensiero veramente vile, per rallegrarsi di una figlia sopravvissuta all’onore, anziché rimpiangere che non sia morta in fasce, che il fulmine divino non la colpisse quel giorno che solenne mi giurò una fedeltà che in cuor suo tradiva. 30 Tolomei: Sul tuo capo il fulmine divino, sul tuo capo, o disumano, che tolta dalle dolcezze del casa nativa una vergine, sospiro di mille cuori, la seppellisti, dove non so, ma certo in qualche luogo orribile, inabitabile, dove risuoni soltanto il suo gemito, inutile, ignoto ad ogni orecchio umano. Dov’è mia 28 29
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Rinaldo
CARLO MARENCO
D’una più forte autoritade in nome questo dimando or io: quando fra i nostri guerrier nel sonno e nell’oblio sepolti io sol vegliava in gravi cure, e a lei pur volava dal campo il mio sospiro, dov’era allor la figlia tua, dov’era? Siena dormia sotto le tende, e scosse qui le spose in lor vedova quiete spesso da sogni, che avverò l’evento, balzar dal tetto trepide, e pe’ cari periglianti, fra l’ombra ed il silenzio mormorar la preghiera. Ah! la mia sposa sola, la figlia tua dormì tranquilli sovr’adultere piume i sonni suoi: e se la spaventò forse un fantasma figlio del suo rimorso, era l’imago del mio ritorno. Della sua perfidia voi, talami traditi, attesto, e voi, troppo conscie pareti. E che mi giova da me reietta aver colei, se viva nell’alma, incancellabile, profonda mi funesta l’idea del suo delitto: se qui di lei tutto ragiona, e l’aura parmi fremere ancor della sua voce: se ognor ne’ sogni a me ne vien possente dell’antica lusinga, acciò più sempre mi ridesti infelice? Oh! dalla tomba me non perseguirìa più assiduo spettro, quando uccisa l’avessi: e non è crudo
figlia? Solennemente io ti interrogo in nome dell’autorità paterna. Rispondi.
La Pia. Tragedia
499
il rimorso così, né il pentimento, qual è il dolor, che del rigor suo giusto prova l’anima mia. 31 Tolommei
Rinaldo
Giusto?… Da inganno tu, da fallace opinïon securo sei? Ma l’error sì agevolmente repe negli umani giudizii… 32 E che? Questi [occhi
Rinaldo: In nome di un’autorità più grande ora io domando questo: quando fra i nostri guerrieri, sepolti nel sonno e nell’oblio, io solo vegliavo in gravi preoccupazioni, e tuttavia il mio sospiro volava dal campo a lei, dov’era allora tua figlia, dov’era? Siena dormiva sotto le tende, e qui le spose, scosse spesso nella loro vuota quiete da sogni che gli eventi poi hanno avverato, balzarono trepidanti dal letto e fra l’ombra ed il silenzio mormorarono la preghiera per i cari in pericolo. Ah! soltanto la mia sposa, la figlia tua, dormì tranquilli i suoi sonni sopra piume adultere; e se forse la spaventò un fantasma, figlio del suo rimorso, era l’immagine del mio ritorno. Della sua perfidia chiamo a testimoni voi, letto matrimoniale tradito e voi pareti fin troppo consapevoli. Che mi giova averla rigettata da me, se incancellabile, viva nell’anima, l’idea del suo delitto mi tormenta profonda; se qui tutto parla di lei, e l’aria mi sembra ancora vibrare della sua voce; se essa mi ritorna sempre in sogno, forte dell’antica lusinga, affinché io mi risvegli sempre più infelice? Oh! lo spettro non mi perseguiterebbe in maniera più assidua, se l’avessi uccisa; e non il rimorso né il pentimento è così crudele come è il dolore che la mia anima prova per la sua giusta severità. 32 Tolomei: Giusta?… Sei tu al riparo da un inganno, da una falsa opinione? Ma l’errore scivola così facilmente nei giudizi umani… 31
500
CARLO MARENCO
traveggon forse, o ’l mio intelletto è scemo? (Additandogli dalla finestra il luogo sottoposto.) Mira. Là dove ruïnar tue sedi, ruïnò d’una stirpe anco l’onore. Testimoni alla colpa erano quante in ciel stelle rifulgono… (Con raccapriccio.) Di quella notte parmi spirar l’aure infelici! Fra quegl’ingenti ruderi appiattato er’io, quando l’indegna… Ah! mi ribolle novellamente nelle vene il sangue, e la destra sull’elsa anche mi corre, e mi sembra che il braccio un’altra volta m’afferri Ugo, e… 33 Tolommei Rinaldo
Ti calma! 34 Ugo, ove sei? Lunge da Siena ove t’aggiri, o amico, da sì gran tempo? Or ché non può costui
Rinaldo: E che? Forse che questi occhi travedono od il mio intelletto è indebolito? Guarda. Là dove le tue case andarono in rovina, è andato in rovina anche l’onore della tua stirpe. Tutte le stelle che risplendono in cielo erano testimoni alla colpa… Mi sembra di respirare le arie infelici di quella notte! Io ero appiattato tra quei grandi ruderi, quando l’indegna… Ah! il sangue mi ribolle nuovamente nelle vene, e la destra mi corre ancora sull’elsa della spada, e mi sembra che Ugo mi afferri un’altra volta il braccio, e… 34 Tolomei: Calmati! 33
La Pia. Tragedia
501
dal tuo labbro fedel… (Si ode di dentro un forte gemito.) Oh! qual s’intese un gemito qui presso?… Ovver m’illude forse l’accesa fantasia?… Vaneggio?… (Suonano le tre ore.) Ahi! suonò l’ora terza! 35 (Cade come colpito da spavento sopra una sedia: silenzio.) Tolommei
(A parte.) Alta pietade mi fa. Del traditor la sottil arte gli è scusa, e il fallo involontario espia con arcani dolori. (A Rinaldo, che rinviene.) Odi. Quell’Ugo che nomavi testè, verace amico è a te davver qual credi? E non ti cadde sospetto mai sovr’esso? 36
Rinaldo: Ugo, dove sei? Dove ti aggiri, amico, da così grande tempo lontano da Siena? Perché ora costui non può dal tuo labbro fedele… Oh! che gemito si è udito qui vicino?… O forse mi illude la fantasia esasperata?… Vaneggio?… Ahi risuonò l’ora terza! 35
— L’ora terza che risuona nella mente delirante di Rinaldo sono le tre di quella notte in cui egli ha visto Pia abbracciarsi con il creduto amante.
Tolomei: Mi fa una grande pietà. L’arte sottile del traditore lo scusa, e con misteriosi dolori espia la colpa involontaria. — Ascolta. Quell’Ugo che hai nominato poco fa, ti è veramente amico sincero come tu lo credi? E non hai mai sospettato di lui? 36
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CARLO MARENCO
Rinaldo
Il fatto, il fatto, non le vuote parole, ei diemmi in prova della sua lealtà. 37
Tolommei
Pur quell’onesto cure atroci dilaniano, e sembiante d’implacabil rimorso hanno. 38
Rinaldo
Tolommei
Che [ascolto! 39 Lunge da’ luoghi popolati ei fugge ogni vivente aspetto; e ove più veste selvaggio orror natura, erra solingo, pavido, irrequïeto, e ’l passo affretta, quasi inseguito, e si rivolge addietro. Su qual più d’Appennino erge la fronte scosceso, alpestre giogo, ivi sovente trafelando s’arrampica, e dall’alto giù pe’ tremendi precipizii il guardo avido volve, e già sull’orlo pendere, già… Ma in quel punto un’invisibil destra par rattenerlo: e lo diresti un uomo dal Ciel dannato ad abborrir la vita, e a viver pe’ rimorsi. 40
Rinaldo: Il fatto, il fatto, non le vuote parole, egli mi ha dato come prova della sua lealtà. 38 Tolomei: Eppure atroci tormenti dilaniano quell’onesto, ed hanno l’aspetto di rimorso implacabile. 39 Rinaldo: Che sento! 40 Tolomei: Lontano dai luoghi abitati, egli fugge ogni traccia vivente, e vaga solitario, pauroso, inquieto dove la natura più 37
La Pia. Tragedia
Rinaldo Tolommei
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Il ver mi narri? 41 Lui col bordon del peregrino in pugno, e in aspro saio penitente avvolto, pallido, macilento, e colla barba lunga sul petto e squallida, i cultori attoniti mirar profughe l’orme attraverso de’ campi, o in riva a’ fiumi agitar senza scopo: e v’ha chi ’l vide alle soglie degl’eremi tranquille approssimarsi gemebondo in atto d’antico peccator, che corre in cerca d’un difficil perdon… Ma tocco appena il sacro limitar, s’arretra e fugge, quasi timido ei sia di vïolarlo con piè profano. 42
si riveste di orrore selvaggio, ed affretta il passo e si volta indietro come fosse inseguito. Spesso si arrampica ansimando su ogni giogo dell’Appennino che più innalza scoscesa la cima, e dall’alto volge lo sguardo avido giù per i precipizi orribili, e già pendere sull’orlo, già… Ma a quel punto una mano invisibile sembra trattenerlo; e lo diresti un uomo condannato dal Cielo ad odiare la vita ed a vivere per i rimorsi. 41 Rinaldo: Mi racconti la verità? 42 Tolomei: Con in mano il bastone da pellegrino, ed avvolto in un rude saio da penitente, pallido, emaciato, con la barba lunga ed incolta sul petto, i contadini lo hanno visto attoniti attraversare da fuggitivo i campi o agitarsi senza scopo in riva ai fiumi; e c’è chi lo ha visto avvicinarsi gemendo alle tranquille soglie degli eremitaggi, simile ad un peccatore antico che corre in cerca di un perdono difficile… Ma appena tocca il sacro limite, si arresta e fugge, quasi temesse di violarlo con piede sacrilego.
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CARLO MARENCO
Rinaldo Tolommei
43
E sei ben certo?… 43 Io [stesso, mentre in val d’Arbia ad espugnar castella colla guelfa vittrice oste mi stava, da voci, che correan timide e vaghe pria fui mosso al sospetto: indi mi diedi l’orme a spiar del fuggitivo, e tanto mi fu propizio il giusto Ciel, che in breve di scontrarlo m’avvenne. Ei, come l’occhio su me gli corse, allibbì, vacillarongli le ginocchia, fuggir volea: ma lì, come impietrito, immobile ristette, poi, sia disperazion, che in lui destasse un estremo coraggio, o che rimaso qualche nobile spirto in sen gli fosse, levò la testa alteramente, e tutta da sommo ad imo furïando scindersi l’umil sua veste, e in ferrea maglia astrette svelar le membra, e il brando al fianco, un lampo fu. « Giudizio di Dio sui nostri acciari! » fieramente gridò. L’empio invocava il giudizio di Dio, ma in cor sua speme tutta degli anni alla ragion dispari fidava: e non sapea quanto a tor valga, o ad accrescer vigore a un braccio umano la ragion della causa. Il brando io dunque snudo, e vindice Iddio degl’innocenti altamente chiamando… Ma che giova
Rinaldo: Ne sei proprio sicuro?…
La Pia. Tragedia
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che alla tua mente allucinata il velo d’un orribile inganno a strappar tardi? (Porgendogli un foglio.) Prendi, infelice, questo foglio, e leggi. 44 Rinaldo
Che fia?… D’Ugo i caratteri son questi! (Lo scorre rapidamente in silenzio con molta commozione.) Me misero, che lessi!… Oh! tradimento!… Sposa innocente mia, quanto fui teco ingiusto e crudo! 45
Tolomei: Io stesso, mentre me ne stavo in val d’Arbia con il vittorioso esercito guelfo ad espugnare castelli, fui prima messo in sospetto da voci che correvano timorose ed imprecise; quindi mi misi a spiare le tracce del fuggitivo, ed il giusto Cielo mi fu così propizio che in breve mi capitò di incontrarlo. Non appena l’occhio gli corse su di me, egli allibì, gli vacillarono le ginocchia, voleva fuggire: ma rimase lì, immobile, come impietrito. Poi, fosse disperazione che destasse in lui un estremo coraggio o che gli fosse rimasto in petto qualche nobile sentimento, alzò superba la testa, e fu un lampo strapparsi con furia la sua umile veste, e mostrare le membra strette in maglia ferrea, e la spada al fianco. Fieramente gridò: « Giudizio di Dio sulle nostre spade! » L’empio invocava il giudizio di Dio, ma in cuor suo confidava ogni speranza sulla differenza di età, diversa dall’avere ragione, e non sapeva quanto possa togliere od accrescere vigore ad un braccio la giustizia della causa. Io sfodero dunque la spada, ed invocando a gran voce Iddio vendicatore degli innocenti… Ma a che serve che io tardi a strappare dalla tua mente allucinata il velo di un orribile inganno? Infelice, prendi questo foglio e leggi. 45 Rinaldo: Che sarà?… Questa è la scrittura di Ugo! Misero me, cosa ho letto!… Oh tradimento!… O mia sposa innocente, quanto sono stato ingiusto e crudele con te! 44
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CARLO MARENCO
Tolommei
In avvenir tu credi, pria ch’a’ tuoi lumi, che ingannar ti ponno, a specchiata virtù. 46
Rinaldo
(Dopo aver riletto il foglio.) Ma non fia poi un inganno quest’esso, una menzogna? Non son d’Ugo i rimorsi un’ingegnosa fola all’uopo tessuta? E non l’avrebbe a se medesmo calunniar costretto la tua pietà paterna? A questo foglio, che tu stesso mi porgi, io ciecamente presterò fede? 47
Scena quarta. Tolommei, non osservato da Rinaldo, avrà fatto un segno verso la parte ond’è venuto in scena. Al momento che Rinaldo profferisce l’ultima parola, compare Ugo ferito nel petto, reggendosi a stento, appoggiato a due guerrieri, smunto e pallidissimo, con barba lunga, e in veste di peregrino lacera sul davanti. Ugo
Ad un morente credi. 48
Tolomei: In futuro, prima che ai tuoi occhi, i quali ti possono ingannare, credi ad una virtù esemplare. 47 Rinaldo: Ma non sarà poi proprio questo un inganno, una menzogna? I rimorsi di Ugo non sono una favola ingegnosa appositamente inventata? E la tua pietà paterna non l’avrebbe costretto a calunniare se stesso? Crederò ciecamente a questo foglio che tu stesso mi porgi? 48 Ugo: Credi ad un morente. 46
La Pia. Tragedia
507
Rinaldo
Oh! vista! 49
Tolommei
Io qui nell’ora sua suprema fei strascinarlo a confermar col labbro, poi che un debile spirto anco gli resta, di quel foglio le note. 50
Rinaldo
Ugo
Empio! E [potesti?… 51 Non teme ira mortal, giudice umano non paventa colui, che all’atterrito pensier dinanzi ha il Giudice divino, e l’eterna vendetta. Odi, Rinaldo: null’altra forza mi dettò lo scritto, che la forza del ver. Potea, volendo, meco trar nella tomba il mio segreto. Pria d’or svelato anco l’avrei: ma vinto fu da troppa vergogna il pentimento. 52
Rinaldo: Che vedo! Tolomei: Io lo feci trascinare qui a confermare, nella sua ultima ora, le parole di quel foglio con la sua bocca, poiché ancora gli resta un debole spirito. 51 Rinaldo: Empio! Ed hai potuto?… 52 Ugo: Non teme ira mortale, non teme giudice umano, chi davanti al pensiero atterrito ha il Giudice divino e la vendetta eterna. Ascolta, Rinaldo. Nessuna altra forza, se non la forza della verità, mi ha dettato quello scritto. Se avessi voluto, avrei potuto portare il mio segreto con me nella tomba. L’avrei svelato anche prima d’ora: ma il pentimento fu vinto dalla troppa vergogna. 49 50
508
CARLO MARENCO
Rinaldo
(Con furore, in procinto di avventarsi su Ugo.) Tal delitto a punir fia troppo lenta quella ferita. 53
Ugo
Oh! ti prevengo. (Si strappa le bende.) A terra brevi ritegni d’odïosa vita. (Cade.) Ah! non fugge col sangue il mio rimorso! Eternamente l’anima infelice mi roderà. 54 (Spira, e viene strascinato via dai due guerrieri.)
Rinaldo
Tolommei
Volo a’ tuoi piedi, o sposa. (A Tolommei.) Deh! tu meco ne vien del suo perdono Intercessor. 55 Pur che si giunga in tempo. 56
Rinaldo: Quella ferita sarà troppo lenta a punire un tale delitto. 54 Ugo: Oh! ti precedo. A terra, brevi ripari di una vita odiosa. Ah! il mio rimorso non fugge con il sangue! Mi roderà in eterno l’anima infelice. 55 Rinaldo: O sposa, volo ai tuoi piedi. — Deh! tu vieni con me per ottenermi il suo perdono. 56 Tolomei: Purché si giunga in tempo. 53
La Pia. Tragedia
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Giornata quinta Vasta campagna deserta e paludosa nella Maremma di Siena, sparsa di tumuli con croci, fiancheggiata da selve, e col prospetto in fondo delle montagne. A sinistra la porta del castello di Rinaldo, al quale si va per un ponte levatoio praticabile, sospeso sur uno stagno. La Pia estenuata, pallida, tremante, esce dal castello camminando a stento, e sostenuta dal Primo Castellano. Pia
Sperai che almen dopo i diurni ardori, di questa luce al tramontar, più lievi avrei spirate negli aperti campi, e men fervide l’aure. E tu benigno m’hai questa breve libertà concessa; di ch’io con voce moribonda il Cielo che te rimerti prego. Ah! non rispose l’effetto alla speranza. Il sen non meno qui, che dentro alle mie squallide stanze, m’avvampano, e ’l respir soffocan queste aure maligne. Ecco, nel ciel d’ignite falde, e di sangue in occidente sparso, d’un dì più tristo la minaccia io leggo: quindi all’occaso di mia vita anelo, e pavento il dimane. 1
Pia: Ho sperato che almeno dopo la calura del giorno, al tramonto di questa luce, nei campi aperti avrei respirate arie più leggere e meno infuocate. E tu, benevolo, mi hai concesso questa breve libertà, e di questo con voce moribonda io prego il Cielo 1
510
CARLO MARENCO
Castellano
Oltre l’usato fieri in quest’anno dal leon saetta i rai nocenti il sol. Natura istessa contro il tenero fior di tua salute, par congiurata. Ah! non dovrìa coll’uomo gareggiar di ferocia, e contemplando questa dolce beltà che si consuma, dell’immite stagion, del feral clima dovrìa, se un senso di pietade avesse, temperare il rigor. 2
Pia
L’infermo fianco sopra quel sasso adagerò. (Siede.) Mi parve talor, sognando, per fiorite piagge vagar agile e sciolta: e tutto allora il vigor delle mie giovani membra credei sentirmi. O colli ameni, ov’io
che ti ricompensi. Ah! il risultato non ha corrisposto alla speranza. Queste arie maligne mi soffocano il respiro e mi incendiano il petto qui non meno che nelle mie squallide stanze. Ecco, nel cielo cosparso verso occidente di falde infuocate e di sangue, io leggo la minaccia di un giorno peggiore: quindi anelo al tramonto della mia vita e temo il domani. 2 Castellano: In quest’anno dalla costellazione del leone il sole scaglia i propri raggi nocivi più forti del solito. La stessa natura sembra congiurata contro il tenero fiore della tua salute. Ah! essa non dovrebbe gareggiare con l’uomo in ferocia e, contemplando questa tua dolce beltà che si consuma, se avesse un sentimento di pietà, dovrebbe attenuare il rigore della stagione crudele e del clima funesto.
La Pia. Tragedia
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col mio sposo solea gl’estivi rezzi fruir giulivamente! O refrigerio delle sanesi fonti, ed aer dolce della terra natìa! 3 Castellano Pia
Donna!… 4 Una gioia — ultima! — io qui mi promettea, l’aspetto della terra e del ciel col sospiroso avido sguardo del supremo addio abbracciando, bevendo. Oh! dimmi! È nebbia forse, che vespertina all’aer levasi dal paludoso limo, ovver discese sulle mie luci indebolite un velo? Del monte dell’Argento indarno io cerco le oscure cime: e innanzi a me sol veggo riarse lande, sterili, d’umano vestigio nude, cui fan negra siepe l’ombre giganti delle selve antiche. Tutto è lugubre qui! D’estivi insetti metro discorde e stridulo più tetra mi fa cader sull’animo la noia. (Compare una contadina nel fondo, la quale si pone in ginocchio sopra un tumulo.)
Pia: Riposerò su quel sasso il mio corpo malato. Talvolta, in sogno, mi sembrò di vagare agile e sciolta per campi fioriti, ed allora credei sentirmi tutto il vigore delle mie giovani membra. O dolci colli, dove ero solita godere gioiosamente le frescure estive insieme al mio sposo! O refrigerio delle fonti di Siena, ed aria dolce della terra nativa! 4 Castellano: Donna!… 3
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CARLO MARENCO
Parmi lontan lontano udir la mesta squilla del dì morente. Il flebil suono m’intenerisce ed a plorar m’invoglia. — Oh!… qual donna vegg’io là genuflessa sovra un sepolcro? Misera! La terra bacia pregando, e par che pianga. Ah! dunque sola qui la mia lagrima non scende: ho compagni al dolor! Deh! mi concedi, ch’io dappresso la vegga, e le ragioni. 5 Castellano
(Alla contadina.) Per poco il tuo pietoso atto interrrompi, e a lei, che teco favellar desìa, rispettosa t’accosta. 6
Pia: Una gioia — l’ultima! — io mi ripromettevo qui, abbracciando, bevendo, con lo sguardo sospiroso, avido, dell’ultimo addio la vista della terra e del cielo. Oh dimmi! È forse nebbia della sera che si alza in aria dal fango della palude, oppure sui miei occhi indeboliti è sceso un velo? Invano io ricerco le oscure cime del monte Argentario, ed innanzi a me vedo soltanto distese aride, sterili, prive di ogni traccia umana, a cui fanno nera siepe le ombre giganti delle antiche foreste. Qui tutto è lugubre! Il canto dissonante e stridulo di insetti estivi mi fa cadere più triste la noia nell’anima. Mi sembra di udire lontano lontano la mesta campana del giorno che muore. Il debole suono mi intenerisce e mi dà voglia di piangere. — Oh!… chi è quella donna che vedo là inginocchiata sopra una tomba? Misera! Bacia la terra, pregando, e sembra che pianga. Ah! dunque qui la mia lacrima non scende da sola: ho dei compagni di dolore! Deh! concedimi che io la veda da vicino, e le parli. 5
— Gli striduli insetti estivi sono le cicale.
Castellano: Interrompi un poco il tuo atto pietoso, e rispettosamente avvicinati a lei che desidera parlare con te. 6
La Pia. Tragedia
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Contadina
(Alzandosi, ed accostandosi alla Pia.) A me ti degni, o Signora… Ma che? Del maremmano crudel morbo in balìa languir tu sembri. Quanta pietà mi fai! Ma tu, che in volto la maestà d’un gran natal pur serbi, perché a spirar dalla città ne vieni queste vampe omicide? 7
Pia
A me ragiona delle mie no, ma delle tue sventure. 8
Contadina
Deh! chi sei tu, che a lamentar gli altrui i proprii mali obblii? Donna! La terra, che tutta irta di tumuli e di croci, quasi funebre campo, intorno miri, è una terra crudel, che a’ cultor suoi, premio de’ lor sudori, apre la tomba. 9
Pia
E a me pur l’aprirà. — Segui. 10
Contadina: A me ti degni, o signora… Ma che? Tu mi sembri languire in preda al crudele male maremmano. Quanta pietà mi fai! Ma tu, che conservi nel volto la maestà di una nascita grande, perché dalla città te ne vieni a respirare queste fiamme omicide? 8 Pia: Non parlami delle mie sventure, ma delle tue. 9 Contadina: Deh! chi sei tu che, per compiangere quelli degli altri, dimentichi i tuoi propri mali? Donna! La terra che vedi intorno tutta coperta di tumuli e di croci, come un camposanto, è una terra crudele che a chi la coltiva, come premio dei suoi sudori, apre la tomba. 10 Pia: Anche a me l’aprirà. — Prosegui. 7
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Contadina
CARLO MARENCO
Sul capo del mio giovine sposo, ahi! duramente colà discese. Una straniera spica mentre curvo ei mietea sotto la grave meridïana sferza, uscìan letali, negri vapor dal maledetto suolo; e l’infelice, che beveali, come foglia tremando al sol, languide e fesse alfin le membra sul terren distese, e più non surse. Il lamentevol grido de’ pargoletti, che dimandan pane, impavido lo spinse a perigliosi lavorii qui, ’ve spesso agl’inclementi genii del loco nel fervor dell’opre l’incauto agricoltor vittima cade. A sì gran prezzo alimentarne, o caro, perché volesti? Or nel percosso tetto piangon vedova ed orfani, imprecando agli avari signor della Maremma, cui giova il frutto d’una gleba infausta coltivata col sangue. 11
Contadina: Colà essa discese, ahi! duramente, sul capo del mio giovane sposo. Mentre egli curvo mieteva un grano non suo sotto il sole battente del mezzogiorno, dal suolo maledetto uscivano vapori neri, mortali; e l’infelice che li beveva, tremando come foglia al sole, alla fine distese le membra languide e stanche sul terreno, e non si rialzò più. Il pianto lamentoso dei piccoli che chiedono pane lo spinse, coraggioso, ai pericolosi lavori di qui, dove spesso nel fervore delle opere l’incauto agricoltore cade vittima per le crudeli divinità del luogo. — Perché volesti, o caro, alimentarci a così grande prezzo? Ora nella casa colpita piangono vedova ed orfani, maledicendo gli avari signo11
La Pia. Tragedia
Audace!… 12
Castellano Pia
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(Alla contadina.) Ah! [taci, né l’imprecar de’ miseri s’aggiunga a mie tante sciagure! E se al mio sposo, cui mal conosci, per le colpe avite un qualche danno il Ciel minaccia, ah! tutto scenda sul capo mio. (Silenzio. La contadina presa da rammarico per l’imprudente detto, col quale offese involontariamente la Pia, le chiede co’ gesti perdono. Questa si stacca dal collo un ricco monile, e porgendolo alla contadina dice.) Prendi. Sollievo all’inopia e al dolor porgi con queste gemme, che a me di mie dovizie tante rimaser sole — e inutili. Ah! quell’una, che mi fu cara, (Accennando l’anello, che le fu tolto.) e nel sepolcro meco credea portarla, io più non l’ho. Strappata crudelmente mi fu. L’ho vista a terra gittar rabbiosamente, e nella polve pestar, frangerla… Oh ciel! Sul corpo mio più lievemente tollerati avrei,
ri della Maremma che traggono vantaggio da una terra di morte coltivata con il sangue. 12 Castellano: Insolente!…
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CARLO MARENCO
che sulla cara marital mia gemma siffatti spregi. 13 Contadina Castellano
Ah! datti pace! 14 Il Cielo io chiamo in testimon, che a quest’ufizio impietoso io non nacqui. Andronne a Siena: pur contro il grave suo divieto andronne al tuo consorte, al Signor mio. Le antiche mie cicatrici, e il non ignobil brando gli mostrerò: « Guerrier son io, dirogli: perché oltraggiar così del veterano l’onorata canizie: e quasi al mondo gran penuria di vili anime fosse, a vil opra abborrita a forza pieghi un’alma generosa? » 15
Pia: Ah taci, ed alle mie sventure non si aggiunga la maledizione dei miseri! E se per le colpe degli antenati il Cielo minaccia un qualche danno al mio sposo, che tu conosci male, ah! scenda tutto sul capo mio. Prendi. Con queste gemme, che sole ed inutili mi sono rimaste di tante mie ricchezze, porta sollievo alla miseria ed al dolore. Ah! quella sola che mi fu cara e che credevo portare con me nella tomba, io non l’ho più. Mi fu strappata crudelmente. L’ho vista gettare rabbiosamente a terra, e pestare nella polvere, spezzarla… Oh Cielo! Avrei sopportato simili disprezzi più facilmente sul mio corpo che non sulla mia cara gemma nuziale. 14 Contadina: Ah datti pace! 15 Castellano: Io chiamo il Cielo a testimone che io non sono nato per questo dovere spietato. Andrò a Siena: anche contro il suo severo divieto, andrò dal tuo consorte, dal mio signore. Gli mostrerò le mie cicatrici antiche e la non igno13
La Pia. Tragedia
Pia
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Ah! se tant’osi, dell’innocenza mia pur gli ragiona. Digli che qui ne venga — e che s’affretti, se la sua pace ha cara — a udir tal cosa dal labbro mio, ché più tardi saputa piombar grave sull’alma e disperato il pentimento gli farà… (Con entusiasmo.) No, sposo! Pera la fama mia su questa terra, e con queste mie stanche ossa risurga sol nell’ultimo dì, se troppo acerbo il disinganno esser ti debbe. — A lui vanne tu dunque, e… che diss’io! Legata con nodi inestricabili di fraude mi venne ogni discolpa. (Alla contadina.) O amica! Almeno sul tuo diletto lagrimata posa la sepolcral sua terra, e nelle pie canzon de’ toschi mietitor lodato suonerà il nome suo; ma sul mio capo eternamente peserà, ché lieve fa la gleba ai sepolcri il pianto umano, e una santa memoria. Oh! la rugiada questi invan sitibondi ed arsi campi consolar pria vedrai, che l’avel mio
bile spada. Gli dirò: « Io sono guerriero: perché insultare così gli onorati capelli bianchi del veterano? E perché pieghi a forza un’anima generosa ad un’opera vile, aborrita, come se al mondo ci fosse grande mancanza di anime vili? »
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CARLO MARENCO
mortal lagrima bagni. Una calunnia del mio nome s’indonna. Anzi che queste membra afflitte si sfascino, già tolta m’è la vita dell’anima, l’onore, il mio femmineo onor, che già sì bello e illibato splendea: d’orrenda nube l’offuscò la menzogna, ed è omai spento su questa terra, ove d’onor si vive. Giusto Cielo, vendetta! 16 Contadina
Oh che mai sento! 17
Pia: Ah! se osi tanto, parlagli anche della mia innocenza. Digli che venga qui — e si affretti, se ha cara la sua pace — ad udire dalla mia bocca cosa tale che, se saputa più tardi, gli farà piombare sull’anima grave e disperato il pentimento… No, sposo! Perisca la mia fama su questa terra e risorga con queste mie stanche ossa solo nell’ultimo giorno, se il disinganno deve esserti troppo aspro. — Va dunque da lui, e… cosa ho detto! Ogni discolpa mi venne legata con i nodi di una frode inestricabile. — O amica! Almeno sul tuo amato posa compianta la sua terra sepolcrale, ed il suo nome risuonerà lodato nelle canzoni pie dei mietitori toscani: ma sul mio capo peserà eternamente, perché il pianto umano ed una santa memoria rende lieve la terra ai sepolti. Oh! vedrai la rugiada consolare questi campi invano desiderosi di acqua e riarsi, prima che lacrima umana bagni la mia tomba. Una calunnia possiede il mio nome. Prima che queste membra afflitte si disciolgano, già mi viene tolta la vita dell’anima, l’onore, il mio onore di donna, che prima risplendeva così bello e puro: la menzogna lo ha ricoperto con una nube orribile, ed ormai esso è spento su questa terra, dove si vive di onore. Giusto Cielo, vendetta! 17 Contadina: Oh che sento mai! 16
La Pia. Tragedia
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Castellano
A te fann’eco in dimandar vendetta tutte l’alme pietose. 18
Pia
Ah no! Perdono! E possa ancor nel mio supremo affanno l’ultima voce mia suonar perdono. (Facendo alcuni passi per ritornare al castello.) Addio luoghi infelici! A me v’abbella il pianto ond’io v’aspersi: e il Ciel più mite guardi una terra, che de’ fior si veste del mio martirio. (Alla contadina.) Tu, quando al novello biondeggiar della messe amor trarratti su quella tomba a piangere, dintorno guarda; e se mostra di recenti glebe fare un tumulo noti… 19
Contadina Pia
Ah taci! 20 Allora
Castellano: Tutte le anime pietose ti fanno eco nel domandare vendetta. 19 Pia: Ah no! Perdono! Ed anche nel mio estremo affanno possa la mia voce suonare perdono. Addio luoghi infelici! Il pianto con cui vi ho bagnati vi rende belli ai miei occhi: ed il Cielo guardi più mite una terra che si ricopre dei fiori del mio martirio. — Tu, quando al nuovo biondeggiare delle messi amore ti condurrà a piangere su quella tomba, guarda intorno, e se noti un tumulo che mostra zolle recenti… 20 Contadina: Ah taci! 18
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CARLO MARENCO
ricorditi di me, che son la Pia. Siena mi fe’: disfecemi, tu ’l vedi, questa fatal Maremma. (Abbraccia la contadina.) Addio! 21 (S’avvia col castellano per ritornare al castello.)
Scena seconda. La Pia, il castellano. Castellano
Qual odo rumor frequente? Calpestìo mi sembra di correnti cavalli. 22
Pia
Ahimé! Tu fai possentemente palpitarmi il core. 23
Castellano
Sì da lontano a questa volta io veggo due cavalier da due scudier seguiti mover precipitosi. 24 Ah! se l’un d’essi
Pia
Rinaldo fosse!
25
Pia: Allora ti torni memoria di me che sono la Pia: Siena mi ha fatta: questa Maremma fatale, lo vedi, mi ha disfatta. Addio! 22 Castellano: Cos’è questo rumore concitato che sento? Mi sembra un calpestio di cavalli che corrono. 23 Pia: Ahimè! Tu mi fai palpitare violentemente il cuore. 24 Castellano: Sì. Da lontano io vedo due cavalieri seguiti da due scudieri venire precipitosi in questa direzione. 25 Pia: Ah se uno di essi fosse Rinaldo! 21
La Pia. Tragedia
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Nel castello or meco
Castellano
rientra.
26
Pia
No: qui rimaner vogl’io. questo favor deh! non negarmi. 27
Castellano
Oh mira! Già dall’arcione i cavalier balzaro. Ecco a’ scudier fidan le briglie, e avviansi pedestri qui, ché il suol lubrico e molle fa perigliosa a’ corridor la via. 28
Pia
Questi occhi, ahi! nulla veggono. 29 M’inganno?
Castellano
Del mio Signor le insegne…
Che dicesti! 31
Pia Castellano Pia
30
E al portamento, agli atti… 32 Ebben?… 33
Castellano: Ora rientra con me nel castello. Pia: No, voglio restare qui. Deh! non negarmi questo favore. 28 Castellano: Oh guarda! I cavalieri sono già balzati di sella. Già affidano le briglie agli scudieri e qui si avviano a piedi, perché il suolo scivoloso e molle rende pericolosa la via ai cavalli. 29 Pia: Ahi! questi occhi non vedono nulla. 30 Castellano: M’inganno? I simboli del mio signore… 31 Pia: Che hai detto? 32 Castellano: E dall’andatura, dai gesti… 33 Pia: Ebbene?… 26 27
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Non [erro 34.
Castellano
Pia Castellano Pia
Come?… 35 È desso. 36 E fia ver? — S’anco ei [venisse 37 a uccidermi, ben venga. Ah no! 38
Castellano Pia
Di [caldo sudor la fronte ho madida… Sostienmi. Tanta è la piena degli affetti… Io sento tutta tremarmi, e vacillar. 39 T’affida.
Castellano
Seco è il tuo genitore.
40
Castellano: Non sbaglio. Pia: Come?… 36 Castellano: È lui. 37 Pia: E sarà vero? — Se anche egli venisse per uccidermi, ben venga. 38 Castellano: Ah no! 39 Pia: Ho la fronte bagnata di caldo sudore… Sostienimi. Tanto è grande la foga dei sentimenti… Mi sento tremare tutta, e vacillare. 40 Castellano: Affidati a me. Il tuo genitore è con lui. 34 35
La Pia. Tragedia
Pia
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Ei pur?… 41
Castellano
Col [padre no, non verrìa, se qui crudel venisse. 42
Pia
La gioia è che m’opprime. 43
Castellano
Orsù, raccogli i tuoi smarriti spirti. A te vicini già son essi. 44
Pia
Li veggo! 45
Scena terza. Rinaldo, e Tolommei giungono affannosi. La Pia fortemente commossa fa alcuni passi per incontrarli. Vuol parlare, ma non può articolar la parola. Tolommei
Oh figlia! 46
Pia: Anche lui?… Castellano: No, non verrebbe con tuo padre, se venisse qui con intenzioni crudeli. 43 Pia: È la gioia che mi soffoca. 44 Castellano: Su, raccogli le tue forze perdute. Essi già ti sono vicini. 45 Pia: Li vedo! 46 Tolomei: Oh! figlia! 41 42
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CARLO MARENCO
Rinaldo
Oh [sposa! 47 (Cade subito in ginocchio a’ suoi piedi.)
Pia
Rinaldo!… 48
Rinaldo
(Col viso basso.) Pia!… Mira; a’ tuoi pie’ [prostrato… 49
Pia
Sorgi! 50 Il perdon del mio gran fallo [imploro. 51
Rinaldo
Pia
Tu… 52
Rinaldo
(Sempre in ginocchio col viso a terra.) Dagli occhi strappata alfin la benda mi fu. Sien grazie al padre tuo. Quel perfido. 53
Pia
Di lui non più. Vieni al mio petto. 54
Rinaldo: Oh! sposa! Pia: Rinaldo!… 49 Rinaldo: Pia!… Guarda; prostrato ai tuoi piedi… 50 Pia: Alzati!… 51 Rinaldo: Imploro il perdono della mia grande colpa. 52 Pia: Tu… 53 Rinaldo: Alla fine mi è stata strappata la benda dagli occhi. Siano rese grazie al padre tuo. Quel perfido… 54 Pia: Non più di lui. Vieni al mio petto. 47 48
La Pia. Tragedia
Rinaldo
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(Alzandosi, la fissa in volto.) Oh! [vista! Come cangiata!… Ahi me spietato, infame! Per mio castigo all’universo nota sia la sevizie mia. Quest’innocente… 55
Pia
(In tuon di scusa.) Rea mi credevi. 56
Tolommei
Del supposto fallo ben grave fio scontasti! 57 (La Pia accenna dolcemente al padre di tacersi.)
Rinaldo
Ah! sì, un crudele, un disuman io fui! Né i muti avvisi, stolto! mai seppi interpretar del core. Rinvigorir l’egre tue membra ponno: ma chi può mai delle sofferte angoscie risarcir l’alma? Il tuo perdon non merto. 58
Rinaldo: Oh vista! Come cambiata!… Ahi me spietato, infame! Per mio castigo, la mia crudeltà sia nota all’universo. Questa innocente… 56 Pia: Mi credevi colpevole. 57 Tolomei: Ben grave pena hai scontato per una colpa presunta. 58 Rinaldo: Ah sì, io sono stato un crudele, un disumano! Né mai, stolto, ho saputo interpretare i silenziosi avvertimenti del cuore. Le tue membra malate possono riacquistare vigore; ma chi potrà mai risarcire l’anima per le angosce patite? Non merito il tuo perdono. 55
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Pia
Rinaldo
CARLO MARENCO
Il merti, e l’hai. (Al castellano.) Deh! tu, uom pio, le lagrime che risparmiasti al mio dolor, gli narra per suo conforto. — Io ti rividi, o padre, fuor d’ogni speme. — Quante cose, o sposo, vorrei dirti, e non so. Ma tutte, tutte d’un’amorosa visïon nell’ora, ombra fedele, a te dirolle in breve. 59 (Con istupore.) Che?… (A Tolommei.) Forse il morbo a delirar la tragge? 60
Tolommei
Da questi infetti luoghi, o Pia, t’invola prestamente con noi. La tua salute rifioriran le pure aure di Siena. 61
Rinaldo
Ah! sì! Qui presso un palafren t’attende. Vieni. Tu meco la sorreggi, o padre. Deh! vieni!… Incerto il passo movi… 62
Pia: Lo meriti, e lo hai. — Deh! tu, uomo pietoso, narragli per suo conforto le lacrime che hai risparmiato al mio dolore. — Io ti ho rivisto, o padre, contro ogni speranza. — Quante cose, o sposo, vorrei dirti, e non so. Ma tutte, tutte te le dirò tra poco, nell’ora di una visione amorosa, come ombra fedele. 60 Rinaldo: Che?… Forse il male la porta a delirare? 61 Tolomei: Da questi luoghi infetti, o Pia, fuggi presto con noi. Le arie pure di Siena faranno rifiorire la tua salute. 62 Rinaldo: Ah sì! Qui vicino ti aspetta un cavallo. Vieni. Sostienila con me, o padre. — Deh vieni!… Muovi il passo incerto… 59
La Pia. Tragedia
Oh! [È tardi. 63
Pia
Rinaldo Tolommei
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Che udii! 64 Figlia, che avvenne? Oh! come [trema! 65
Rinaldo
Sposa, fa cor. — Me sventurato! 66
Pia
È tardi. Ma non men duole. Il mio rapito onore mi rende, pria ch’io l’abbandoni, il mondo. Tu l’amor tuo mi rendi. In pace or compiasi il sacrificio. 67
Rinaldo
Ah! non morrai! Sarebbe troppo orribile, atroce il mio rimorso. (Nel delirio della disperazione.) Deh! se non vuoi che in disperati eccessi l’anima io perda, o Pia, no, non morire! 68
Pia: Oh! È tardi. Rinaldo: Che sento! 65 Tolomei: Figlia, che è stato? Oh come trema! 66 Rinaldo: Sposa, fatti coraggio. — Me sventurato! 67 Pia: È tardi! Ma non mi addolora. Il mondo, prima che io lo abbandoni, mi rende il mio onore. Tu mi rendi il tuo amore. Ora si compia in pace il sacrificio. 68 Rinaldo: Ah! non morirai! Il mio rimorso sarebbe troppo orribile, troppo atroce. Deh, se non vuoi che io perda l’anima in eccessi disperati, o Pia, no, non morire! 63 64
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CARLO MARENCO
Pia
La fronte al Cielo… rassegnata piega. Vivi… al pensier di me… Vivi alla figlia… Dov’è la figlia?… Ove sei tu?… Rinaldo!… Più non ti veggo… A me la destra… Sposo!… La tua destra… (Accostandosi al cuore la destra di Rinaldo.) Qui… qui… Padre!… Ah! 69 (Spira.) Me [misero!
Tolommei
Più non respira. (A Rinaldo con furore.) L’opra tua contempla. 70 Rinaldo
(Cavando la spada per trafiggersi.) Punir saprommi. 71
Tolommei
(Disarmandolo.) Fermati! Con nuove colpe espiar presumi, empio, le colpe? 72 Fine.
Pia: Al Cielo la fronte… piega rassegnata. Vivi… nel pensiero di me… Vivi per la figlia… Dov’è la figlia?… Dove sei tu?… Rinaldo!… Non ti vedo più… Dammi la destra… Sposo!… La tua destra… Qui… qui… Padre!… Ah! 70 Tolomei: Me misero! Non respira più. — Rimira l’opera tua. 71 Rinaldo: Mi saprò punire. 72 Tolomei: Fermati! Pensi di espiare le colpe con nuove colpe, empio? 69
LIONARDO MORRIONE PIA DEI TOLOMEI Palermo, 1858
Fig. 7 — Riproduzione del frontespizio di Lionardo Morrione, Pia dei Tolomei. Tragedia, Palermo 1858.
Presentazione Mentre la tragedia del Marenco veniva da venti anni rappresentata con successo in Italia e tradotta fuori d’Italia, Lionardo Morrione ne riprende liberamente la trama in una tragedia, anche questa in endecasillabi sciolti, in cui il canone classico della emulazione, cioè della competizione artistica con l’autore a cui ci si ispira, appare da lui perseguito con grande impegno, anche se con minore fortuna letteraria. In effetti, a parte l’ormai classico nucleo sestiniano per cui Pia muore vittima innocente di una vendicativa calunnia di Ghino, ed a parte la rivalità politica tra i Tolomei ed il marito di lei, che da un lato egli torna a chiamare Nello ma dall’altro lato, seguendo il Marenco, identifica con il signore ghibellino di Siena dei tempi della battaglia di Colle (1269) — anche se poi, seguendo, senza citarlo, il Tommasi stampato, avverte che quella tragedia familiare sarebbe avvenuta nel 1295 — per tutto il resto il Morrione si pone in puntuale emulazione con il Marenco: dalla innovazione minore per cui Pia e Nello non hanno una figlia, ma un figlio; alla innovazione maggiore per cui il tragico antagonista politico di Nello non è il padre di Pia, ma il fratello, che qui è amato amante della confidente di lei, Imelda, mentre nel Marenco appare come caduto tra i primi nella battaglia di Colle; fino alla innovazione assoluta e finale per cui Pia muore pugnalata personalmente da Nello nel proprio palazzo di Siena.
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Nota sull’autore. Avvocato di professione e cultore di studi classici, Lionardo Morrione da Menfi (1824–1896) fu autore di poesie occasionali, scrisse su questioni di storia locale e compose alcune tragedie di argomento storico, la più importante delle quali è la Pia dei Tolomei. — Sul Morrione, vedi Francesco Valenti, Lionardo Morrione e Vincenzo Navarro, Sambuca di Sicilia, Edizioni Civiltà Mediterranea, 1992. Nota sul testo. Il testo che qui pubblichiamo è quello di Lionardo Morrione, Pia dei Tolomei. Tragedia, Palermo, Tipografia di Francesco Natale, 1858; il libro si apre con questa dedica: « Alla memoria / di / Calogerina Amodei / nata Morrione / che alla venustà delle forme / unì / elevatezza di mente e cuore gentile / il fratello Lionardo / dolente / della immatura dipartenza / di alma sì cara / queste pagine / o. c. »
Pia dei Tolomei
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Avvertimento Verso l’anno 1295, 1 Siena, di altre calamità dolentissima, veniva turbata da una domestica tragedia da fare inorridire quanti serbano un cuore inchinevole 2 a compiangere le umane sventure: Pia dei Tolomei era la vittima infelice dell’ire tremende dello esasperato marito. Dante immortalava quella bell’anima col ricordarla nel suo divino poema; ed il Sestini in tempi a noi vicinissimi, togliendola a soggetto 3 di care ispirazioni, la figurava vestita di un verso assai maestevole 4 e leggiadro. Varie sono intanto le opinioni profferite 5 dagli scrittori sul vero motivo e sul modo della morte di quella sventurata, di tal modo che dell’in tutto rimosso non rimane il velo del mistero. Come abbiamo visto studiando la questione storica della Pia, questa data del 1295 viene ricavata dalla edizione a stampa (1625) della storia di Siena del Tommasi, ed è non meno erronea ed arbitraria di quella del 1269, anno della battaglia di Colle di Val d’Elsa, che il Sestini fu il primo ad avanzare senza altra motivazione se non quella che Dante, Purgatorio, XIII, 115, parla di quella battaglia; una motivazione invero assai debole, visto che Dante ne parla in tutt’altro contesto. 2 inchinevole: incline. 3 togliendola a soggetto: prendendola come soggetto. 4 maestevole: maestoso. 5 profferite: esposte. 1
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LIONARDO MORRIONE
Sin d’allora credettesi, ch’ella rinvenuta dal marito, conte Nello da Pietra, in adulteri abbracciamenti, fosse stata da lui in un castello di Maremma condotta, ed ivi barbaramente di sua mano svenata, ovvero da un di lui valletto, mentre la misera da un verone godea la orezza 6 della sera, fatta in giù capolvolgere. 7 Fuvvi 8 chi d’ogni disonesta colpa prese a difenderla, mostrando che i versi dell’altissimo poeta fan chiaramente addivedere, 9 che anco a quei tempi la causa di quella morte, era da una oscura tenebra coperta; poiché l’austero Ghibellino, 10 ove Pia alle donne di equivoca fama fosse appartenuta, anziché nel Purgatorio, l’avrebbe in alcuna delle bolge dell’Inferno gittata. Tale altro 11 assicura che il conte Nello, nel cercare con maligno animo di coprir di vitupero la sua donna, consumasse cotanta empietà spinto dalle ingorde voglie di passare a sela orezza: il fresco. Nota del Morrione: « Benvenuto da Imola, Comento a Dante. » — Per questa citazione, vedi Benvenuto da Imola, Commento sulla Commedia di Dante: Purgatorio, V, 130–136. 8 Fuvvi: Vi fu. — Nota del Morrione: « Gigli, Diario sanese. » — Per questa citazione, vedi Girolamo Gigli, Diario senese, Lucca, Venturini, 1723, I, p. 333–334; II, p. 44. 9 addivedere: comprendere. 10 Questo austero Ghibellino è Dante, il quale, pur essendo guelfo (di parte bianca), era stato detto Ghibellin fuggiasco da Ugo Foscolo, Dei sepolcri, 174, per la sua avversione alla politica di papa Bonifacio VIII, che fu all’origine del suo esilio. 11 Nota del Morrione: « Tommasi, Storia di Siena. » — Per questa citazione, vedi Giugurta Tommasi, Dell’historia di Siena, Venezia 1625, libro VII, anno 1295, p. 138. 6 7
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conde nozze con la contessa di Santafiora rimasta vedova di due mariti. 12 Nell’oscurità di simile motivo, e nel poco che gli storici e cronisti di quei tempi lontani ne dissero, resta libero al poeta il campo di scegliere tra le svariate opinioni quella che più si adatti al suo sentire ed al maggiore effetto drammatico, aprendo il varco all’invenzione, la quale, ove non venga a ritroso con la verosimiglianza, è primo elemento delle arti belle. 13 Nella presente tragedia, che come un saggio premetto alla pubblicazione di altri drammatici lavori, ho preso a cagione della morte della vaga sanese, 14 una delle più fatali passioni, che suole di sovente invadere l’animo degl’incauti mariti: la gelosia. E questa, dalla scelleratezza di un falso amico, che dispreggiato era nei suoi sconsigliati amori da quell’anima angelica e tetragona 15 agli assalti della seduzione, venne sì oltre spinta con subdola arte, che seppe il marito Nello cacciare in una voragine di rimorsi e pentimenti irreparabili. E per tanto, a dare un aspetto di maggiore rilevanza al componimento, ed un rapido cenno delle fazioni che nel decimoterzo secolo dilaniavano il bel seno d’Italia, ho ravvicinato la catastrofe che appartiene al Margherita Aldobrandeschi (1254 — dopo il 1313), fu contessa palatina di Soana, non di Santa Fiora. 13 ove non venga … arti belle: purché non sia contraria al verosimile, è una componente primaria delle arti belle. 14 ho preso … sanese: ho preso come causa della morte della bella senese. 15 tetragona: irremovibile. 12
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1295, con un anacronismo che spero mi sarà perdonato, all’anno 1269 in cui Siena ghibellina e Firenze guelfa combatterono la battaglia di Colle. E perché i miei interlocutori 16 avessero in quei bellici conflitti una forza di alto interesse, ho qualificato il conte Nello da Pietra come Signore o capitano di Siena, ed Evaldo qual vicario di Carlo di Angiò signore di Firenze, tuttoché 17 Provenzano Salvani stesse in quel tempo a capo della signoria sanese, 18 e Guido Monforte, 19 ovvero Gian Beroaldo a vicario di Carlo. 20 Con tali varietà mi sono ingegnato, per quanto è in me, a dare una lieve tinta di quei tempi di turbolenza e di ferocia, ed a porre in contrasto le più forti passioni, onde interessare il cuore e la mente di chi ascolta o legge, ed a rendere sempre più cara la virtù e detestabile il vizio. I savi intanto non mi defraudino della voce del loro avvertimento, e de’ loro lumi, perocché di essi sarò ognora per giovarmi. 21 interlocutori: personaggi. tuttoché: benché. 18 Nota del Morrione: « Dante, Purgatorio, canto XI. » — Per questa citazione, vedi Dante, Purgatorio, XI, 121–142. 19 Nota del Morrione: « Leo, Storia degli Stati italiani. » — Per questa citazione, vedi Enrico Leo, Storia degli Stati italiani dalla caduta dell’impero romano fino al 1840, versione in italiano dal tedesco, Firenze, Società editrice Fiorentina, 1840–1842. 20 Nota del Morrione: « Giovanni Villani, VII, 31; Muratori, Annali d’Italia. » — Per questa citazione, vedi Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di Giuseppe Porta, Modena, Fondazione Pietro Bembo, Guanda Editore, 1990. 21 perocché … giovarmi: perché saprò sempre trarre profitto da essi. 16 17
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Personaggi Conte Nello da Pietra. Pia dei Tolomei, sua moglie. Evaldo, amante di Imelda, principessa confidente di Pia. Ghino, amico di Nello. Un cavaliere. Un fanciullo di otto anni. Guerrieri ghibellini. Guerrieri guelfi. L’azione è in Siena. La scena nel Palagio e nel giardino signorile.
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Atto primo Scena prima. Pia ed Imelda. Pia
Imelda, vieni; al mio dolor fremente dia triegua tua amistà. Nei duri affanni, se accolto vien da seno amico, è dolce conforto al core solo il pianto.
Imelda
Insieme mi avrai per sempre a lacrimar. Men triste del tuo non è questo cuor mio. Di affetti vissi lunga ora, ed a’ verdi anni in seno solo un amor mi fé beata. In erba tronca la guerra ha la mia speme, e oscilla tra vita e morte questo cor.
Pia
Se vivi mesta lontana da un amante, anche io uno sposo adorato ho in campo. Il vidi, cinto di ulivo, a me di accanto l’aura della pace fruendo, inteso a farmi, quanto può un uomo, ognor felice: io colsi come nei sogni dell’amor l’ebbrezza; e del contento in estasi rapita, cara allo sposo, a’ sudditi diletta, meno che donna, io diva fui. Malnato genio di guerra l’itale cittadi or scinde in parti, e le sovverte: acuto si erge il pugnal del fratricidio; e rotto in tai dissidi di ogni patto il nodo,
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ove gloria splendea rosseggia il sangue. È fremito dovunque, orrida gara di furor guelfo e ghibellin; la strage ogni core corrompe; ed ogni mente a ferocia rivolge. E nei conflitti che al pianto muovono, potea a comun danno la natal mia terra trarsi dall’infierir? Sotto il vessillo del ghibellino ardire in Monteaperti ella vittrice destò invidia: schiuse di Aldobrandino a pro di Siena i colmi aurei forzieri; 1 e i Pannocchieschi conti con le loro castella sottomise. Tanto valor potea non esser segno delle spade de’ guelfi? In Colle or arde guerra crudel sterminatrice; 2 in grembo della patria frattanto, accesi d’ira, patrizi illustri e rabidi 3 plebei a nimistà si destano; gavazza ognun nel sangue; ed il mio cor si strugge tra funesti presagi. Imelda
Avverso un fato noi danna tutti a lungo pianto.
Aldobrandino è Ildobrandino il Rosso, conte palatino di Soana; caduto prigioniero dei Senesi nella sanguinosissima battaglia di Montaperti (4 settembre 1260), egli fu liberato solo dopo aver pagato uno grosso riscatto di diecimila fiorini d’oro. 2 La battaglia di Colle di Val d’Elsa ebbe luogo l’8 giugno 1269. 3 rabidi: furiosi. 1
Pia dei Tolomei
Pia
Imelda
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Ahi! mesta più di ogni altra è quest’alma! Iddio cosparge il cammin di mia vita ormai di spine a calcarsi terribili: non puote più la vittoria lusingarmi; tutto mi torna infausto e mi spaventa. In furia dal popolo reietto il mio germano 4 dal suol nativo, di ogni ben spogliato esule unissi insiem co’ guelfi. A Carlo 5 giura sul brando fedeltà: riceve alti in cambio da lui poteri; e corre rotto 6 in Val di Elsa a truce guerra. In campo ecco nemici i duo cognati. 7 Ah! vedi, vedi se a dritto or mesta io son! Se un voto alzar senza delitto al cielo io possa, che aspro rimorso non mi desti. Iniqua sarei consorte, o suora rea. Tu sola, tenera amica, puoi placar pregando l’ira ultrice 8 del ciel, la rabbia atroce, che, cieco nel desìo, sospinge all’armi col ferro in pugno il mio fratel, tu che hai l’impero del suo cor. Tu puoi… Potrei,
germano: fratello. Carlo: Carlo I d’Angiò, re di Napoli e Sicilia (1266–1285), capo dei guelfi italiani. 6 rotto: veloce. 7 I due cognati: Evaldo guelfo e Nello ghibellino, l’uno fratello l’altro marito di Pia. 8 ultrice: vendicatrice. 4 5
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LIONARDO MORRIONE
debol fanciulla, il ben che il cuor sospira raggiungere, e tener? Pia
Melati accenti oh quanta han possa di donzella amante nel cor del prode che pure ama! Un detto, un cenno, un voto sol, che additi in le armi una fronda di gloria, all’ardimento vieppiù l’accende: lo disarma e il cheta se pace e amor detta il bel labbro. Al campo vola; ti affretta; a noi soltanto avanza, dolce rifugio, questa speme. 10 È bello per la patria affrontar perigli; e fassi sì eroina una donna. In mezzo all’armi, ove morte grandeggia, angiol sarai di pace consigliero, angiol diletto che in amor cangerai gli odi fatali. Te ben felice! che ottener tra tutte l’itale donne ora potrai la fama di salvatrice della patria: un nome che rispettar dalle venture etadi farà, qual ara, 11 il tuo sepolcro! 9
Imelda
In seno maggior del sesso tu sai farmi il core. Sì; volerò: l’alba novella al campo me vedrà tra le spade; è sacra, o Pia, alla patria mia vita: il ciel secondi
possa: forza. speme: speranza. 11 ara: altare. 9
10
Pia dei Tolomei
545
questa dolce speranza, e benedica l’opra ardita che tentasi. Supremo, pari al periglio, il sacrificio or sia. Ah! se col pianto sopra il cor del prode il trionfo io mi avrò, se otterrò il bene di una pace che anelasi, felice di te più mi vedrai. Di guerra al grido pur rifugge il cor mio; pace mi è cara più di ogni ben di questa terra. Ahi! sordo s’egli alla voce dell’amor, più inteso sempre alle pugne, il pianto mio, la prece porrà in non cale; tra gli ostili brandi me vittima a turbare i suoi trionfi mirerà nella polve; e un grido acuto dell’ombra mia nelle ore del silenzio lo colmerà di cupo duol, di affanno. Iddio ti assista!…
Pia
E sia la patria salva!
Imelda
Scena seconda. Pia sola. Salva la patria?! O dolce idea! Che desta nel cuore, avvezzo a sanguinar per duolo, un senso arcano, un palpito. Di gioia sperata è desso il palpito; l’arcano di mille voluttà, che a’ dì tranquilli, solo profonde 12 al mesto cor la pace. 12
profonde: infonde.
546
LIONARDO MORRIONE
Di lieto fine, o sommo Iddio, corona questa, che attuta 13 le sventure e il pianto, infiorata speranza. Ah! tu, che un raggio consolator versi nell’alma, ascolta la prece d’un’afflitta!… Assai di affanno versai lacrime amare; or sia che io possa fruire il ben che il cor desìa?… Consuolo 14 il ciel non dona a’ miseri?… Nel petto sento agghiacciarmi il core!… Alla sventura dell’uom dannata è l’empia stirpe? Oh idea, tu desti in me fatal presentimento, e, quasi estinta la mia speme, orrendo fai l’incarco del duolo. 15
Scena terza. Ghino e Pia. Ghino
In preda al pianto a che intristire il fior degli anni? Avverso non è, qual pensi, il fato tuo: tel pinge 16 in sì oscure sembianze accesa mente che or dechina 17 a mestizia. Un dì te vidi, come il Genio de’ fior, cinta di rose in bianche vesti passeggiar la reggia tutta gioia e sorriso; e all’alme oppresse, a cui sacra è beltà, tu, tu apparivi
attuta: attenua. consuolo: conforto. 15 l’incarco del duolo: il peso del dolore. 16 tel pinge: te lo dipinge. 17 dechina: inclina. 13 14
Pia dei Tolomei
547
quale angiol caro di un beato sogno che fa dolce la vita. Or sì piangente, benché leggiadra ancor, sembri lo spirto che fra le tombe aggirasi. Ahi! ne geme teco il cor di chi sente! Pia
Ai dì tranquilli sol si addice la gioia; affanno e pianto quando è afflitta la patria. E dessa 18 è salva.
Ghino Pia
Ahi! di un color che il ciglio mio non vede perché pingi 19 le cose? Ov’è sventura, che lega l’alme a sue catene, indarno vuolsi gaudio destare. Io fui beata, e al mio gioire i popoli, fedeli al trono e all’ara, 20 di contento l’aure respiraron tranquilli: or che fan grama, 21 rotti in parte, 22 la patria, in sul mio labbro può stare il riso e dentro al cor la gioia?
Ghino
Ah sì! Cessato è il parteggiar 23 tremendo: calma le ambascie; 24 e in te ritorna. Insonni passò le notti e travagliati i giorni
E dessa: Ed essa. pingi: dipingi. 20 all’ara: all’altare 21 grama: infelice. 22 rotti in parte: divisi in fazioni. 23 parteggiar: dividersi in fazioni. 24 ambascie: angosce. 18 19
548
LIONARDO MORRIONE
chi la patria dilige; e in pien Senato questo labbro tuonò sì che, riaccesi di caldo amor tutti dei Padri 25 i petti: lieta un’alba or risorge. In Siena è spenta, mercé quei saggi, 26 ogni discordia. Un solo che accende i cuor sanesi è il voto: intiero a te serbar l’alto dominio. I nomi di Ottimati e plebei 27 più non si udranno, ché, strette a un patto le diverse classi, cittadini si appellano. Pel campo, che aita 28 chiede di agguerrita gente, poderosa preparasi falange 29 con l’arme in pugno a sostener quei dritti che giustizia fa sacri. Il ciel seconda tutto a tue brame; a che serbar nel seno dunque mestizia, ed addoppiar sospiri? Pia
A mestizia e a sospiri or più che dianzi il nuovo ordin di che tu mi favelli 30 certamente ne chiama. Alma che curi poco gli affetti che a noi die’ natura restar sorda potrìa. Fratello e sposo ho nemici sul campo; e ancor che salva, (sien pur sinceri i detti tuoi) la patria da civil guerra sia, non potrei gioia
Padri: senatori (dal latino patres conscripti). mercé quei saggi: grazie a quei saggi. 27 Ottimati e plebei: Magnati e popolani. 28 aita: aiuto. 29 falange: schiera. 30 favelli: parli. 25 26
Pia dei Tolomei
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in mio cuore or destar senza delitto. Scena di scempio e di nequizia rea, ove sangue fraterno al suol si versi, è la strage di guerra. Ahi! da mie nozze, stretta con sacri vincoli di affetti al più uman dei guerrier, quella io sperava vita di pace che or mi fugge… Ghino
Infauste fur quelle nozze, a cui dal ciel non venne benedetta la gemma. Amor non giunse vostre destre 31 giammai; né fia 32 che arrida benigna aura del ciel, quando il bel nodo Iddio non stringa sulla terra. Ah! Ghino
Pia
assai travedi… Ghino
Deh! nol dir! Soltanto ricorda il dì, quando col vel su gli occhi cinta di fior, qual vittima, all’altare genuflessa tu stavi; e mentre il labbro, non sospinto dal core, al « sì » schiudevi; qual non udisti gemito tremendo che fe’ intruonar del delubro 33 le volte e delle tede 34 impallidir la luce. Ah! quel lamento fu mandato allora
vostre destre: le vostre mani destre. né fia: né sia mai. 33 delubro: tempio. 34 tede: fiaccole nuziali. 31 32
550
LIONARDO MORRIONE
da chi si accese a un tuo sorriso! Ei mesto, appoggiato al sepolcro, ove la polve del padre suo dormìa, larga di pianto effondeva una vena, e come estinto lungamente si giacque. Era ei dal Cielo solo destinato a sposo tuo. Funesta ragion di stato rintuzzò l’affetto che ti fea 35 più felice: un cor lasciasti fra mille smanie derelitto: un vuoto di quell’amore ancor tu senti; e acerbo ricogli il frutto del tuo nodo. Pia
Ah! taci; letal veleno son tuoi detti. Audace parli; e tu amico osi tradir…
Ghino
Si spegne, per lui che invola la beltà non sua, la fiamma di amistà.
Pia
A Nello tu fido 36 Ghino
35 36
Gran Dio!… che [ascoltò? non sei?
Ti amai, pria ch’ei te vide: io sol ti amai di santo e immacolato amore. A un tuo sorriso sperare, e amarti di un immenso amore e arder tutto di te, fu un solo istante.
fea: faceva. fido: fedele.
Pia dei Tolomei
551
Ahi! tanta gioia egli mi tolse, e insieme con la speranza anco la pace. E amico che di amistà cole 37 i sacrati patti ad amico il cor toglie?… ed ei mel tolse. Ed amarlo poss’io?… serbargli un raggio anco tenue di affetto?… Ah! se mi vedi appo lui 38 spesso a migliorar le sorti del suo dominio intento, o Pia, tel dico, pel ben nol fo ch’esso desìa. Fervente amor per te solo mi muove. Aperto il cuor ti mostro. È amor che qui mi spinge i tuoi sospiri a suggere, 39 e bearmi dei tuoi begli occhi, del celeste viso, ch’io senza te più non saprei soffrire questo avanzo di vita. Pia
Insani detti a me tu parli. Io fremo… E dove e quando di amor ti diedi un lusinghiero vezzo? Allor che sposa col miglior dei prenci 40 mi fei lieta all’altar, tutto nel mio trasfuso intesi il suo bel cor. Di affetti si formò la catena, e Iddio fe’ sacre le anella indissolubili. L’amai sin da quel giorno; or più l’adoro, e languo sempre d’intenso amore. Io di un sorriso te pria bear?! Sognata infamia. Il ciglio
cole: rispetta. appo lui: presso di lui. 39 suggere: succhiare. 40 prenci: principi. 37 38
552
LIONARDO MORRIONE
mai così basso non mirò. Se il cuore, che unqua sì stolto non fu mai, 41 sentito un moto avesse di un amor, che fora 42 condannato dagli uomini e dal cielo, prima svenarlo, che gittarlo in grembo a un insensato, avrei saputo. Ghino
Ah! donna tutto dell’onta or sento il peso. Aprirti potrei l’abisso or sotto i pie’… 43
Potresti…
Pia Ghino
Farti vil con un detto. 44 Alta fidanza in me ripone il tuo consorte: il sai come geloso lo distrugge un foco, come ogni dubbio gli è fatal!
Pia
Virtude di puro amor non teme infamia. Bada
Ghino
che pur sei madre. Pia
E che temer?
unqua … mai: giammai. fora: sarebbe. 43 dell’onta: della vergogna. 44 Farti vil con un detto: Renderti spregevole con una sola parola. 41 42
Pia dei Tolomei
553
Ghino
Le furie di un dispregiato amor. Vampa si accende entro il mio sen, che ogni argine distrugge ed ogni fibra incenerisce. Ostaggio è mio già reso il figlio tuo: paventa, 45 se hai cor materno, pel tuo figlio.
Pia
Oh stelle! che mai intesi! Ahi! crudel, tutto estingui l’umano senso e ti fai reo. Potrai?…
Ghino
Spegnerlo.
Pia
E non sentir gli strali 46 ardenti di un rimorso terribile, le spine di colpevol coscienza, idra 47 fatale, che lacera e divora?… e non temere di giustizia la scure?… Ahi! l’innocente in che ti offese? Ei d’ogni colpa è puro come del cielo un serafin… Ria 48 sete di vendetta ti strugge? Ecco la madre; svenala. E che più brami?… Amore.
Ghino
Iniquo
Pia
è quell’amor; né mai di dolci affetti paventa: temi. gli strali: le frecce. 47 idra: serpente. 48 ria: colpevole. 45 46
554
LIONARDO MORRIONE
esso si nutre, ma di sangue: or versa tutto il mio sangue, io tel presento… Oh figlio a te scudo è la madre… È indarno. 49
Ghino Pia
Il fia, quando alla luce si chiuderan questi occhi ed agli accenti 50 il labbro mio. Tu d’uopo hai di mia morte, 51 svenami: ricolma dei neri eccessi la misura. Oh! come
Ghino
tutte le furie in me scateni! O figlio!
Pia
a te viene la madre… Arresta…
Ghino
Insano!
Pia Ghino
Ti ferma.
Pia
Non sia mai… (Si odono rumori.)
indarno: invano. agli accenti: alle parole. 51 Tu d’uopo hai di mia morte: Tu hai bisogno della mia morte. 49 50
Pia dei Tolomei
555
Qual rombo assorda
Ghino
l’aer di grida?!… Pia
Ahi! forse al suol svenato cadde il figliuolo?!… Lasciami. Mi schiudi libero il varco; io vo’ nel sen raccorre 52 quella salma innocente… Ah sciagurato! così tu al pianto di una madre esulti? Nel delitto stai lieto?… Il ciel ti desti queste mie smanie dentro il cuor.
Ghino
Fatali più del tuo duol son le mie smanie. Cedi…
Pia
Ah! pria morire… … che io lasciarti…
Ghino
Cresce
Pia
più quel rumor. Ghino
52
Che fia?… (Affacciandosi ad un verone.)
raccorre: raccogliere.
556
LIONARDO MORRIONE
Scena quarta. Imelda, Pia e Ghino. Siena perduta!
Imelda
Son le falangi in fuga. Oh Dio! ricolmo
Pia
è il calice dei mali! Un nuovo sposo
Ghino
ti presenta la sorte. Ahi! forse spento sul campo ei cadde?! Ah! come il cuor mi [squarci, servo infedel, con mille dubbi… Il figlio e lo sposo perdo io…
Pia
Scena quinta. Nello, Pia, Ghino, Imelda, guerrieri ghibellini. Tra il duol funesto
Nello
teco è lo sposo tuo. Fia ver!…
Pia Nello
Mi abbraccia, e attempra i mali miei: nell’alma ahi! [come 53
53
attempra: attenua.
Pia dei Tolomei
557
del disonor mi grava il pondo! 54 Un fato, nemico orrendo all’opre mie, mi toglie quanto è sacro al guerrier: gloria e trionfo. Forte io pugnai: sfidai la morte, un lauro agognando di onor; ma acuta ottengo in mercede una spina… Ah! perché estinto morte invocata non mi volle?!… Un nome col mio morire alle venture etadi avrei chiaro lasciato, e su la tomba trofeo di gloria al figlio mio. Ti calma…
Pia Ghino
E fia del fato vendicata l’onta… E salvo tu, salva la patria fia…
Nello
Anco col sangue mio.
Ghino e guerrieri
(Incrociando le spade.) Tutti il giuriamo.
54
pondo: peso.
558
LIONARDO MORRIONE
Atto secondo Scena prima. Evaldo chiuso nella sua celata. 1 Questa è mia soglia; e qui del fatal bando tutte vo’ vendicar l’arte. 2 Furtivo mi appella amore in tal momento; e amore al nuovo sol qui intreccerammi il serto 3 de’ miei trionfi. Oh Imelda!… Oh amata suora!… 4 Quale entrambe movete in questo seno guerra di affetti in voi non cape! 5 Il sento sol’io, che fermo dispregiando il rischio ove alberga un nemico, ardito or premo questa regia diletta. A voi salvezza, dell’ardente amor mio diletti pegni, se pur vogliate, io reco; adempio i sacri di amante e di fratel doveri; e ascolto la voce di natura… Alcun si avanza!… O brando mio 6 mi assisti, io non pavento del più ardito guerriero… È dessa…
celata: elmo con visiera. In quanto guelfo, Evaldo era stato bandito da Siena ghibellina. 3 intreccerammi il serto: mi intreccerà la corona (di alloro). 4 suora: sorella. 5 in voi non cape: voi non capite. 6 O brando mio: O spada mia. 1 2
Pia dei Tolomei
559
Scena seconda. Imelda ed Evaldo. Evaldo
(Lacciandosi 7 la visiera.) Imelda! Abbracciami, sono io. Tu qui, mio Evaldo?!
Imelda
E come? Ah! dimmi… Evaldo
Che mi chiedi, o cara? Leggi, se il puoi, di questo core il fondo, leggi, e vedrai come d’amor sospinto, perigli estremi non curando, a’ piedi l’ali fei pronte a rivederti, e a trarti insiem con Pia dalla sventura. Ah! vedi quali spoglie 8 mi cingono? Di estinto son pure esse divise: io l’indossai, pien di ardimento, in sull’ostil pianura, onde, misto a’ fuggenti, entrar furtivo e ignoto dentro Siena. Il ciel fe’ paghi i voti del mio cor: benigno arrise ai miei voleri; e benedisse il modo con la suora a salvarti. Or bada. Orrenda pende sciagura sopra Siena, orrendo è il furor che m’investe…
Imelda
Oh! cessa, Evaldo, deh! cessa per pietà! Pace una volta parli al tuo cor, taccia vendetta.
7 8
lacciandosi: slacciandosi. quali spoglie mi cingono: quali vestiti mi avvolgono.
560
LIONARDO MORRIONE
Evaldo
Indarno. Unico voto è del mio core, è brama dell’alma mia, guerra, sterminio. Io venni, tel dissi già, salvezza a darti. Ratto, 9 se ancor tu mi ami, se risponder sai al desìo che mi strugge, e che mi spinge a tai cimenti 10 orribili, deh! tosto 11 loco segreto apprestami; la suora mi adduci innanti; io vo’ salvarvi.
Imelda
Guerra dunque eterna vuoi tu? Lasciarmi in preda lungamente al mio pianto, e ognor sospesa sul destin di tua vita?… E questo è amore?
Evaldo
Mi oltraggi tu; non è di alma che sente per un prode alto amor questa temenza che fa bianche tue gote. In guerra e in campo sol si miete l’alloro, e fia più bello se da fanciulla unica amata un serto sia messo al crin del vincitor. Tu temi? Basso timore è questo, umile senso che m’irrita e mi strugge. Ama il guerriero di forte amor, come sue tempre ha forti, de’ suoi pensier l’amata donna: un detto di lei, che spinge alle battaglie, all’armi, piu ché un sorriso gli è gradito. Oh Imelda, tu senza gloria e senza fama inerte
Ratto: presto. cimenti: scontri. 11 tosto: subito. 9
10
Pia dei Tolomei
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al fianco tuo mi vuoi? Privar mio capo di una fronda mertata, e il mio sudore che terso sia dalla tua mano? Io anelo questo istante beato, io lo vagheggio dell’amor tuo questo divino pegno più d’ogni ben di questa terra; e in cielo se pur sta scritto, che io soccomba in campo, prima che un nodo ci legasse; accanto, ombra beata, tutto dì mi avrai i tuoi sospiri a suggere, a ispirarti sensi di affetto e onore. Ah! tu nel seno in quegl’istanti sentirai più dolce la vita rifluir, gli ameni sogni tornar ridenti alla tua vita… Imelda
Oh Dio! a tanto affetto io non resisto. Amore diede ai miei labbri involontari i detti. Della ghirlanda che l’onor fa bella io te privar? Non fia giammai. Chi ti ama di caldo amor, più che tue aurate soglie adora in te le tue virtù guerriere. Di gloria pur questo mio cor si nutre, guerre fraterne abborre.
562
LIONARDO MORRIONE
Scena terza. Apparisce Ghino dal fondo della scena, e, nel vedere Evaldo ed Imelda, si nasconde ascoltando. Evaldo
Il cor se nutri di gloria, sbigottir te non dovranno i fremiti di guerra. Occulto asilo or dammi, Imelda; il tempo fugge; io premo nemica reggia; e l’indugiar mi fora rischio fatal terribile.
Imelda
Partiamo; vieni: dischiuse le nascoste scale or ti saranno del regal palagio; presso il giardin, nel deserto castello, che da costa il torreggia, 12 in pace attendi la mezzanotte: sentirai di passi allor tu un lieve rumorìo: ti affretta tosto al cancello, e subito che un fiore vedrai volarti innanti ai pie’, tu appella lieve lieve la Pia, batti le palme, e sarai in braccio di colei.
Evaldo
Sublime idea! Dolce profferta! Io son felice. Andiam.
Imelda Evaldo
Mi siegui. Il mio destino è tuo.
che da costa il torreggia: che da vicino la sovrasta con le sue torri. 12
Pia dei Tolomei
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Scena quarta. Ghino si avanza sulla scena. Alma, respira! La tarpata speme ali riprende, e vigoria. Qual destro può dar fortuna più secondo? 13 O cede Pia alle mie brame, o spalancar vedrassi orrido abisso alle sue piante. 14 Un drudo, 15 a un sol mio accento, nel fratel suo caro in mezzo all’ombre scorgerà il marito… Ma a me che vien?!… Si osservi… ella è.
Scena quinta. Pia e Ghino. Gran [Dio!
Pia
almen qui fosse il mio figliuol. Ghino
Signora; vieni, qui pure spiran l’aure: il core dell’uomo che abborri avvolta in pianto ognora tua beltà non desìa; vuolti felice. Pace una volta al tuo dolor; più grave col peso delle lacrime il destino non far che sempre torni. In te vogliamo, fior di beltà, pace, salute.
Qual destro … secondo: Quale occasione più favorevole può dare la fortuna? 14 alle sue piante: davanti ai suoi piedi. 15 drudo: amante. 13
564
LIONARDO MORRIONE
Pia
Ah! Ghino, a che mi vesti di dorate larve 16 quel reo sentiero dove aprir si tenta un abisso a ingoiarmi? Appieno io veggio il nero inganno, e nella via sto ferma della virtude e dell’onor. Di pace, tu primo del mio duol fabbro, mi parli e in un mi togli il figlio mio?
Ghino
Che intendo! 17 Dubbio fatal del tuo cor s’indonna. 18 Temi del figlio? E a che temer, s’ei caro mi è più dell’alma mia? Santa pietade in me parlava allor che dal tuo fianco altrove il trassi, e per chetarlo in grembo al pio Tebaldo il dava. Ah! l’innocente, dissi tra me quando te vidi in pianto, perché soffrir? Perché ne’ suoi primi anni apprendere il dolor? Vada lontano dalle angoscie materne. Il fior che sbuccia, 19 se ingrato umore 20 irrigagli lo stelo, cresce avvizzito, ed è vicino a sera pria che non pensi. E questo, o donna, il chiami delitto abominevole? Virtude sacra è pietade; tu a vizio reo l’ascrivi?
larve: maschere. intendo: sento. 18 s’indonna: si impadronisce. 19 buccia: sboccia. 20 umore: liquido. 16 17
Pia dei Tolomei
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Pia
Virtù sacra è pietade, ove dal core, figlia innocente di leal ragione, sorge spontanea e cresce: è vizio, è fallo se in finte forme da malnata fiamma prende origine e vita: è tal la tua pietà perversa. Non sì debol sono, credimi, Ghino, che io muti consiglio per finti detti. Ahi! di gentil maniera dura necessità fammi un bisogno.
Ghino
Bisogno?!… Ad ascoltar sì amari accenti quasi freme il cor mio. Rispetto, o donna, il debol sesso, il grado tuo. Sì basso non pone il cor quell’uomo, a cui si affida regno e penati; 21 lealtà mia vera tu sola a vile puoi tener; l’ammira il tuo consorte e Siena.
Pia
Oh quanto sei di quel di pria cangiato! Io veggio appieno come de’ rei, con subdoli raggiri, tutta l’arte conosci; e rinvenire, 22 fingendo amor, cerchi la via più breve che salvarti potrìa. Lascia agl’incauti…
Ghino
Donna…
Pia
21 22
Rispetta in me…
Presso i Romani, i Penati erano idoli protettori della casa. rinvenire: trovare.
566
LIONARDO MORRIONE
L’onor del prence. 23
Ghino Pia
E l’odalisca 24 che al suo schiavo impera.
Scena sesta. Ghino solo. Scampo non avvi: ogni sentier preclude vana alterigia. Vendicar mi avanza l’onor soltanto vilipeso. Ingrata donna, qual ti rimane a pagar fio in brievi ore vedrai 25… Feroci moti tutti del cuore ergetevi; alimento gradito è all’uom vendetta; intiera svolga giusto rancore di oltraggiato amante l’ordita tela.
Scena settima. Nello e Ghino. Nello
O mio fedel, ti ferma; e qui dell’alma rannodiamo insieme le possanze 26 a consiglio. Ancor mi sono di me stesso signor; né fia che scemi 27 la virtù del coraggio. Un fato avverso
prence: principe. odalisca: l’amante (del sultano). 25 qual ti rimane … vedrai: tra poco vedrai quale pena ti resta da scontare. 26 possanze: forze. 27 scemi: diminuisca. 23 24
Pia dei Tolomei
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se mi diede sventura, ormai con l’armi saprò domarlo ed assegnargli legge. Ghino
E tu il potrai, ché la ragion di guerra ben ti si addice, ed il comando è teco. Chi non verrà del brando tuo all’invito dei prodi invitti a vendicar le offese sopra il campo finale? In viso a ognuno sfavilla il fuoco della pugna, e l’ora aspetta del cimento. Intieri affida il consiglio dei Padri, 28 in sua saggezza, a te i destini della patria. Pronto tutto è al tuo cenno; ed ove il vuoi, sicura potrai dare battaglia, e rinnovare formidabili scontri.
Nello
Ardentemente io questo istante lo desìo, dell’onte del disonore a vendicare il peso, anco, se è d’uopo, 29 col mio sangue. In petto vorace incendio mi divampa; e a dargli esca perenne affacciasi alla mente il campo ostile, su di cui macello, al suon degli oricalchi 30 e dei tamburi, si fa dei fidi miei. Ridotte in brani schizzar ne veggio le cervella; e a fiumi versare il sangue, e accatastarsi estinti, e con gli estinti i moribondi, a cui
il consiglio dei Padri: il consiglio dei senatori. se è d’uopo: se è necessario. 30 oricalchi: trombe. 28 29
568
LIONARDO MORRIONE
dato non è sperare, a cui sui labbri muore il sospiro dispregiato. All’ira tutto mi muove; e degli illustri Padri la fidanza, che in me tutta si pone, mi sprona e m’incoraggia. Oh patria! Oh sposa! a vendicarvi già respiro: il brando mi sta nel pugno, e se ferir sa ancora in brievi ore vedrete… O mia consorte, tu pur l’alma mi affanni!… Ghino
Alla tenzone 31 rifletti, o prence, e non pensar di Pia. Cure di regno mai loco non danno a domestici affetti.
Nello
Ah! quella donna primo è dei miei pensier, l’idolo caro dei miei sospir, della mia vita. Io gemo ai suoi dolori, e dentro il cor si spande tutto l’orror del duolo.
Ghino
Io pur vorrei, te n’abbi la mia fé, quel dolce oggetto di tanto amor render felice; e, tutti posti in non cal 32 del dubbio i pensier tristi che travagliano l’alma, a te con nodi infrangibili stringerla… e…
31 32
tenzone: battaglia. posti in non cal: posti tra le cose che non contano.
Pia dei Tolomei
Nello
569
Qual lampo da tali accenti agli occhi miei rifulge?! Rompe un istante il tetro orror, per farlo più terribile e truce! 33
Ghino
Ai tuoi trasporti forse importuni, o inutili, deh! prence, pon modo alquanto ed al furor. Ben puote zelo ardente di suddito fedele quant’altri mai, dirti che il dubbio spesso di amor veggente è figlio. Oh ciel benigno, perché di selce non mi festi il core!
Nello
Cupo mistero è il tuo parlar. Le furie tutte di averno 34 già nel cor mi sento scatenate ad affliggermi. Chi è il vile che di quest’alma togliere la pace osa nei dì della sventura?… Ahi! tutto or sento il peso di mie smanie… Togli, togli le ambagi, 35 svelami, ché io fremo, tutto l’arcano 36 orribile.
Ghino
Tu eccedi, signor, nei tuoi furori. A un lieve detto così facil t’appigli? Io non credea tuo spirto sì accensibile per vaghi sospetti, che sparir potriano. Stolto
accenti: parole. averno: inferno. 35 ambagi: angosce. 36 arcano: mistero. 33 34
570
LIONARDO MORRIONE
mi fui nel favellar; ma aprirti in petto una ferita non volea. Ti calma, deh per pietà! pensa piuttosto al regno, che reclama da te pace ed aita. 37 Nello
Mi è cara più del regno ahi! la mia donna, e più del serto 38 della Pia l’onore, e s’io perdo l’onor, tutto ho perduto. Parla; più Nello non favella a Ghino; impone il prence al suddito. Signore!…
Ghino Nello
Il voglio. Deh! una grazia almen!
Ghino
Che chiedi?
Nello Ghino
Perdona; un giuro. Un giuramento mio?!
Nello Ghino
Sì; perché serbi alla consorte occulto tutto, finché il vedrai. Lo giuro; e in pegno
Nello
ecco la destra.
37 38
aita: aiuto. serto: corona.
Pia dei Tolomei
Ghino
Ah prence, a che mi astringi? 39 Il cuor mi trema! Un vortice di affanni aprir tu brami alla tua vita. Insieme scender l’arcano col mio muto frale 40 nel sepolcro dovea, tra l’ombre oscure di un sonno eterno: tu lo desti; e un fiero nel sen mi lasci orror di farti avversa la donna tua. Forse è infedele?
Nello Ghino
Ell’era pura nel mio pensier come il sospiro di un primo amor, che l’anima rapisce di romita fanciulla; e in sin dal giorno che la conobbi tal credeala. Mesta, tu assente, tutto dì nel regio ostello a silenzio composta, il cuor volgea a sentimento di pietà e di pianto. Bella così nelle movenze oneste in cheta notte, ella volgea le piante per l’aprico 41 giardino; e abbandonate su gli omeri le trecce, in mezzo ai fiori che bagnava di lacrime, l’avrebbe, se incontrata l’avesse una virtude del ciel, per suora sua scambiata.
astringi: costringi. frale: corpo. 41 aprico: fiorente. 39 40
571
572
LIONARDO MORRIONE
Nello
(Alle dolci parole di Ghino dal furore passa all’affetto, e quasi estatico esclama in un trasporto.) Oh incanto! Oh dolcezza! Oscurar sì bel candore in terra può la colpa? Ah no. Alla mente certo nell’ore del silenzio il caro consorte rimembrava; e al mesto raggio della pallida luna una preghiera calda, spontanea, a Dio per lui col pianto innalzava, e taceva.
Ghino
Era quel pianto avvelenato dal delitto. All’ombre dei folti rami ella secura e sola credendosi, sciogliea pianti e sospiri dal profondo del sen, mentr’io da un alto veron 42 la rimirava; e (il dico o il taccio?) allora udii con le mie orecchie, ch’ella tremante soggiungeva « io t’amo »…
Nello
(Come sopra.) All’aure dava in grembo quel detto, e lo inviava al consorte lontano. Il cuor di Pia così tu mal conosci. In quegl’istanti fuori dei sensi sua bell’alma, un lene 43 sentìa conforto a’ mali suoi; vivea, unificata con la mia memoria,
42 43
veron: balcone. lene: lieve.
Pia dei Tolomei
573
della vita degli angioli, d’idee. Ghino
Ella lontana dalla tua memoria vivea vita di sensi. Il dolce accento udiron l’aure inorridite, e acceso l’accolse un drudo. 44 E tu il vedesti?
Nello Ghino
Un basso parlar di amore, un suon di baci, un’ombra che tra vïali si estendea sparendo verso il cancello, il mio fatal sospetto convertiro in certezza. E non volasti,
Nello
un brando… Io non potei…
Ghino
Tu pur m’inganni…
Nello Ghino
44 45
Tal tu dai cambio a fedeltà? Sepolto mi era in petto l’arcano: a che venisti, se in me fidanza non ponevi, a trarlo com’estinto da un’arca? 45 Io nol volea, ché so come gli sposi, avvinti al laccio di un vago volto, credono aver regno sopra quel cuor dov’è l’inganno. A Pia
drudo: amante. arca: tomba.
574
LIONARDO MORRIONE
neppure un motto io profferii; soltanto il picciol figlio le ritolsi. Oh rabbia!
Nello
E l’innocente?… Ghino
In salvo egli è. Sono io…
Nello Ghino Nello Ghino
Tradito; e tel vedrai. Forse tu avresti?… Prova a mostrarti. Di tacer varcato è per me tempo, ché il dubitar tuo aperto, dopo fede costante, infrange il velo di ogni prudenza. Ebben, vedrai tu stesso, perdona il franco favellar, 46 se il servo o la consorte ti tradisce. Dunque?
Nello Ghino
Pressa 47 è la sera: l’atra 48 notte è il tempo del reo secreto, il tuo giardino il loco. Meco tu vieni; afforza il core…
il franco favellar: il parlare schietto. Pressa: Vicina. 48 atra: senza luce. 46 47
Pia dei Tolomei
575
Nello
All’alta vendetta sopra i rei. Vorace in petto quale incendio mi bolle, ente 49 mortale non puote in mente concepir. La destra già corre all’elsa, 50 e nell’idea di sangue il cor si spazia e si trasporta…
Ghino
Il giuro, 51 deh! non scordar: di Dio con tal furore tu provochi lo sdegno. Inopportuna l’ira tua cieca è in quest’istante. Orrendo
Nello
è l’abisso… Ghino Nello
Partiam. Son disperato!
ente: essere. all’elsa: all’impugnatura (della spada). 51 Il giuro: Il giuramento. 49 50
576
LIONARDO MORRIONE
Atto terzo Scena prima. Interno del giardino con cancello praticabile di prospetto. Da uno de’ viali a sinistra vedesi dal vuoto che lasciano gli alberi un fianco del palagio signorile. È notte. Pia ed Imelda. Imelda
Il loco è questo; qui liberi detti l’ora notturna a profferir vi porge destro opportuno. 1 Che da Siena nasci, e a questa afflitta annodati amistade col fratel deh! ricorda.
Pia
Oh! quanto costi questo istante al mio cor non sai. Costretta, vedi, mi sono a ricercar furtiva in tempo oscuro un adito opportuno che al fratel mi congiunga. Ah! se desìo 2 pace, pensar tu il puoi. Fraterno e caro è il già versato sangue; e orror mi desta quel campo di delitti. Uniti a un patto, gran Dio, deh! rendi i traviati spirti, che si struggono a gara; e sul terreno, che festi bel di un tuo sorriso, innalza il vessil della pace!
Imelda
Iddio esauditi di un cor sincero rende i voti. Amore
1 2
destro opportuno: occasione propizia. desìo: desidero.
Pia dei Tolomei
577
apriva il varco in queste avverse soglie al tuo germano; 3 ah! non fia mai ch’ei resti sordo un istante alla tua voce; un’eco darà natura, e vincerai. Breve ora io fui con esso, poco dissi… Pia
Preghi, sospiri, e detti effonderò: secondi 4 il cielo il desir mio; dilegui intiero questo che mi ange 5 rio presentimento di sterminio e di morte. Oh! come al core e patria e sposo mi son sacri! Oh! come per lor darei tutta la vita! Imelda, in petto… (Si ode l’orologio.) Suona mezzanotte. Vanne; 6 l’occulte scale sian dischiuse. Avrassi per esse scampo il fratel mio. Vederlo…
Imelda Pia
Imelda
Or tu non puoi. Supremo istante è questo sacro alla patria: a’ fidanzati in seno amore or taccia, util sublime or parli. Udisti? I voti nostri il ciel secondi!
germano: fratello. secondi: aiuti. 5 ange: angoscia. 6 Vanne: Vai. 3 4
578
LIONARDO MORRIONE
Scena seconda. Pia si avanza tantosto 7 al cancello di prospetto, e gitta un fiore; indi Evaldo. Pia
Fratel!
Evaldo
(Battendo da dentro leggermente palma su palma.) Mia suora! 8 Appressati.
Pia Evaldo
(Sul limitare.) Mi abbraccia; e in questo amplesso quanto sia conosci l’amor del fratel tuo. 9
Non esitai…
Pia Evaldo
Ma rifinita 10 ti ritrovo. Orrore forse io ti reco?
Pia
L’avvampante guerra di fiamme fratricide ahi! mi spaventa, non tu, mio Evaldo.
Evaldo
E chi l’accese mai? Non io che in nome di re Carlo stringo
tantosto: subito. suora: sorella. 9 amplesso: abbraccio. 10 rifinita: sfinita. 7 8
Pia dei Tolomei
579
la somma del poter; 11 fu il tuo consorte che sfidar volle il fiorentin valore. Se a quel sull’Arbia arrise il fato, in Colle opprimerlo dovea. Fiorenza è forte; ed era in dritto vendicar l’offesa dell’avversa fortuna: il destro corse; e con la spada la vittoria ottenne. 12 Era per me sacro dover pugnare in mezzo a’ prodi, e spargere il mio sangue sino all’ultima stilla: al re doveva, che mi accolse benigno e mi fé duce, con grati sensi anco la vita. E questo se pur non vi era alto dover, potevo non correre sul campo? Ah! tu rammenta, se non ti accieca un sconsigliato affetto, quando al Consiglio dei Sessanta il fiero popol sanese fece oltraggio, quale io non soffrii terribile onta! Inceso il mio palagio, 13 confiscati i beni, tutto disperso, come vil rubelle con gli Accarizi e i Salimbeni 14 mi ebbi a torto il duro esiglio. In grembo accolto in nome … poter: in nome di re Carlo (d’Angiò) detengo tutti i poteri. 12 Il riferimento è alla battaglia di Montaperti (4 settembre 1260), sul fiume Arbia, dove Siena ghibellina sconfisse Firenze (Fiorenza) guelfa, ed a quella di Colle di Val d’Elsa (8 giugno 1269), dove Firenze guelfa colse l’occasione favorevole (il destro corse) e sconfisse Siena ghibellina. 13 Inceso il mio palagio: Bruciato il mio palazzo. 14 Accarizzi e Salimbeni: Accarigi e Salimbeni: due potenti famiglie di Siena. 11
580
LIONARDO MORRIONE
allor dai guelfi, e col potere in pugno potei volare alla vendetta: amore, sublime amor per te, non che speranza, che ravveduto il tuo consorte avesse un omaggio a me reso, ambo sul petto mi legavan le braccia. Ei tutto illuso dal suo poter, che va in abisso, un spregio, 15 anziché onor, mi rese: il guanto a terra gitta della disfida; e corre all’armi. Vile è il guerrier, che non risponde. Il brando necessità fé uscir dalla vagina, 16 in che fermo si stava; e il mio dovere forte lo rese in campo. Pia
Aspersi del rio veleno, che dall’odio scende sono gli accenti del tuo labbro. In cima di ogni pensier quello fatal del bando ti figgi in mente; e di atro 17 oblio ricopri l’empia ragion che proclamollo. Ah! pensa, se giusto esser tu vuoi, che ombra di colpa non fuvvi mai del mio consorte. Ardea, siccome arde tutt’ora in mezzo a Siena, civil discordia, e nel furor di parte emesse il danno tuo. Sotto il vessillo della guelfa cittade, 18 a noi nemica, tu ricovrasti; e contro lei la guerra
spregio: disprezzo. vagina: fodero. 17 atro: scuro. 18 guelfa cittade: città guelfa: Firenze. 15 16
Pia dei Tolomei
581
volle il popol sanese. Era dovere, benché del prence riluttasse il core, accogliere quei voti. Ah! quale è dunque la colpa di che parli? Il rio disprezzo, che venne a darti oltraggio? Al sen ti parli amor: cessi il pugnar, ché amante e suora uccidi in tai conflitti. Evaldo
Amante e suora venni a salvar: tel dicano le vesti in che or mi avvolgo, e l’ardimento. Un saldo scudo su voi protendesi; né destra umana svellerallo. 19 Insieme a Imelda, donna dei mei pensier, per cui non temo perigli e morte, qui ti trovi il nuovo occaso. 20 Rispettar saprà irrompendo l’agguerrita coorte 21 i cari luoghi, dove in nodo staranno Imelda e Pia. Celato arcano ti paleso…
Pia
Evaldo! Deh per pietà! desisti. Il mio consorte oh quanto è caro a questo cor! Men dura fora 22 la mia che la sua morte. Il salva dal baratro, che scavi, e amor congiunga le vostre destre…
svellerallo: lo strapperà. occaso: tramonto. 21 l’agguerrita coorte: la valorosa truppa (di Evaldo). 22 fora: sarebbe. 19 20
582
Evaldo
LIONARDO MORRIONE
Suora mia… (Intenerito resta in pensiero.) Risolvi.
Pia Evaldo Pia Evaldo
Accordo pace… Oh Dio!… Se a me fia dato il dominio di Siena. A te concedo dal vassallaggio le dovute imposte. Questo patto d’amor se accetti, o Pia, al tuo consorte il narra. E questa è pace?
Pia Evaldo
Decida il brando, se la sprezzi. Adunque
Pia
qui invan movesti? Evaldo Pia
Per salvarvi io mossi. A duri patti non si dà salvezza. Amor non soffre vincoli, concede, e solo affetto in cambio ei vuole. Ardente sete di guerra è in te, languidi i sensi son del tuo amore. Ebben giungi alla meta a cui t’innoltri: il verde allor pur cinga la fronte tua; ma non sperar che salve restino Imelda e Pia. Trafitte entrambe
Pia dei Tolomei
583
al suol distese rivedrai: fastoso, quando la reggia ti fia schiusa, il passo volger dovrai, se non t’investa orrore, su due freddi cadaveri, che amaro ti faran il trionfo… Evaldo
Ah taci! ah taci! il solo udirlo è orror…
Pia
Morte soltanto può darmi pace. Ahi! che mia vita è resa area crudel di affanni: il nume tronchi questo debole stame. 23 In preda al pianto, dei giorni del mio sposo incerta, afflitta quasi povera ancella, insidïata pur nell’onore, ahi misera!… Che intendo?!
Evaldo
In rischio l’onor tuo?! Da un falso amico…
Pia Evaldo
Il nomasti. 24
Pia Evaldo
23 24
Ghino è quel reo?
E spento ei fia. Truce è il furor che m’ispirasti; il ferro sol vendicar può tanta offesa; ammenda
stame: filo (della vita). Il nomasti: Lo hai nominato.
584
LIONARDO MORRIONE
non sperisi dal perfido; già è mia l’onta ch’è data a te… (Si ascolta rumore.) Rumore io ascolto; aprimi un varco: vo’ salvarti. In sonno
Pia
tutta è la reggia. (Incalza il rumore.) Evaldo
Perdermi potrìa un solo istante… Addio…
Pia
Salvami, Evaldo, lo sposo, il figlio mio, l’amica…
Evaldo
Oh come mi lanci in braccio a mille affetti… Incalza vieppiù il rumore… dammi il varco.
Pia
Andiamo.
(S’internano rapidamente nei penetrali del giardino, onde dalle scale secrete avere Evaldo libera fuga, e Pia trovarsi negli appartamenti del palagio. Nel fuggire cade dal fianco del guerriero un pugnale.)
Pia dei Tolomei
585
Scena terza. All’istante del partire dei precedenti vedesi sul fondo della scena al di là del cancello Nello fortemente trattenuto da Ghino, da cui a viva forza tenta di sciogliersi. Nello
Ghino
Deh! lasciami: vo’ spegnere l’infame coppia… Signor, ti frena; il giuro sprezzi. 25
Nello
Or non i giuri 26… il mio furore ascolto.
Ghino
Perderti brami?…
Nello
(Svincolandosi da Ghino.) Lasciami… Ti arresta, sciagurato, alle terga 27 hai tu la morte. (Sguainando la spada.)
Ghino
Mi ascolta… Dove corri?… Alla vendetta. (Via.)
Nello
Scena quarta. Ghino solo. Raggiungerlo non può. L’uscio si chiude; e col tramato inganno ormai si compie il giuro sprezzi: disprezzi il giuramento. i giuri: i giuramenti. 27 alle terga: alle spalle. 25 26
586
LIONARDO MORRIONE
il voto mio fervente. Il core è pago nel suo desìo. Vedrai, superba donna, qual sia baldanza stolta il far cruda onta di uom prode al fido amore. Io ti adorai; or, dileggiato, 28 ti do morte… — Un ferro al suol?! Che fia? 29… Per l’ampia tela è desso filo opportuno a me: tutto è secondo. 30 (Raccoglie il ferro caduto ad Evaldo.)
Scena quinta. Nello e Ghino. Nello
Ghino Nello
Sparito egli è; dove si asconde? Oh rabbia! Freno non soffre il furor mio. Qui uniti io vidi entrambi; ahi! tra i profani amplessi la spada non piantava io ne’ lor cuori? Col sangue lor non sazïai la sete che mi strugge e mi vora? 31 — Iniquo, or esci; col tuo misura, se non sei vigliacco, il terribil mio brando. Accheta l’ira… Io nol potrò senza vendetta. Il sangue sol può la fiamma di un tradito sposo far mite alquanto in sulla terra; è questo,
dileggiato: schernito. Che fia: Che sarà? 30 Per l’ampia tela … secondo: Per la mia ampia trama esso mi è un filo opportuno: tutto è favorevole. 31 vora: divora. 28 29
Pia dei Tolomei
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mel credi, amico, unico mezzo. Al mondo favola vile è chi nel sen macchiato reclina il capo di una sposa. Ghino
Aneli sangue? Tu il verserai. Nascosto il drudo non fia che resti; tel prometto. È questo stile 32 che ho in pugno arra 33 di amore a Pia: tutto adoprai; ma pure io l’ebbi; è desso guida che mena ad indagar. Mel porgi.
Nello Ghino
Il lascia.
Nello
(Strappandoglielo da mano.) Non sia mai. Con questo ferro giuro vendetta innanti 34 a Dio.
Ghino
stile: pugnale. arra: pegno. 34 innanti: davanti. 32 33
Son lieto.
588
LIONARDO MORRIONE
Atto quarto Scena prima. Pia sta immersa nel più profondo dolore. Gira intorno lo sguardo quasi avesse alle sue spalle un nemico da temere. Sospira e piange. Ahi sorte rea! come in dolor volgesti i miseri miei dì. Ben fui felice; obbietto 1 or di pietà. L’aura che spira emmi 2 nemica; è pure avverso il suolo, che ingrato tienmi, e non m’inghiotte. È vita questa che io traggo? 3 Più di morte è dura, ché a me degl’infelici anco si toglie l’ultimo ben: dei lari miei 4 la pace. Onor chiede il silenzio: in cor sepolto morrà meco il rio arcan; 5 dovere è questo di fida sposa, né fia mai che n’abbia sentor lieve lo sposo. Ahi! me consumi funesto duolo; intiera pace ei goda. A piangere solinga mi abbandona anco l’amica in tanti affanni. — Imelda! suora di fido amor, vieni, consuola l’alma che geme trambasciata. 6
obbietto: oggetto. emmi: mi è. 3 traggo: conduco. 4 dei lari miei: della mia casa. — Presso i Romani, i Lari erano anime degli antenati protettrici della casa. 5 rio arcan: segreto colpevole. 6 trambasciata: tra le angosce. 1 2
Pia dei Tolomei
589
Scena seconda. Imelda e Pia. In pianto
Pia
così mi lasci? Imelda
Il primo raggio appena del sol lambe le logge: or tu vorresti la vita consumar? Rasciuga il ciglio, e spera pace nel fratello. 7
Pia
È vano in lui sperar: funesta idea lo investe, e straripando lo trasporta. Orrenda pende sciagura alla città. Posso io frenare il pianto, chiudere le ciglia a lieve sonno, un’aura fruire di pace e di consuolo? 8… Ahi! perché vibra su liete vite i colpi, e della mia, ch’è sì grama, distoglieli la morte? Io morir bramo. Nella tomba almeno mi avrò riposo; e qualche stilla 9 amica farà lieve il mio sasso.
Imelda
Ah cessa! ah cessa! Il cor mi spezzi per dolor! Rifugge a tai pensier quest’alma, che ritorna al gemere interrotto. Un raggio splende ancora in me di dolce speme. Umani
lambe: sfiora. consuolo: conforto. 9 stilla: lacrima. 7 8
590
LIONARDO MORRIONE
sensi di cavaliero ha il tuo germano, fervido cor, nobili affetti; al pianto ei cederà di queste afflitte. Ahi! quali non sparsi amare lacrime! Richiede dominio il mio german; patto solo uno concede per la pace. Il crederesti? Libera a lui Siena restar, le imposte del vassallaggio a me soltanto. O questo unico patto, o fatal guerra.
Pia
E conscio
Imelda
n’è il prence?
10
Non fia mai che il sappia. Amaro annunzio non fo aperto. Insiem con esso io vo’ morire in mezzo all’armi.
Pia
Imelda
Ah lascia proponimento sì fatal! Se aita dagli uomini sperar non c’è concesso, scudo rimane agl’infelici, Iddio. Chi spera avrà mercè: dell’ara al piede vieni nel tempio; la preghiera a Dio, come il sospir dell’innocenza è cara.
Pia
10 11
D’alme sublimi la preghiera è degna opra ammiranda; 11 ma spezzare il giuro, E conscio … il prence: E ne è informato il principe? opra ammiranda: azione ammirevole.
Pia dei Tolomei
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che unì due cori ad un sol patto, è scelo 12 condannato da Dio. Ritorce al suolo, come fumo di vittime profane, prece di moglie che divider niega con lo sposo i perigli. Afflitta resto, e invoco morte. Ed è tuo giuramento?
Imelda
L’ignori Imelda? Di compir lor giorni giuran le spose dei consorti al fianco: e se uniti alle gioie in stretti nodi amor li fece, anch’ei nel duol li annoda e nella morte.
Pia
Oh me infelice!
Imelda Pia
Vanne 13 tu sola al tempio. A Dio per questa reggia alza fervente la tua prece: è in lui, la nostra speme. Ei scudo è a tutti: il mondo agl’infelici nulla dà.
Imelda
Tu squarci in mille brani questo cor… Morire teco è mia brama…
Pia
Non disfarti in pianto, ché morte mi darà riposo eterno.
12 13
scelo: delitto. Vanne: Vai.
592
LIONARDO MORRIONE
Ma tu vivi felice, or che beati ti sorridono i dì; vita più dolce tra le delizie a te desìo. Ma quando sarai tu in braccio del german mio caro beata sposa, tra splendori ed agi, ricorditi di me che son la Pia: Siena mi fe’, deh non scordarlo! E allora che nel silenzio della notte il piede tra i fiori volgerai del tuo giardino l’odor libando, ah versa allor pietosa una stilla di pianto, ed un sospiro sovra l’amica che l’eterno sonno sotterra dormirà!… Se pur fregiato di benda vedovil, salvo da morte, presso il mio avello, 14 troverai lo sposo col tributo di un fior, ch’evochi l’ombra dell’infelice che morìa di affanno, deh tu il conforta nel dolor; che viva, digli, pel figlio, e che a insolubil nodo là nel cielo l’attendo… Imelda
14
Ah taci! ah taci! Tu di terror mi colmi il petto. Il cielo disperda i tuoi presagi, e un raggio mandi che ne sollievi dalle angoscie. È mia l’ambascia che tu soffri… Ah! se morire vorrai tacendo, non sperar che io lasci te un solo istante; noi morremo insieme.
il mio avello: la mia tomba.
Pia dei Tolomei
593
Ti serba in vita. Tu potresti almeno, quando il tempo disperda ogni odio antico, pel figlio mio, se non per altri, un’aura ottener di conforto. Egli nel mondo orfano reso, misero, infelice degli anni suoi col crescere membrando il perduto splendor, potrebbe un cupo baratro aprirsi ai piedi. Allor deh! stendi pronta la destra per salvarlo.
Pia
Oh Dio!
Imelda
Scena terza. Nello immerso nel più cupo dolore si avanza sulla scena senza punto accorgersi di Pia e di Imelda. Nello
Sull’orizzonte di mia vita apparso tinto a gramaglie 15 è un fatal astro. Il corso piega all’occaso; 16 ma in un mar di sangue, pria che tramonti, vedrà al suol… Vendetta per me sarà piena, solenne. Oh Dio!
Pia Imelda
Che orror!
Nello
(Vedendole.) Di pianto non è questa, o donne,
15 16
tinto a gramaglie: colorato a lutto. all’occaso: al tramonto.
594
LIONARDO MORRIONE
l’ora opportuna, essa è di morte. Orrendo sudor già gronda la mia fronte, e il cuore che sanguina lo preme. In mezzo a mille funeste idee, che fan balzar quest’alma fra sirti 17 e scogli di sventura e all’orlo del precipizio l’avvicinano, una, orrida, pallidissima, gigante sopra tutte si estolle; 18 e più mi rende terribilmente forsennato. Io pace d’amor chiedo; e dipingo alla mia mente cari fantasmi, dolci sogni, affetti d’innocente virtù: cerco tra l’ombre, quasi fanciullo innamorato, un’aura di contentezza, una virginea rosa che rattempri il mio duol; ma amor risponde, imbavagliato d’atre 19 bende, in fieri orribili rimbrotti; e mi respinge dove il sol tace; e in seno all’ombre infide trovo la rosa a cui si avvinchia un serpe che l’aëre avvelena. Ahi! che mi è tolta di pace anco la speme; e divien mostro feroce, irresistibile, inumano l’uom cui s’invola 20 la speranza. Pia
Oh cielo! Non regge il cuore a tanti strazii! È strale il dir tuo arcano…
sirti: paludi. si estolle: s’innalza. 19 atre: nere. 20 cui s’invola: a cui viene tolta. 17 18
Pia dei Tolomei
595
Nello
E acuto stral, che deve in brieve ora ferir. Strazio crudele è il mio, soltanto il mio, che mi è rapita dal core anco la pace, e sangue caro dovrò versare, e sperdere fremente d’amore una reliquïa che io serbo. Il chiede onor? Sia pago. Or sopra il brando involontaria la mia destra corre pronta a ferire, e fulminare… Imelda!… Perdona a tai trasporti… il cor tuo pena… Solo mi lascia con la moglie; almeno tutta potrò l’irresistibil foga versar del mio dolor. Se a eterno pianto noi danna il fato, a che soffrir tu? — Parti.
Imelda
Signor!…
Nello Imelda
Lo voglio. Eterno Dio! (Via.)
Scena quarta. Nello e Pia. Nello
Siam soli; or libera la fiamma uscir può intiera da questo sen; dentro di lui repressa si agita sì che già sovverte e schianta ogni moto di amore, ogni bel senso di tenerezza; e suscita vorace fuoco alle fibre che alimento porge allo sdegno, al furore, alla vendetta.
596
LIONARDO MORRIONE
Vieni; discerni sotto il tatto i fieri battiti del mio cor che truce guerra mi destano nel petto? Essi ad alta ira già mi accendono, e già… Pia
Tu di spavento l’alma mi colmi, e in mille brani squarci questo afflitto cor mio. Dolor non avvi che uguagli il mio soffrir: nelle tue smanie tutto l’orrore della morte io veggio, e pur morire non posso io. Men cruda fora la morte in tal momento, almeno io non vedrei di te lo strazio.
Nello
Ancora delle mie smanie tutto il nero eccesso non scende nel tuo cuor. Lievissima ombra apparsa è appena; ma divampa e scoppia l’occulto foco; e già fatale incendio sorge a bruciar…
Pia Nello
Che pensi?! Un solo mezzo a vendicarmi. Oh come anela sangue il vilipeso onor! Come reclama pronta giustizia in fieri accenti! Avverso a duri sensi fui, quando d’accanto di tenerezza un angiolo mi stava; e mi ebbi pace: or disperato e truce che ho un demon infernal…
Pia dei Tolomei
597
Lampo d’orrore,
Pia
oh Dio! qual mi traluce!… Nello
Il fiero lampo dal mio pugnal balenerà. Segnato nel libro eterno è già l’istante; il core muore agli affetti, e nell’idea rinasce di una vendetta desïata… 21 Oh stelle!…
Pia
(Pia, agli ambigui ed arcani detti del marito, è nel massimo abbattimento. Costui, combattuto dal più violento furore e da qualche lampo di affetto, presenta la vera immagine della disperazione. Non ha fibra che non gli tremi visibilmente; ed il suo aspetto è rabbuffato ed austero.)
Scena quinta. Nella violenta azione dei precedenti prorompe Ghino con rapidità grandissima. Ghino
Prence, in Senato il tuo venir si attende.
Nello
Ahi! qual momento!… Or tuo soccorso, e aita
Ghino
chiede la patria. Nello
21
(Risolutamente.)
desiata: desiderata.
598
LIONARDO MORRIONE
Andiam… ma all’onde il [sole ritornerà di orror compreso. (Viano.) 22 Pia
22
Io manco!… (Spaventata da questi ultimi accenti sviene tramortita a terra.)
Viano: Si avviano.
Pia dei Tolomei
599
Atto quinto Scena prima. Nello solo. In periglio è la patria; ed il Senato atterrito vacilla?… E la mia sposa? Ella è infedele?!… Oh patria mia perdona se or l’infamia crudel di una consorte mi trasporta al furor. Dunque all’affetto pronta mercede 1 è il tradimento?… Ingrata! E sì rispondi all’amor mio? Mi porgi guiderdone 2 d’infamia, e fingi amore?… Ahi stolto fui nell’adorarti, insano nel farti un’ara entro il mio core!… Or taccia ogni palpito vil, parli vendetta; e sappia il mondo, che dell’onor santo così si terge l’atra macchia. Al campo io volerò; ma pria nel sen ti avrai, donna fatale, un duro ferro.
Scena seconda. Il cavaliere, Enrico, e Nello. Cavaliere
In braccio a te venirne volle il figlio: amore di te lo spinge; ed io il secondo. 3
mercede: ricompensa. guiderdone: ricompensa. 3 ed io il secondo: ed io lo assecondo. 1 2
600
LIONARDO MORRIONE
O padre!
Enrico Nello
O figlio mio; mi abbraccia; e questa attuta 4 guerra crudel di affanni. (Fa cenno al cavaliere che parta.) E perché in duolo
Enrico
sovente così stai? Nello
Deh taci, Enrico; del mio dolor non favellar.
Enrico
Ma a forza mi strappi il pianto tu dal ciglio; parla.
Nello
Oh qual dolcezza nei tuoi cari detti mi scende in core a consolarmi!… Abbracciami.
Enrico
Sì; abbracciami al tuo petto. Or dimmi, [Enrico,
Nello
ami la madre tua? Sì; l’amo… quanto
Enrico
te stesso. Nello
4
E in la mia assenza un cenno, un [vezzo ti fé di amore?
attuta: attenua.
Pia dei Tolomei
601
In me vivea soltanto. 5
Enrico Nello
E mai di me ti favellava? Sempre,
Enrico
sempre. Nello Enrico
Che narri tu? Anzi piangeva per la tua assenza tutto dì. Piangeva?!
Nello
(Quasi delirante.) Ahi pianto infame! Enrico
Quai tremendi vibri sguardi su me?… Io tremo!
Nello
(Fuori di sé.) Aneli sangue, tradito onore?… Il verserò… tua brama appien satolla renderò.
Enrico
Ti calma, ti calma per pietà! Per la mia madre che ti ama e adora ti scongiuro!…
Nello
Ah! frutto maledetto di lei; sebben fanciullo,
5
In me vivea soltanto: Viveva soltanto per me.
602
LIONARDO MORRIONE
tu pur m’insulti? Mi dileggi? 6… In core vieppiù le smanie mi ridesti?… Ah pure di te dira 7 vendetta… (Lo tira per un braccio.) O padre mio!…
Enrico Nello
Ma, abbenché figlio di quell’empia, ei parte pure non è del sangue mio?… Mi assisti, o Ciel! più non resisto a’ vari affetti che in cuor mi fanno ineluttabil guerra! (Cade convulso sur una sedia. — Pausa.)
Scena terza. Ghino e detti. Ghino
Prence, pel campo è già compiuta ogni opra: suoni lo squillo della tromba, e spinto dall’ardimento il milite vedrai vibrar la spada e palleggiar la lancia vendicatrice dei tuoi dritti. Il mare e l’Alpi tra il terren dell’Arno e Siena eternamente sien frapposte: il vuole un popol tutto al soglio tuo fedele.
Nello
E il popolo è a mio pro? 8
Mi dileggi: Mi schernisci. dira: spietata. 8 a mio pro: a mio favore. 6 7
Pia dei Tolomei
Ghino
603
Tale lo rese l’alta dei Padri veneranda voce. 9
Nello
Dunque cuore riprese ora il Senato?… Dunque?…
Ghino
Vestirsi di un seren celeste par che si voglia l’avvenir; ma un varco ancor ci è d’uopo 10 sorpassar.
Nello
Tranquillo sorrideranne l’avvenir, se spento cadrà a’ miei piedi il traditor, che in viso l’atra macchia scolpivami. Sì, è desso l’orrido passo che a varcar ci avanza: e strenuamente il varcherò. Tu in pegno il nome ad indagar del reo giurasti. Ed io sperai felici effetti.
Ghino
Ahi! tutte vane le mie cure tornar; ma un colpo che tu darai non troncherà l’ambasce 11 che ti struggono il core?
Nello
(Dopo una pausa.) Ho risoluto. 12
Padri: senatori. ci è d’uopo: dobbiamo. 11 ambasce: angosce. 12 Ho risoluto: Ho deciso. 9
10
604
LIONARDO MORRIONE
Enrico
Enrico or vanne: qui mi avvia la madre; e tu rimanti con Imelda. Io volo, io tuoi mali a lenir. (Via.) Di Pia col sangue.
Ghino
Scena quarta. Ghino e Nello. Nello
Ah fido Ghino! Or tu vedrai quai colpi saprà vibrar questo braccio.
Ghino
È d’uopo ormai che io parta. Tel dicea, che un altro passo rimane a sormontar: credesti forse, ch’ei sia dar morte al turpe drudo? 13 Ma pur desso non è. Sentore io mi ebbi duro, fatal, terribile. Qui in Siena contro tuoi dì, nell’ire sue di sangue, né lieve è il grido, con armata gente Evaldo forse a congiurar si asconde. Squarciar quel velo assai mi preme; e un solo istante non vogl’io che scorra. E donde
Nello
nuova sì infausta ti pervenne? Ghino
13
drudo: amante.
Orecchie
Pia dei Tolomei
Nello
605
e delator, chi il suo buon prence intende con fedeltà servire, ha cento e mille. Vanne tu dunque; e sia precipua cura squarciare il vel del tradimento. Adduci, se pur lo brami nell’impresa, Ubaldo, pronto a incontrare disperata morte per l’onor mio. L’opra è di te… Ti affida
Ghino
al mio noto valor. Ratto di Pia prendi vendetta, ché pensier mio primo sarà dar morte al tuo crudel cognato. (Via.) 14
Nello
Ti assista il cielo nel fatal cimento! 15
Scena quinta. Nello. (Tirando il ferro 16 trovato nel giardino.) È questo il ferro; e questo il cuor dell’empia in fino all’elsa passerà: lo chiede ardentemente onor tradito; e onore, pari all’offesa, avrà vendetta. Oh come dai molti affetti di pietà lontano, tra palpiti furenti, il cor nel dolce pensier di sangue or si trasporta! Oh come l’istante anela di vibrar!… Chi il ferro Ratto: rapido. cimento: scontro. 16 il ferro: il pugnale (di Evaldo). 14 15
606
LIONARDO MORRIONE
nel sen profano di spergiura moglie non pianterà con alma forte? Al vile il disonore, il vendicarsi al prode. Ma ancor non viene? Olà! donna, ti appella voce imperante del signor… Più freno l’ira non soffre; ai concitati moti si rompe il sen… terribile è la fiamma… Io non resisto!… Oh Dio!… (Dà per la scena due passi.)
Scena sesta. Pia e detto. Nello!
Pia
Sì presto
Nello
ai cenni miei risponder sai? Pia
Risparmia rampogne amare: agl’infelici è grave ogni detto crudel. Per te prostrata dono di fiori innanti all’ara 17 offriva misti a una prece a Dio. Chi ci rimane in tanti affanni? Ei sol, che dei mortali è padre, e lui pregava…
Nello
Un rio veleno sta tra le foglie di quei fiori. Il Dio, empia, oltraggiasti in quell’offerta: è vana
17
ara: altare.
Pia dei Tolomei
607
finta pietà, mentito ardor, ché a terra caduto è il vel che mi offuscava il ciglio. Pia
Quai crudi accenti? Sul tuo labbro è impresso terribil sdegno: e chi tel desta?
Nello
Un’empia maledetta dal ciel, di affetti e giuri violatrice disleale. Eppure per lei qui in terra il paradiso io mi ebbi, d’amor sublime: dopo Iddio, lei sola quanto può amare ente mortale io amai, credulo troppo, che a mia fiamma uguale fosse la fiamma del suo petto. Ahi quanto era fallace quella fé! 18 Per altri si accendeva il cuor suo, mentre di vani accenti mi pasceva. Ahi cruda! In braccio di un vil si dava, vituperio ed onta scolpendo al prode in sulla fronte. Ed avvi, 19 donna, delitto più fatal? Può inerte starsi in guaina l’affilato stile? 20 Può?…
Pia Nello
Qual mistero, giusto Iddio?! Mistero non vi ha, crudel; di te mi dolgo e parlo,
fallace quella fé: ingannevole quella fedeltà. Ed avvi: E c’è. 20 stile: pugnale. 18 19
608
LIONARDO MORRIONE
di te che all’astro del mio onore hai fatta ria macchia orrenda… Io!
Pia
Sì.
Nello
Sono [innocente.
Pia
Nello
Ti accheta: di garrir più non è l’ora; ora fatale è già. Breve è il contento di chi tra l’ombre di una notte oscura vende la fé, l’amor giurato. Un Dio veglia dal ciel sovra i traditi; e spande vivida luce a discoprir le colpe.
Pia
Per tutti è Iddio: chi può negarlo? E Iddio agl’infelici a discolparsi appresta un pieno dritto. E ancor dischiudi il [labbro?
Nello
Pia
Il posso, il devo, o sposo.
Nello
Un dì potevi usar tal nome; il tuo misfatto i dritti or t’invola 21 a ragion.
21
t’invola: ti toglie.
Pia dei Tolomei
609
Pia
Giudice mio, se pur concedi che così ti appelli, apri tue ciglia a vera luce, e vedi il fascino 22 ove sei, dove ti spinge a inabissarti nera infamia. Amaro, quando fia vano il pentimento, avrai tu rimorso e dolor. Di tua colomba ti sarìa caro anco un lamento, e il mesto lamento non udrai. L’avello stesso, 23 dolce ricetto del mio fral, 24 saratti acre rimbrotto; e fuggirai fremente per stanze oscure alto ululando: « O morte! o morte! a che non vieni?… »
Nello
Ingrata! E credi con lo spavento trattenermi il braccio? Eludermi ancor brami? Infamia credi senso di onor che a’ valorosi è vita? Ah! non credea che alma sleal si stesse sotto angeliche forme! Assai deluso io fui sinora; è tempo omai che io strugga l’ara di amor, dal pianto mio bagnata, e su i frantumi suoi rovesci a un colpo il capo reo dell’idolo spergiuro.
Pia
Uccidimi, sì uccidimi; ma l’onte 25 d’ingiuste accuse almen risparmia. Appieno
il fascino: la malia. L’avello stesso: La tomba stessa. 24 fral: corpo. 25 l’onte: le offese. 22 23
610
LIONARDO MORRIONE
veggio chi in seno i velenosi serpi di gelosia ti vibra. Il dirò aperto; e poi mi svena: di tua man mi è dolce anco la morte. Il perfido tuo Ghino che a sedurre il mio onore e l’amor mio oprò lusinghe e rie minacce, in petto ei tal ti accese spaventevol fiamma; sì, quel ribaldo… Nello
Non più accenti: assai videro gli occhi miei molli di pianto.
Pia
E che vedesti? Non forzarmi…
Nello
Parla.
Pia Nello
Nol devo. Per pietade!
Pia
Oh rabbia! Il drudo. 26
Nello
E dove?
Pia Nello
Nel giardin. Quando?
Pia
26
Il drudo: L’amante.
Pia dei Tolomei
611
Stanotte.
Nello Pia
Ah! t’illudesti; credimi. Se colpa in ciò riponi, io non ho colpa. Un’ombra all’onor mio quegli non dava: vindice bensì ei si fece del mio onor.
Nello
Spergiura; confessi il fallo e ti difendi? Infame, quanto non credi, è quella insana moglie che in braccio altrui si gitta, è rea di morte… Ah! vendicarmi sol mi avanza! 27 Il nome dimmi del reo.
Pia
Pietà! che dir posso io?… Poss’io tradir sangue innocente e caro?…
Nello
Scampo non avvi… Qual clangor 28 di trombe indistinto si ascolta; ei si avvicina; che sarà mai? (Si odono alla lontana squilli di trombe, e voci confuse, che vanno rapidamente avvicinandosi.)
Pia
Gran Dio! ne assisti! (Voci da dentro.) Evviva Firenze! Evviva Evaldo evviva!
27 28
sol mi avanza: mi rimane soltanto. clangor: suono forte.
612
LIONARDO MORRIONE
Pia
Oh sposo!…
Nello
(Guardando da un verone..29) Un tradimento, oh cielo!… Io son perduto… Si diede in braccio la città al nemico; ei già s’innoltra nella reggia… Ah! tutti or mi han venduto. Ghino sol mi resta; ei solo il vero mi narrava. Il primo
Pia
ei ti tradiva. Più non reggo… ah muori…
Nello
(La trafigge.) Ah!!… (Con un grido acutissimo.)
Pia
Nello
Vendicato almen di te mi sono. Muoio innocente…
Pia Nello
29
verone: balcone.
Ancor m’insulti?
Pia dei Tolomei
613
Scena settima. Imelda e detti. Imelda
(Occorrendo 30 rapidamente.) O Pia, moriamo insieme; abbracciami… Che [veggio?!… Oh colpo rio!…
Pia
Deh! mi sorreggi, amica… (Si abbandona nelle braccia di Imelda.)
Imelda
Ah prence?… Mi tradiva.
Nello
È inganno.
Imelda
Il drudo
Nello
io vidi nel giardin. Quello era Evaldo.
Imelda Nello
Imelda Nello
30
Evaldo! (Grandissima sorpresa.) Sì… Morir mi resta: incontro corro al furor…
occorrendo: accorrendo.
614
LIONARDO MORRIONE
Scena ultima. Prorompe Evaldo con molto numero di guerrieri guelfi. Due scudieri trascinano Ghino che a stento si sostiene per le svariate ferite. Evaldo
Ti ho vendicato, o suora.
Ghino
Col sangue… di un infame…
Evaldo
(Abbracciando Pia.) Oh Dio! Innocente
Nello
dunque ella muore? Ghino
Un angiolo è tua sposa… Io l’empio son… che t’ingannai… nell’onta, nell’onta del mio spregiato amor… Mi maledite… nel suo germano… un drudo rio… mostrai… (Cade estinto.)
Nello
(Forsennato.) Oh Dio! Che feci?!
Evaldo
Ahi sciagurato è giunta l’ultima ora per te… (Per iscagliarsi.)
Imelda Pia
Mio Evaldo!… Fine… oh Dio!… una volta… io muoio… (Si sforza di svincolarsi da Imelda, onde fre-
Pia dei Tolomei
615
nare il fratello, e cade a terra spenta.) Nello
Evaldo
Ormai [non merto da te pietà: mi svena; a me si addice morte soltanto… (Buttando al suolo la spada, ed inginocchiandosi a’ piedi di Evaldo.) E morte avrai; tel giuro.
Fine della tragedia.
PIETRO FREDIANI MAGGIO DELLA PIA DE’ TOLOMEI Volterra, 1867
Fig. 8 — Riproduzione del frontespizio di [Pietro Frediani], Maggio della Pia de’Tolomei, Volterra 1867.
Presentazione Negli stessi anni in cui il Morrione scriveva la propria tragedia in solenni endecasillabi sciolti, Pietro Frediani compone in quartine di facili ottonari il maggio con cui la vicenda di Pia da Siena entra nella letteratura popolare, la quale ne diffonderà con il valore di una verità storica la versione sestiniana, secondo cui Pia muore vittima della calunnia di Ghino, innamorato respinto. In questa operazione letteraria, il Frediani introduce alcune innovazioni, la prima delle quali riguarda la figura di un corriere che ha la funzione di introdurre, commentare e concludere la rappresentazione. Quanto alla trama, il suo maggio comincia con la battaglia di Colle che vede opposti Nello e Riccardo, rispettivamente marito e fratello di Pia, ed in cui Ghino, amico di Nello, viene fatto prigioniero da Riccardo. Liberato ed inviato ad annunciare a Pia che nella prossima notte, mentre Nello sarà impegnato a giustificarsi in consiglio, Riccardo si recherà a farle visita, Ghino approfitta dell’occasione per rinnovare a Pia la propria richiesta d’amore: respinto da lei in malo modo, Ghino dopo avergli fatto credere che ella attende un amante, conduce Nello a vedere Pia che introduce in casa un uomo. Quindi il maggio si snoda intrecciando il Sestini ed il Bianco; ma nel finale, mentre tutti la piangono morta, Pia rinviene e riesce a pacificare Nello e Riccardo.
621
Nota sull’autore. Pietro Frediani, pastore poeta, nacque a Buti (PI) nel 1775, in una povera casa di coloni; a quindici anni già conosceva Dante, l’Ariosto ed il Tasso; fu autore di maggi molto prolifico; morì nel 1857; in segno di onore venne sepolto nella chiesa parrocchiale. A Pietro Frediani è intitolata l’attuale « Compagnia del Maggio » di Buti. Nota sul testo. Il testo che qui pubblichiamo è tratto dal Maggio della Pia de’ Tolomei, Volterra, Sborgi, 1867. Stampato anonimo e quasi senza didascalie, questo maggio si ritrova in due manoscritti conservati presso la Scuola Normale di Pisa: il primo manoscritto, copiato nel 1895 da Angiolo Bernardini di Buti, il quale vi apporta tagli ed aggiunte, le didascalie e la partizione in atti e scene che riproduciamo, e dal quale apprendiamo che esso fu “composto da Pietro Frediani”; il secondo manoscritto, copiato nel 1930 da Firmo Signorini di Buti, riproduce con lievi varianti il testo a stampa del 1867.
Maggio della Pia de’ Tolomei
Interlocutori Pia sposata da Nello. Riccardo fratello della Pia. Nello marito della Pia. Ghino amico di Nello, e amante occulto della Pia. Eremita. Castellano. Soldati di Nello. Soldati di Riccardo. [Guardie dell’eremitaggio]
623
Maggio della Pia de’ Tolomei
625
Maggio [Prologo] Corriere
1. L’onorata signoria, se benigni ascolteranno, 1 le sventure intenderanno dell’afflitta onesta Pia. 2. Che accusata falsamente da un amante disperato, la dannò lo sposo irato a languir sola e dolente. 3. E racchiusa in vecchie mura, fra paludi ed aria infetta, condannò mesta e soletta a soffrir la sua sventura. 4. E del falso accusatore udiranno i casi rei, che assai tardi di colei risarcir volea l’onore. 5. E del rigido consorte la catastrofe udiranno ed il tardo disinganno nel vederla in braccio a morte. (Fine del corriere.)
L’onorata …ascolteranno: Se loro, onorati signori, ascolteranno benevoli. 1
PIETRO FREDIANI
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Atto primo Bosco. Scena prima. Riccardo e soldati. Riccardo
6. Su, Collesi, andiamo avanti a investir nella pianura, colà dove non son mura che difendan gl’insultanti. 7. E se alcun per trista sorte si agguatasse 2 in vil riposo o che stasse neghittoso, punirò di orribil morte. (Partono da destra.)
Scena seconda. Nello, Ghino e soldati da sinistra. Nello
8. Ghino, osserva i movimenti del cognato e la sortita, ché fra l’ombra a lor gradita non succedan tradimenti. 9. Poni in ordine le schiere: fa’ che ognun da petto al tergo resti armato dell’usbergo 3 qual dei militi è dovere.
2 3
agguatasse: nascondesse. usbergo: corazza.
Maggio della Pia de’ Tolomei
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10. E se l’ordin da me dato osa alcun di trasgredire, lo farò tosto morire come reo di tal peccato. Ghino
11. Obbedisco, o capitano, e farò che i tuoi soldati si stian pronti e preparati colla nuda spada in mano. 12. 4 Militari, è vostra cura prepararvi alla battaglia, perché Colle e la canaglia non ci assalga all’aria oscura. (Si ritirano a sinistra.)
Scena terza. Riccardo e soldati da destra, indi Ghino coi suoi. Riccardo
13. Miei soldati, ecco il momento di piombar rapidamente sull’iniqua infame gente e decidere ogni evento. 14. Su, miei fidi, la contrada io vi addito: or me seguite; terminiam la nostra lite: io son primo a aprir la strada. (Entrano Ghino e soldati; si battono; Ghino resta prigioniero; partono a destra.)
4
Qui il Frediani nota: Si volta ai militari.
PIETRO FREDIANI
628
Scena quarta. Nello, frettoloso da sinistra, indi Riccardo. Nello
15. Ecco qua, siamo assaliti dalla truppa masnadiera: rovesciata è la bandiera, pieno è il campo di feriti. (Per partire da destra.)
Riccardo
(Appena giunto si battono.) 16. 5 Non fuggir, cedi, o fellone, 6 a fuggir non hai più strada. Finché in pugno avrò la spada non fia mai ch’io sia prigione. (Riccardo si ritira a destra.)
Nello
17. Fu disfatta la mia schiera dai Collesi iniqui e felli, 7 che se Siena avea sei Nelli forse Colle più non era. 18. 8 Se un nemico dichiarato vinto avessemi fra l’armi pace avrei, ma strano or parmi lo star sotto ad un cognato.
Qui il Frediani nota: Si battono tutti. fellone: traditore. 7 iniqui e felli: ingiusti e traditori. 8 Qui il Frediani nota: Si battono a soli. 5 6
Maggio della Pia de’ Tolomei
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19. Ritirarmi a render conto della causa mia perdente che azzardai con poca gente: a scolparmene son pronto. (Parte a sinistra.)
Scena quinta. Riccardo, Ghino e soldati da destra. Riccardo
20. Siena, Siena, a mano a mano ti ho ridotto al tristo die: si vedran le profezie avverar del tuo Brandano. 9 21. O Senesi, or non avrete più ragion di andare alteri:
Nato a Petroio, in Valdichiana, nel 1483, dopo una giovinezza da libertino, Bartolomeo Carosi, detto il Brandano, iniziò una vita di penitenza che lo portò a vagare per anni per la Toscana, l’Italia e la Spagna: scalzo, vestito di sacco, con un teschio in mano, predicava nelle chiese, nelle vie, nelle piazze, pronunciando severe profezie, per lo più in rima, contro nazioni, città e potenti corrotti. Profetizzò anche la fine della repubblica di Siena e durante quella guerra (1552–1555) animò la resistenza popolare contro l’occupazione spagnola della città. Morì a Siena il 24 maggio 1554. — Questo anacronismo della citazione di una profezia del Brandano sui destini di Siena da parte di Riccardo subito dopo la battaglia di Colle (1269), cioè quasi tre secoli prima che il Brandano esistesse, si spiega con il fatto che nella Toscana del Frediani il Brandano era ormai un personaggio proverbiale e perciò senza tempo. 9
PIETRO FREDIANI
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già tra morti e prigionieri cinquecento almen qui siete. Ghino
22. Io son qua tra’ tuoi prigioni: fui costretto dal potere l’armi contro a sostenere de’ Riccardi miei padroni.
Riccardo
23. Noi di ciò non siamo ignari, e per questo a te concedo libertà, vita e congedo: torna pure ai patri Lari. 10 24. Nel tornar saluterai la carissima germana, 11 la mia Pia, da me lontana che a un nemico maritai. 25. Le dirai che a notte oscura penso andarla a visitare, mentre Nello è in Siena a dare relazion di sua sventura.
Ghino
26. Alto duce, io ti son grato né fia già ch’io possa mai della grazia che mi fai render te rimunerato.
Presso gli antichi Romani, i Lari erano le anime dei defunti protettrici della casa (focolare). 11 germana: sorella. 10
Maggio della Pia de’ Tolomei
Riccardo
27. Vanne, amico, e caramente la germana mia saluta; dille a sera, all’aria muta, andrò a lei sicuramente. (Si cali il sipario.) Fine dell’atto primo.
631
PIETRO FREDIANI
632
Atto secondo Camera. Scena prima. Pia, e Ghino da destra. Ghino
28. Posso, o Pia, posso una volta comparire al tuo cospetto senza prendere a dispetto la mia voce? Dunque ascolta.
Pia
29. Di venir tu sei padrone di altre cose a ragionare, ma sentir non vuo’ parlare della sciocca tua passione.
Ghino
30. Guardi il Ciel se il detto mio spiega a te gli antichi guai: già conosco e vedo assai che da te sperar poss’io. 31. Son da parte del fratello a narrarti come spera visitarti in questa sera, mentre sa che assente è Nello. 32. Questa sera rivedrai il fratello all’aere ombroso, e dimani il caro sposo con piacere abbraccerai.
Maggio della Pia de’ Tolomei
Pia
33. Venga dunque il buon germano 1 taciturno in queste mura: stimerò mia gran ventura ribaciarlo in volto e in mano. 34. Venga poscia 2 il mio consorte, sola fiamma del mio cuore: fu per sempre il mio signore, lo sarà fino alla morte.
Ghino
35. Dunque io son tanto infelice, tanto vile agli occhi tuoi, che mirar neppur mi vuoi? Oh! dei cuori incantatrice!
Pia
36. Tel vietai, né ancor l’intendi, di parlare a me di amore. Mi rubasti in petto il cuore: o mel sana o me lo rendi.
Ghino
Pia
37. Quella lingua sì arrogante chiudi e sbarra; ho ben ragione di bandir da mia magione 3 te qual stolto ed ignorante!
Ghino
38. Cruda donna, io giuro al Cielo che lo scempio è a te vicino: non mi morse mai mastino che di lui non trassi pelo.
germano: fratello. poscia: poi. 3 di bandir da mia magione: di scacciare dalla mia casa. 1 2
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PIETRO FREDIANI
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Pia
39. Vanne via, cervello scemo, a me dire è dire al muro: le carezze tue non curo, le minaccie tue non temo. (Partono: Ghino a destra, Pia a sinistra.)
Scena seconda. Bosco con giardino: Ghino e Nello da destra. Ghino
40. Alto duce, in questo giorno son venuto ad avvisarti, come servo a far mie parti, onde schivi eterno scorno.
Nello
41. Or tu informami da amico: cosa fa la sposa amata? Fa una vita scellerata, disonesta: il ver ti dico.
Ghino
Nello
42. Scellerata la mia Pia? Ah! che appena il crederei, se mirasser gli occhi miei sua supposta fellonia. 4
Ghino
43. Se mi giuri di tacere sull’acerbo disinganno, la cagion di ogni tuo danno ti farò tosto vedere.
4
sua supposta fellonia: il suo preteso tradimento.
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Nello
44. Giuro al Ciel che non saria da me offesa e molestata; e neppur rimproverata dell’error sarà la Pia.
Ghino
45. Or che notte il manto nero stende ovunque, a quel balcone vieni, o duce, in mia magione e vedrai se dico il vero. (Si ritirano in agguato a destra, con via da destra.) 46. Vedi là quel viandante con quel lume in cavo rame? 5 Di tua moglie il drudo 6 infame muove a lei dubbiose piante. 7 47. Vedi tu come si aggira? Ora osserva: ella si affaccia, gli apre l’uscio e se l’abbraccia, l’introduce e a sé lo tira.
Scena terza. Pia e Riccardo. Riccardo Pia
48. Son da te, germana amata. Mio carissimo fratello,
con quel lume in cavo rame: con quella luce nella concava lanterna. 6 drudo: amante. 7 muove a lei dubbiose piante: va da lei con passi incerti. 5
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PIETRO FREDIANI
entra qua nel nostro ostello, 8 u’ 9 è la mensa apparecchiata.
Riccardo
49. Come mai tu qui venisti? Quivi venni a notte folta per vederti un’altra volta: la cagion da Ghino udisti? 50. Ti salvai lo sposo amato, benché avverso a nostre mire, e non feci a lui soffrire, qual dovea, l’estremo fato. 10
Pia
51. Ti ringrazio, o buon fratello; prendi cibo e ti ristora, ma brevissima dimora devi fare in quest’ostello. (Partono a sinistra.)
Scena quarta. Nello e Ghino da destra. Nello
52. Chi mi regge? Io d’ira avvampo! Vuo’ troncar d’ambi la vita, come il reo e la madianita, ambidue trafitti in campo. 11
ostello: alloggio. u’: dove. 10 e non feci …fato: e non gli feci subire, come pure avrebbe dovuto, la morte. 11 Per questo terribile fatto di sangue, vedi la Bibbia, Numeri, 25, 1–18, dove si racconta come l’israelita Zimri e la madia8 9
Maggio della Pia de’ Tolomei
Ghino
53. Se sciogliesti al giuramento le tue labbra, or tu non dei oltraggiar né lui né lei, né guastare il sacramento.
Nello
54. Dici il ver; ramingo, afflitto passerò la vita mia. Sia peraltro in tua balìa vendicar sì gran delitto.
Ghino
Nello
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55. Devi andar pel mondo errante di altre belle a fare acquisto. Consiglier nefando e tristo, tu mi parli da brigante.
nita Chozbi vennero trafitti, mentre erano accoppiati nella propria tenda, dal sacerdote Pinkhas con un solo colpo di lancia al basso ventre, in quanto colpevoli di accoppiarsi mentre il popolo d’Israele piangeva, davanti alla Tenda del convegno con Dio, il peccato di idolatria da esso commesso adorando le divinità delle donne di Moab, con le quali i suoi uomini si erano precedentemente accoppiati. — Copiando il testo del Frediani e certo ignorando questo non notissimo episodio biblico, il Tognarini dovette vedervi un errore di stampa che egli ritenne di dovere correggere riscrivendo questa quartina così: « Chi mi regge? Io d’ira avvampo / Vuò troncar d’ambi la vita / Come reo, e la mandi Anita / Ambi due trafitti in campo »; dove il reo è Nello, perché uccide la mandata, cioè Pia, mentre Anita, cioè colei che la manderebbe, è la personificazione per assonanza (garibaldina?) della seconda parte del termine biblico madianita usato dal Frediani.
PIETRO FREDIANI
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Ghino
56. Andrò tosto 12 per ridurla come merita il mio sdegno. Su, con Dio, nell’arduo impegno, ché con Lui sai non si burla. (Parte a destra.)
Scena quinta. Nello solo. Nello
57. Che farò con quell’ingrata: trucidarla con furore? Ora è offeso il nostro onore: vendicarlo a mano armata? 58. Ma che dico? Ah! no, già fei giuramento sul Vangelo: empio al mondo e odioso al Cielo per tal morte io diverrei. 59. Perdonarla? In me non sento tal valor: da me fu vista la sua colpa iniqua e trista, e il suo vero tradimento! 60. Chi dirìa che in sì ben fatti membri e faccia così bella si racchiuda un’alma fella, Pia di nome e rea di fatti?
12
tosto: subito.
Maggio della Pia de’ Tolomei
61. Mi lusinga il cieco amore riabbracciar sì vaghe membra, ma ripugna e ingiusto sembra umiliar tanto l’onore.
Scena settima. Pia da sinistra, e detto. Pia Nello
Pia
Nello
62. Mio consorte, come mai stai così mirando a terra? Chi ha perduto onore e guerra non può lieto esser giammai. 63. Già fra l’armi sempre una delle due parti soccombe; or, mio caro, a te ne incombe rassegnarti alla fortuna. 64. Vedo ben che tu sei sano; se perdesti, opraste assai; altra volta vincerai. Or fuggir si dee lontano! 65. Di adornarti ben procura colle gioie e l’aurea gemma, ché alla villa di Maremma io ti guido, stai sicura. (Si cali il sipario.) Fine dell’atto secondo.
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[Intermezzo.] Corriere
66. Per la Pia che soffre a torto da empio amante il tradimento, onoriam quel sacramento 1 degli afflitti gran conforto. 67. Onoriam la gran regina 2 che dell’uomo il cuore vuole: renda fede al sommo sole dell’eterna Unità Trina. 68. Lode al par dei Serafini ché conforta e dà coraggio, fasto 3 cibo al gran viaggio di noi stanchi pellegrini.
Questo sacramento sembra essere l’eucaristia, cioè la messa. Questa grande regina sarà o la Vergine Maria o la stessa Trinità divina. 3 fasto: fausto, favorevole. 1 2
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Atto terzo Castello. Scena prima. Castellano, Pia e Nello che entrano da destra. Castellano 69. Mio padron, bene arrivato; io son pronto ai cenni tuoi. Nello Ti saluto; e attendi poi a quest’ordine privato. 70. Castellano, ascolta e sia da te l’ordine eseguito: fuor che in questo a nessun sito passi mai la sposa mia. 71. Somministra alla sua vita gli alimenti sin ch’io torni, mentre vo per pochi giorni alla caccia in mia bandita. 1 Castellano 72. Tutto intesi, e tutto ancora d’eseguire ti prometto: servitù, custodia, affetto userò con la signora. (Nello parte a sinistra, il castellano a destra.)
1
in mia bandita: nelle mie terre.
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Scena seconda. Pia da destra, indi il castellano. Pia
73. Sposo amato, dove sei che non vieni al tuo riposo? Cessa omai di star pensoso né sdegnar gli affetti miei.
74. Castellano, ov’è il padrone cui 2 non vedo e spunta il giorno? Castellano Non temer, farà ritorno; si è portato in cacciagione. 75. Visitar le sue bandite, le sue terre e i suoi lavori e i suoi tanti agricoltori son per lui cure gradite. Pia
76. Vi voleva tanto poco questo a me notificare; or staremo ad aspettare come andrà a finire il giuoco. (Partono a destra.)
Scena terza. Eremita da destra e Ghino da sinistra. Ghino
77. 3 Buon romito, a te mi volto: ho un pensier che mi divora,
cui: che. Qui il Frediani nota: Pentito del tradimento si confessa dall’eremita. 2 3
Maggio della Pia de’ Tolomei
mentre, infame, a una signora innocente fei gran torto. Eremita
78. Caro figlio, i torti usati siamo pronti a riparare, se si vuol l’alma salvare da enormissimi peccati.
Ghino
79. Una sposa al suo consorte accusai di rotta fede con astuzie, ed egli crede, n’è dolente e l’odia a morte.
Eremita
80. Guai a te! Se vuoi salvarti, devi subito svelare l’innocente e te accusare e di reo far le tue parti. 81. Altrimenti, o figliuol caro, guardi il Ciel, se tu morissi, piomberesti ai cupi abissi a soffrir nel pianto amaro.
Ghino
82. Se il mio fallo è tanto grande, io lo vado a discolpare: per non più giammai peccare, partirò da queste bande. (Partono a sinistra.)
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Scena quarta. Pia da destra, indi il castellano. Pia
83. Dove sei, crudel mio Nello, che mi lasci abbandonata, dai viventi separata, in quest’orrido castello? 84. Se in tre dì non sei tornato, forse fia 4 che orribil fiera nella selva, all’aria nera, t’abbia oppresso o divorato. 85. Là verrò con te, mio bene; e se a me la sorte tocca che m’ingoi la stessa bocca, darò fine a tante pene. (Apparisce il castellano.) 86. Castellan, mi sia calato per pietà del fosso il ponte, ond’io cerchi al prato e al monte rintracciar lo sposo amato.
Castellano 87. Cara, un ordine che tengo attraversa il tuo disegno; 5 non vuò incorrer nello sdegno del padron: però 6 non vengo.
fia che: sarà che. disegno: progetto. 6 però: perciò. 4 5
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Pia
88. Dunque, ohimé! dal mondo assente, mi è vietato anche parlare; tornerommi 7 a sospirare nel mio carcere dolente. 89. Nasce il sole e qui mi trova, parte il sole e qui mi lascia a soffrir la nuova ambascia, 8 a provar la pena nuova. 90. L’aria pessima che spira da quel lago micidiale darìa fine ad ogni male col dolor che mi martira.
Scena quinta. Eremita da destra, e detta. 91. Padre santo che passate da quest’orrido castello, se vedeste mai il mio Nello, quest’annunzio a lui portate. Eremita
92. Sì, ché spesso l’ho mirato sul destriero 9 di passaggio presso il nostro romitaggio, e sembrommi assai turbato.
tornerommi: me ne tornerò. ambascia: angoscia. 9 destriero: cavallo. 7 8
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93. E qual uomo che delira, si rivolge in ogni loco: or avvampa e par di fuoco, ora piange ed or sospira. Pia
94. Se occasion di rivederlo, buon romito, avessi mai, da mia parte renderai questo a me funesto anello. 10 95. E a lui di’ che come intiero rendo a lui quel cerchio d’oro, così rendo il mio decoro, la mia fede e cor sincero. 96. Che da lui trafitta io cado: per la noia e la tristezza, l’aere tristo 11 e l’amarezza, a morir ben presto vado.
Eremita
97. Offri al Ciel tue crude pene, cara figlia, e spera in Dio; e se vale il mezzo mio, saran sciolte tue catene. 98. Ove no, ti sia d’avviso perdonarlo e sei beata. Io ti lascio, o figlia amata.
questo a me funesto anello: questo anello che per me è fonte di sventure. 11 l’aere tristo: la malaria. 10
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Pia
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Ci vedremo in Paradiso. (Partono eremita a sinistra, Pia a destra. Si cali il sipario.) Fine dell’atto terzo.
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Atto quarto Camera. Scena prima. Eremita, indi Nello frettoloso da destra. Eremita
99. Ritorniam pronti alla cella, ché mancanza abbiam di Luna, molto più che l’aria imbruna per vicina aspra procella. 1 100. Vedo qua venire in fretta cavalier brioso e snello. Giusto Cielo! Appunto è quello che la Pia lasciò soletta. (Si ode tuoni e lampi.)
Nello
101. Buon romito, io chiedo in questa tua magion 2 ricoverare: odo qua che freme in mare alta ed orrida tempesta.
Eremita
102. Spiace a me, se male accolto voi sarete a nostra mensa che legumi sol dispensa. Questi a me son cari molto.
Nello
1 2
procella: tempesta. magion: casa.
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Eremita
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103. Dunque entrate, amico caro; adattatevi alla meglio; un frugal di lenti sceglio nostra cena 3 e la preparo. 104. Qui sedete, e mentre il fuoco cuoce il cibo e ci ristora, strano caso occorso or ora permettete io narri un poco.
Nello
105. Narra pur, ché di ascoltare strani casi ambisco anch’io, per veder se come 4 il mio si potrà paragonare.
Eremita
106. Abitava in questo monte un selvaggio cacciatore ch’era avaro possessore d’una cervia, un prato e un fonte. 107. Una cervia così bella carezzava e dalle intatte mamme sue spremeva il latte; e liquor sorbìa di quello. 5 108. Gli fe’ creder l’impostore, che invidiava il suo riposo, ch’avea morso un can rabbioso la sua cervia con furore.
un frugal… cena: scelgo un po’ di lenticchie come nostra cena. 4 come: con. 5 e liquor sorbia di quello: e beveva l’acqua di quella fonte. 3
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109. Egli allora, entrato in rabbia, gran baston nodoso afferra e la cervia opprime a terra semiviva sulla sabbia. 110. L’innocente bestia al suolo nel morir carezza e lambe 6 al crudel le irate gambe, lui amando in mezzo al duolo. Nello
111. La parabola comprendo come storia tutta mia, che fu cara sposa Pia cui innocente affliggo e offendo.
Eremita
112. Deggio renderti l’anello che da lei mi fu affidato, mentre fui da lei passato pellegrin dal tuo castello. 113. Mel gettò dal suo balcone e una ciocca di capelli; lacrimavan gli occhi belli nel parlar questo sermone. 114. « Al carnefice mio Nello questo anello renderai, se occasion ti s’offra mai, padre mio, di rivederlo.
6
lambe: lambisce.
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115. Gli dirai che come intiero rendo a lui quel cerchio d’oro, così rendo il mio decoro, la mia fede e il cuor sincero. » Nello
Eremita
116. L’innocenza e il cuor costante può vantar ma con gli sciocchi, mentre videro questi occhi darsi in braccio a strano 7 amante. 117. Vidi l’atto disonesto! L’introdusse in mia magione. 8 Sarà stata un’illusione: deh! non crederlo sì presto. 118. Rea foss’anco, il Cielo addita perdonare il suo misfatto, qual mostrò Gesù sull’atto dell’adultera pentita. 119. Si drizzò da scriver basso e intimò gli accusatori che chi fosse senza errori le scagliasse il primo sasso.
Nello
7 8
120. Tu mi hai vinto, o buon romito, e per te disposto sono
strano: estraneo. in mia magione: nella mia casa.
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dare a lei gentil perdono, purché facciamene invito. 9 Eremita
121. Dunque andiamo a ritrovarla e affrettiamci a far partita, ché vicina a escir di vita parve a me nell’ascoltarla.
Nello
(Guardando dalle quinte.) 122. 10 Chi è colui che laggiù steso sul terren giacer si mira? Sembra agli atti un uom che spira da’ ladroni o fiere offeso. (Vanno a prendere Ghino ferito a fine. 11)
Scena seconda. Ghino e detti, [indi guardie dell’eremitaggio.] Nello Ghino
123. Giusto Ciel! Che miro? È Ghino! Che ti avvenne, o sventurato? La mia colpa, il mio peccato han deciso il mio destino. 124. Io venìa di te cercando, per disdir la falsa accusa
Purché facciamene invito: purché me lo chieda. Qui il Frediani nota: Nello con l’eremita trovano Ghino sbranato da un lupo. 11 ferito a fine: ferito a morte. 9
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di tua moglie che racchiusa sta per me colà penando. 125. E ti affermo, amico Nello, che in error ti fei mirare non l’adultero abbracciare, ma Riccardo suo fratello. Nello
126. Ti ricredi dell’errore? Tel dettò la tua coscienza? Voce fu di penitenza che ti ispira Dio Signore?
Ghino
127. La burrasca e l’aer cupo per fuggir, in fretta andai sotto un masso e vi trovai appiattato ingordo lupo. 128. M’ha squarciato ventre e petto, come vedi; io moro: addio. Poni mente, amico mio, a quest’ultimo mio detto. 129. Va’, sprigiona 12 l’infelice, rendi a lei il primiero affetto; questo sia l’ultimo detto che da me giustizia dice.
Nello
12
130. Sciagurato! Ahimé! qual sorte cagionasti a un’innocente
sprigiona: libera.
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che avea cuore, affetti e mente solo intenti al suo consorte. 131. Io dovrei con questa spada qui troncar tua trista vita, vendicar mia Pia tradita e svenarti in questa strada. 132. Ma quel Dio, che esige pace fra gli offesi e l’offensore, ti punì, ti rese orrore a chi altrui gravar non spiace. Eremita
133. Giù rampogna; 13 a compassione muovi il cuore e non a sdegno, or che a’ tristi è fatto segno 14 ed è privo di ragione. [A Ghino.] 134. Ti sarà la mia capanna pronto ospizio e letto mio: vivi in pace e spera in Dio che i pentiti non condanna. [Alle guardie.] 135. Voi, su cari, da fratelli accogliete l’infelice e portatelo or che lice 15 del mio albergo entro i cancelli.
Giù rampogna: lascia i rimproveri. or che a’ tristi è fatto segno: ora che è diventato un esempio per i cattivi. 15 or che lice: ora che è lecito. 13 14
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136. Addolcite sua ferita, versando olio sopra a quella; e se a viver gli è rubella, lo indrizzate a eterna vita. 16 Guardie
137. Ah! su vieni, o disgraziato, esempio altrui del guiderdone 17 che può attendersi il fellone 18 che innocente ha calunniato. [Si cali il sipario.] Fine dell’atto quarto.
e se a viver … vita: e se rifiuta di farlo vivere, avviatelo alla vita eterna. 17 esempio altrui del guiderdone: esempio per altri della ricompensa. 18 il fellone: il traditore. 16
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Atto quinto Castello. Scena prima. Pia e castellano. Pia
138. Castellano, a me provvedi di un benigno sacerdote che mi assista, ei sol che puote, negli estremi miei congedi.
Castellano 139. Mia signora, non poss’io a’ tuoi preghi sodisfare: sol se possoti aiutare in offrir tue pene a Dio. Pia
140. Caro, a Dio mi raccomanda, ché mi assista alla mia morte; e consola il mio consorte, se ritorna in questa banda. 1 141. Ah! che morte atroce e fiera, fra tormenti e crudi affanni, mi rapì sul fior degli anni di mia dolce primavera. 142. Di’ che qua sepolta io sono per la vana sua credenza,
1
in questa banda: da queste parti.
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che di Dio la gran clemenza prego umìl per suo perdono. 143. Ma che dico? ahimé! che sento! la mia vita mi abbandona: sudor freddo in me sprigiona l’alma mia dal corpo spento.
Scena seconda. Nello ed eremita frettolosi da destra, e detti. Nello
144. Giungo in tempo! ove mi trovo! dell’afflitta al duro agone. 2 Castellano Ah! pur troppo, o mio padrone, l’alma uscì dall’umil covo. 3 Nello
145. Alma bella, il disinganno che tu oprasti nel mio cuore e il sincero tuo candore che mi reca estremo danno. 146. Stolto me! che da me stesso oltraggiai sposa sì onesta; or l’insegna a me non resta che del mirto e del cipresso. 4
al duro agone: alla crudele agonia. l’alma uscì dall’umil covo: l’anima è uscita dal corpo. 4 or l’insegna … cipresso: or mi resta soltanto il segno del mirto e del cipresso (la tomba). 2 3
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147. Infelice mia consorte, accusata ingiustamente! Or che so che sei innocente, ti ritrovo in braccio a morte. 148. Padre santo, ah! tu mi assisti nel mio caso disperato, e se oprai da uomo ingrato, schiudi almen questi occhi tristi. 5 Eremita
149. Ti conforta, o figlio amato, e rimettiti a quel Dio che, se affligge, è sempre pio né di te si fia scordato. 6
Nello
150. Alma bella, vanne in pace al beato eterno loco; vengo anch’io con te fra poco: anzi adesso! Ferma, audace! (Gli toglie la spada.)
Eremita
Nello
151. Il suicidio è il mal più forte che dal Ciel fu proibito. Fa’ ch’io segua, o buon romito, la sgraziata 7 mia consorte.
schiudi: apri. né di te si fia scordato: e non si sarà dimenticato di te. 7 sgraziata: sfortunata. 5 6
Maggio della Pia de’ Tolomei
Castellano 152. Non piangete: a me rassembra 8 torni in lei vital colore, ed il solito vigore ripigliar le lasse membra. 9 Nello
153. Dio volesse, santo padre, che così piacesse a Dio! Apri sposa, apri ben mio le pupille tue leggiadre.
Pia
(Rinviene.) 154. Sposo, o Dio! sei qui! sentisti pietà alfin del carcer duro? Vivi, o cara: io son sicuro che innocente tu patisti.
Nello
Pia
Nello Pia
Nello
8 9
155. Torna in vita: io ben conosco il sincero tuo candore. Torna a me lena e vigore: l’aere a me non par più fosco. 156. Torna in vita e me perdona la smaniante gelosia. Torno in vita e son la Pia che di error più non ragiona. 157. Parlò Ghino a tua discolpa, parlò il Ciel coi suoi prodigi:
rassembra: sembra. le lasse membra: le membra stanche.
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torni, torni ai regni stigi 10 l’empio autor di tanta colpa. Pia
158. Piaccia a te, mio caro sposo, col german riconciliarti: 11 gioveran le nostre parti d’un accordo generoso.
Nello
159. Quanto, o Pia, ne sia capace oprerò non già da folle ma farò che Siena e Colle tra di lor tornino in pace. 160. Vanne in fretta, o castellano, al cognato e dilli come nostre rabbie or siano dome 12 fra di noi e del paesano.
Castellano 161. Obbedisco e vado in fretta a portar la tua proposta; tornerò con la risposta quanto prima; qui mi aspetta.
ai regni stigi: ai regni infernali; lo Stige è uno dei fiumi del regno dei morti. 11 col german riconciliarti: riconciliarti con il mio fratello. 12 dome: domate. 10
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Scena terza. Parte il castellano a destra, poi di dentro dice a Riccardo. Castellano (A Riccardo.) 162. Capitano, a te richiede tregua e pace il mio signore. Riccardo Veramente ha sì buon cuore che si possa a lui dar fede! 163. Condannò la mia germana 13 a morir per un sospetto. Castellano Arte fu del maledetto empio Ghin di lingua insana. 164. Confermato ha il suo delitto, innocente dichiarata; ei l’avea già perdonata: anche innanzi n’era afflitto. Riccardo
13 14
165. Se così sta confermata, sia la pace alfin conclusa. Andiam dunque, come si usa, visitar la suora amata. 14
la mia germana: la mia sorella. visitar la suora amata: a visitare la sorella amata.
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Scena quarta. Riccardo e il castellano entrando, e detti. Nello Riccardo
Pia
166. Gentilissimo cognato, sian le gare omai finite. 15 Ebbe fin la nostra lite, quando vidi il tuo mandato. 16 167. Rinnoviamo i nostri amplessi, se la pace è stabilita. Sembra a me che a nuova vita dalla morte io risorgessi. (Si cali il sipario.) [Epilogo]
Corriere
168. Qui diam fine all’armonia 17 con benigna e pia licenza, ringraziando dell’udienza l’onorata cortesia. 18 Fine.
sian le gare omai finite: ormai siano finite le guerre. il tuo mandato: il tuo inviato. 17 Qui diam fine all’armonia: Qui poniamo fine al canto. 18 l’onorata cortesia: l’onorevole cortesia che ci ha ascoltato. 15 16
GIUSEPPE MORONI detto il Niccheri PIA DE’ TOLOMEI Firenze, 1874
Fig. 9 — Riproduzione di Giuseppe Moroni, Pia de’ Tolomei. Fatto storico, Firenze 1874.
Presentazione Se il maggio di Pietro Frediani rappresenta la prima forma di letteratura popolare che abbia come tema la vicenda di Pia da Siena, è tuttavia il poemetto ad ottave incatenate di Giuseppe Moroni a diffonderne il mito in tutta l’Italia centrale. Pur utilizzando sia il Bianco sia il Frediani, il Moroni si attiene soprattutto al Sestini, di cui conserva il nucleo generatore — Pia è vittima di una calunnia — ma di cui abbandona ogni accorgimento letterario, per riportare la vicenda alle dimensioni quotidiane ed umane di un fatto di cronaca familiare: un fatto di cronaca nera, come nella novella del Bandello, che matura all’interno del triangolo lui, lei, l’altro, e che il Moroni narra seguendo l’ordine naturale degli eventi: dalla partenza di Nello per la guerra allo sdegnato rifiuto di Pia dell’amore di Ghino, dalla calunnia di Ghino alla vendetta di Nello, dalla incolpevole morte di Pia al tardivo pentimento di Nello. Una semplificazione creativa che, accelerando la catastrofe finale, imprime al poemetto una carica emotiva che lo rende poeticamente vero: una verità poetica che, sostenuta dalla forza della sintassi musicale ripetitiva propria delle ottave incatenate affascina e commuove gli ascoltatori.
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Nota sull’autore. Giuseppe Moroni (1810–1880), detto il Niccheri dal sobborgo fiorentino in cui nacque, apprese l’arte del comporre e del cantare ottave da un pecoraio, di nome Bastianino. Fin da ragazzo si guadagnò da vivere cantando le proprie composizioni per le osterie e le campagne toscane. Il titolo di illetterato, che egli rivendica con consapevole orgoglio delle proprie qualità, va inteso nel senso proprio di analfabeta che non sa né leggere né scrivere. Compose un gran numero di poemetti, tra cui il più celebre è Pia de’ Tolomei: stampata la prima volta nel 1873, conobbe una tale diffusione, soprattutto orale, che ben presto il nome del suo autore fu dimenticato ed essa venne considerata anonima, proprio come è anonimo ogni fatto di cronaca. — Sul Moroni, vedi Anna Luce Lenzi, La fola dello stento. Studi e testi di letteratura popolare, Modena, Mucchi Editore, 1988. Nota sul testo. Il testo che qui pubblichiamo è tratto da Pia de’ Tolomei. Fatto storico posto in ottava rima da Giuseppe Moroni, detto il Niccheri, illetterato, Firenze, Stamperia Salani, 1874.
La Pia de’ Tolomei. Fatto storico
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La Pia de’ Tolomei 1. Negli anni che de’ Guelfi e Ghibellini, repubbliche a que’ tempi costumava, batteano i Cortonesi e gli Aretini, specie d’ogni partito guerreggiava; i Pisani battean co’ i Fiorentini, Siena con le Maremme contrastava e Chiusi combattea contro Volterra: non vi era posto che ’un facesse guerra. 1 2. Un signore di Siena che non erra, che della Pietra vien chiamato Nello, sposò la Tolomei onesta e sgherra, e un giusto matrimon passò con quello; nativa è Pia della senese terra, Piero diletto è il suo carnal fratello, e l’altro è Ghino, che adesso a voi vi dico che Nello lo tenea fedele amico. 2 Negli anni che furono dei guelfi e dei ghibellini, a quei tempi usava le repubbliche, combattevano i Cortonesi e gli Aretini, e guerreggiava ogni specie di partito: i Pisani si battevano con i Fiorentini, Siena aveva contrasti con le Maremme e Chiusi combatteva contro Volterra: non vi era posto che non facesse guerra. 2 Un signore di Siena, che non sbaglia e che viene chiamato Nello della Pietra, sposò la Tolomei onesta e fiera, che passò un giusto matrimonio con lui: Pia è nativa della terra senese, Piero 1
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GIUSEPPE MORONI
3. Ecco che di Valdenza viene un plico, di carriera a cavallo una staffetta, e vi era scritto che il campo nemico là si avanzava sopra al Colle in vetta; ritorna Nello e disse al suolo antico: « Digli ch’io vengo, il mio partir si affretta: presto sarò a trovare il reggimento come va in poppa il vantaggioso vento. » 3 4. Corre e abbraccia la moglie in un momento, e disse: « Cara, devo far partenza: questo gli è un plico come a te presento che mi chiama per Colle di Valdenza. » Rispose Pia con gran dispiacimento: « Pregherò la divina onnipotenza, l’Eterno pregherò con il cuor sincero che torni a Siena vincitor guerriero. » 4
è il suo caro fratello carnale, e l’altro è Ghino, di cui ora vi dico che Nello lo riteneva un amico fedele. — Nel testo al sesto verso si legge un Pietro che correggo in Piero, perché questa è la forma che poi compare in tutte le altre occorrenze. — La locuzione che non erra del primo verso riprende il com’uom non uso al fallo di Sestini, La Pia, I, 32, 5.
Ecco che viene un messaggio dalla Val d’Elsa, di gran corsa una staffetta a cavallo, e c’era scritto che il campo nemico si avanzava là sopra Colle in vetta; Nello ritorna e disse al suolo antico: « Digli che io vengo e che la mia partenza si affretta: presto sarò a trovare il reggimento come si va con il vento vantaggioso in poppa. » 3
— La locuzione suolo antico indica la patria, che qui è rappresentata dal corriere, a cui Nello si rivolge.
Corre ed abbraccia la moglie in un momento, e disse: « Cara, devo partire: questo è un messaggio, come ti mostro, che mi 4
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5. « Nello, da te grazia dimando e spero di mandar scritto le cose come vanno. » Nello rispose: « Io ti sarò sincero, ti scriverò ogni dì e ogni mese dell’anno. » E intanto là si prepara un destriero: si baciano tra lor, l’addio si danno; monta a cavallo e la sua mano in briglia: il pianto a tutt’e due bagnò le ciglia. 5 6. Nello tragitta per la sua guerriglia e Ghino da fattotum vi resta; e Pia che di bellezze ha maraviglia eccoti Ghino che a pensier si desta: la conforta, la tenta e la consiglia, rispose Pia: « Che parola è questa? » Ghino raddoppia a tentar l’invito, per soddisfar con lei il suo appetito. 6
chiama per Colle di Val d’Elsa. » Rispose Pia con grande dispiacere: « Pregherò la divina onnipotenza, pregherò con cuore sincero l’Eterno, affinché torni a Siena da guerriero vincitore. » 5 « Nello, da te chiedo e spero la grazia di mandare scritto come vanno le cose. » Nello rispose: « Io ti sarò sincero: ti scriverò ogni giorno ed ogni mese dell’anno. » Ed intanto là viene preparato un cavallo: si baciano tra loro, si danno l’addio, monta a cavallo ed in mano la briglia: il pianto bagnò le ciglia a tutti e due. 6 Nello viaggia per la sua guerra e Ghino rimane con ogni potere; e Pia che ha meraviglia di bellezze: eccoti Ghino che si sveglia all’idea. La conforta, la tenta e la consiglia; rispose Pia: « Che discorso è questo? » Ghino raddoppia l’invito tentatore, per soddisfare la sua voglia con lei.
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7. « Taci — rispose Pia — iscimunito, traditore di Nello, iniquo e rio. E fai questo? Però non sia sentito: il tuo brutto parlar vada in oblio. Io penso a Nello caro mio marito, ché santo matrimon giurai con Dio. » Ghino non puole aver quel che ha tentato: si allontana da Pia tutto arrabbiato. 7 8. Piero a quei tempi anche lui soldato, fratello della Pia di lui sorella. Nello intanto tre plichi gli ha mandato che perditore in questa parte e in quella; il quarto plico che gli fu portato un annunzio di pace gli favella: si sospenda le guerre e si soggiorni ed ogni soldato a casa sua ritorni. 8 9. Piero fu il primo: con pensieri adorni le notizie portava alla sorella
Pia rispose: « Taci, scimunito, traditore di Nello, ingiusto e malvagio. E fai questo? Ma non si sappia: il tuo brutto discorso sia dimenticato. Io penso a Nello, mio caro marito, perché ho giurato un santo matrimonio con Dio. » Ghino non può avere quello che ha tentato: si allontana da Pia tutto arrabbiato. 8 A quei tempi Piero, fratello di Pia sua sorella, era soldato anche lui. Nello intanto le ha mandato tre lettere che è perditore in diverse parti; la quarta lettera che le fu portata le parla un annuncio di pace: si sospendano le guerre, ci sia tregua ed ogni soldato ritorni a casa sua. 7
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nel giardino di lei ne’ bei contorni, e tante notte a favellar con quella; e Ghino, armato di calugna e scorni, più volte gli facea la sentinella; e Pia che aspettava di giorno in giorno di Nello il bramoso suo ritorno. 9 10. E Ghino, pieno di malizia e scorno, due miglia ne tragitta fuor di Siena; la sera, quando si perdeva il giorno, riscontra Nello e lo saluta appena: « Nello, se tu sapessi il grande scorno, il disonor che la tua moglie mena; ti vorrei confidare una parola, ma dei giurarmi di tenella in gola. » 10 11. Nello parlò: « Per me è nebbia che vola; mi conosciesti, pur io ti ho conosciuto. » E Ghino principiò con questa scuola: « La moglie la ti tiene per rifiuto; dal giorno in qua che la lasciasti sola tutte le notti un amico è venuto; Piero fu il primo: con pensieri gentili portava le notizie alla sorella nel suo giardino e tante notti restava a parlare con lei nel bel recinto; e Ghino, armato di calunnia e scorni, le faceva più volte la sentinella; mentre Pia aspettava di giorno in giorno il bramato ritorno di Nello. 10 E Ghino, pieno di malizia e scorno, viaggia due miglia fuori di Siena; la sera, quando il giorno terminava, incontra Nello ed appena lo saluta: « Nello, se tu sapessi il grande scorno, il disonore che la tua moglie arreca. Ti vorrei confidare una parola, ma devi giurarmi di tenerla in gola. » 9
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a mezzanotte nel giardin pian piano, se non ci credi, ti fo toccar con mano. » 11 12. Nello si turba nel sentir l’arcano e si arrabbia tra sé con pena e doglie. Rispose Ghino: « Anderen ben piano, tutto sperimenterai della tua moglie: se quel che ho detto, ti ho parlato invano; noi varcheremo il muro entro tue soglie. » In quel giardino un nascondiglio vi era; nuvoli fitti ed imbrunita sera. 12 13. E l’undici di notte quasi gli era: in guardia se ne stava Ghino e Nello; si sente per la strada un di carriera, poi la corda tirò del campanello; e Pia in veste bianca va leggiera, consueta di aprire il suo fratello: capitan contro i Guelfi e fu guerriero quest’Ugo detto, ma il suo nome è Piero. 13 Nello disse: « Per me è nebbia che vola. Mi conoscesti, anch’io ti ho conosciuto. » E Ghino cominciò con questo insegnamento: « Tua moglie ti tiene come rifiuto; dal giorno in poi che l’hai lasciata sola, tutte le notti è venuto un amante; se non ci credi, ti faccio toccare con mano, a mezzanotte, piano piano, nel giardino. » 12 Nello si turba nel sentire il segreto e si arrabbia tra sé con pena e dolore. Ghino riprese: « Andremo piano piano e sperimenterai tutto di tua moglie: se in quello che ti ho detto, ti ho parlato a vuoto; noi passeremo il muro oltre le tue porte. » In quel giardino c’era un nascondiglio; nuvole dense e sera scura. 13 Ed erano quasi le undici di sera: Ghino e Nello se ne stavano appostati; si sente per la strada uno di corsa: poi tirò la 11
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14. Principiava la pioggia e il tempo nero: la buona notte diede alla sorella; e Ghino a Nello dicea: « Guarda se è vero, se quel che ho detto a te è una novella. » Nello rispose: « Il gastigarla io spero. » E Pia in casa ne ritornò quella; e Nello e Ghino risaltò in istrada, dicendo: « Ognuno a casa sua ne vada. » 14 15. Nello tira la corda e non abbada: dalla rabbia strappò fune e catene; e Pia dicendo: « Che sonata rada! Questo gli è Nello mio, l’amato bene. » Di corsa l’apre e lui scotea la spada, ché di sangue bilioso ha pien le vene; entrano nel palazzo ai chiari rai: Pia te lo abbraccia e lui non parla mai. 15 16. Dicendo Pia: « Nello, cosa tu hai? Lo so, alle guerre fosti perditore; corda del campanello; e Pia, in bianca veste, va leggera, solita ad aprire al suo fratello: fu guerriero e capitano contro i guelfi questi che è detto Ugo, ma il cui nome è Piero. — Il fratello di Pia è detto Ugo nella Pia di Giacinto Bianco.
Iniziava la pioggia ed il tempo era nero: diede la buonanotte alla sorella; e Ghino diceva a Nello: « Guarda se è vero, se quello che ti ho detto è una storiella. » Nello rispose: « Spero di punirla. » E Pia se ne rientrò in casa; e Nello e Ghino risaltarono in strada, dicendo: « Ognuno se ne vada a casa sua. » 15 Nello tira la corda senza badare: per la rabbia strappò fune e catene; e Pia diceva: « Che suonata strana! Questi è Nello mio, l’amato bene. » Gli apre di corsa, e lui scuoteva la spada, perché ha le vene piene di sangue iroso; entrano nel palazzo ai raggi chiari dei lumi: Pia se lo abbraccia, e lui non parla mai. 14
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un’altra volta tu rivincerai: levati le passion che tu hai sul cuore. E perché una parola non mi fai? Son la tua sposa Pia, il primo amore. » Di più si affligge e gli crescea l’affanno; senza parlare a letto se ne vanno. 16 17. Nello si addormentò, pensa all’inganno, ma non sapea che Pia era innocente: per cagione di Ghino, quel malanno, che fece disturbar la brava gente. Su il giorno, dicea Pia: « Perché mi se’ tiranno? Nello, ecco il mattino alba ridente. » Al collo li si avventa e te l’abbraccia, e lui con urti e spinte la discaccia. 17 18. Poi si alza Nello e dice a seria faccia, come son le parole dei guerrieri; disse: « Rizzati su, vo’ andare a caccia. » Ordina a un servitore due destrieri; la si pettina Pia e il manto allaccia, ma non sapea di Nello i suoi pensieri: Diceva Pia: « Nello, che cosa hai? Lo so, alle guerre sei stato perditore; un’altra volta rivincerai tu: levati le pene che hai sul cuore; e perché non mi dici neanche una parola? Sono la tua sposa Pia, il primo amore. » Si tormenta di più e le cresceva l’affanno: senza parlare se ne vanno a letto. 17 Nello si addormentò, pensa all’inganno, ma non sapeva che Pia era innocente: per colpa di Ghino, quel malanno, che fece disturbare la brava gente. Sul far del giorno, Pia diceva: « Perché sei crudele con me? Nello, ecco il mattino alba ridente. » Gli si getta al collo e se lo abbraccia, e lui la scaccia con urti e spinte. 16
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all’ordine sta lei e all’obbedienza; pronta è per la Maremma la partenza. 18 19. Nello coll’arme sua, Pia di arme senza, tutte due a cavallo ne montorno; ripete Pia a piena confidenza: « Nello, quando sarà il nostro ritorno? » Nello la guarda con finta apparenza, disse: « Starem laggiù per qualche giorno. » Venti miglia hanno fatto per quel sito: eccogli alla capanna di un romito. 19 20. E disse Pia: « Caro mio marito, mi sento arsione, prenderei da bere. » Nello tanto pregò questo romito, se un bicchier d’acqua ci avea per piacere; ed il penitente, buono e premunito, solo di coio ci tenea un bicchiere, e in nella strada prima di un baleno portò a’ passeggieri il bicchier d’acqua pieno. 20 Poi Nello si alza e dice a faccia seria, come sono le parole dei guerrieri; disse: « Alzati su, voglio andare a caccia. » Ordina due cavalli ad un servitore; Pia si pettina ed allaccia il manto, ma non sapeva i pensieri di Nello: lei sta all’ordine ed all’obbedienza. La partenza per la Maremma è pronta. 18
— Nel testo al quarto verso si legge ordina un servitore e due destrieri.
Nello con le sue armi, Pia priva di armi, tutti e due montarono a cavallo; Pia ripete con piena fiducia: « Nello, quando sarà il nostro ritorno? » Nello la guarda con espressione falsa, disse: « Staremo laggiù per qualche giorno. » Hanno percorso venti miglia verso quel luogo: eccoli giunti alla capanna di un eremita. 20 E Pia disse: « Mio caro marito, sento arsura e prenderei da 19
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21. Non si trattenner no un minuto meno: Pia lo ringrazia con nobile linguaggio, Nello lo ringraziò sopra il terreno, e il romito che osserva il personaggio con gli occhi bassi e con la fronte al seno: « Iddio vi dia un felice viaggio. » Nello e la Pia un altro addio gli disse, e il romito con la mano gli benedisse. 21 22. E parton tutte due a luci fisse: solo Iddio ne’ due cori v’impenetra; eccoli là dove il Sestini scrisse: al detto poggio Castel della Pietra; picchiano al castellano che gli aprisse, lui vien di corsa e gli apre a faccia tetra: prende i cavalli e le due briglie in mano e gli porta alla stalla il castellano. 22
bere. » Nello pregò tanto questo eremita, se per piacere aveva un bicchiere d’acqua; ed il penitente, buono e previdente, aveva soltanto un bicchiere di cuoio, e nella strada prima di un lampo portò il bicchiere pieno d’acqua ai passeggeri. — Nel testo al sesto verso si legge suolo di coio.
Non si trattennero neppure un minuto: Pia lo ringrazia con parole nobili, Nello lo ringraziò da terra, e l’eremita che osserva il personaggio con gli occhi bassi e con la fronte al petto: « Iddio vi dia un viaggio felice. » Nello e la Pia gli dissero un altro addio, e l’eremita li benedisse con la mano. 21
— Nel testo al primo verso si legge non si trattiensan.
E partono tutti e due con lo sguardo fisso: solo Dio penetra nei loro due cuori. Eccoli là dove scrisse il Sestini: al poggio chiamato Castel di Pietra; bussano al castellano, perché gli aprisse: lui viene di corsa e gli apre a faccia scura: il castellano prende i cavalli e le due briglie in mano li porta alla stalla. 22
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23. Gli custodisce e poi ritorna al piano a vedere se Nello gli comanda; Nello tanto prega il castellano procurar di trovar qualche vivanda: che il viaggio di Siena gli è lontano, da mangiar qualcosa gli comanda; il castellano andò senza tardare e gli portò da bere e da mangiare. 23 24. Appen che hanno finito di cenare, Nello si rizza ed un sospiro vola, e le vece facea di passeggiare: lasciò in disparte Pia a mensa sola; e disse al castellano: « Non mancare: sacrosanta la sia la mia parola;
— Al primo verso si legge e partan. — Contrariamente a quanto in genere si crede, i versi terzo e quarto di questa ottava non sono una citazione, bensì una chiosa, una spiegazione, integrativa di quanto il Sestini (non) scrisse. In effetti, poiché il Sestini non scrisse il nome del luogo in cui Pia fu rinchiusa, il Moroni, visto che Nello era signore del Castello di Pietra, ritenne di poter colmare questa lacuna, assai grave per i suoi ascoltatori di cantastorie, identificando il luogo sestiniano con Castel di Pietra; senza rendersi conto o senza curarsi del fatto che in tal modo egli non spiegava ma tradiva il Sestini; il quale infatti, come abbiamo visto, portava a morire Pia non in un castello situato su un poggio, come è Castel di Pietra, bensì in un castello situato ai bordi di un piccolo lago vulcanico, come è il Lago di Mezzano, tra Latera e Valentano, nell’alta Maremma laziale.
Li custodisce e poi ritorna al piano a vedere se Nello gli comanda; e Nello prega tanto il castellano che procuri di trovare qualche vivanda, che il viaggio di Siena è lungo, gli comanda qualcosa da mangiare; il castellano andò senza indugiare e gli portò da bere e da mangiare. 23
— Nel testo al quinto verso si legge mi è lontano.
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nelle tue mani quella donna resta e se la lasci fuggir, pena la testa. » 24 25. « Bada che non ti scappi alla foresta e che non metta un piè fuor del castello. » Ed un’altra parola li manifesta: « Abbada chiuso sia sempre il cancello; sennò per te sarebbe trista festa, se trasgredisci alle parol di Nello; e se a quel che t’ho detto tu mancherai, al supplizio di morte tu anderai. » 25 26. « Domattina alle quattro insellerai i due cavalli che nella stalla io tengo; piano al cancello me gli porterai, io mi alzo presto e pria di te giù vengo. » Ritorna a Pia che ha lacrimosi i rai, disse: « Di andare a letto ne convengo. » E lei un mumentino la si consola, nel sentir fare a lui qualche parola. 26
Appena hanno finito di cenare, Nello si alza e vola un sospiro, e faceva finta di passeggiare: lasciò Pia in disparte, sola a tavola; e disse al castellano: « Non sbagliare: la mia parola sia sacrosanta; quella donna rimane nelle tue mani e se la lasci fuggire, la pena è la testa. » 25 « Bada che non ti scappi nella foresta e che non metta un piede fuori del castello. » E gli dice un’altra cosa: « Bada che sempre chiuso sia il cancello; se no per te sarebbe triste festa, se trasgredisci le parole di Nello; e se tu mancherai a quello che ti ho detto, tu andrai al supplizio di morte. » 26 « Domani mattina alle quattro sellerai i due cavalli che ho nella stalla e me li porterai piano al cancello: io mi alzo presto e 24
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27. Nello si posa sopra le lenzuola, mezzo spogliato ma non con carne nude; e Pia si spoglia tutta e la s’invola: abbraccia Nello ma lui non conclude; la buona notte è l’ultima parola, poi si addormenta e la sua bocca chiude; Pia lo richiama e gli va più rasente: Nello dormiva e non sentiva niente. 27 28. Di più si affligge e si facea dolente: di non aver risposta lei tormenta; siede sveglia due ore intieramente, poi da un grave sonno si addormenta. La mattina sul dì, alba ridente, Nello si sveglia e con l’orecchio tenta: sente che russa e placida dormìa; disse: « Questo è il momento di andar via. » 28
vengo giù prima di te. » Ritorna da Pia che ha gli occhi pieni di lacrime, disse: « Ritengo bene andare a letto. » E lei per un attimo si consola, nel sentirgli pronunciare qualche parola. 27 Nello si posa sopra le lenzuola, mezzo spogliato ma non carni nude; e Pia si spoglia tutta e vola nel letto: abbraccia Nello, ma lui non corrisponde; la buona notte è l’ultima parola, poi si addormenta e chiude la sua bocca; Pia lo richiama e gli va più vicina: Nello dormiva e non sentiva niente. 28 Si affligge di più e diventava dolente: il non avere risposta la tormenta; siede sveglia per due ore intere, poi si addormenta per un sonno pesante. La mattina sul giorno, alba ridente, Nello si sveglia e tende l’orecchio: sente che russa e dormiva tranquilla; disse: « Questo è il momento di andare via. » — Nel testo al verso sesto si legge con l’orecchio e tenta; ed al verso settimo si legge placita.
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29. Piano come una mosca par che sia: prende scarpe, il cappello e le sue spoglie, e nel fondo alle scale si vestìa, e lasciò sola la dolente moglie; e in verso ai cancelli se ne gìa: vi era pronto i cavalli a quelle soglie; monta a cavallo e disse al castellano: « Abbada bene di eseguir l’arcano. » 29 30. Ecco che il chiaro dì non è lontano; Pia si risveglia e va per abbracciar Nello: e sente vuoto dove mette la mano; poi l’apre gli occhi: non vede più il mantello; disse: « O destino, o suolo maremmano. » Non vede più le scarpe né il cappello: presto si veste, sospirando esclama, e a voce forte il castellano chiama. 30 31. Gli fu risposto: « Cosa vuol, madama? » Lei disse: « Hai visto punto il mio marito ?» « Sì, l’ho veduto che la caccia acclama, e gli è due ore e mezzo che è partito. » Pare che sia leggero come una mosca: prende le scarpe, il cappello ed i suoi vestiti, si vestiva in fondo alle scale e lasciò sola l’afflitta moglie; e se ne andava verso i cancelli: i cavalli erano pronti a quelle soglie; monta a cavallo e dice al castellano: « Bada bene di eseguire il segreto. » 30 Ecco che il giorno chiaro non è lontano; Pia si risveglia e va per abbracciare Nello: e sente vuoto dove mette la mano; poi apre gli occhi: non vede più il mantello; disse: « O destino, o suolo maremmano. » Non vede più le scarpe né il cappello; subito si veste, sospirando esclama, ed a voce forte chiama il castellano. 29
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« E dove è il mio cavallo che tanto lo ama? » « Gli ha presi tutt’e due, ben premunito. » E poi gli disse con serie parole: « Bisogna restar qua: partir non puole. » 31 32. Pia tra le nebbie la vedeva il sole: gli era le dieci avanti mezzogiorno; e la scote i cancelli e aprir non pole, e avea il castellan sempre d’intorno; si affligge, si strapazza, piange e duole; e si fa tardi e Nello non è torno; « Apri — gli disse a i’ castellan — l’ingresso. » « Signora mia — rispose — non c’è permesso. » 32 33. Riparte Pia a capo genuflesso, di più era tardi e s’imbrunìa la sera, e in camera tornò su i’ letto stesso e disse: « Sono in Maremma prigioniera. » E tante volte ripeteva spesso, piangendo si strappava la criniera;
Le fu risposto: « Cosa vuole, signora? » Lei disse: « Hai visto niente il mio marito? » « Sì, l’ho veduto che chiama alla caccia, e sono due ore e mezza che è partito. » « E dov’è il mio cavallo che lo ama tanto? » « Ben previdente, li ha presi tutti e due. » E poi le disse con parole serie: « Bisogna restare qua: non può partire. » 32 Pia vedeva il sole tra le nebbie: erano le dieci prima di mezzogiorno; e scuote i cancelli e non può aprire, ed aveva il castellano sempre intorno; si rattrista, si maltratta, piange e si addolora; e si fa tardi e Nello non è tornato; disse al castellano: « Apri l’ingresso. » Lui rispose: « Mia signora, non c’è permesso. » 31
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poco mangiava e tutta appassionata per non saper la cosa com’era andata. 33 34. E di più si rendeva addolorata, dicendo: « Là per qualche selva folta, che non abbia qualche belva riscontrata o qualche lupo ’un gli abbia fatto scorta. » Specie al marito gli era tanto grata, lì non vi era nessun che la conforta; disse: « Trista, sventurata, iniqua e ria, io non so di dove venga e quel che sia.» 34 35. Si vedeva il mangiare a economia, a guisa tale come carceriera; tante volte diceva: « Casa mia dei Tolomei un paradiso ell’era. » E spesse notte la s’impaurìa, rodea de’ tarli in una trave intera: l’avea sentito dir da questo e quello che abitava le streghe nel castello. 35 Pia riparte a capo chino, era ancora più era tardi e la sera diventava scura, e tornò in camera sullo stesso letto e disse: « Sono prigioniera in Maremma. » Lo ripeteva spesso tante volte, e piangendo si strappava i capelli; mangiava poco e soffre tutta perché non sa come sia andata la cosa. 34 E si affliggeva ancora di più, dicendo: « Là, per qualche fitta boscaglia, che egli non abbia incontrata qualche belva o che qualche lupo non gli abbia fatto la posta. » Lei era tanto affezionata al marito e là non c’è alcuno che la conforta; disse: « Infelice, sventurata, ingiusta e cattiva: io non so donde venga né cosa sia. » 35 Si vedeva dare il mangiare a risparmio, come si fa con una carcerata; tante volte diceva: « La mia casa dei Tolomei era un 33
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36. Intanto a Siena è ritornato Nello: se ne scarrozza e se ne va a cavallo; disse a Ghino: « L’ho chiusa nel castello: l’è prigioniera, non farà più il gallo. » « Hai fatto bene — rispose questo fello — così interviene a chi commette fallo; c’è tante donne, disse a voce piena, da divertirsi e consolarsi a Siena. » 36 37. E Pia, che soffre lagrimando e pena, stiede sei mesi interi solitaria: s’era ridotta come una pergamena di sua freschezza e di bellezza varia. « Lasciami andare un mumentino appena — disse alla guardia — a prendere un po’ d’aria. » La grazia per tre volte e la gli chiede; quasi morta parea: glie la concede. 37 38. E dietro a Pia il castellano andiede; eccola giunta su sopra il balcone: paradiso. » E molte notti si metteva paura con i tarli che rodevano in tutta una trave: aveva sentito dire da questo e quello che in quel castello abitavano le streghe. 36 Intanto Nello è ritornato a Siena: se la spassa e se ne va a cavallo; disse a Ghino: « L’ho chiusa nel castello: è prigioniera, non farà più il gallo. » « Hai fatto bene, rispose questo traditore, così avviene a chi commette errore; ci sono tante donne a Siena, disse a piena voce, per divertirsi e consolarsi. » 37 E Pia che soffre e pena piangendo, stette sei interi mesi da sola: dalla sua freschezza e varia bellezza di prima era diventata gialla come una pergamena. Disse al guardiano: « Lasciami andare appena un momentino a prendere un po’ d’aria. » Per tre volte gli chiede la grazia; pareva quasi morta: gliela concede.
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da lontano un romito venir vede a capo basso e in mano avea un bastone; « Ferma, buona ventura, ferma il tuo piede: di una misera avrai tu compassione. » Il romito si ferma e andar non puole e osserva lei come guardare il sole. 38 39. Pia principiò con queste sue parole: « Ti riconosco, buon penitenziere: sei mesi interi fu che l’arsion vole alla capanna tua chiesi da bere. » Il romito riflette e parlar vuole: « Era marito suo quel cavagliere? » « Sì — disse Pia — il mio marito è quello che mi lasciò prigioniera nel castello. » 39 40. « Un piacer mi farai, caro fratello: se quel signore per caso tu ricombini, di santo matrimonio questo è l’anello, ed intrecciato della mia chioma i crini: vedrai colui riconoscerà quello; digli ch’io sono a gli ultimi destini; Ed il castellano andò dietro alla Pia; eccola giunta su sopra al balcone: da lontano vede venire un eremita a capo basso ed aveva un bastone in mano: « Ferma, buona ventura, ferma il tuo piede: tu avrai compassione di una misera. » Il romito si ferma e non può andare ed osserva lei come guardasse il sole. 39 Pia cominciò con queste sue parole: « Ti riconosco, o buon penitente: sono sei mesi interi che, costretta dall’arsura, chiesi da bere alla tua capanna. » L’eremita riflette e vuole parlare: « Era suo marito quel cavaliere? » Pia disse: « Sì, quello è il mio marito, che mi lasciò prigioniera nel castello. » 38
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te ne ringrazio e ti chiedo perdono, ma digli a Nello che innocente io sono. » 40 41. Parte il romito penitente e buono, ed in verso la capanna va pian piano, e tiene stretto il ricevuto dono; e Pia se ne partì con il castellano; disse: « Vieni con me, non ti abbandono: vedo un certo segnale là sul piano. » Inginocchiata una fanciulla v’era che a un suo defunto gli facea preghiera. 41 42. Si avvicina e gli dà la buona sera: « E tu che fai al cielo santa dottrina »; e alzando Pia la mano sua leggiera, da il collo si levò una crocellina: « Tientela per memoria veritiera, ché anch’io a seppellirmi son vicina: una tomba moderna qui vedrai e le stesse preghiere a me farai. » 42 « Caro fratello, mi farai un piacere: se per caso rincontri quel signore, questo è l’anello di un matrimonio santo ed è intrecciato ai miei capelli: vedrai che egli lo riconoscerà; digli che sono ai destini ultimi; te ne ringrazio e ti chiedo perdono, ma digli a Nello che io sono innocente. » 41 Parte il romito penitente e buono, e va pian piano verso la capanna, e tiene stretto il dono ricevuto; e Pia se ne partì con il castellano; le disse: « Vieni con me, non ti lascio: vedo un certo segnale là nel piano. » C’era una fanciulla inginocchiata che faceva preghiera ad un suo defunto. 40
— Nel testo al terzo verso si legge e tiene strinto.
Si avvicina e le dà la buonasera: « E tu che fai santa preghiera al cielo »; e Pia, alzando la sua mano leggera, si tolse una cro42
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43. Ghino che in chiesa non ci andava mai, per caso giunse a Siena un missionario: predicava la fede che ben sai; Ghino ci andò ad ascoltar: oh caso raro; e diceva: « Ai bugiardi pene e guai, per i calugnatori non vi è riparo. » Sulle parole del predicatore Ghino si turba e gli batteva il core. 43 44. Monta a cavallo come da cacciatore per star diversi giorni alla campagna. Eccoti della Pia il genitore e con il genero suo si accompagna: « Per la figlia, per il sangue e per l’amore, ei disse a Nello là sulla montagna, di te fu sposa e di me fu figliuola: noi ci anderem per una volta sola. » 44
cellina dal collo: « Tienitela come ricordo sincero, perché anch’io sono vicina ad essere seppellita: qui vedrai un tomba nuova e mi farai le stesse preghiere. » 43 Ghino che in chiesa non ci andava mai, per caso giunse a Siena un missionario: predicava la fede che ben conosci; Ghino ci andò ad ascoltare: oh! caso raro. E diceva: « Per i bugiardi pene e guai; per i calunniatori non c’è riparo. » Alle parole del predicatore, Ghino si turba e gli batteva il cuore. 44 Monta a cavallo come cacciatore, per stare diversi giorni alla campagna. Ed eccoti il padre di Pia che si accompagna con il proprio genero: « Per la figlia, per il sangue e per l’amore, egli disse a Nello là sulla montagna, a te fu sposa ed a me fu figliola: noi ci andremo per una sola volta. » — Nel testo al secondo verso si legge per sta.
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45. Nello disse di sì: passa parola, ordina due cavalli a un servitore; e Pia dicendo: « Oimé, qua sempre sola, Nello non vidi più né il genitore; eppur dei Tolomei io fui figliuola. Siena mi fé e alla Maremma muore. » Negli ultimi momenti che spirava di Nello e i’ genitore dimandava. 45 46. Ed ambedue per la via trottava; eccoli giunti a una rozza capanna: la pioggia, vento, toni e balenava, il tempo di fermalli li condanna dove un romito in orazione stava: recan saluti e il romito si affanna, al più giovane si volta e dice a quello: « Scusi, lei della Pietra è il signor Nello? » 46 47. « Sì. » — gli rispose e si levò il cappello; ecco il romito che principia intanto: gli fa vedere il ricevuto anello
Nello disse di sì: passa parola ed ordina due cavalli ad un servitore; e Pia diceva: « Ohimé, qui sempre da sola, non ho più visto né Nello né mio padre; eppure io sono stata figliola dei Tolomei. Siena mi fece e muoio alla Maremma. » Negli ultimi momenti in cui spirava, domandava di Nello e di suo padre. 45
— Nel testo al verso ottavo si legge i genitori.
Ed entrambi trottavano per via; eccoli giunti ad una rozza capanna: la pioggia, vento, tuoni e lampeggiava: il tempo li condanna a fermarsi dove un eremita stava in preghiera: porgono saluti e l’eremita si affanna, si volta al più giovane e gli dice: « Scusi, lei è il signor Nello della Pietra? » 46
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che avea passato al matrimonio santo: « Me lo diede una donna dal castello e mi pregò con doloroso pianto. » Nello accetta e a sé lo riguardava: di più i capelli che afflizione gli dava. 47 48. Sente a un tratto uno che gridava in disparte dicendo: « Aiuto, aiuto. » Nello e il romito subito ascoltava: « Quest’è voce d’umano che è caduto. » E ognun di questi là si approssimava, dicendo: « Caro, i’ che vi è intravvenuto? » Questo era Ghino che ferito e’ gli era da una belva mordace orrenda fiera. 48 49. E riconobbe Nello in quella sera, Nello in tal guisa riconobbe Ghino che di sangue grondava dall’altera: « Iddio lo volse per fatal destino. Nello, la moglie tua che è prigioniera, io te la calugnai nel tuo giardino;
« Sì » gli rispose e si tolse il cappello; ecco l’eremita che intanto comincia: gli fa vedere l’anello che aveva ricevuto e che egli aveva scambiato al santo matrimonio: « Me lo diede una donna dal castello e mi pregò con pianto doloroso. » Nello lo prende e se lo riguardava: soprattutto i capelli che gli davano pena. 48 Ad un tratto sente uno che gridava in disparte, dicendo: « Aiuto, aiuto. » Nello e l’eremita ascoltavano subito: « Questa è voce umana di uno che è caduto. » Ed ognuno di questi si avvicinava a lui, dicendo: « Caro, che ti è accaduto? » Questi era Ghino che era ferito da una belva feroce, mordace ed orribile. 47
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ti giuro avanti al cielo onnipotente: levala presto, perché l’è innocente. » 49 50. « La cagione son io se sta dolente; la cagione son io se l’è a patire; perché te la tentai segretamente: non volse a’ miei capricci acconsentire; per me non c’è rimedio certamente: perdon ti chiedo e me ne vo a morire. » Nello tutto ascoltò e poi fé partita, lasciò Ghino spirante all’eremita. 50 51. Per una scorciatoia via salita ripartir presto il genitore e Nello; e i due pensieri a camminar s’invita e istimolando ogni pensiero a quello; eccoli giunti a una spiaggia pulita distante mezzo miglio dal castello: si ferman tutti e due, e ognuno ascolta di una campana sonava a raccolta. 51
Ed in quella sera egli riconobbe Nello e Nello in quelle condizioni riconobbe Ghino che grondava sangue dall’arteria: « Iddio lo volle per destino fatale. Nello, la moglie tua che è prigioniera, io te la calunniai nel tuo giardino; ti scongiuro davanti al cielo onnipotente: liberala presto, perché lei è innocente. » 50 « La causa sono io se lei è dolente; la causa sono io se lei sta a patire; perché te l’ho tentata in segreto: lei non volle acconsentire ai miei capricci; sicuramente per me non c’è rimedio: ti chiedo perdono e me ne vado a morire. » Nello ascoltò tutto e poi se ne partì, lasciando Ghino che spirava all’eremita. 51 Per una via scorciatoia in salita, subito ripartirono il padre e Nello: ed i due pensieri si invitano a camminare, perché ogni pensiero li incita a quello; eccoli giunti ad uno spiazzo pulito, 49
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52. Nello dalla sinistra poi si volta: vede dodici lumi e donne andava; disse a una fanciullin: « Chi è quella morta? » E gli rispose: « Una donna che stava sei mesi interi dentro a quella porta: sempre di suo consorte domandava; ch’è spirata sarà ventiquattr’ore; altro non posso dir, caro signore. » 52 53. Nello riparte con il genitore a gran carriera come fosse gara; si avvicinano là dov’è l’albore: di lumi contornata era la bara; « Fermate — disse Nello — per amore, che dentro qua c’è la mia gioia cara. » Alza la coltre alla bara per via e vede morta la dolente Pia. 53 54. Poi l’abbraccia e dice: « Moglie mia, chi sa quanto fu lungo il tuo dolore; distante mezzo miglio dal castello: si fermano tutti e due, ed ognuno ascolta il suono a raccolta di una campana. — Nel testo al primo verso si legge scorcitoia.
Poi Nello si gira a sinistra: vede dodici fiaccole e donne che andavano; disse ad una fanciullina: « Chi è quella morta? » E gli rispose: « Una donna che è stata sei mesi interi dentro quella porta: domandava sempre del suo sposo; saranno ventiquattro ore che è spirata; non posso dire altro, caro signore. » 53 Nello riparte insieme al padre di gran carriera come fosse una gara; si avvicinano là dove è il chiarore: la bara era circondata di lumi; « Fermate — disse Nello — per amore, perché qui dentro c’è la mia gioia cara. » Alza la coperta sulla bara in via e vede morta la dolente Pia. 52
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l’anima tua alla sant’ara sia, imbraccio dell’eterno Creatore. » Poi quella si ricopre e vanno via: Nello si sviene e piange il genitore. Termino il canto e chiudo i versi miei della dolente Pia de’ Tolomei. 54
Fine.
Allora l’abbraccia e dice: « Moglie mia, chi sa quanto fu lungo il tuo dolore; la tua anima sia sul santo altare, in braccio all’eterno Creatore. » Poi quella viene ricoperta e vanno via: Nello si sviene ed il padre piange. Termino il canto e chiudo i miei versi della dolente Pia de’ Tolomei. 54
Fig. 10 — Questa Trascrizione Base della Pia de’ Tolomei di Giuseppe Moroni rappresenta la base armonico–melodica su cui di volta in volta il singolo esecutore improvvisa il proprio canto. Ricostruita sulla testimonianza di alcune esecuzioni, raccolte in diversi luoghi dell’Italia centrale, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, e conservate presso la Discoteca di Stato di Roma, questa Trascrizione Base è dovuta alla competenza ed alla gentilezza di Valeria D’Aversa.
GIUSEPPE BALDI PIA DE’ TOLOMEI Firenze, 1874
Fig. 11 — Riproduzione del frontespizio della Raccolta di canzonette bernesche in ottava rima, Firenze 1874.
Presentazione Composta in ottave incatenate, una tecnica compositiva tipica dei cantastorie che vi trovano un notevole aiuto mnemonico oltre che un modo ulteriore per dimostrare la propria bravura poetica, questa Pia de’ Tolomei del Baldi dipende essenzialmente dal Sestini e, sebbene in misura minore, dal Niccheri; dipende dal Sestini per esempio in quanto non dice che Nello è signore della Pietra né precisa il nome del castello dove Nello rinchiude e lascia morire la Pia; dipende dal Niccheri per esempio in quanto il suo racconto segue l’ordine cronologico degli eventi. Quasi del tutto prive di punteggiatura, come avviene nel linguaggio parlato, queste ottave del Baldi sono costruite per semplice paratassi, cioè per semplice accostamento di eventi successivi, dei quali gli ascoltatori non fanno alcuna difficoltà a cogliere il nesso causale in base al principio secondo cui ciò che segue sarebbe causato da ciò che precede.
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Nota sull’autore. Di Giuseppe Baldi non siamo riusciti a trovare alcuna notizia biografica; pertanto ci limitiamo ad ipotizzare che egli fosse un cantastorie toscano contemporaneo del Niccheri. Nota sul testo. Pubblicato anonimo in una Raccolta di canzonette bernesche, a cura di Giuseppe Moroni detto il Niccheri, Firenze, Salani, 1874, p. 101–110, da cui riprendiamo il testo che qui pubblichiamo, questa Pia de’ Tolomei viene attribuita a Giuseppe Baldi da G. Giannini, Bibliografia dei “Maggi” stampati dalla tipografia Sborgi di Volterra, « Rassegna Volterrana », II, 3, 1926.
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Pia de’ Tolomei 1. Dietro le tracce del poeta tosco, 1 io canterò la desolata Pia, e noto ti farò quanto conosco se tu mi porgi orecchio, udienza mia.2 Timida se ne stava all’aere fosco per via della spietata gelosia che nutre in seno del consorte Nello, da Siena la conduce al suo castello. 2. Intatta conservò l’alma e l’anello, visse la Pia in tal desolazione; compare castellano iniquo e fello, che leggi più barbare gli impone, non sapendo che Ghino è stato quello che l’ha condotta misera in prigione, che a Nello l’accusò per impudica perché non poté farsene un’amica. 3. Nacque di stirpe là di Siena antica della nobil famiglia Tolomei, ma la sorte gli fu cruda e nemica appunto sul bel fior degli anni bei; Il poeta tosco è Dante, nato a Firenze e perciò toscano (tosco). 2 udienza mia: ascoltatori miei. 1
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si coniugò con Nello, avvien ch’io dica, e lui tutto portato era per lei; ella lo meritava, a dire il vero, un così valoroso cavaliero. 4. Nei tempi che si armava il popol nero contro dei bianchi a far carneficina,3 lasciò la sposa il giovine guerriero e a liberar la patria s’incammina; e tornò vittorioso a dire il vero, ciascun per dargli omaggio si avvicina; rassicurò l’addolorata Pia, che per lui giorno e notte non dormia. 5. Vien quindi il ladro 4 a imperversar la via degli amplessi, de’ baci e dell’amore, ché l’uno e l’altro entro del cor nutria sinceramente un puro, intatto onore; dice a Nello e ti arresta l’empia arpia: « Io ti farò veder con disonore, a notte oscura, entro tue patrie soglie quel che usa farti l’adorata moglie. »
Le lotte tra guelfi e ghibellini qui vengono evocate con un richiamo alla divisione avvenuta in Firenze, non in Siena, tra guelfi bianchi filoimperiali e guelfi neri filopapali; forse qui opera il ricordo di Ugo Foscolo, Dei sepolcri, 174, dove Dante, guelfo bianco, viene detto “Ghibellin fuggiasco”. 4 Questo ladro è Ghino, in quanto cerca di rubare Pia a Nello. 3
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6. Se Ghino non saziò l’infami voglie da lei che tante volte avea tentata, gli fa veder che un altro amante accoglie in notte silenziosa e ottenebrata; in casa a suoi parenti lo raccoglie dove del suo giardino avea l’entrata e poi gli fa giurar privatamente di star fermo, alla Pia di non dir niente. 7. Circa la mezzanotte un rumor sente e un lume vede entro sua abitazione, stride il cancello e un calpestio di gente gli par sentir, lui prese ammirazione, vede il lume calar, ci pose mente, vede la donna sua con un campione, ode il suono dei baci, e andò infuriando e messe mano al suo tagliente brando. 8. E se non c’era Ghino, vendicando i torti andava nell’istessa sera, ma il tristo adulator andò placando col dir: « Non dirai niente a tua mogliera. Anzi il tutto tacer ti raccomando, come giurasti anima sincera. » E così Nello restò trattenuto; e poscia 5 n’andò via lo sconosciuto. 9. Immobile restò tacito e muto, ma colla bocca di amarezza piena,
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poscia: poi.
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quando coi propri lumi ebbe veduto della consorte sua la trista scena; gli spiacque tanto non aver conosciuto il suo rival che l’urta e lo malmena, perché aveva in pensiero il guerrier forte colle sue mani di dargli la morte. 10. Dopo di sua magione apre le porte, prende le scale e in camera s’invia, dove trova l’amabile consorte che lo aspetta, l’adora e lo desia, e gli fa vezzi con maniere accorte, l’abbraccia e stringe al sen; misera Pia: sente la mano dello sposo amante, che non la stringe, fredda e tremolante. 11. Quindi Nello fe’ core e tira avante, ordina in casa a suoi fidi scudieri, che sollecitin poscia nell’istante e gli portin bardati due destrieri, ché di andare in Maremma era anelante, al suo castello, avea fatto il pensieri, e in così lunga e malagevol via brama aver la consorte in compagnia. 12. E lei di andar con Nello ne desìa, tutta contenta si pose in cammino; passan tende, pe’ boschi e tiran via, passando nel contado fiorentino, 6
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Poiché queste ottave 12–15 sono una ripresa di Sestini, La
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ma dovenno alloggiare a un osteria, dov’era solo un piccol lettuccino: Nello arrossisce, si scoraggia e geme là andar la notte a riposarsi insieme. 13. L’anima pura, che di niente teme, si spoglia e scopre le sue nevi intatte, nate da puro sangue e nobil seme, col suo bianco candor che vince il latte, che, a ricercar dall’ime parti estreme, non si posson trovar tanto ben fatte: i lumi, il biondo crine, il dolce viso, che un angiolo parea di paradiso. 14. Preso al laccio di amor restò Narciso dall’ombra sua nello specchiarsi al fonte: Nello si specchia al delicato viso, dove che di bellezza scorge un monte; ma con quella per poco siede assiso: la ricopre di amplessi e scorda l’onte, 7 ché l’avrebbe destato a compassione poscia un cor di macigno o d’un leone. 15. Dopo l’insidie di quel rio fellone, di Ghino traditor, gli torna a mente: balza dal letto e intrepido si pone e colla bella fa l’indifferente;
Pia, II, 67–77, questo sorprendente accenno al contado fiorentino si spiega soltanto con ragioni di rima. 7 l’onte: le offese.
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che egli pensi alla guerra si suppone, niente non sa la tortora innocente. 8 Vien la diurna luce, e intanto Nello la conduce prigione al suo castello. 16. Quindi al castellano dice quello: « Questa ti lascio e tu la 9 baderai; che nessun ci ragioni, io ti favello, e sortir fora non la lascerai. » La Pia osserva l’opra di scarpello, ché veduto simil non ebbe mai: nella sala dell’atrio ove risponde vidde Nettuno e Teti in mezzo all’onde. 17. Quella nell’osservar l’idea confonde; vide alle mura ed alle travi appese armi smalliate 10 che non si nasconde e in sanguinei civili assalti prese, rastrelli e sbarre ed altre cose immonde che fur trofei dell’onorate imprese; nel veder dei trofei quello splendore si sentiva gioir l’anima e il cuore. 18. Poi vide dipinto da più di un pittore l’assedio che a’ roman portò Porsena; e vidde Muzio sopra dell’ardore che al braccio dar la meritata pena; La tortora innocente è Pia, che non conosce l’inganno calunnioso di Ghino. 9 la: le. 10 smalliate: smagliate. 8
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vide un Orazio al ponte il suo valore, vide di battaglie una muraglia piena, e vide nel medesimo intervallo la Clelia che afferrava il gran cavallo. 19. Ecco che intanto notte entra nel vallo e di Febo spariti erano i rai; 11 porta i cibi il guardian per ristorarlo, Nello colla consorte stanchi omai; vede che egli non mangia, sta a guardarlo, dicendo così: « Sposo, che hai? » Egli arrossì, sorrise e gli rispose: « Niente. » E la verità così nascose. 20. Il castellan gli lascia 12 e si nascose, sparecchiato che egli ebbe a dar la mensa; vanno i coniugati a letto: Dio che cose nascono per man di barbara insolenza! Ella si spoglia e il bel color di rose scopre del suo consorte alla presenza: lo bacia e stringe al seno, come era usa, e lui tutto tremante la ricusa. 21. E lei del suo tremar niente si abusa, 13 si carca in letto, 14 e lui restò pensoso;
Ecco … i rai: Intanto ecco che la notte scende nel fosso (vallo) dell’orizzonte, ed i raggi del sole (Febo) erano scomparsi. 12 gli lascia: li lascia. 13 niente si abusa: non sospetta nulla. 14 si carca in letto: si pone a letto. 11
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si addormenta la bella a bocca chiusa, la guarda afflitto l’addolorato sposo, vede il candor che supera ogni cosa e un braccio al capo suo serve a riposo; lui ragiona fra sé, la guarda e dice: « Me sfortunato, e tu vivrai infelice. » 22. E confuso si parte e più non dice, in preda al sonno lascia la meschina; sorte fuor del castello e si fa lice 15 sola lasciar la misera tapina; cammina errante per ogni pendice. Amore e gelosia, che lo trascina, or lasciando 16 andar per la foresta, e torniamo alla Pia quando si desta. 23. Stese le braccia e nel chiamar fu presta l’amato nome che più non risponde; sospira, piange, si agita e tempesta, percuote il sen, straccia le chiome bionde; poi sente un calpestio, ferma si arresta, il rumore del ponte che risponde e quindi vede entrare il castellano, il discortese, barbaro, inumano. 24. « Dov’è il consorte mio? » — dice all’insano; ed ei risponde allor con brusca faccia: « Quindi nei vicin boschi e non lontano entrar lo vidi questa mane a caccia; 15 16
e si fa lice: e si fa lecito. or lasciando: Or lasciandolo.
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girava per lo monte e per lo piano, questa sera di voi tornerà in traccia. » Cessò i singulti a quel parlar di volo e in parte raddolcì l’acerbo dolo. 17 25. Ma non fu il male di quel giorno solo che lacerò fuori la mala accorta Pia: furon due mesi, oh! sommi Dei del Polo, 18 che più non vidde la sua compagnia; l’aria i polmoni gli infettò di volo con lenta febbre che ogni dì venìa: comete, eclissi, e aspre visioni e dure, spettri, sogni, larve e altre paure. 26. Brandì la morte la tagliente scure per troncargli la vita alla meschina. Un giorno del balcone all’aperture a prender aria a stento s’incammina; vede dal cancellato 19 sulle alture un frate che col zaino si avvicina, che venia recitando Ave Maria; e si consolò l’addolorata Pia. 27. Ella queste parole quindi gli invia al solitario, e dice: « Padre mio, ricordati di me, che son la Pia, nelle tue orazion più grate a Dio.
dolo: dolore. del Polo: del cielo. 19 cancellato: cancello. 17 18
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Porta questi capelli a madre mia e questo anello porta a Nello mio: è quel che mi donò; digli sovente: lo perdono e per lui moio 20 innocente. » 28. La consolò l’eremita riverente, e dopo breve istante più non vede al suo balcon la misera dolente; allor verso la cella volse il piede, e il giorno di poi correr repente 21 un gran destriero infuriato vede e sopra un cavaliero; e il fraticello conobbe e vide ben che gli era Nello. 29. Entro la grotta sua condusse quello e cominciò, parlando pien di zelo: « Ho veduto una cerva, ti favello, tradita e mai non si cangiò di pelo. » Ed intanto veder gli fa l’anello, che gli fece venire il sangue gelo: lo riconobbe, e al servo del Divino tutta la storia gli cantò di Ghino. 30. Prende il Vangelo in mano il cappuccino e le scritture a spiegar s’appresta. Si ode intanto un rumor per il vicino, 22 quando meno infuriava la tempesta:
moio: muoio. repente: veloce. 22 per il vicino: lì vicino. 20 21
Pia de’ Tolomei
sortivan fuori ivi e trovan Ghino, semivivo, al terren della foresta, e il suo destrier legollo stretto a un orno: 23 l’uno e l’altro a gran fretta liberorno. 31. Il tristo Ghino, nel vedersi attorno l’eremita con Nello gli dicea: « Io di te ne cercai la notte e il giorno, e adesso di trovarti non credea; io ti turbai la quiete e il bel soggiorno di tua consorte splendida qual dea; quel che di notte tu vedesti, o Nello, era dell’innocente il suo fratello. » 32. « Per me tu la serrasti nel castello, ed io sono agli estremi di mia vita; ti addimando perdono, mio fratello. » E poi si volse e disse all’eremita: « Una lupa di me fece macello, pena dovuta a questa indegna vita. » Così parla e ragiona all’ultim’ore, e il frate raccomandalo al Signore. 33. Al fin condotto, esala l’alma e muore. E Nello preparato avea i destrieri; per riveder la Pia vanno di fuore, per vie scoscese e incogniti sentieri; veggono nel castello uno splendore di lumi e torcie, lampade e doppieri, 24 23 24
orno: olmo. doppieri: candelabri a due o più bracci.
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e le piccol campane del castello che spesso rintoccavano a martello. 34. Avanti si introduce il fraticello e sente il mormorio del sacerdote: Requiem eternam in questo lito e quello rispondon gli incappati 25 a chiare note; poi vede far la fossa al villanello, guarda la bella faccia e si riscuote: benché fosse da morte scolorita, si vedea di un Dio opra compita. 35. Anche Nello finir volle sua vita, dove spenta restò la sua consorte; chiede perdono a Dio, se l’ha tradita, con lacrime singulte e pianger forte; e così restò l’opera compita: il tutto venne a rimediar la morte. Esiston sempre in parte i suoi trofei, dove giace la Pia de’ Tolomei. Fine.
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incappati: incappucciati.
CAROLINA INVERNIZIO PIA DE’ TOLOMEI ROMANZO STORICO Milano, 1879
Fig. 12 — Riproduzione del frontespizio di Carolina Invernizio, Pia de’ Tolomei. Romanzo storico, Milano 1879.
Presentazione Dopo tanti testi scritti da uomini, questa Pia de’ Tolomei rappresenta una doppia novità: si tratta del primo testo scritto da una donna e si tratta del primo romanzo, un genere letterario allora ancora relativamente nuovo, che abbia come tema la vicenda di Pia da Siena: un romanzo che merita la qualifica di storico, con cui esso si presenta, perché narra un evento lontano nel tempo, mentre non la merita affatto per quanto riguarda la datazione e l’ambientazione, che in effetti risultano imprecise, generiche ed anche errate. Per la successione degli eventi, la Invernizio segue da vicino la tragedia del Marenco, di cui conserva perfino i nomi dei personaggi principali, senza tuttavia rinunciare per questo a variarne od integrarne la trama con episodi ed aspetti presi da altri autori. Si potrebbe anzi dire che il romanzo della Invernizio rappresenti una sorta di versione in prosa della tragedia del Marenco: versione in prosa amplificata e variata, anche se quasi mai migliorata, con aspetti ed eventi tratti dal Sestini, dal Bianco e dal Moroni, dal quale per esempio riprende l’identificazione del castello prigione in Maremma di cui avevano parlato il Sestini, il Bianco, il Marenco con il Castello di Pietra di cui è signore il marito di Pia.
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Nota sull’autore. Nata a Voghera nel 1851, Carolina Invernizio fu scrittrice estremamente feconda: si calcola che abbia scritto non meno di 120 romanzi. Molto letti ed amati soprattutto dalle donne della piccola borghesia, i suoi racconti hanno sempre come tema amori infelici e funesti. Tra i suoi titoli più fortunati ricordiamo Il bacio della morta e La sepolta viva. Questa Pia de’ Tolomei rappresenta il suo secondo romanzo: il primo era stato, nel 1877, quello intitolato Rina o l’Angelo delle Alpi. Carolina Invernizio morì a Cuneo nel 1816. Nota sul testo. Il testo che qui pubblichiamo è tratto da Carolina Invernizio, Pia de’ Tolomei, Milano, Carlo Barbini editore, 1879; il testo del romanzo è preceduto da una dedica dell’autrice alla sua « carissima cugina Fanny Fleissner vedova Commoretti ».
Pia de’ Tolomei. Romanzo storico
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Capitolo primo La partenza Spuntava tranquilla l’alba del 12 maggio dell’anno 1266 1 e il dubbio suo raggio illuminava appena i comignoli dei più alti torrioni senesi, che già per le strade vedevasi una massa confusa di gente, in mezzo a cui ondeggiavano i pennacchi dei cimieri e scintillavano i ferri delle lance degli armati. Da ogni parte rumoreggianti, fitti, confusi aggruppavansi drappelli d’uomini, donne che a tutte le classi della società appartenevano. Era un chiedere ansioso, un prepararsi giulivo, un fremere d’impazienza, una letizia che traspariva da ogni volto e rendeva più vivido e scintillante l’occhio delle belle senesi e più espressiva ed animata la fisonomia dei popolani e dei guerrieri. Che stava per succedere? Una lotta crudele, tremenda; una lotta in cui molti dei cittadini dovevano prendervi parte, non come spettatori inscienti 2 di ciò che stanno per fare, ma come attori protagonisti. Come vedremo anche in altre occasioni successive, nonostante l’apparente precisione che, come in questo caso, vi viene esibita, i riferimenti cronologici presenti nel romanzo sono del tutto inattendibili: la battaglia di Colle di Val d’Elsa, tra i guelfi fiorentini ed i ghibellini senesi, avvenne infatti nel 1269, non nel 1266, anno in cui avvenne invece la battaglia di Benevento, dove, eliminato Manfredi di Svevia, Carlo d’Angiò prendeva possesso del regno di Sicilia come vassallo del papa di Roma. 2 inscienti: inconsapevoli. 1
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CAROLINA INVERNIZIO
Firenze aveva di nuovo dichiarata guerra a Siena, onde schiacciare la baldanza dei ghibellini, sollevata in alto dalla rotta di Monteaperti. 3 Perciò i senesi, desiderosi di nuova e splendida vittoria, erano tutti in agitazione. Nelle campagne vicine, si lasciava l’aratro per brandire la lancia. Dalle officine, dalle scuole, dai tuguri, dai palazzi dorati, ciascuno obliando le proprie cure, si apprestava a combattere. Le mogli cingevano le armi ai mariti e gl’incitavano a non riedere che coronati dai lauri della vittoria; i bambini, cui si negava colle infantili loro armi da guerra di seguire i prodi, piangevano di corruccio; i mariti, i padri non sognavano più che stragi e vendette. Tanto può l’odio di parte! Nel palazzo del conte Rinaldo della Pietra, capitano delle armi di Siena, regnava lo stesso disordine, la stessa agitazione. Rinaldo aveva radunati a sé dintorno il fiore dei cittadini e dei castellani, onde animarli a vegliare indefessi 4 alla difesa dei loro castelli e per riceverne il giuramento di fedeltà. Intanto, in una stanza ornata di preziosi arazzi, fornita di splendide guarnizioni e sfolgoreggiante della ricchezza propria di quell’età, se ne stava tutta sola, immersa in silenzioso dolore una giovine donna. Era madonna Pia de’ Tolomei, moglie di messer Rinaldo. Alla luce del mattino, in semplice veste di broccato scuro, colle lunghe trecce che, disciolte dalla retirotta di Monteaperti: sconfitta (fiorentina) di Montaperti (4 settembre 1260). 4 indefessi: instancabili. 3
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cella, le cadevano in grazioso disordine sulle spalle, cogli occhi neri bagnati di lacrime, Pia de’ Tolomei appariva ancora più bella, di quando allo splendore di abbaglianti lampade, ornata di preziose gemme, veniva salutata regina delle feste e dei conviti. Vi era in lei alcunché d’ineffabilmente mesto e gentile, che scendeva dolcemente all’anima. Il volto pallido mostrava il soffrire del cuore. Un pensiero doloroso, intenso, continuo, aveva sbandito il sorriso, non la soavità dalle sue labbra. Uscita da una delle più nobili e più ricche famiglie di Siena, Pia de’ Tolomei fino dai più teneri anni fu la gioia degli amici e della famiglia per l’indole affettuosa e l’intelligenza elevata; la meraviglia di tutti per la bellezza squisita del volto, la perfetta eleganza della persona. Andata sposa al conte Rinaldo della Pietra, che ella amava da lungo tempo, nel sorriso dell’età e della bellezza, fra le ghirlande di fiori che le tributava il mondo, Pia de’ Tolomei non scorgeva pericoli a sé dintorno, né probabilità di dolori. Ma erano i tempi crudeli delle lotte, delle discordie fra i guelfi e i ghibellini. Il padre ed il fratello di Pia, malgrado che la loro patria si reggesse a parte ghibellina, 5 come la maggior parte delle città di Toscana, tuttavia seguitarono ostinatamente la parte guelfa; perciò avvenne a loro ciò che avvenne a tanti altri. Siena li sbandì dalle sue mura e atterrò le loro case, 6 le cui rovine sorgevano propriamente dinanzi si reggesse a parte ghibellina: fosse governata dalla fazione ghibellina. 6 atterrò le loro case: rase al suolo le loro case. 5
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al palazzo del conte Rinaldo della Pietra. Quello che soffrì l’animo candido della Pia sarà più facile immaginarlo che descriverlo. Il suo cuore gentile scoppiava per la lotta di due sentimenti egualmente grandi, egualmente generosi. Ella avrebbe data la vita per amore del marito, ed avrebbe voluto veder salvi, nella diletta patria, il padre ed il fratello. La nuova che l’oste fiorentina si avanzava verso Siena, in compagnia dei fuorusciti senesi 7, le riempì l’animo di segreto terrore. Sola nella sua stanza, abbandonata sull’inginocchiatoio, Pia de’ Tolomei pregava e piangeva, non ristando 8 che per tendere le orecchie, onde raccogliere i rumori della strada, del palazzo. Pia amava la patria sua, il suo Rinaldo, avrebbe voluto vederlo vincitore, ma non poteva a meno di fremere nel pensare come tra i fuorusciti senesi, che si erano riuniti ai fiorentini e muovevano incontro a Siena, ella aveva un fratello, un padre. « O mio Dio! » mormorava la gentildonna. « Quando finiranno i popoli di trucidarsi a vicenda? Oh! come maledico a questi odi di parte, di Comune, che ci dividono. Abbiamo vinto, Siena è nostra; ma il sangue sparso non è quello dei nostri fratelli? Oh! maledetta la gloria che si compra ad un tal prezzo! » Pia de’ Tolomei mandò un lungo sospiro e stette un istante silenziosa, poi riprese con maggior fervore: « O Maria, tu che sempre esaudisti le mie preLa nuova … senesi: La notizia che l’esercito fiorentino si avvicinava a Siena accompagnato dai senesi esiliati. 8 non ristando: non arrestandosi. 7
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ghiere, quando il mio cuore te le fece sanguinanti d’angoscia, salva, deh! salva, il mio Rinaldo e risparmiami il fratello ed il padre. Io cerco di farmi coraggio, ma lo spirito è debole, è oppresso: queste grida, questi clamori incutono spavento nella mia anima. Maria, tu compatisci alle smanie di una povera moglie, di una povera figlia, di una sventurata sorella, perché tu pure fosti figlia, sorella e sposa. » La gentildonna chinò il capo fra le mani e stette qualche tempo in silenzio. In quel mentre apparve sulla soglia della stanza, un guerriero alto, slanciato, la cui completa armatura cresceva l’impressione prodotta dalla gravità del portamento e dalla maestà della fisonomia. Il cimiero alzato lasciava scorgere il suo volto nobile e serio, animato da due occhi nerissimi, che scintillavano come carbonchi. 9 Era il conte Rinaldo della Pietra. Egli si avanzò con passo sì leggiero, che Pia non si accorse di lui, e fatti pochi passi si fermò estatico a riguardarla. Pia continuava a pregare. La luce del giorno passando dall’ampio finestrone, pareva concentrare tutti i suoi raggi su quella celeste creatura, dandole un’apparenza quasi soprannaturale. Il conte la contemplò a lungo con un’espressione d’infinito amore. Ad un tratto però il suo volto si contrasse e le sue labbra lasciarono sfuggire un amaro sorriso. « Ella prega pei miei nemici. » — pensò Rinaldo. E quasi per toglierla da quella meditazione, che gli pungeva l’anima, mormorò sommessamente: « Pia! » La gentildonna si rialzò precipitosa, e veduto il marito diè un grido 9
carbonchi: carboni accesi.
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di gioia e si slanciò incontro a lui a braccia aperte, colla gioia negli occhi, sulle labbra, sulla fronte, in tutta la persona. « Finalmente! Rinaldo, mio Rinaldo, io ti aspettava. » Il conte guardò di nuovo quella graziosa testa, ombreggiata da folti capelli neri, che si piegava dolcemente verso di lui, tentò di sorridere, ma in quel sorriso eravi un non so che di amaro e di triste, che colpì la gentildonna. « Ebbene, che vieni a dirmi? » — sussurrò Pia de’ Tolomei, divenuta tremante, stringendo con passione una mano del marito e guardandolo coi suoi begli occhi supplichevoli. « Vengo a dirti addio. » — esclamò Rinaldo, appoggiando le sue labbra sulla fronte della gentildonna, il cui volto apparve colorito del più seducente rossore. « Dunque è vero? Tu parti? Vai a combattere? » domandò ella in tuono 10 di scoraggiamento, volgendo altrove la testa per celare le lacrime, che le spuntavano sugli occhi. « Sì, mia Pia, l’ora del sacrifizio è suonata anche per me. » — proruppe Rinaldo. « Bisogna che io ti lasci e chissà fino a quando. Ah! sono pur crudeli queste vendette che c’incatenano così! Ma Siena ha bisogno di me, del mio braccio, del mio consiglio. Posso io rifiutare? » « Oh! no, no. » — disse l’eroica gentildonna con subitanea energia, sollevando fieramente la sua bella testa, gettando indietro le folte chiome che le coprivano il viso e fissando negli occhi il marito. « Quando la patria chiama, ogni cittadino deve rispondere; chi nol fa, non è degno di essere amato. Adempi adunque al tuo dovere, non 10
in tuono: con tono.
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tradirlo per me, perché forse, allora, mi saresti men caro! » Un raggio di contento brillò sulla fronte annuvolata di Rinaldo. « Oh! possa sempre il tuo cuore pensare così! » — esclamò. « Le tue parole mi scendono come dolce rugiada all’anima, mi rendono lieto, felice. Poco fa, adunque, pregavi per me? » « Per te, per la nostra diletta patria. » — mormorò Pia con accento dolcemente commosso. « Ah! il mio voto 11 più ardente è di vedere una volta porre in bando queste discordie di cittadini, veder distrutti questi partiti, e guelfi e ghibellini stretti tutti in un solo amplesso. 12 Allora le nostre belle contrade si vedrebbero sicure dagli insulti dello straniero e non sarebbero sradicate, tronche 13 da barbare mani. Ma invece, ohimè! queste gare parricide non concorrono 14 che a sbranare una patria comune, ad immergere le famiglie nella disperazione, togliendo loro le più care speranze, i più teneri affetti. » Rinaldo taceva, ma il di lui petto agitato, le guance accese, gli occhi pieni di fuoco, dicevano chiaramente com’egli approvasse le parole di quell’angelo, che Dio gli aveva dato a compagna. « Finora io nella vita non ebbi che una regola, il dovere, e l’ho costantemente seguito. » — continuò Pia con gentile entusiasmo. « Figlia, adempii con gioia ogni volere di mio padre. Sposa, non ebbi altro
voto: desiderio. amplesso: abbraccio. 13 tronche: tagliate. 14 gare parricide non concorrono: lotte che uccidono la patria non contribuiscono. 11 12
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desiderio che rendermi degna di te. Con te divisi le più care, le più pure gioie della vita, con te saprò dividere le amarezze. Soffrirò per la tua partenza, ma il dolore non mi farà mai dimenticare il dover mio. Pregherò per te e spero che Dio ti ritornerà sano e salvo fra le mie braccia. » Si tacque, perché vinta dalla emozione; ma dopo un istante, riprese con voce divenuta suo malgrado tremante: « Ricordati però, mio Rinaldo, che io sono de’ Tolomei, e fra le schiere nemiche ho un padre ed un fratello. Mio Dio, se doveste trovarvi a fronte… » E Pia de’ Tolomei abbandonò la sua testa sul petto del marito. Egli sentiva il battito precipitoso del cuore di lei, il tremulo 15 di tutta la gentile persona, però 16 con voce commossa: « Calmati — esclamò — calmati; io ti comprendo, e ti giuro per le memorie sanguinose della nostra storia, per le speranze più dilette dell’anima mia, che saprò morire io prima che insidiare alla vita di un Tolomei. Sono ghibellino è vero, ma non odio i miei fratelli. Non saprei farmi traditore della città, della famiglia; non volgerò il dorso al nemico, 17 ma in fondo all’anima desidero al pari di te che tutti ci stringiamo in un solo amplesso di pace. Siamo sanesi, 18 e non guelfi e ghibellini: la patria è una sola! » « Oh! io lo sapeva bene che tu eri il migliore degli uomini. » — disse Pia con ingenua
tremulo: tremito. però: perciò. 17 non volgerò … al nemico: non volterò la schiena al nemico. 18 sanesi: senesi. 15 16
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ammirazione. « Rinaldo, tu hai l’anima di un eroe! Rinaldo, è così che si vince! » Uno squillo prolungato di tromba interruppe il sincero entusiasmo della gentildonna. Rinaldo si staccò precipitoso dalle braccia della moglie ed appressandosi alla finestra ne sollevò l’ampio cortinaggio. « Ecco il segnale d’allarme che mi avvisa che è tempo di raggiungere i miei soldati. » — esclamò. « Non bisogna perdere un momento. » Diè un bacio ardente alla moglie, che l’aveva seguito; emise un lungo sospiro, poi, come sovvenendosi 19 di qualche cosa, soggiunse fermandosi: « Oh! mi dimenticavo di dirti, mia diletta, che partendo, lascio a te vicino un amico fidato, un uomo leale che veglierà alla tua difesa, alla difesa del palazzo. È il compagno della mia giovinezza, il mio Ugo. » Pia de’ Tolomei trasalì e si fece pallidissima. « Egli ha le mie istruzioni. » — continuò il conte senza addarsi della commozione 20 della gentildonna. « Checché 21 accada rivolgiti a lui. Partirò più tranquillo se mi prometti di aver fiducia in Ugo, di ascoltarne i consigli, seguirli. » « Te lo prometto. » — balbettò Pia a mezza voce, impallidendo sempre più e come in preda ad una vaga inquietudine. « Pure, benché il mio cuore inclini naturalmente alla maggior parte dei miei simili, prova un’avversione istintiva verso Ugo, né io mi confiderei seco lui. » « Il tuo cuore questa volta s’inganna. » — disse Rinaldo con sovvenendosi: ricordandosi. addarsi della commozione: accorgersi del turbamento. 21 checché: qualsiasi cosa. 19 20
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forza, assumendo un cipiglio 22 così severo, che lo fece parere quasi brutto. « Ugo è il più nobile cuore che io conosca, ed è mio obbligo il desiderare di vederti giusta, a suo riguardo. La sua abituale freddezza, la sua melanconia non provengono che dalle impressioni lasciategli dagli antichi patimenti. » Pia de’ Tolomei sorrise, come si sorride quando si ha l’angoscia nell’anima e la si vuole celare. « Oh! lui felice, giacché ne parli così bene. » — mormorò. « Non mi abbisognano altre virtù per rendermelo accetto. » La gioia riapparve sul volto e negli occhi del conte della Pietra. Egli strinse ancora una volta al petto la moglie, le dette un ultimo bacio, un bacio in cui pareva volesse esalar l’anima intiera, poi, pronunziando più cogli sguardi che colle labbra la parola « addio », se ne andò frettoloso. Pia de’ Tolomei col cuore affranto, coll’anima piena di un ignoto terrore, s’inginocchiò di nuovo, di nuovo si diede a piangere ed a pregare.
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un cipiglio: un’espressione.
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Capitolo secondo Ugo Aveva trent’anni compiuti, ma le sue guance conservavano tuttavia la freschezza, la grazia della prima gioventù. Il suo volto sarebbesi adattato bene ugualmente ad un santo, come ad un bandito. La chioma bionda e copiosa gli scendeva ben composta sopra le spalle. I lineamenti aveva belli, anzi bellissimi, ma il sorriso beffardo, che sfiorava leggermente, come una ruga, l’angolo della sua bocca; lo sguardo torbido, irrequieto ne scemavano di molto l’attraenza. 1 Figlio dell’amore, 2 Ugo non conobbe mai coloro ai quali doveva la vita. Allevato da un valente guerriero ghibellino, Ugo fu avvezzo fino dai primi anni a tutti gli esercizi del corpo. Cavalcava destramente, era sempre fra i primi nei tornei, nelle giostre, nelle gualdane, 3 dove la svelta bellezza delle sue membra, dei suoi muscoli, la fiamma di nobile orgoglio, che gli brillava sulle guance, formavano il segreto sospiro delle gentildonne, l’ammirazione del popolo, l’invidia dei cavalieri. Nel novero 4 dei molti amici ed ammiratori, Ugo contava il conte Rinaldo della Pietra, il quale erasi scemavano … l’attraenza: diminuivano molto l’attrattiva. Figlio dell’amore: Figlio di una relazione amorosa illecita. 3 La gualdana è una giostra, in cui il cavaliere cerca di colpire lo scudo infisso in un braccio di una sagoma ruotante, senza farsi colpire dal martello appeso all’altro braccio della sagoma. 4 novero: numero. 1 2
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molto affezionato al giovinetto, che lo divertiva colle arguzie del suo spirito, lo sorprendeva coll’impetuosità del suo coraggio. A quindici anni, Ugo sentiva e pensava ciò che si sente e si pensa dagli altri ai venti. Egli era conosciuto non tanto per il suo coraggio, quanto per l’imprudenza della sua vita avventata e pei suoi odi implacabili, sì che spingeva all’estremo il soddisfacimento delle sue vendette. Il bel sesso parevagli indifferente. Egli diceva che l’amore, come la religione e la fede erano parole vuote di senso, fole inventate per aggirare il volgo. Ma il caso mostrò altrimenti. Un giorno in un torneo, Ugo si era distinto come il più destro e coraggioso; ma il suo braccio alfine si trovò stanco e mentre accingevasi a ferire per l’ultima volta l’avversario, questi riuscì a conficcargli la spada tra le connessure 5 dell’armatura e ad immergergliela nella spalla sinistra. Ugo fece per rimettersi in equilibrio, ferire ancora, ma la spada gli cadde dal pugno ed egli stesso stramazzò a terra, colla faccia rivolta al cielo. Un fievole grido, una sfumatura di commozione, che l’abitudine 6 vinse appena il cuore se ne fu accorto, si fece udire nell’arena. Ugo girò lentamente le sue appannate pupille dalla parte donde era uscito il grido e i suoi occhi si posarono sopra una giovinetta, vestita tutta di bianco, cogli occhi ancora dolcemente commossi e d’una bellezza così meravigliosa, che nessuna penna avrebbe potuto tratteggiare o descrivere. Era Pia de’ Tolomei. 5 6
connessure: giunture. l’abitudine: l’abitudine ad autocontrollarsi.
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Ugo provò una di quelle momentanee estasi, di quelle arcane sensazioni, che difficilmente è dato gustarne due volte nella vita. Sparì il torneo, i combattenti, il mondo intiero. Un volto pallido, commosso, una candida veste, era tutto ciò che Ugo ravvisava ancora; un debole grido, tutto ciò che in mezzo agli schiamazzi d’innumerevoli turbe, 7 ancora gli risuonava all’orecchio. Il dolore, la ferocia si dileguarono tosto 8 dalla fronte del giovine guerriero per lasciarvi invece l’impronta di una soave, tenera espressione di felicità. Il sorriso apparve sulle sue labbra, poi svanì a poco a poco; gli occhi mandarono un lampo di desiderio, l’ultimo, poi si chiusero lentamente, ed Ugo non vide, né udì più nulla. Era svenuto. Appena guarito della sua ferita, Ugo non ebbe più che un’idea. Essere amato da lei, da Pia, che gli era apparsa come un angelo, come una creatura soprannaturale: da Pia che egli omai 9 amava con tutta la violenza, con tutta la passione di un carattere energico, esaltato. Ma Ugo era povero; Ugo non aveva un nome da offrirle. Che importava? Allora le donne pregiavano più dei titoli, più delle ricchezze, il valore, la destrezza, l’audacia. Però 10 Ugo, immaginando di aprirsi colle armi un cammino agli onori, alla gloria, e rendersi così degno di lei, prese parte a tutte le lotte fra i guelfi ed i ghibellini. Sempre primo nei pericoli, egli non conoturbe: folle. tosto: subito. 9 omai: ormai. 10 Però: Perciò. 7 8
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sceva difficoltà d’impresa, che non affrontasse con entusiasmo. Sfortunatamente in uno di questi combattimenti, Ugo cadde prigioniero nelle mani di Carlo d’Angiò. 11 Carcere, ceppi, maltrattamenti: ecco il destino che toccava ai prigionieri, che non possedevano fortuna bastante per riscattare con grosse somme di denaro la loro cattività. 12 Tale doveva essere la sorte di Ugo. Egli nulla possedeva al mondo, tranne il suo valore, onde disperava di poter liberarsi. Intanto la solitudine, il silenzio, la brama degli amici, la poca luce del giorno, le lunghe notti trascorse fra la febbre dei desideri, l’amore della libertà e soprattutto l’ardentissima passione, che gli bruciava il cuore, avevano abbattuto il suo spirito e reso il suo corpo uno scheletro. Un giorno, che sdraiato sulla nuda terra, Ugo malediceva, imprecava alla sua sorte, udì aprirsi con violenza la porta del carcere. Oh! come gli palpitò il cuore nel petto! Come la speranza gli accese il sangue nelle vene! D’un balzo egli fu in piedi, ed ecco si trova dinanzi un uomo, un amico. Ugo getta un grido. « Sei tu, sei tu Rinaldo! » esclama egli come un forsennato, gettandosi nelle braccia che il conte amorosamente gli stendeva. « Sì, sono io, io che vengo a darti una buona Fratello del re Luigi IX di Francia, nel 1265 Carlo d’Angiò (1226–1285) venne investito da papa Clemente IV del regno di Sicilia, di cui entrò in possesso nel 1266 dopo la battaglia di Benevento contro re Manfredi di Svevia che cercava di impedirgli l’ingresso nel regno e che morì in quella battaglia. 12 cattività: prigionia. 11
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novella: tu sei libero. » « Libero io! libero! » — grida Ugo fuori di sé. « Oh! io credo di sognare. Lascia che stringa le tue mani. Libero! Come? Parla. Ricordati però che io non voglio dover nulla ai nemici della mia patria: preferisco le catene al ricevere da essi un benefizio. » « Calmati, calmati ed ascoltami: tu nulla devi ai nostri nemici. » « Oh! allora sei tu, sei tu che mi hai salvato. Allora debbo a te, alla tua santa amicizia, la mia libertà! » « Io, da solo, non avrei potuto far nulla. » — disse soavemente il conte. « Il riscatto, che Carlo d’Angiò ti aveva imposto, era così favoloso, 13 che le mie ricchezze non sarebbero bastate a pagarne una sola parte. Che feci allora? Radunai a me dintorno i cittadini di Siena e rivestito delle insegne del mio grado, feci a loro noto il tuo coraggio, la tua prigionia, la sorte che ti era riserbata. Alle mie parole non vi fu ciglio che rimanesse asciutto, non mano che non venisse a porgermi il suo obolo. 14 In un istante un mucchio d’oro era miei piedi: tu fosti salvo. » « Oh! amico mio, che potrò mai fare per ricompensarti? La mia vita istessa non pagherebbe la tua generosità. » « Non parliamo di gratitudine: tu nulla mi devi, perché io ho soddisfatto l’impulso del cuore. Non avresti fatto altrettanto al mio posto? E doveva io lasciar perire il mio migliore amico, il più valente guerriero che Siena racchiude? Vieni, vieni meco: nel mio palazzo troverai il riposo che ti è dovuto, un asilo sicuro, un uomo che ti amerà come 13 14
favoloso: enorme. obolo: contributo.
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un fratello ed una donna che sarà felice di chiamarsi tua sorella. » Ugo a queste ultime parole, colto da un funesto presentimento, divenne pallidissimo e retrocesse di alcuni passi. « Una donna dicesti? » — balbettò. « Tu hai dunque preso moglie? » « Sì, amico mio; ho sposata la creatura più bella, più pura che abbia mai illuminata il sole di Siena; ho sposata la donna che tu pure conosci e che più volte mi lodasti: Pia de’ Tolomei. » Cosa avvenne allora nel cuore di Ugo? Nessuno avrebbe potuto dirlo. Ma il fatto sta che egli strinse con una specie di frenesia le mani di Rinaldo, balbettando: « Mi congratulo della scelta: è degna di te » E un sorriso sinistro passò come un lampo sulle sue labbra. Mezz’ora dopo i due amici salivano le scale che conducevano all’appartamento di Pia. 15 La gentildonna li aspettava. Ella sorrise a Rinaldo e porse la mano a Ugo, dicendo con soavissimo accento: « Ringrazio Dio che vi ha salvato. » La risposta spirò sulle labbra di Ugo. Gli parve cosa ridicola mostrarle con parole l’omaggio che ciascun suo sguardo le tributava. Egli la contemplava estatico. La beltà di Pia era allora in tutta la sua pienezza. La rosa sbocciata vinceva in confronto il piccolo e nascosto bottoncino. Giammai il sorriso di lei era stato così ammaliante: giammai i suoi occhi avevano avuti sguardi tanto pieni di fascino. Rinaldo sorrideTroppo rapido, per essere verosimile, questo spostamento in appena mezz’ora dalle carceri napoletane di Carlo d’Angiò all’appartamento senese di Pia! 15
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va della confusione di Ugo. Egli non conosceva il segreto dell’amico, che questi aveva sempre custodito gelosamente in fondo al cuore, ed era troppo felice per dubitare di lui. Ugo cercò di rimettersi, baciò con rispetto le mani, che Pia gli tendeva, e si diè a parlare con quei blandi e sommessi modi, sotto cui sì bene mascherava la doppiezza, la ferocia del suo carattere. Pure nei suoi occhi divampava una tale fiamma, che mise nell’animo della gentildonna, un ignoto terrore. Quando fu solo, Ugo si abbandonò a tutta la piena del suo dolore. Colle braccia incrocicchiate, 16 versando lacrime di rabbia, il giovine passeggiava per la stanza, smaniando come belva ferita. « Fatalità — mormorava — ingiustizia della sorte! Perché ad alcuni è dato essere così felici, ed altri così sventurati? Tutto agli uni, nulla agli altri! Il sogno della mia giovinezza è dunque svanito per sempre? Oh! Rinaldo, Rinaldo, tu mi salvasti per dilaniarmi il cuore: io non ti devo più nulla! » L’alba sorprese Ugo al momento in cui, vinto dalla stanchezza, chiudeva gli occhi fatti rossi dal pianto versato, mormorando ancora una volta un nome: Pia. Da quell’istante però Ugo apparve più calmo. Al vederlo così rispettoso, melanconico, affettuoso, sarebbesi detto ch’egli avesse intieramente dimenticato il passato, e che non pensasse più che a rendersi grato al suo benefattore. Quanta forza non dovette fare a se stesso quest’uomo che internamente soffriva tutte le torture della gelosia dell’amore, dell’o16
incrocicchiate: incrociate.
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dio, per conservare sì a lungo la maschera dell’impassibilità? Dio solo avrebbe potuto dirlo. Per lo spazio di sei anni, 17 Ugo visse nel palazzo del conte, avendo un assoluto potere sul cuore di Rinaldo, respirando l’aria stessa respirata da Pia: passando lunghe ore a contemplarla senza esser veduto, divorando in silenzio le sue lacrime, le sue gelosie, i suoi tormenti. Soffriva ed aspettava! Allorché suonò l’ora della partenza di Rinaldo, il cuore di Ugo batté di gioia febbrile. Egli non partiva con lui. La sera prima il conte aveva chiamato l’amico nella sua stanza. Ugo si affrettò ad accorrere. Rinaldo col capo fra le mani pareva assorto in profonda meditazione. Ad un tratto lo rialzò e scorto il compagno diletto, sorrise dolcemente e gli stese una mano. « Mi cercavi adunque? » — chiese Ugo con accento soavissimo. « Sì, amico mio, sì; debbo parlarti a lungo. Siamo noi soli? » Ugo trasalì. « Assolutamente soli, Rinaldo. Madonna si è ritirata nelle sue camere: i valletti sono tutti al riposo ». « Meglio, meglio così. Avvicinati, Ugo, ed ascoltami attentamente ». Ugo sedette come il più flemmatico degli individui ed aspettò che Rinaldo gli svelasse intero il proprio pensiero.
Caduto prigioniero di Carlo d’Angiò certo non prima del 1266, perché questo è il primo anno in cui il re angioino guerreggia in Italia, nel maggio di quello stesso 1266, in cui viene fin dall’inizio ambientato il romanzo, Ugo non poteva in alcun modo essere stato liberato ed ospitato da Rinaldo già da sei anni. 17
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« Ugo — disse il conte dopo un istante di silenzi — domani io partirò per la guerra, ma tu non verrai meco. » Il cuore di Ugo battè con violenza. « Non verrò teco? » esclamò fingendo un vivo dolore. « Non vuoi dunque che io divida con te i pericoli, che ti possa salvare alla mia volta, come tu un giorno mi salvasti la vita? » Rinaldo sorrise tristamente. 18 « Ben altra cosa io aspetto da te, mio fedele Ugo. Quando io sarò lontano, chi veglierà alla difesa del mio palazzo, della donna che io adoro? Oh! amico mio, io non ho mai provato tanto affanno alla vigilia di una partenza, come adesso; mi sento il cuore stretto: le voci dei miei compagni d’arme mi giungono sgradite all’orecchio, soffro, ho quasi paura. » Ugo strinse in silenzio la mano del conte. « Scaccia questi tristi pensieri. » — disse quindi con dolcezza. « Non lasciarti abbattere; tu tornerai presto a Siena vincitore. » « E credi tu che Pia mi amerebbe ancora? » Ugo lo guardò sorpreso. « Qual dubbio ti agita l’anima? Perché vorresti che madonna Pia non ti amasse più? » « Perché ella in cuor suo desidera la vittoria dei guelfi. » « E via! » « Ed io sono un ghibellino. » « La diversità di parte non esclude l’amore. » « È vero, sai, è vero, perché io l’amo, l’amo più di me stesso, più di ogni cosa al mondo. E tu credi che ella mi ami del pari? » Sorrise Ugo d’un sorriso freddo e caustico, che per fortuna Rinaldo non ne sentì la forza. « Ne sono sicuro. » — rispose. « Madonna ha un’anima degna di accompagnarsi alla tua: un genio superiore al suo 18
tristamente: tristemente.
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sesso. È saggia quanto è gentile. Si ammira in lei ad un tempo la bellezza dell’anima e quella delle forme. » « Oh! come le tue parole mi scendono dolci al cuore. Nondimeno Ugo, non ti tacerò che da qualche tempo mi crucciano 19 l’animo alcuni molesti sospetti. Non ti pare che Pia sia addivenuta più taciturna di quanto lo fosse per l’addietro? Vedi come ella preferisca la solitudine alle feste, sospiri senza che se ne vedano le esterne ragioni. Se ella m’ingannasse? Se mi preferisse un rivale? Che ne dici? » « Dico che sei tu che t’inganni, Pia pensa al padre e al fratello esiliati. » « Forse hai ragione: comincio a crederti; pur nonostante, non sono interamente tranquillo. Tu solo puoi rendermi la calma. » « Io? che posso fare per te? » Ugo pronunciò tali parole con accento strano; ma la sua emozione si calmò istantaneamente ed il giovane ridivenne un freddo ascoltatore. « Più che nol pensi! » — esclamò Rinaldo. « Senti: io affido a te il mio palazzo, la donna mia. Veglia costantemente sopra di lei. Fa’ che il tuo orecchio accolga ogni modulazione della sua voce, ogni sospiro. Indaga ogni suo movimento: tu sei arguto e l’amicizia che nutri per me, centuplicherà la tua arguzia. 20 Parlale spesso di me, falle comprendere come io l’ami più di quello che mi vanti d’amarla, dille che non è mia la colpa se vado a combattere contro i suoi fratelli: giurale che saprei prima morire, che insidiare alla vita di un Tolomei. Nota se quando le parli di me tace o sospi19 20
crucciano: tormentano. arguzia: acutezza.
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ra; se te lo proibisce oppure se lo desidera. Perora insomma per me, 21 e quel poco che io ho fatto per te, l’avrai ricompensato oltre ogni misura. Accetti? » Ugo si era fatto livido. Tutto il suo corpo era agitato da un tremito convulso. « Non sei tu il mio benefattore? Non sono io lo schiavo di ogni tua volontà? » — diss’egli con accento sconvolto, sotto cui mal si dissimulava la gioia. Rinaldo non vide la pallidezza di lui, la sua terribile agitazione; ma quand’anche l’avesse scorta, l’avrebbe attribuita a qualunque cosa all’infuori del vero. « Parli così? » — rispose. « Non sia mai! Tu sei l’amico, il fratel mio: perdonami se ho contato troppo sul tuo desiderio di essermi utile. » E la voce di Rinaldo tremava per l’emozione. « Te ne sei avuto a male? » — proruppe Ugo. « Oh! non vorrei per tutto l’oro del mondo averti disgustato. Parti tranquillo: io veglierò sopra di lei. M’intendi? Non vi sarà sguardo, parola, sospiro, che sfuggirà alla mia vigilanza. Vedi? non mi affliggo nemmeno nel lasciarti, quando so che anche qui rimanendo posso contribuire alla tua felicità. » « Possa Dio benedire il tuo cuore riconoscente. » — esclamò Rinaldo in un indicibile trasporto di riconoscenza, stringendo l’amico fra le sue braccia. Ugo ricambiò gli amplessi del conte e quando uscì da quella stanza, il suo volto pareva trasformato. « Mi sembra di esser preso dalle vertigini. » — pensava. « Ah! Rinaldo, da te stesso hai firmata e contrassegnata 22 la tua sentenza. Oh! se Pia mi amasse, 21 22
Perora insomma per me: Parla insomma in mio favore. contrassegnata: controfirmata.
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come sarei vendicato. » Ugo sorrise a questa seducente idea. Egli sperava, sperava che la sua ardente tenerezza, la passione sostenuta per tanti anni, l’avrebbero esaltato nel cuore di lei! « In ogni modo, concludeva con un sorriso sinistro, se le mie speranze andassero fallite, a peggio andare, 23 Pia è nelle mie mani! » Ecco qual era l’uomo, a cui il conte Rinaldo della Pietra aveva affidato l’onore della sua casa, di sua moglie!
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a peggio andare: male che vada.
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Capitolo terzo L’insidia Scendeva malinconica la sera. In cielo stellato, placida luna sembrava promettere il lieto fine di quelle lotte feroci, immortali, mentre illuminava le belle contrade di Siena, in quell’ora affatto deserte. Pia de’ Tolomei stava seduta presso ad un balcone, che guardava nel giardino, ombreggiato da grandi alberi, i cui rami melanconici e neri, acquistando dai raggi della luna un aspetto ancor più solenne, producevano nell’animo della gentildonna un senso penoso di mestizia, contro la quale chiedeva persino un conforto all’eco dei suoi sospiri, che le sollevavano il petto agitato. Una lampada ad arabeschi, posta su di un tavolino illuminava debolmente la stanza. Ma i suoi raggi cadendo verticalmente sul volto della gentildonna, permettevano di notare il pallore delle sane guance, agitate da spasimi 1 nervosi. Fino dal momento in cui Rinaldo era partito, Pia dei Tolomei si era ritirata nel silenzio di quella stanza, vietandone l’ingresso a tutti, onde aver piena libertà di piangere e di sospirare. Dicendo però che la gentildonna rifiutava di farsi visibile a chicchessia, 2 m’inganno. Vi era un uomo al quale non veniva mai negato l’accesso di quel santuario di fedeltà coniugale; vi era un uomo che nel palazzo del conte Rinaldo
1 2
spasimi: spasmi. a chicchessia: a chiunque.
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della Pietra godeva un’autorità da padrone. Costui, il lettore l’avrà già indovinato, era Ugo. Egli si presentava in ogni ora del giorno nelle stanze di madonna Pia, colla libertà di un uomo che si sente munito di uno speciale privilegio. Pia de’ Tolomei non ne moveva lagno né si avvisò mai 3 d’impedire quelle visite. Il suo Rinaldo l’aveva affidata ad Ugo; Pia ubbidiva a Rinaldo. Pure la gentildonna continuava a provare suo malgrado una specie di diffidenza verso il giovane. La presenza di lui arrestava le sue lacrime, frenava i suoi sospiri, turbava il suo spirito. Occupata intieramente la sua anima dell’immagine del marito, qualunque altro discorso le riusciva indifferente, disgustoso, benché ancora non sapesse come sotto le parole di Ugo covasse una passione ben più ardente del platonismo, 4 dell’indifferenza da lui vantata. Erano passati sei giorni dalla partenza del conte, e dalle labbra di Ugo non era ancor uscita una sola parola, che potesse far comprendere le sue speranze. Il giovane cercava con fine arte d’introdursi nel cuore di lei; scandagliava a passo a passo il terreno, mostravasi a seconda dei momenti or mesto, or vivace, valendosi di quel linguaggio fiorito e brillante, particolare alla galanteria di quei tempi, ma che è altresì il linguaggio, di cui la giovinezza appassionata di tutti i tempi riveste i magnifici deliri della poesia, e che scenderà sempre direttamente all’anima di una donna. 3 4
non ne moveva … mai: non se ne lamentava né pensò mai. platonismo: distacco dagli amori sensibili.
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Bisognava sentire con qual modulazione di voce carezzevole, Ugo parlava della sua infanzia, della sua giovinezza, inframmettendo ai discorsi indifferenti 5 le rimembranze di quegli anni, in cui Pia fanciulla e giovinetta rallegrava le paterne stanze. E qui soffermavasi con compiacenza, parlando con tanta soavità dei primi innocenti palpiti, delle prime simpatie, che la gentildonna, senza accorgersi dell’arte, 6 tutta si commoveva. Ugo credette venuto l’istante opportuno per dichiararsi, per far suo quel tesoro il cui possesso lo 7 sospirava con tanto ardore. In quella sera in cui Pia stava seduta presso al balcone, assorta nel pensiero del suo Rinaldo, Ugo aveva deciso di tentare l’ultimo colpo. Egli si fece annunciare alla gentildonna da un paggio. Pia de’ Tolomei, distolta bruscamente dalle sue dolci meditazioni, guardò il paggio con aria quasi severa; esitò un istante prima di rispondere, perché il suo cuore batteva con violenza senza che ella potesse spiegarne il perché. « Venga. » — disse infine con voce fievole. Si aperse il cortinaggio dell’uscio ed Ugo, vestito secondo il leggiadro aggiustamento 8 di quei tempi, si avanzò verso Pia e piegando un ginocchio a terra le baciò con rispetto la mano. La gentildonna gli additò con la massima cortesia di sedere. Il paggio si era ritirato.
indifferenti: senza importanza. dell’arte: della tecnica di seduzione. 7 lo: egli. 8 aggiustamento: abbigliamento. 5 6
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Ugo tutto assorto nella contemplazione di Pia, non osava più parlare. Egli che non era mai stato timido, tremava davanti a lei come un fanciullo: sentiva il cuore battergli febbrilmente e non ricordavasi più alcune di quelle frasi, che si era preparato per sedurla. Pia de’ Tolomei non fece alcun movimento per interrompere quell’imbarazzante silenzio. Ella pareva ricaduta nelle sue riflessioni e teneva i bellissimi occhi rivolti al giardino. « Madonna, disse infine Ugo con un leggero fremito nella voce, perché sempre così pensierosa, accanto a quel balcone? Il luogo è assai mesto. » « Ma parla un linguaggio arcano al mio cuore. » — rispose semplicemente Pia de’ Tolomei. « Da questo balcone io scorgo le rovine del mio palazzo e dai quei rottami rivive una potenza di dolore melanconico: il passato mi scorre dinanzi come un sogno; mi rivedo fanciulla, sorridente, felice: cessano gli spasimi, e le mie lacrime diventano più dolci. » Ugo scosse con tristezza il capo e riprese con fine malizia: « A me sembra invece che da quelle rovine non dovrebbero uscire che storie di affanni e di odio da incitare al pianto, alla vendetta. » Pia de’ Tolomei rialzò il suo leggiadro viso bagnato di lacrime, fissando un lungo sguardo sul giovane, come se avesse voluto penetrargli nell’anima. « Madonna, continuò Ugo con accento peritoso 9 e commosso, ho da darvi alcune nuove, che non vi giungeranno al certo sgradite. I fiorentini ci stringono colle armi, e fra poco entreranno in Siena vinci9
peritoso: timido.
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tori. » « E chiamate questa una buona nuova? » — l’interruppe Pia visibilmente turbata. « Non vi è adunque caro, madonna, riabbracciare vostro padre, vostro fratello, e vederli vendicati? » Pia de’ Tolomei lasciò sfuggire un’esclamazione di dolore e di sorpresa insieme. « Ugo! » — disse quindi con severa gravità — « dimenticate dunque che sono la sposa di Rinaldo, dell’uomo a cui Siena affidò il comando delle armi? E volete che io speri la vittoria dei fiorentini, che io brami la rovina, il disonore dell’uomo, di cui porto il nome e che possiede tutta l’anima mia? » Ugo rimase attonito a quelle parole che non si aspettava, ma non essendo uomo da lasciarsi facilmente avvilire e smuovere da un progetto, riprese: « Dunque nulla v’importa di vostro padre, di vostro fratello? » « Ugo, sono queste parole da dirsi ad una povera donna che ha il cuore angosciato? Nonostante 10 vi risponderò. Dal giorno in cui giurai fede al mio Rinaldo, la mia famiglia cessò di essere quella de’ Tolomei, per divenire quella del signore della Pietra. In quel giorno i miei doveri di figlia cessarono per dar luogo a quelli di moglie. Amo mio padre e mio fratello, prego Dio perché li salvi da ogni pericolo, ma fra essi e Rinaldo, Dio stesso non mi permetterebbe di esitare nella scelta. » Ugo aggrottò le ciglia, si fece pallido, pur tuttavia cercando di contenersi: « Madonna — disse umilmente — voi siete un angelo, la più celeste creatura che il cielo abbia mai inviata a compagna di un uomo. Oh! perché 10
Nonostante: Ciò nonostante.
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Rinaldo non vi ama del pari, del pari non vi stima e benedice! » « Come, che volete voi dire? A che intendono 11 le vostre parole? » — esclamò Pia de’ Tolomei, visibilmente commossa, 12 rivolgendo di nuovo i suoi occhi sul volto di Ugo, che trasalì nel fissarli, come si trasalisce al cospetto di un interrogante che sta per istrappare i più colpevoli segreti del cuore. « Madonna — replicò Ugo con un riso sdegnoso, avvicinando vieppiù 13 il suo seggiolone accanto a quello di Pia — sapete voi perché io, unico amico di Rinaldo, non l’abbia seguito in guerra? Sapete perché egli mi abbia fatto padrone del suo palazzo, dei suoi vassalli, di voi? Non tremate, angelica creatura, egli piuttosto dovrebbe tremare di vergogna, giacché di voi sospetta, giacché teme che voi gli preferiate un altro. Sì, di voi bella e pura, che basta guardarvi una sol volta per vedere come il vostro volto riveli un candore singolare ed ispiri virtù ed entusiasmo; basta udire un accento della vostra voce perché i cuori più freddi si accendono, si ammansano 14 i più feroci; di voi che quando passate per le vie vi guardano con amore le donne, con rispetto i grandi, il popolo con gioia! Come mai un uomo che vi possiede può annebbiare con un solo sospetto tanta fama, tanta virtù, tanta delicatezza? » Pia de’ Tolomei che aveva ascoltato con profonda attenzione le parole di Ugo, balzò in piedi appena A che intendono: A cosa mirano. commossa: turbata. 13 vieppiù: di più. 14 si ammansano: diventano mansueti. 11 12
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egli ebbe finito e lampeggiando fiamme dai neri sguardi. « Voi mentite! » — esclamò. « Voi insultate il vostro signore. Come ardite parlare? E come ho potuto ascoltarvi finora? » « Potreste uccidermi, madonna — interruppe Ugo con accento di profonda tristezza — ma io non vi ho detto che la pura verità. » « Basta, Ugo, basta, andate: i vostri detti mi giungono sgraditi. » Ma Ugo non aveva alcuna voglia di ritirarsi e veduto come Pia de’ Tolomei fosse di nuovo ricaduta sul seggiolone, coprendosi il volto con le mani, le si avvicinò continuando: « Madonna, non ve l’abbiate a male, perdonatemi se l’affetto che nutro per voi mi spinse a così parlare; ma quando sentii sulla vostra bocca parole di fede, ed amore, di abnegazione per lui, per lui che vi disconosce, non fui più padrone di me stesso, non seppi frenare la mia emozione. » « Vi ringrazio delle vostre premure, ma andate. » — rispose Pia con amarezza, senza sollevare il capo. « No. Madonna, desidero che mi ascoltiate, desidero che sappiate come non soltanto adesso io abbia imparato ad apprezzarvi. » Esclamò Ugo con voce concitata, mentre i suoi occhi scintillavano di tutta l’indomata energia della passione. « Vi ricordate, madonna, del giorno in cui fui ferito sotto ai vostri occhi, in un torneo? » « Non lo ricordo. » — Balbettò Pia macchinalmente, ancora colpita dalla dolorosa confidenza del giovane, sebbene ella avesse sospetto che si trattasse di un’insidia di Ugo. Il giovane si morse le labbra: « Ah! io non lo dimentico più quel giorno! Il grido che uscì dalle vostre labbra, mentre io cadeva a terra bagnato di sangue, mi rimase impres-
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so nell’anima. Da quel giorno io vi amai; sì, lasciate che ve lo confessi. Oh! voi lo sapevate che io vi amava! Una donna non s’inganna mai. Non c’era bisogno che io mi gettassi alle vostre ginocchia: voi sapevate che il mio cuore non mi apparteneva più, io ve l’aveva donato e voi l’avevate tacitamente accettato. » Pia de’ Tolomei fece per alzarsi, imporgli silenzio, gridargli che tutto ciò era una vile menzogna, ma le mancò il coraggio. D’altra parte Ugo fatto ardito del suo potere, continuava: « Oh! quanto soffrii per lunghi mesi: quanto! Pure mi arrideva la speranza di potervi fare un giorno mia sposa, la sovrana di tutti i miei pensieri, quando disgraziatamente fui fatto prigioniero di Carlo d’Angiò. Un giorno mi si annunzia la mia libertà, sorrido al pensiero di rivedervi, ma il sorriso non tardò ad agghiacciarsi sulle mie labbra. L’uomo che mi aveva salvato, mi aveva rapito ben più della libertà, della vita, togliendomi l’unica donna che io amassi al mondo! Togliendomi voi! » « Tacete, Ugo, tacete. » « No, ho continuato e voglio finire. Questo segreto mi soffoca: è troppo che io soffro. » Pia de’ Tolomei per la terza volta tentò di nuovo di alzarsi, imporgli silenzio, ma Ugo non l’intendeva 15 più. Egli continuò con accenti e gesti febbrili: « Oh! quanto odiai quell’uomo: quanto! Pure non osava separarmi da lui, per poter vivere a voi vicino. Cos’è stato di me in tutti questi lunghi anni, non saprei dirlo. Il sole ha illuminata la terra? Il cielo è sempre stato sereno? Non lo so. Per me il sole ed il cielo eravate voi. La mia vita è stata una battaglia continua, ad 15
intendeva: ascoltava.
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ogni ora, ad ogni minuto, un supplizio senza nome, una tortura eterna. Quante volte vagheggiando il vostro bel volto, io smaniava nel vederlo fatto pallido dai baci di un altro. O Pia, perché non vorreste concedere a me uno solo di quei baci divini? » La gentildonna che aveva sempre tenuto il viso nascosto fra le mani, alle ultime parole di Ugo, si alzò lentamente e indietreggiò di alcuni passi, ma senza tremare. Un coraggio sovrumano le brillava negli occhi, in tutta la persona: le narici aperte sussultavano, i capelli sciolti le fremevano dietro le spalle. Viva o morta ella era risoluta a restare fedele a Rinaldo, a custodire gelosamente l’onor suo. « Ugo, io vi ho ascoltato attentamente, diss’ella con voce fremente, avviluppando il giovane con un’occhiata d’indicibile sprezzo, 16 perché volevo vedere fino a qual punto arrivasse la vostra infamia. Così, dopo aver insultato il più nobile, il più onesto degli uomini, facendolo complice di una vigliaccheria, supponendomi tanto credula da prestar fede alle vostre maligne insinuazioni, credevate di abusare del potere che un uomo leale, un uomo di cuore, incapace di pensare qual anima bassa, qual vile serpe si celasse sotto le vostre spoglie, vi affidava, insultandomi colle vostre sfacciate proteste di amore? Ma io vi aveva da lungo tempo letto in cuore: i vostri infami raggiri mi sono noti. Ah! impallidite? Vi rampogna la coscienza e paventate il fulmine 17 del Dio delle vendette? Uscite Ugo, sprezzo: disprezzo. vi rampogna … il fulmine: vi rimprovera la coscienza e temete la punizione. 16 17
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uscite subito e lasciatemi in preda al mio affanno. » « Madonna, ripigliò il giovane con voce interrotta, vi assicuro che quanto vi dissi a riguardo di Rinaldo… » « È una menzogna, Rinaldo mi ama e mi stima, come io amo e stimo lui: le vostre accuse non basteranno a disgiungere le nostre anime. Io potrei ottenere una riparazione ai vostri insulti; ma l’unica vendetta che vuolsi fare 18 di voi è il disprezzo. Uscite. » Ugo scoppiò in un riso selvaggio. Col volto scomposto, gli occhi iniettati di sangue, pareva una tigre in atto di divorare la sua preda. « Uscire, ah! ah! Pensate, o donna, che siete in potere di un uomo che non mancò mai di raggiungere il suo scopo, di un uomo assetato d’amore. » « Sciagurato, osereste? » « Si osa tutto, quando si ama come vi amo io. Ma non comprendete che tutte le fiamme dell’inferno si sono accese nel mio cuore? » « Dite bene: dell’inferno, giacché non vi è che un demonio, che possa avervi suggerita una tale infamia. Voi mi vantate il vostro potere? Io non sono in poter vostro, che la vita e la morte stanno nelle mie mani: però 19 non vi temo! » « Ah! voi mi sfidate! voi mi odiate! » « Non vi sfido, né vi odio: vi disprezzo. Uscite. » « Ascoltatemi, ascoltatemi per pietà. È un tormento atroce il mio: voi non potete comprendere quanto io soffra in quest’istante. Dopo tanti anni di sacrifici, di lotte, di affetto, sperava di rinvenirvi meno crudele, di ottenere da voi una parola di conforto, ed invece mi colmate di disprezzo, mi scacciate dalla vostra 18 19
che vuolsi fare: che si deve fare. però: perciò.
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presenza. È possibile che io sia dannato a tanta disperazione? Madonna, dite che esigete, che posso fare per dimostrarvi tutta la forza del mio amore? » « Togliervi dalla mia presenza e non comparirvi mai più dinanzi. La vostra audacia è stata somma, ma somma è altresì la mia indignazione. Lasciatemi. » Ugo fremette! La sua fronte si coprì di rossore: « Ah! così ricambiate chi ha tutto affrontato per possedervi! » — esclamò. « Guardatevene, o donna. Se finora io fui un amante sommesso, supplichevole, ora sarò un uomo che si vendica, un uomo che colpisce spietato, quando il suo braccio si leva. Rinaldo non è qui per difendervi, per salvarvi. » Ed Ugo ridendo di un riso convulso e sdegnoso si avvicinò a Pia. Questa non si mosse. Colle braccia incrociate, il volto pallido ma calmo, gli occhi fissi cupamente immobili sul viso di Ugo, ella ripeté con voce tremendamente pacata: « Ugo, non vi accostate: lasciatemi. » A questo suono che conteneva ad un punto 20 una suprema preghiera ed una suprema minaccia, il giovine impallidì, ristette, quasi inchiodato da quello sguardo fisso sinistramente su di lui. Perché ad un tratto Ugo si getta in ginocchio dinanzi alla gentildonna ed abbassa il capo fino a sfiorarne la terra? Perché implora il perdono di lei che ha tanto offesa e minacciata? Perché il sudore bagna la sua fronte e le sue membra sono agitate da un tremito convulso? Nell’abbassare gli occhi al suolo, Ugo scorse un foglio che era caduto dalle pieghe della veste della gentildonna. Il primo pensiero del giovane fu che 20
ad un punto: al tempo stesso.
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quel foglio appartenesse ad un rivale. Cotesta 21 idea durò un lampo, ma comprese un’eternità di tormenti per l’anima di quello scellerato. Non un grido però, non una parola uscì dalle sue labbra, ma il suo pallore metteva i brividi. Il secondo pensiero fu d’impadronirsi di quel foglio senza essere scorto. Ma in qual modo? Dopo una breve lotta di sentimenti, trovò miglior pensiero gettarsi ai piedi di quella donna, che ormai odiava più di quanto avesse mai amata ed alla quale giurava in cuor suo crudele ed efferata vendetta: « Perdono, madonna, perdono io era un pazzo. » — diss’egli con voce umile e faccia dimessa, raccogliendo prestamente e senza essere veduto il foglio che giaceva ai piedi della gentildonna. Pia de’ Tolomei sempre pallida, indignata, non fece che stendere un braccio verso la porta. Ugo comprese quel gesto. Livido di rabbia, ferito dolorosamente al cuore ed all’orgoglio, egli si rialza e cogli occhi bassi, la persona vacillante, esce da quella stanza. Ma non appena il cortinaggio si chiuse dietro di lui, Ugo drizzò fieramente il capo: il suo viso prese un aspetto feroce, spaventevole; un rauco grido uscì dalla sua gola, poi balbettò coi denti stretti e la voce interrotta: « A noi due Pia de’ Tolomei! Tu mi disprezzi, ma io ti odio! Oh! ti odio e non avrò pace, fino a che non mi sia vendicato! Finora sono stato un uomo debole, indeciso; d’ora in avanti sarò un demonio. Ed i demoni odiano gli angeli. Guai a te, Pia de’ Tolomei, guai a te! »
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Cotesta: Codesta (questa).
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Capitolo quarto Balduccio Ugo stava per salire le scale che conducevano al suo appartamento, quando s’incontrò faccia a faccia con un famiglio 1 di bassa statura e il cui triste ceffo, 2 veduto alla luce rossastra di una torcia, che illuminava la scala, dava l’idea del diavolo in persona, che stesse lì, al varco, ad aspettare un suo favorito. « Sei tu, Masaccio? » — esclamò Ugo passato il primo movimento di sorpresa. « C’è qualcosa di nuovo? » « Sì, messere. È giunto al palazzo un corriere del conte, con un piego 3 per voi. Io lo condussi nella solita casetta da voi indicatami per gli appuntamenti notturni e sono corso qui a cercarvi; già stava per entrare nelle stanze di madonna. » Masaccio aveva un fare beffardo, che produsse una strana sensazione su Ugo. Non sentì, come si potrebbe credere, un moto di collera o d’irritazione contro il suo famiglio; all’opposto provò una specie di apprensione. Tuttavia la sua fisonomia si conservò assai calma. « Conoscesti il corriere? » — domandò. « No, messere, ma è strano: avrei giurato di vedermi dinanzi il fratello di madonna Pia, messer Gualtiero. » Ugo trasalì e guardò attentamente il servo: « Gualtiero, dicesti? E via, sei pazzo. » « Lo credo bene, messer Ugo. Ma affrettatevi, giacché il famiglio: servo. ceffo: muso. 3 piego: plico. 1 2
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messaggiere 4 vi aspetta impaziente. » « Vado; la parola d’ordine? » « È la solita: Fedeltà… » « Alla Lupa. 5 Sta bene: prendi questi due fiorini per te. È inutile che ti raccomandi il silenzio. » « Messere io non voglio penetrare i vostri segreti, se non vi conviene parlarmi. Voi mi pagate ed io vi servo. Poco m’importa di sapere la ragione per cui invece di ricevere qui, a palazzo, i messaggeri del conte, me li fate condurre sì lontano. » Ugo non credette opportuno di rispondere all’osservazione del famiglio. « Presto, disse, corri a prendere la mia spada ed il mantello. Qui ti attendo. » « Sì, messere. » « Il morello è sellato? » « Da mezz’ora, messere. » « Benissimo: ricordati di vegliare attentamente fino al mio ritorno. » « Ai vostri ordini, messere. » Mentre Masaccio saliva le scale correndo, Ugo trasse con un fremito il foglio che aveva raccolto ai piedi di Pia. Mentre l’apriva un sudor freddo imperlava le sue guance. Ma appena scorse le righe, la sua emozione si calmò come per incanto ed un infernale sorriso passò sulle di lui labbra. Il biglietto era vergato 6 da Gualtiero de’ Tolomei e così diceva: « Sorella mia, io sto per muovere incontro a Siena, incontro alla terra dei miei padri. Oh! non è desìo 7 di vendetta quello che mi sprona a combattere contro i miei fratelli, ma desìo di rivedere anco 8 una messaggiere: messaggero. Alla Lupa: Alla Lupa, cioè a Siena che, come Roma, ha una lupa per simbolo. 6 vergato: scritto. 7 desìo: desiderio. 8 anco: ancora. 4 5
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volta le torri predate dei miei avi, il sepolcro di mia madre e tu, 9 sorella mia. Prega il Cielo per me. » Ugo stette alquanto pensieroso dopo la lettura di quel biglietto, quando comparve Masaccio col mantello e la spada. Ugo rimise il foglio nella borsa, si abbigliò con impazienza e uscì guardingo dal palazzo. Il cavallo attaccato ad un anello infisso nel muro, scalpitava con impazienza e mordeva il freno. Ugo lo slacciò con prestezza, balzò in sella, strinse lievemente i ginocchi, allentò le redini e partì come un lampo. La notte era calma, ma oscura. La luna si era celata dietro alcune nubi. Ma il cavallo di Ugo conosceva la strada e camminava d’un galoppo regolare e preciso. Intanto il giovane mormorava: « Oh! Pia de’ Tolomei, per tanti anni io sono vissuto sepolto nel mio amore per te; d’ora in poi vivrò raccolto nel mio odio. Ad un tuo cenno io avrei fatto qualunque cosa, anche il bene: ora non ho più che un desiderio: fare il male. Tu mi scacciasti dalla tua presenza con amaro, insultante disdegno: un giorno ti vedrò ai miei piedi implorare pietà. » Così fantasticando, Ugo giunse ad una straducola angusta e tortuosa in fondo alla quale scorgevasi una casa isolata, dove il giovane non entrava mai che in ore tenebrose, quando l’intera città riposava quieti sonni. Benché la notte fosse, come dissi, oscura, pur nonostante Ugo scorse subito, appoggiato accanto alla porta della misteriosa casetta, un guerriero di alta statura, che teneva colla destra le briglie di un cavallo da guerra. 9
e tu: e te.
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Scorgendo il nuovo arrivato, il guerriero fece un moto per alzarsi e andargli incontro, ma Ugo lo prevenne. Con un balzo fu a terra e avvicinatosi al soldato pronunziò a voce bassa: « Fedeltà… » — « Alla Lupa. » — rispose il guerriero. Poi riprese: « Messere, è quasi un’ora che sono qui ad aspettarvi. Il capitano Rinaldo aveva affidato il messaggio a Monfalcone, coll’ordine di portarlo subito al palazzo; però Monfalcone desiderava prima di tutto vedere la donna del suo cuore, e cedette a me l’incarico, facendomi giurare che il messaggio non l’avrei consegnato che a voi in persona. Ma giunto al palazzo del capitano il vostro valletto volle per forza qui condurmi. » « Tali erano i miei ordini e il capitano me ne saprà grado. » — rispose semplicemente Ugo. « Ma lega i cavalli a quell’anello ed entriamo in casa: qui fa un buio d’inferno e non posso leggere. » Così parlando Ugo trasse una chiave dalla borsa, aprì la rozza porta della casetta, prese la mano del guerriero, lo fece entrare e rinchiuse. Rimasero al buio perfetto. Ma Ugo era pratico del luogo e sempre tenendo il soldato per mano, lo fece salire una lunga scala, in cima alla quale trovarono un’altra porta, che il giovane spinse leggermente col ginocchio. Allora la mano d’Ugo abbandonò quella del soldato per accendere una lampada, il cui chiarore permise di vedere una stanza di pochi piedi quadrati, i cui mobili consistevano in un tavolo, due sedie ed un armadio. Ugo additò al soldato una sedia, poi si diede a guardarlo attentamente. Masaccio non si era ingannato. Quel soldato aveva una strana somiglianza con Gualtiero de’ Tolomei.
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Ugo non fe’ motto. 10 Prese il piego suggellato 11 di Rinaldo e l’aprì. Il cuore del giovane batteva con violenza. Il conte della Pietra scriveva: « Amico e fratello, ho triste nuova a darti. L’armata di Siena fu completamente disfatta sulle alture di Colle. 12 Il mio esercito è in fuga: perduta la speranza di una rivincita. Ma non mi addolora tanto questa disfatta quanto di aver visto Gualtiero de’ Tolomei cadere sotto i colpi dei miei soldati. Io sono innocente della di lui morte, ma peno uno strazio d’inferno. Come presentarmi a Pia? Sono giunto con pochi fidi 13 alle mura della città, ma non ho coraggio di dirigermi al mio palazzo. Ho timore di comparire in faccia a madonna e ch’ella mi legga in volto il dolore per la morte del suo diletto fratello. T’invio pertanto questo messaggio, perché tu mi raggiunga al palazzo del Comune, dove io passerò la notte. Vieni; ho bisogno di consiglio e di coraggio. Rinaldo della Pietra. » Ugo lesse in un batter d’occhio il foglio vergato dall’amico, e un’onda di sangue gli salì al capo. Per fortuna la stanza era scarsamente illuminata e il di lui volto rimaneva nell’oscurità. Tremante come non aveva mai tremato, quest’uomo che la morte non aveva mai veduto impallidire; egli pensava: « Rinaldo è qui, in Siena; dunque la mia vendetta mi sfug-
non fe’ motto: non disse parola. il piego suggellato: il plico sigillato. 12 La battaglia di Colle di Val d’Elsa avvenne l’8 giugno 1269, cioè oltre tre anni dopo la seconda metà del maggio 1266 in cui erroneamente la colloca la Invernizio. 13 fidi: fedeli. 10 11
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ge. E se Pia parlasse? » Ugo stette alquanto pensieroso; poi ad un tratto battendosi con forza la fronte: « Ho trovato! » — esclamò a voce alta. E fra sé: « Pia de’ Tolomei, tu non andrai lungo tempo orgogliosa del tuo disprezzo: ho la vendetta nelle mie mani. » Ugo era uno di quei delinquenti, i quali una volta meditato un delitto, vanno fino in fondo, chiudendo gli occhi e le orecchie ad ogni rimbrotto della coscienza. « Ebbene, che decidete, messere? » — si azzardò a dire il soldato, vedendo Ugo ricadere nelle sue riflessioni. « Ma, decido, decido… Dimmi come ti chiami, amico mio? » « Balduccio. » Ugo lo guardò fissamente, come se volesse magnetizzarlo collo sguardo: « Ebbene, Balduccio, decido di raggiungere il capitano al palazzo del Comune; ma Rinaldo a quest’ora non deve esserci ancora: è inutile che mi affretti. Balduccio, se io non m’inganno, tu devi aver sete o desiderio di raggiungere i tuoi compagni onde consolarvi della disfatta 14 toccatavi, giuocando tutta la notte ai dadi: guarda, io ti leggo in cuore. » Balduccio arrossì: « Che io abbia sete è verissimo, non lo nego, rispose, ma in quanto a raggiungere i miei compagni: a che pro? La mia borsa è affatto vuota. » Ugo sorrise ed alzatosi trasse dall’armadio un boccale di vino prelibato ed un bicchiere: « Tieni e bevi a tua posta, 15 amico mio: questo non t’impedirà di discorrere. » « Al contrario. » E Balduccio si versò
14 15
disfatta: sconfitta. a tua posta: a tuo piacere.
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senza complimenti parecchi bicchieri, che versò l’un dopo l’altro nel suo ampio gorguzzule, 16 e quando si fu rinforzato il sangue di quel fragrante vino, si sentì il cuore allegro ed esultante e divenne più ciarliero. Ugo non lo perdeva di vista. Egli trovava nel soldato la fisonomia gradevole di un uomo che sembrava dirgli: se me lo comandaste, io sarei pronto per voi a gettarmi nel fuoco. « È dunque vero, amico mio, che siete stati battuti? » — domandò Ugo dopo alquanto silenzio. « Narrami un po’ quanto avvenne. » « Eh! la fu una gran brutta giornata, messere: buon per voi che non c’eravate! Fulmini e sangue! se aveste veduto quale carnificina! Ma giuro a Dio che, se mi capita nelle mani uno di quei guelfi, lo vo’ scorticare vivo. Per l’inferno: io che sperava di far fortuna alla guerra, me ne torno un povero soldato di ventura come prima. Sono tanti anni che combatto ed il demonio non mi ha mai assistito. » « Hai dunque dell’ambizione? » « Molta: ho sempre fantasticato di far fortuna. » « Ebbene sta di buon animo, amico mio. » Disse Ugo mantenendo un tenor blando 17 di voce che seduceva ed incoraggiava. « Tutto a questo mondo e soprattutto la fortuna degli uomini è subordinata ad avvenimenti che non si possono prevedere. » Balduccio lo guardò con fare attonito. 18 Ugo proseguì: « Il capitano, per esempio, mi ha confidato un piccolo piano pel quale mi abbisogna un uomo di destrezza, di coraggio, di valore. Io scelgo te, perché mi piaci, ed ecco che la tua fortuna è fatta. » gorgozzule: gola. un tenor blando: un tono dolce. 18 con fare attonito: con espressione stupita. 16 17
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Balduccio era un po’ brillo: le parole sataniche di Ugo finirono d’inebbriarlo. Egli rivolse al giovine uno sguardo sfavillante di cupidigia, balbettando: « Messere, voi non volete prendervi giuoco di me, è vero? » « Perché dovrei prendermi giuoco di te, amico mio? » — soggiunse Ugo con tutto l’aspetto della franchezza e della generosità. « Soltanto — aggiunse abbassando vieppiù la voce, quantunque nessuno potesse udirlo, avvegnaché 19 quella casetta fosse vuota, disabitata — debbo avvertirti di una cosa. Quando si fa società con me, bisogna essere muti come la pietra di un sepolcro, perché un’indiscrezione qualunque, per quanto piccola, è sempre seguita a breve intervallo e con sicurezza da un colpo di pugnale. » Il soldato fissò su di Ugo uno sguardo che rivelava un uomo risoluto, poi stese con atto solenne una mano: « Giuro sulla fede dei miei padri, pel sangue dei miei fratelli, che se voi vi servite di me, io saprò ubbidirvi in tutto e tacere. » Ugo sorrise: « Va bene, credo al tuo giuramento ed io in ricambio ti prometto, se sarò contento di te, di fare la tua fortuna per tutta la vita. » L’occhio del soldato scintillò. « Del resto la semplicità della tua parte ti rassicurerà sul buon esito dell’affare. Ascoltami. Tu sai che io sono l’unico amico, il confidente del capitano Rinaldo. » « Mel disse Monfalcone. » « Lo scudiero del conte ti avrà pur detto come messer Rinaldo abbia per consorte una Pia de’ Tolomei, il cui padre e fratello seguono la parte guelfa. » « Il so. » « Or bene, il capitano Rinaldo mi scrive che 19
avvegnaché: benché.
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Gualtiero de’ Tolomei è rimasto ucciso sul campo di battaglia. Sebbene questa morte, per ragioni di Stato e di parte abbia colmato di gioia il capitano, egli teme l’odio di madonna che adora. Bisogna agire in modo che Pia de’ Tolomei non sappia subito la morte del fratello; per questo conto sopra di te. » « Non comprendo. » « Vado dritto al mio scopo. Tu assomigli perfettamente a Gualtiero de’ Tolomei. Or bene, tu scriverai, o meglio scriverò io stesso per te, giacché per una vera fortuna conosco il carattere 20 di Gualtiero, a madonna Pia, chiedendole un abboccamento 21 segreto, notturno, fingendo temere l’arrivo di Rinaldo, che però è a parte di tutto. 22 Tu le dirai che la tua armata è vincitrice, che fra poco entrerete in Siena, che hai voluto vederla prima per condurla in salvo avanti che sia col marito bandita da Siena. Tanto, non dubitare, ella non ti seguirà: sarà abbastanza felice di saper salvo il fratello; e noi intanto avremo tempo per prepararla a ricevere la triste nuova della morte di lui. » « Ah! incomincio a capire. » « Ricordati che per sostenere bene la tua parte, abbisogna molta astuzia e coraggio. » Balduccio lasciò sfuggire un sorriso d’orgoglio. Egli era ben lungi dal sospettare che si tramava un’insidia contro la gentildonna; anzi rimase convinto di avere dinanzi a sé un uomo completamente devoto al capitano Rinaldo e che ubbidiva senza dubbio ad un sentimento generoso. il carattere: la scrittura. abboccamento: incontro. 22 che però … tutto: che invece conosce tutto. 20 21
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Date alcune altre istruzioni al soldato, Ugo si alzò. Adesso che aveva combinato il suo piano infernale, in cui doveva precipitarvi una vittima innocente, Ugo sentiva la necessità di correre al più presto verso l’amico. « Balduccio, io vado. Tu non muoverti più da questa casa. Verrò domattina a darti nuove istruzioni. Se hai sonno, puoi dormire appoggiato a questo tavolo; se hai fame o sete troverai in quell’armadio di che soddisfare il tuo appetito e confortare il tuo stomaco. Al tuo cavallo penserò io stesso. Addio. » Ed Ugo se ne andò chiudendo a chiave la porta e lasciando il soldato immerso in una deliziosa ebbrezza.
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Capitolo quinto I primi sintomi della vendetta In una sala del palazzo del Comune, il conte Rinaldo della Pietra aspettava con impazienza l’arrivo dell’amico diletto. Venti volte Rinaldo si era fatto 1 alla finestra per scrutare nel buio della notte un’ombra desiata; 2 altrettante si era posto ad annoverare 3 i passi che distavano dal suo al palazzo del Comune. Egli non sapeva spiegarsi la ragione di quel ritardo. Tutto ad un tratto, e mentre al colmo dell’impazienza girava come un forsennato per la sala, si udì lo scalpito di un cavallo sul selciato della piazza e pochi istanti dopo la sala aprendosi mostrava la persona attesa: Ugo. « Ah! finalmente! quanto tardasti! » — esclamò Rinaldo con voce rotta e febbrile, correndogli incontro e baciandolo a più riprese con trasporto. « Da chi avesti il mio messaggio? » « Da Monfalcone. » Rinaldo calmò alquanto la sua agitazione; poi trascinato l’amico fin presso ad un tavolo, lo fece sedere, gli si assise 4 accanto e con accento commosso: « Ebbene, hai sentita la triste nuova? » — esclamò. « Siamo stati schiacciati, battuti, massacrati. Di tutti i miei uomini, me ne sono restati ben pochi, e quei pochi qua e là dispersi. Nessuno però ha mancato al proprio si era fatto: si era avvicinato. desiata: desiderata. 3 annoverare: calcolare. 4 assise: sedette. 1 2
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dovere: abbiamo lottato sino all’ultimo momento; ma è giunta un’ora, in cui la resistenza diventava pazzia, pazzia senza scopo. Non ci siamo arresi, siamo fuggiti onde vedere 5 di salvare la città. Ma temo, purtroppo, che bisognerà venire a patti coi nemici. Oh! ecco oscurata tutta la nostra gloria di Monteaperti! » 6 Rimase un istante silenzioso, col capo fra le mani, poi riprese: « Io desiderava di correre al mio palazzo, onde rassicurare Pia da ogni timore e darle un bacio affettuoso. Ma cosa le risponderei, quando mi chiedesse di suo fratello? Gualtiero è morto fra le mie braccia: io stesso lo feci trasportare lungi dal campo e ne accolsi l’ultima parola, l’ultimo addio: era per sua sorella. » Rinaldo parlava con orgasmo 7 febbrile, con ansiosa lena, 8 con una tristezza mista a sorda irritazione. Ugo l’ascoltava cogli occhi rivolti a terra, pallido in volto e disfatto. Il conte della Pietra non tardò ad accorgersi di quel turbamento e corruscando 9 la fronte: « Ebbene, che hai? non parli? » — chiese. « Sarebbe la notizia della nostra disfatta che ti cagiona tanta emozione? » Ugo continuava a tacere. Rinaldo divenne inquieto: « Per l’inferno! — gridò. Non accrescere le mie smanie col tuo silenzio: parla! »
onde vedere: per vedere. La battaglia di Montaperti, in cui i ghibellini senesi sconfissero duramente i guelfi fiorentini, era stata combattuta nove anni prima: il 4 settembre 1260. 7 orgasmo: eccitazione. 8 lena: vigoria. 9 corruscando: corrugando. 5 6
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Parve che Ugo facesse un violento sforzo sopra sé stesso: « Oh! come mi duole all’anima essere costretto ad aggiungere ai tuoi dolori un dolore ancora più vivo. » — mormorò a voce bassa. « Ma tu lo esigi ed io non posso più oltre tollerare di vedere un uomo nobile e buono, come tu sei, vilmente ingannato. » Rinaldo soffocò un grido ed impallidì. La luce, una sinistra luce si faceva strada nella sua anima: « Che vuoi dire? Spiegati. Forse Pia? » Ugo emise un profondo sospiro: « E cosa vuoi che ti dica di più? Forse ti ho già detto anche troppo. Coraggio, coraggio, amico mio. » Rinaldo credeva di diventar pazzo: un brivido nervoso gli scorreva per le ossa. Ad un tratto al suo stupore subentrò una pazza ira, un’ira che spinse al suo cervello ondate di sangue e gli strappò dagli occhi lacrime infocate. Afferrando per un braccio Ugo, gridò con voce rauca: « La verità, per Iddio, tutta la verità! » « Ebbene, ti dirò tutto; ma lascia il mio braccio: tu mi fai male. » « Hai ragione. » — balbettò Rinaldo con voce fremente, asciugandosi il sudore che gli scorreva dalla fronte. Ugo abbassò vieppiù la voce: « Ti ricordi del giorno in cui partendo ed affidandomi la tua consorte, mi dicesti di vegliare sopra di lei, perché alcuni dubbi ti laceravano l’anima? » « Ebbene? » « Ebbene, i tuoi dubbi diventarono realtà: Pia t’inganna! » Non un grido, ma un ruggito sfuggì dal petto di Rinaldo. Ugo si aspettava quella terribile esplosione, ma non poté a meno d’impallidire. « E non bastava — esclamò l’infelice conte della Pietra — l’aver perduta la vittoria? Oh! perché non sono rimasto anch’io sul campo di battaglia? Perché sono vissuto, se non per
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apprendere il mio disonore? E può darsi umiliazione maggiore di questa: maggiore vergogna? Oh! no, è impossibile, non può essere vero! Ugo tu menti: è una calunnia orribile la tua, che pagherai colla vita. » E Rinaldo furibondo stava per lanciarsi sul giovane. Ugo non si mosse: « Puoi uccidermi — rispose con calmo accento — ma non ti ho detto che la verità. » « Chi te l’apprese? » 10 « Chi? ho veduto. » « Hai veduto, dici; che hai veduto? » « Che ogni notte, da che sei partito, un uomo entra dalla porticina nascosta dietro il giardino, dove madonna l’aspetta. » « E tu li hai veduti? Hai uditi i loro discorsi, non è vero? » « Veduti, sì; udite le loro parole, no! » Rinaldo camminava per la sala a passi precipitosi. Il suo volto incuteva spavento. Gli occhi aveva pieni di sangue: i suoi denti digrignavano simili a quelli di una belva, rinchiusa in una gabbia. Non diceva una parola, ma tutto in lui palesava un’orribile agitazione, un’impotente smania di vendetta. Ugo l’osservava attentamente e le sue labbra pallide si atteggiavano ad un sorriso ributtante; i di lui occhi parevano emanare un baleno sinistro. « Una parola ancora, Ugo. Puoi darmi una prova dei tuoi detti? » 11 « Lo posso, ma ad un patto. Che tu non provocherai alcun scandalo, perché questo ricadrebbe sopra di te. Pensa che nessuno dei tuoi famigli ha penetrato questo segreto: io solo che vegliava indefesso 12 all’onore della tua casa. D’altra parte il Chi te l’apprese: Chi te l’ha detto? dei tuoi detti: di quanto hai detto. 12 indefesso: instancabile. 10 11
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tuo rivale non è forse 13 il maggiore colpevole. » « Hai ragione: è lei, è lei l’infame: oh! mi vendicherò. » « Ma la vendetta deve essere accompagnata dalla prudenza. » « L’avrò. » « Colui che vuole vendicarsi, deve tacere. » « Tacerò; andiamo. » « Non stanotte: è troppo tardi; non vedi che già spunta l’alba? » « Hai ragione; ma come presentarmi stamani a lei? sostenere la sua presenza? Io non saprei contenermi. » « Tienti 14 nascosto per tutto il giorno al palazzo del Comune. Io spiegherò a madonna la tua assenza: le dirò che sei costretto a star lontano per ragioni di Stato. Domani notte sarò qui a prenderti. » « Va bene: calcolo su di te. » 15 « Non mancherò, non dubitare. Ma aspetta: ancora non ho finito di darti i miei consigli, le mie raccomandazioni. » « Che cosa c’è ancora? » « Giurami, se hai caro l’onor tuo, se hai qualche affetto per me, di tacere e frenarti. » Rinaldo si passò una mano sulla fronte, come se in tal guisa 16 avesse sperato di scacciarne le idee moleste e con calma forzata: « Te lo giuro, disse, mi rimarrò tranquillo. Ma appena avrò acquistata la certezza del mio disonore: guai a lei! Io saprò ucciderla, in silenzio, col veleno. » « Un veleno! » — ripeté Ugo con un sorriso feroce. « Questi sono strumenti inutili, pericolosi. Un veleno? ucciderebbe la donna e nulla più. » « E bisogna che ella soffra: è vero, tu ben mi consigli. Ugo, è poco la morte di un non è forse: forse non è. tienti: tieniti. 15 calcolo su di te: conto su di te. 16 in tal guisa: in quel modo. 13 14
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colpo per la donna adultera. » Rinaldo si esaltava parlando. « Calmati, amico mio, calmati. » — disse Ugo stringendogli una mano. « Coraggio. » Rinaldo lasciò sfuggire uno scroscio di risa nervose e con tono di amaro sarcasmo: « Oh! ne avrò, non dubitare. » — disse. « A domani. » « A domani. » — ripeté Ugo andandosene. Appena fuori del palazzo, il giovane lasciò libero il corso al respiro. Con le nari dilatate, il petto gonfio, aspirò con una specie di acre voluttà l’aria della notte, e nell’ebbrezza della gioia lasciossi 17 sfuggire una lunga risata, mentre esclamava sordamente: « Sarò vendicato! »
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lasciossi: si lasciò.
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Capitolo sesto Il tradimento Pia de’ Tolomei alla presenza di Ugo si era mostrata calma, altera, sprezzante, ma appena l’ombra del giovine fu sparita, tutta la sua fermezza, il suo coraggio, l’abbandonarono d’improvviso ed ella pianse, pianse lungamente, finché vinta dalla stanchezza si pose a letto e non tardò ad addormentarsi. Ma il suo sonno, come succede sempre dopo una grande emozione, fu turbato da sogni stranissimi, spaventosi. Le parve di essere trasportata in un’orrida buia caverna e di trovarsi sola in balia di Ugo. Vedeva gli occhi fiammeggianti del giovane fissi sopra di lei, sentiva il suo alito sfiorarle le guance, e le di lui braccia stringerla alla vita. Invano ella cercava sottrarsi a quella stretta che la soffocava, indarno implorava pietà. Il giovane le ripeteva: « Ne hai avuta tu per me? Finora io sono stato la tua vittima, ora sono il tuo carnefice: il verme che volevi schiacciare, diviene il serpente che ti soffoca fra le sue spire. » Negli sforzi di una lotta disperata, Pia de’ Tolomei si svegliò e fu con un fremito di viva gioia che si vide sola nella sua stanza nuziale, già rischiarata da un primo raggio di sole, che veniva a baciarle la candida fronte. Tornò pienamente in sé stessa, salutò con un sorriso quel bel raggio di sole, poi alzando al cielo le mani: « Dio ti ringrazio! » — esclamò con ineffabile fervore. « Io non aveva che sognato. Oh! ma quell’Ugo mi fa paura; mio Dio, salvatemi da lui. Ed egli è
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l’amico di Rinaldo? A lui il conte affidava l’onor suo? Quale atroce beffa! Ah! io lo trovo doppiamente abbietto e vile quell’Ugo, che da tanti anni spiava l’ora del tradimento, tramava il suo scopo sotto il velo della più santa amicizia. Devo io confessare tutto a Rinaldo? A che pro? Egli non mi crederebbe. Ah! io non devo contare che sopra di me, sopra di me sola. Non v’è che la colpa, che faccia paura! » La gentildonna orò 1 un istante in silenzio col volto nascosto tra le mani e quando lo scoperse, la pallidezza delle sue guance era svanita per dar luogo ad una fiamma di nobile orgoglio, che le raggiava sulla purissima fronte. Pia de’ Tolomei aveva chiuso nel suo petto il suo dolore, dissimulata a sé stessa l’apprensione, per radunare tutti i suoi spiriti nell’amore della patria e del marito. Chiamò quindi l’ancella per vestirsi. Questa, sebbene vecchia, non tardò ad accorrere. Ma Pia si accorse che aveva il volto lacrimoso, la persona dolente. « Che hai, Maria? Che ti è accaduto? » « Nulla, nulla per me, madonna. » — rispose la vecchia in tono afflitto. « Ma ho saputo in quest’istante, che l’esercito senese è stato sconfitto ed abbiamo il nemico alle porte. » Pia de’ Tolomei diè un grido acutissimo. « E Rinaldo? il mio Rinaldo? » « Non dubitate, madonna, il conte è in salvo. » — si affrettò a rispondere l’ancella cordialmente sollecita. « Ma vi fa sapere che non può lasciare il palazzo del Comune, dove ha radunato il fiore dei cittadini, per vedere il da farsi, onde premunire la città da un possibile assalto. Messer Rinaldo vi manda i suoi saluti, 1
orò: pregò.
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vi prega di star di buon animo e spera di abbracciarvi domani. Oh! che tempi! che tempi! » — concluse l’ancella sospirando. Pia de’ Tolomei desiderò di star sola onde immergersi nelle sue riflessioni. Per tutto il giorno ella non udì altro che i passi frettolosi dei famigli, 2 lungo i corridoi, mentre i loro discorsi non contrassegnavano se non apparecchi 3 per difendersi in caso dell’invasione del nemico. Sul far della sera, un messo sconosciuto chiese di parlare alla gentildonna e quando si trovò alla presenza di lei, trasse un foglio, che teneva celato in seno e glielo porse. Pia de’ Tolomei trasalì, riconoscendo il carattere 4 del fratello. Si affrettò ad aprirlo e lesse: « Sorella mia, abbiamo vinto: Siena fra poco sarà nostra. Ma prima che io entri trionfante nella terra dei miei padri, desidero di vederti di nascosto. Approfittando di un momento di tregua, sono entrato furtivamente in città. Seppi che Rinaldo si trova nel palazzo del Comune, né può muoversi per tutta la notte. Fammi quindi avere dal messo la chiave della porticina del giardino. A mezzanotte io verrò; un leggiero fischio ti annunzierà la mia presenza. Attendo con ansia l’istante di rivederti. Rispondi tosto a piè di questo foglio 5 se posso venire. Gualtiero de’ Tolomei. » Pia ben lungi dal sospettare qual insidia si tramasse a danno dell’onor
famigli: servitori. non contrassegnavano se non apparecchi: non indicavano se non preparativi. 4 il carattere: la scrittura. 5 tosto a piè di questo foglio: subito in calce a questo foglio. 2 3
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suo, e desiderosa di riabbracciare il fratello diletto, si affrettò d’inviargli per il messo la chiave con questa sola parola di risposta: « Ti aspetto. » Intanto il conte della Pietra non si era mosso dal palazzo del Comune. Per tutto il giorno fu triste e silenzioso, cogli occhi rossi, il volto acceso e febbrile. Gli amici credettero che ciò provenisse dal dispiacere di vedersi vinto e non osarono rivolgergli una sola parola. Cadeva intanto la notte: una notte bellissima, calma, serena. Non una nube in cielo, non la minima nebbia. La luna brillava in tutto il suo splendore. Ugo e Rinaldo cupi e taciturni, agitati da diversi sentimenti si avviarono a passi concitati verso il palazzo della Pietra. Battevano le undici quando giunsero vicino alla porticina. « Un’ora, un’ora ancora d’aspettazione. » 6 — mormorò Rinaldo. Egli fu costretto ad appoggiarsi al muro per comprimere con ambe le mani il petto, perché il cuore pareva che stesse per iscoppiare. Infine si calmò alquanto e seguì Ugo. I due amici attraversarono il giardino, e cercando sotto quei grandi alberi un posto all’oscuro, vi si nascosero ed attesero. Dal luogo dove si trovavano, essi scorgevano perfettamente la porticina del giardino e per una radura vedevasi il palazzo del conte. Il palazzo pareva immerso nel sonno, nelle tenebre; se non che, esaminandolo accuratamente, si sarebbe scorto attraverso ai vetri di una finestra una luce incerta, pallida, misteriosa. Quella luce usciva dalla stanza di Pia de’ Tolomei. Rinaldo riconobbe all’istante la finestra. « Ella veglia ed aspetta. » — mor6
aspettazione: attesa.
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morò fremente. « Ma sarà per l’ultima volta. » « Coraggio, amico mio, coraggio. » — insinuò Ugo maliziosamente. « Ricordati il tuo giuramento: sii calmo; avrai tempo a vendicarti. » Passò un’ora, che per Rinaldo parve una eternità. Ad un tratto batté a lenti colpi la mezzanotte, e l’ultimo suono non era ancora svanito nell’aria, quando si aperse la porticina e apparve un uomo avvolto in un ampio mantello, che gli teneva celata la metà del viso, mentre gli occhi sparivano sotto un’ampia visiera. « Eccolo, è desso. » 7 — sussurrò Ugo all’orecchio dell’amico, che soffocò a stento un grido d’indignazione. Balduccio, giacché era lui, il guerriero salariato, 8 si avanzò a passi timidi, tremanti, quei passi che indicano un individuo che teme di essere seguito e che esita, esamina attentamente il terreno. L’ira, un’ira furibonda, atroce, mandava al cervello di Rinaldo vapori di sangue. Con la mano sinistra tormentava l’elsa della spada, coll’altra teneva stretto, fino a spezzarlo, il braccio dell’amico. Intanto Balduccio lasciò sfuggire un lieve e prolungato fischio. Allora la finestra della camera illuminata si aprì per intiero, senza strepito, un’ombra di donna si disegnò un istante nel varco, poi scomparve. Cinque minuti dopo, Pia de’ Tolomei, avvolta in candidi veli, che la facevano parere quasi una visione, moveva frettolosa incontro al creduto fratello. « Oh! l’infame! » — susurrò Rinaldo quasi in atto di scagliarsi su di lei. Ma Ugo lo trattenne, e l’esortò 7 8
è desso: è lui. salariato: pagato.
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di nuovo a calmarsi, ricordandogli il suo giuramento. Un mormorio di accenti sommessi, di sospiri, insieme a qualche parola indistinta, pervenivano all’orecchio del conte della Pietra, ed erano per lui tanti pugnali, che si rivolgevano lentamente nelle ferite del cuore. Egli era certo dell’infedeltà della consorte. « Gualtiero, mio Gualtiero, sei tu? » — diceva intanto la gentildonna, con voce sommessa e gentile, come un sospiro del vento, che agitava i rami delle piante. « Sì, mia Pia. » Rispose a voce alta il soldato, baciandole le mani con trasporto. Poi aggiunse in tuono sommesso: « Oh! sorella mia, quanto desiderava di rivederti! » « Come sei cangiato, 9 Gualtiero. » — aggiunse la gentildonna tutta commossa: « La tua voce non è più la stessa. » Il falso Gualtiero sospirò profondamente. « Ho sofferto tanto. » — mormorò ripetendo la lezione insegnatagli da Ugo: « Ah! la commedia della vita non è sempre di un atto: le ghirlande non sono tutte di fiori. L’esilio è terribile, mia Pia. Oh! ma alfine è sorto il dì della vendetta. » Pia de’ Tolomei si strinse delirante fra le braccia di quell’uomo, che ella credeva fratello, e susurrò: « Tu aspettavi il dì della vendetta? Tu? Ma non pensavi che fra le mura di Siena, avevi una sorella e che questa sorella era la sposa di un ghibellino? » « Io non odio Rinaldo: no! Ma fino a che eravamo nel campo, fino a che ei ci disputava la vittoria, 10 fino a che durerà ostinato nella difesa della sua piazza, 11 io lo cangiato: cambiato. ei ci disputava la vittoria: egli ci contendeva la vittoria. 11 nella difesa della sua piazza: nella difesa del suo posto. 9
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considero come un nemico. » « Tu mi riempi di terrore! » — mormorò Pia declinando 12 il capo sulla spalla di Balduccio. « Tu dunque non pregasti per me? » « Pregai per te, per tutti. Tremai per il pericolo del mio Rinaldo, per il vostro. Il mio cuore combattuto da due diversi sentimenti, provò in sé stesso i colpi delle due armate nemiche, e chiunque vinceva e chiunque era vinto, mi rendeva orribile nondimeno e la perdita e la vittoria. » « Tu sei un angelo, Pia, sei un angelo. » — disse Balduccio a voce alta. Poi, stringendola al seno, mormorò al suo orecchio: « Sai tu, perché a costo di qualunque pericolo io sia qui venuto? Perché desidero salvarti. » « Salvarmi? che dici? Forse il mio Rinaldo… » « Il tuo Rinaldo è vivo e salvo, ma in breve tu sarai la moglie di un proscritto, 13 perché le nostre schiere entreranno in Siena. Ah! tu non sai quale triste diritto possa avere la schiatta 14 dei vincitori. Vieni, vieni, io ti condurrò al padre nostro. » « Oh! no, lasciami, taci. » — disse la gentildonna con ispavento. Poi, cercando dominare la sua emozione: « Giammai io ti seguirò. » — diss’ella con voce ferma. « Tu saluterai per me il padre mio e gli dirai che Pia non abbandonerà mai l’uomo a cui ha giurata eterna fede. Anche l’esilio mi sarà caro, mi sarà dolce diviso con il mio Rinaldo, che amo più d’ogni cosa al mondo. » « Pia, mia diletta Pia, tu sei un angelo. » — ripeté Balduccio a voce alta. declinando: reclinando. proscritto: esiliato. 14 schiatta: stirpe. 12 13
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Il conte della Pietra fece per slanciarsi nuovamente sopra di lui. Ugo lo trattenne ancora, ma non poté impedire che uno stridore di foglie non giungesse fino alle orecchie della gentildonna. Ella si volse atterrita, ma nulla vide: nonostante mormorò a voce bassa, con accento di subitaneo terrore: « Hai tu inteso? » « Che cosa? » « Uno strepito di foglie, di rami spezzati. » « Io nulla ho sentito: t’inganni Pia. » « Infatti — rispose questa — è impossibile: mi sono ingannata; nonostante fuggi, te ne supplico: Rinaldo potrebbe tornare; fa che egli non ti colga: il vostro incontro potrebbe essere funesto. » « Ebbene, addio mia diletta, addio; non piangere: rivederti fra poco io spero. » E il mariuolo strinse la gentildonna al suo seno ed osò sfiorare colle sue labbra la fronte purissima di lei. Quindi se ne andò frettoloso. Rinchiusa la porticina del giardino, Pia ritornò leggiera come un’ombra nella sua stanza. Essa era già lungi, 15 che Rinaldo si teneva ancora le mani sulla fronte, per rimettersi dalla violenta emozione sofferta. D’improvviso, rialzandosi coi lineamenti scomposti, l’occhio acceso di sdegno, stese le mani nella direzione della finestra di Pia e con accento cupo: « Trema, o donna. » — gridò. « Impunemente non avrai tradita la fede. Oh! qual supplizio potrei inventare per punirti? » « Te lo dirò io; vieni! » — esclamò Ugo con un sorriso di gioia feroce, traendo l’amico lontano dal suo palazzo.
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lungi: lontano.
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Capitolo settimo Il castello della Pietra Tra le foci del Tevere e dell’Arno, verso il mezzodì, giace una contrada chiamata Maremma, celebre da lungo tempo per gli effetti perniciosissimi 1 della malaria. Ora 2 i campagnuoli che abitano l’Appennino toscano, sogliono andare per vari mesi dell’anno a coltivare la Maremma ed il frutto delle loro fatiche e privazioni serve di sostegno a quella parte di famiglia che rimane al paese nativo, ove ritornano nell’estate, meno alcuni che di frequente muoiono per le arie malsane, ove gli trasse 3 il generoso desiderio di sollevare gl’indigenti congiunti. Ma nel 1266 4 quella contrada era affatto squallida, deserta, ed il silenzio che ivi regnava ne accresceva la maestosa tristezza. Proprio in mezzo a queste campagne, ove spesse volte colla malaria, infierivano le guerre civili, ergevasi maestoso l’antichissimo castello della Pietra. Nulla di più tetro, di più selvaggio, di più isolato di questo vecchio castello, con fosse limacciose, merli, ponti levatoi, feritoie, che colla sua mole dominava i piani all’intorno, quasi per dar agio ai perniciosissimi: dannosissimi. Ora: Oggi, nel XIX secolo, quando, parafrasando il Sestini, la Invernizio scrive queste righe. 3 ove gli trasse: dove li condusse. 4 L’insistenza su questa data conferma che la Invernizio ignorava che nel 1266 la battaglia di Colle (1269) era ancora di là da avvenire. 1 2
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suoi signori di misurare collo sguardo la loro grandezza, la loro oppressione sugli infelici vassalli 5 che bagnavano di sudore la gleba e che maturavano in cuor loro come un presentimento di libertà futura. 6 Il vento fischiava fra l’edera bruna e i cardi selvatici; la luna pendeva sovr’esso melanconica nel silenzio della notte e pareva rispettare quel nido di gufo. Del resto tristissime storie correvano all’intorno sul castello della Pietra. Ognuno fino dall’infanzia aveva udito parlarne con gran terrore. Sul finire di una calda giornata di maggio, pochi giorni dopo gli avvenimenti da noi narrati, una breve cavalcata 7 si avviava al castello della Pietra. Era composta del conte Rinaldo, di madonna Pia de’ Tolomei e di due vecchi servitori, carichi di viveri. Fedele alla sua promessa, il conte Rinaldo della Pietra, aveva chiusa in cuore la fredda gelosia, la rabbia, la vendetta e si era mostrato alla consorte la mattina seguente la fatal notte, in cui aveva avuta la certezza del tradimento di lei. Pia de’ Tolomei l’accolse con vera gioia. « Mia diletta, le disse il conte con voce soave, io sono stanco di questa vita piena di noie, di lotte. I senesi hanno pattuito una tregua con l’oste nemica; 8 io non ho più nulla a far qui e vorrei ritirarmi per qualche giorno nel mio castello vassalli: sudditi. Forse non sarà superfluo notare che questa descrizione, del tutto fantastica, non ha nulla in comune con il Castel di Pietra, di cui il Sestini del resto non parla e che la Invernizio con tutta evidenza non conosceva affatto. 7 una breve cavalcata: un piccolo gruppo di cavalieri. 8 con l’oste nemica: con l’esercito nemico. 5 6
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della Pietra, quel castello dei miei avi, che tu ancora non conosci. Vuoi venir meco? Là potrò obliare le mie cure di Stato ed essere felice ancora. » Rinaldo sembrava perfettamente calmo. Aveva tanto sofferto da due giorni in poi, che era giunto ad una cupa impassibilità, che nulla poteva dissipare. Pia de’ Tolomei, sicura dell’affetto del marito, fidente, accettò con infantile entusiasmo la proposta del conte. « Ho sempre sentito parlare del tuo castello con terrore. » — rispose con incantevole sorriso. « Ma in tua compagnia mi parrà di trovarmi in un eliso. » 9 Rinaldo fece sentire quasi un gemito, ma per non tradirsi corse a dare gli ordini opportuni alla partenza. Pia de’ Tolomei cavalcava con molta leggiadria un bel cavallo bianco dalla criniera maestosa. Ella pareva ridiventata la gaia donzella di un giorno. Con le guance soffuse di un vivace rossore, il sorriso sulle labbra, Pia de’ Tolomei non tralasciava di cinguettare allegramente. Rinaldo stringeva i fianchi del suo morello con febbrile impazienza, e quasi che il cavallo comprendesse quello che si passava nel cuore del padrone, precipitava il galoppo, sì che a mala pena, Pia poteva tenergli dietro. « Allenta il tuo corridore, 10 mio Rinaldo. » — diceva la gentildonna con incantevole e fanciullesco sorriso, accarezzando la groppa lucidissima del suo bel puledro. « Io desidero averti al mio fianco: il silenzio in questi luoghi mi atterrisce. » « Ah! mi tarda l’ora di ritrovarmi al 9
un eliso: un luogo paradisiaco. Allenta il tuo corridore: Rallenta il tuo cavallo.
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castello. » — rispondeva il conte con suono strozzato. « Non senti come l’atmosfera è secca, oppressa? » A misura che il giorno avanzava, la gioia di Pia de’ Tolomei spariva. Ella guardava con un senso ineffabile di tristezza i monotoni paesaggi di quella strana contrada, dal cui suolo, fanghiglia nera e senza consistenza, emanavano esalazioni mortali. Ella provava una specie di raccapriccio vedendo quegli alberi esili e tristi, che si tuffavano nell’acqua melmosa di quegli stagni verdastri. « Ecco il castello dei miei avi! » — esclamò ad un tratto Rinaldo, stendendo una mano. Difatti in lontananza scorgevasi delinearsi nel cupo azzurro del cielo una massa nera, fantastica. « Ha un aspetto assai triste! » — disse Pia de’ Tolomei. « Ma noi sapremo rallegrarlo col nostro amore. » Rinaldo digrignò i denti e lasciò sfuggire un sorriso beffardo, feroce. Il ponte levatoio era abbassato e scricchiolò sotto le zampe dei corridori, 11 ma la porta di ferro era ermeticamente chiusa. I servi del conte diedero fiato ai corni. Alla prima chiamata non rispose se non l’eco, che ripetea il suono, e parecchi cani da caccia, che abbaiarono dal lor canile situato non lungi dal castello, nel recinto attorniato dallo stagno cupo e verdastro. Ma al secondo squillo i battenti della pesante porta si apersero e comparve un uomo d’una sessantina d’anni, alto, ricurvo, colla lunga capigliatura bianca ed il volto ingiallito dagli anni e dalle continue febbri. Era l’intendente del castello. « Che il cielo vi protegga, messer Rinaldo e madonna Pia: siete veramente 11
corridori: cavalli.
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voi? » — esclamò il vecchio alzando la torcia accesa in volto ai nuovi arrivati e ritraendosi alquanto onde lasciar libero il passo. A Pia de’ Tolomei le si strinse il cuore passando sotto le volte impenetrabili e buie del castello. Presentiva qualche cosa di straordinario e di grave, un fatto che influiva sulla di lei vita mutandola, e perché era inesperta ed inabile nel frenare le proprie impressioni, i suoi sguardi interrogavano il conte. Ma Rinaldo non parlava. L’aiutò a scendere da cavallo e la condusse in silenzio in un’immensa sala gotica, che fu tosto illuminata da molti doppieri. 12 L’inatteso arrivo del signore della Pietra, non aveva permesso nessun preparativo per riceverlo e scusavano in certo qual modo l’abbandono ed il disordine nel quale si trovava il castello. « Come tutto ha l’aspetto lugubre! » — disse Pia, osservando all’intorno le tappezzerie color scuro, i quadri terribilmente tristi, i mobili pesanti, su cui era passata la polvere di tanti secoli. « È vero, questo castello è assai triste. » — rispose il vecchio intendente. « Nei secoli passati ha sostenuto tanti assedi, a quel che si dice. Prescindendo dall’aria cattiva che si respira, il castello è qualche volta visitato dai fantasmi. » « Davvero! » — disse Pia scherzevole, ben contenta con tali discorsi di sfuggire a molesti pensieri. « Per fortuna io non sono paurosa ed ho meco un cavaliere, che al caso saprà difendermi. » E mentre il vecchio intendente usciva dalla sala per imbandire la cena, Pia dei Tolomei si avvicinò al marito e 12
doppieri: candelieri a due o più braccia.
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cingendogli il collo colle sue ammirabili braccia: « Che hai, mio Rinaldo, che non mi parli? » — chiese con accento carezzevole. « Guardami, almeno, guardami; oh! come sei pallido: ti senti male? » E l’accarezzava ancor più. Rinaldo non fece alcun movimento per sottrarsi a quelle ardenti carezze, ma le sue labbra rimasero mute, le mani immobili, abbandonate. « Ma io non comprendo la tua preoccupazione! » — continuava Pia stringendosi a lui tutta timorosa. « I miei occhi cercano invano nei tuoi uno sguardo d’amore! Quella che ti ama con tanta tenerezza, avrebbe perduta la tua affezione, durante la tua lontananza? » Rinaldo si sentiva soffocare, non sapeva che rispondere. Per fortuna in quell’istante entrò un servo apprestando 13 la cena, e Pia de’ Tolomei si allontanò dal marito. Cenarono in silenzio, serviti dallo stesso intendente del castello, poi Pia de’ Tolomei chiese di ritirarsi, sentendosi molto stanca. « Conducila nelle sue stanze! » — ordinò il conte al vecchio intendente. « Quindi tornerai a me, che debbo darti alcuni ordini. » « E tu non vieni a riposare? » — chiese in atto dolcemente commosso Pia de’ Tolomei. « Fra poco ti raggiungerò, non dubitare. » — rispose Rinaldo senza dipartirsi 14 da quella terribile calma, che avrebbe dovuto dar materia di riflettere alla consorte. Ma questa, persuasa che la freddezza di lui provenisse dai pensieri della patria, si ritirò sommessa e tranquilla. Rinaldo rimase solo. 13 14
apprestando: per preparare. dipartirsi: allontanarsi.
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Venti volte, durante il giorno, il conte della Pietra fu sul punto di prorompere e abbandonarsi a tutte le furie del suo risentimento, eppure si era contenuto. Egli non voleva che Pia indovinasse le sue ambasce, 15 l’inferno che aveva nel cuore, e quando ella l’aveva abbracciato, a malapena Rinaldo aveva impallidito. Ma la sua forza di volontà era agli estremi: lo sforzo che si era imposto lo soffocava; e quando Pia de’ Tolomei lasciò la sala, egli si abbandonò a tutta la piena del suo dolore. Ella non lo vedeva più, non l’ascoltava più, non poteva leggere le angosce dell’anima nelle sue sembianze; 16 egli era solo, tutto solo in quel tetro salone e gli era permesso di tremare, d’impallidire, di soffrire, di dolersi. Un gemito di rabbia sfuggì dal suo petto oppresso. Colle braccia incrociate sul petto, la fronte torva, gli occhi stravolti, Rinaldo passeggiava fremente su e giù per la sala, lasciando di tanto in tanto sfuggire parole interrotte. « Ah! se ancora per poco qui rimaneva, io soffocava. Infame! come sa fingere, tradire! Suvvia, bisogna finirla questa odiosa commedia: il nuovo sole mi deve trovare lungi di qui. Ah! Ugo, Ugo, tu ben mi consigliasti: questo castello par fatto apposta per una prigione. L’aria mefitica 17 che qui si respira non tarderà a sformare quel leggiadro corpo, che un giorno ho vagheggiato tanto. Sì, ho deciso: ella non uscirà di qui che sformato cadavere. » ambasce: angosce. nelle sue sembianze: nel suo aspetto. 17 mefitica: pestilenziale. 15 16
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Fantasticava ancora, quando rientrò l’intendente del castello. Il conte della Pietra lo sapeva d’indole così taciturna, da non temere che commettesse imprudenze. Valfrido era un vecchio celibe, i cui parenti erano stati vassalli del conte; però 18 il vecchio era devoto anima e corpo al suo padrone. « Valfrido, portami da bere e qui t’assida. » 19 — disse il conte. L’intendente non tardò ad ubbidirlo. Rinaldo si versò una colma tazza di vino, quasi ne traesse speranza di calmare l’agitazione in cui era il suo spirito e la bevve in un fiato. « Valfrido, dirai ai miei famigli 20 di tener sellati i cavalli: fra poco io riparto. » « E madonna Pia? » « Madonna Pia rimarrà qui prigioniera. » — disse il conte con voce fremente, avvicinandosi a Valfrido e posandogli una mano sulla spalla. « Io la metto sotto la tua custodia: falle guardia dappresso, non permettere che alcuno entri nel castello. Per qualunque domanda ella ti rivolgesse sulla causa della sua prigionia, risponderai sempre il vero: che l’ignori; e vorrei, vedi, ignorarlo io stesso. Esercita su di lei la più attiva vigilanza: le sia tolto ogni mezzo di corrispondenza. Sai quali cose desidero da chi mi serve, pena la vita: occhio aperto, bocca chiusa, coscienza intrepida. Una parola basta a chi la sa intendere! » « Basta così, intesi assai: il signor conte può calcolare 21 sopra di me. » « Va, adunque, e ti ripeto: di’ ai miei famigli che stiano pronti. » però: perciò. e qui t’assida: e siediti qui. 20 famigli: servitori. 21 calcolare: contare. 18 19
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Valfrido uscì. Rinaldo si diede a bere di nuovo, sentendo le labbra inaridite. In capo ad un’ora, riscaldato alquanto dal vino, si alzò. « Bisogna che la riveda ancora una volta. » — disse. E presa una lampada si avviò a passo furtivo e vacillante nella stanza della consorte. Era una camera grandissima, tappezzata di una stoffa color rosso bruno, col pavimento di abete nero e i cui mobili avevano quell’aria di triste grandezza che si osservava in tutto il castello. Una lampada notturna illuminava debolmente la stanza ed a quella luce funebre, oscillante, pareva quasi di vedere delle ombre sfilare lungo le cortine del letto e ritrarsi nel fondo tenebroso della camera. Pia de’ Tolomei dormiva. La stanchezza l’aveva vinta sulle sue apprensioni, sullo stesso desiderio di salutare anche una volta 22 il consorte. La notte era calda, e la gentildonna con un moto naturale, aveva gettate all’indietro una parte delle coperte. Le sue spalle bianchissime, deliziose, non avevano velo; l’incantevole viso aveva composto a dolcissima quiete: dalle ciglia socchiuse pareva irradiasse un raggio di amore. Rinaldo contemplava come estatico quella donna ch’egli aveva amato con passione, con delirio. Tutte le rimembranze 23 del passato si affollavano nella di lui mente. Egli la rivedeva bella, pudica, casta, più somigliante ad un angelo del cielo che ad una creatura mortale. Ed anch’ella l’aveva amato, sì, aveva dovuto amarlo, perché aveva acconsentito ad essere 22 23
anche una volta: ancora una volta. Tutte le rimembranze: Tutti i ricordi.
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sua moglie, malgrado l’odio di parte, che divideva le loro famiglie. « Ah — mormorava l’infelice conte della Pietra — perché mi ha tradito? Tradir me che l’amava tanto! » Rinaldo perdeva a poco a poco la testa. Egli già chinavasi delirante su quelle labbra rosee, tumide, che attiravano le sue. Ma in quell’istante gli si affacciò alla mente la scena veduta in giardino. Allora il volto del conte si scompose terribilmente, ed egli si rizzò vergognoso, indignato contro sé stesso. « Ah! non sarò così vile! » — disse. E fuggì via da quella stanza come un dannato.
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Capitolo ottavo La prigioniera Pia de’ Tolomei svegliandosi fu molto sorpresa di non trovarsi accanto Rinaldo. Turbata e piena d’angoscia, dischiuse il cortinaggio e guardò per tutta la stanza: Rinaldo non v’era. « Forse ho dormito troppo — disse Pia de’ Tolomei cercando calmare le sue apprensioni con vaghe speranze — ed il mio Rinaldo, svegliatosi per tempo, non avrà voluto destarmi e starà visitando il castello. » E balzò agile e svelta dal letto, si vestì in fretta e si appressò alla finestra. Quella finestra dava su di una specie di belvedere dominante quelle pianure infette da pessime acque, che ne imputridiscono l’aria e la rendono mortifera. Da lungi si vedevano i monti accumularsi gli uni sugli altri, non lasciando scorgere se non strette vallate, ombreggiate da folte macchie. Una nebbia pesante s’innalzava dal fondo delle pianure e rendeva grave la vista ed il respiro. Pia de’ Tolomei si ritrasse ben tosto. Profondo affanno le pesava sul petto: tremava il suo cuore, senza sapere il perché di quell’angoscia. Ella uscì per correre in cerca del marito. Traversando quelle lunghe, umide, deserte gallerie, Pia de’ Tolomei provò un senso ineffabile di paura e fu con vero sospiro di soddisfazione, che si vide venir incontro Valfrido. Il vecchio intendente la salutò con rispetto e le chiese con brusco accento: « Madonna, desidera qualcosa? » « Desidero sapere dov’è Rinaldo. » « Mes-
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sere è partito stamani all’alba. » « Partito? per dove? » « L’ignoro. » Pia de’ Tolomei rimase di sasso. Ella si staccò la destra dal cuore e la portò alla fronte. « Ma io sogno! » — mormorò. Poi, con voce soffocata: « E partendo, ha lasciato detto nulla per me? Non un messaggio, un saluto? » « Nulla; ha detto solamente che sotto nessun pretesto lasciassi uscire madonna dal castello e qualora ella non ubbidisse ai miei ordini, impiegassi anche la forza. » Raccapricciò Pia a tali detti, 1 ma non volendo in presenza di quell’uomo mostrare il suo dolore, si ritrasse nella sua stanza. « Ma io sogno. » — ripeté l’infelice portandosi le mani alla fronte. « Che significa ciò, gran Dio? Io prigioniera? Io sottoposta agli ordini di quell’uomo? Rinaldo, Rinaldo, dove sei! dimmi perché fuggi! Ah! così ricompensi il mio affetto, la mia fedeltà? » Qui si fermò improvvisamente; un dubbio, o piuttosto una certezza orribile l’aveva colpita. « Oh! sì, quanto mi accadde non può essere che l’opera di Ugo, che si vendica del mio disprezzo. » — disse. « Egli mi deve aver calunniato presso il conte. Ma come poté Rinaldo prestar fede a quel falso amico? Di quali colpe m’avrà egli accusata? E perché non una parola, non un detto a lei, che avrebbe potuto giustificarsi e provare la sua innocenza? » Pia de’ Tolomei sentiva indebolirsele la ragione, mentre sfogava in lacrime il suo immenso cordoglio. Scorsero due giorni di ansia, di disperazione, di abbattimenti. Dapprima ella aveva ricusato ogni cibo, 1
detti: parole.
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poi la fame trionfò. Ella prese qualche ristoro, ma il suo cuore era così oppresso, che si sentiva soffocare ad ogni istante. Verso il tramonto del quarto giorno, Pia de’ Tolomei sentì abbassare il ponte levatoio ed uno scalpito di cavallo le ripercosse le orecchie. Rinaldo dunque ritornava? Valfrido aveva mentito! La gentildonna balzò in piedi pallida, agitata, e fissò sulla porta uno sguardo ansioso, anelante, impossibile a descriversi. Ma tosto mise un grido acutissimo ed indietreggiò come se un demone le si fosse parato davanti. Un uomo era entrato nella stanza e quest’uomo non era il conte Rinaldo della Pietra: era Ugo. « Ugo, voi qui? » — balbettò Pia de’ Tolomei, con voce spenta, fissando sul giovane le sue pupille dilatate con un’espressione di sdegno e di spavento insieme. « Sì, io. » — rispose Ugo con voce cupa, sbarazzandosi dell’ampio mantello che lo copriva. « Non vi prenda timore alcuno. » Pia de’ Tolomei ricuperò ben tosto la sua calma, la sua presenza di spirito. « E perché dovrei temere? » — disse con ferma voce. « Solo mi fa stupore come voi vi presentiate qui, ove non siete atteso, né desiderato. » « Vengo a vedere, se siete soddisfatta della vostra prigionia. » Pia de’ Tolomei trasalì e si fece pallidissima. « Io prigioniera? » — tentò di esclamare indignata. « Sì, prigioniera accusata e convinta d’infedeltà. » Pia de’ Tolomei mandò un nuovo grido acutissimo, ma riavendosi tosto e guardando il giovane con fierezza: « No, non può essere: non è vero; o meglio sì, demonio, voi siete l’accusatore, il calunniatore. Ma come poté il mio Rinaldo credere alla vostre infamie? Ciò che non si può provare non esiste. »
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Ugo diede in uno scroscio di risa, che fece rabbrividire la gentildonna. « Ma non si può negare, quando esiste una prova. » « Miserabile! che volete voi dire? » « Vi ricordate, madonna, di quella notte in cui riceveste in giardino uno sconosciuto? » Pia sorrise alteramente. 2 « Se era sconosciuto per voi, non lo era già per me. » — rispose. « Quell’uomo era mio fratello. » « Vostro fratello? ah! ah! ah! Vostro fratello? Ma ditelo a Rinaldo ed egli vi risponderà che vostro fratello Gualtiero de’ Tolomei è caduto sul campo di battaglia nelle alture di Colle ed il conte stesso lo fece trasportare dal campo e ne raccolse le ultime parole, l’ultimo sospiro. » Pia de’ Tolomei era divenuta livida e pareva cadesse in deliquio: 3 fu costretta a sedersi. Dal suo petto sfuggì un singhiozzo straziante e con accento colmo d’indignazione: « Che? gran Dio? Chi era dunque l’uomo che io ho accolto, abbracciato? » « Era un soldato di ventura da me salariato: un uomo che per una borsa di fiorini acconsentì a rappresentare quella parte. » Ed Ugo non le fece grazia di alcun dettaglio, le narrò con crudele compiacenza come egli stesso avesse scritto il biglietto, e concluse: « Del resto, potete star tranquilla, quel soldato non parlerà, statene certa; la notte stessa ebbe il premio agognato: un buon colpo di pugnale; ah! ah! povero Balduccio, ecco la fortuna che gli è toccata! » Pia de’ Tolomei, fulminata da tutte queste rivelazioni guardava attonita, quasi istupidita, l’uomo che 2 3
alteramente: con superiorità. cadesse in deliquio: svenisse.
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gli stava dinanzi. « Infamia, mormorava, infamia. » « Ah! voi mi vantavate la vostra virtù — continuò Ugo — ed io vi ho mostrato come si possa disonorare, in apparenza almeno, la donna più onesta del mondo! A che vi servì la vostra alterezza? 4 A farvi rinchiudere, come colpevole, in questo castello, dal quale non uscirete più mai! » Pia de’ Tolomei cercò di vincere con uno sforzo penoso la propria impressione, e mormorò: « Ah! ed ora venite qui per trionfare dell’innocenza che sacrificaste, come l’avvoltoio ed il corvo si pascono dell’agnello, cui prima strapparono gli occhi. » « No, io vengo qui per salvarvi. » « Salvarmi voi! » — esclamò Pia con un doloroso sorriso. « Sì, perché io solo lo posso, come posso rendervi al vostro Rinaldo, far sì che la vostra innocenza sia conosciuta, la vostra memoria non venga denigrata; ma in cambio… » « In cambio? » « In cambio — ripeté Ugo le cui narici si dilatarono come quelle di una tigre — siate mia: un solo istante. » Pia de’ Tolomei fece un gesto che esprimeva un invincibile orrore: « Piuttosto mille volte morire che comprare la mia libertà, la mia innocenza ad un tal prezzo. » « Badate che di qui non si sfugge, che morrete sola, senza conforti. Rinaldo nel suo orgoglio, nel suo amor proprio dolorosamente ferito, non si degnerà chiedervi una discolpa. 5 Voi languirete a poco a poco come appassisce il fiore, cui cupo sovra-
4 5
alterezza: superbia. una discolpa: una giustificazione.
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stante ceppo invola 6 la refrigerante rugiada e il raggio del sole. I vapori di queste paludi non tarderanno ad alterare i vostri angelici lineamenti. Oh! lascia quell’alterigia che a nulla ti serve: sii mia e sarai salva. » Pia de’ Tolomei si rialzò lentamente e fissando su di Ugo uno sguardo profondo e terribile. « Tentatore, ti allontana! » — esclamò. « Tu non mi conosci: non conosci l’anima della Pia. Se l’improvvisa accusa, l’idea di una morte lenta, orribile hanno potuto spaventarmi un istante, ora il mio spavento è cessato. Il disonore è quello che atterrisce per sempre. Chi vorrebbe salvare la vita a prezzo d’infamia? Chi cangiare una coscienza pura, con giorni contaminati? Va’, esci, lasciami vivere senza rimorso e morire senza spavento. » « Pensaci bene, ti ripeto: un’agonia lenta ed orribile ti aspetta, una solitudine continua. Rinaldo ti contempla da lungi con occhio feroce e ti disprezza, il tuo nome è vilipeso: l’infamia che vorresti evitare è attaccata a te per sempre. » Pia de’ Tolomei l’ascoltava impassibile, quasi sprezzante. Alle ultime parole di Ugo, fattasi più nobile, più maestosa d’aspetto, esclamò: « T’inganni Ugo, l’innocenza tosto o tardi si scopre. L’infamia non istà 7 nel perdere la stima degli uomini, ma in quella di noi stessi. Può l’uomo troncare i giorni miei, ma non perverrà a distruggere la mia fama. Mentre la terra mi abbandona, il cielo si apre e mi cui cupo … invola: a cui il tronco cupo dell’albero che lo sovrasta toglie. 7 istà: sta. 6
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mostra un Dio: quel Dio che morì vilipeso, calunniato, ma la cui innocenza i secoli non hanno potuto offuscare. » Un riso secco, diabolico accolse le parole di Pia de’ Tolomei. « Raccomandati a Dio adunque — esclamò egli con cinico accento — perché la tua virtù si faccia strada attraverso l’oscurità di queste nere muraglie. Raccomandati a Lui, perché di qui ti tragga, perché purifichi quest’aria che ti circonda. Io ti lascio, ma non ti dico addio, perché ci rivedremo ancora; e forse allora sarai meno orgogliosa e vedrai che è preferibile un istante d’oblio a ciò che chiami i tuoi doveri, ad una morte lenta e vergognosa. » « Vattene, demonio! » — gridò Pia stendendo con atto solenne una mano. « Che Dio abbia pietà della tua anima. » E rivolse le spalle 8 al giovine, che se ne partì tutto confuso ed umiliato.
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rivolse le spalle: voltò le spalle.
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Capitolo nono Un conforto nell’afflizione Poche miglia distante dal castello della Pietra, su di un piccolo promontorio, sorgeva una casuccia sgretolata, cadente, in vetta alla quale era piantata una croce di legno. Era quella la dimora di un povero eremita. Nella stagione della malaria, il contadino fuggiva pauroso quelle micidiali vegetazioni; ma il povero frate sembrava respirare sicuro l’aria pestifera. Sia che la stagione fosse mite e serena, sia che imperversasse rigida e tempestosa, si vedeva sempre quell’eremita per le colline, per le strade, curvo sotto la bisaccia, accattando 1 di casa in casa, pei suoi poveri, il pane della pietà, l’obolo dell’elemosina. Non vi era ammalato a quei dintorni a cui egli non prestasse quei servigi, quelle consolazioni, che non si comprano col denaro. Era proprio il tipo della vera pietà, della perfetta religione. L’eremita aveva sentito parlare più volte dell’infelice prigioniera al castello della Pietra. « Ah! » — dicevano un giorno alcuni contadini sospirando. « Cosa ha mai fatto quella bella creatura, perché messer Rinaldo debba ivi tenerla rinchiusa? Nessuno crede possa essere vero quello che si dice sul conto di lei. » « Ma che cosa si dice? » — domandò l’eremita trasalendo. « Che il conte l’abbia colta in fallo; ma nessuno lo crede. Un’anima tanto pia, una creatura tanto edu-
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accattando: mendicando.
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cata non diviene colpevole in un istante. Ma intanto quella povera innocente langue, muore, senza lasciarsi sfuggire un lamento. » L’eremita sospirando alzò gli occhi al cielo. « Anche Cristo era innocente — disse — e fu calunniato; bestemmiato, tacque; possente, non minacciò e morì perdonando. Madonna Pia è un’immagine di Cristo. » L’eremita sapeva che l’intendente del castello era un vecchio burbero, senza cuore, taciturno, che usciva di rado dal castello e non permetteva a nessuno di accostarvisi. Fu grande quindi la sua sorpresa nel vederlo un giorno presentarsi al suo povero romitorio. Valfrido aveva raddolcito il fiero sembiante 2 e sembrò al fraticello che avesse le lacrime agli occhi. « Padre — disse con voce commossa — vi è una persona al castello che ha bisogno del vostro aiuto. Ho lottato a lungo con me stesso, non volendo violare il giuramento fatto al mio signore; ma la pietà verso quella povera vittima, che sta per morire, mi vinse e sono corso a voi. » « Andiamo, andiamo, figliuol mio. » — esclamò il vecchio eremita. « E che Dio vi tenga conto della vostra buona azione. » Uscirono in fretta dal romitorio. La giornata era buia, nuvolosa. Contristava il cielo un vapore umido di scirocco e l’aere denso toglieva quasi il respiro. 3 Nonostante il vecchio eremita camminava rapidamente, tutt’assorto in un pensiero di sublime carità. Giunto vicino al castello, egli contemplò con un il fiero sembiante: l’aspetto severo. Contristava … respiro: Un vento umido di scirocco rendeva triste il cielo e l’aria pesante quasi toglieva il respiro. 2 3
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senso di viva mestizia quelle nere muraglie e pensando alla povera prigioniera ivi rinchiusa, sentì una lacrima scendergli lungo le gote, attrite 4 dal digiuno e dalla penitenza. Valfrido lo condusse per molti andirivieni fino al limitare della stanza di Pia, poi si allontanò in tutta fretta, senza dire una parola. Pia de’ Tolomei stava seduta presso al balcone aperto, colle mani cascanti sulle ginocchia, il capo rivolto all’indietro. Ed era quella la medesima Pia, che un giorno brillava sotto il cielo di Siena? Dov’era andata quella splendida bellezza, sì tanto decantata dai poeti, dai trovatori di quei tempi? Quel soave, dolcissimo volto erasi in pochi mesi, tutto sformato. Quella pelle già sì bianca e delicata, si era ingiallita e pendeva floscia ed arrendevole a tutti i moti della gentildonna; quello sguardo già sì gentile, aveva perduto tutta la sua vivezza: gli occhi si erano affondati nella loro cavità. Pia de’ Tolomei era divenuta poco meno che un cadavere. Pure in quei suoi lineamenti così alterati, eravi ancora tanta dolcezza di espressione, da farne quasi scomparire l’aspetto soffrente, mortale. Ormai rassegnata al suo destino, Pia de’ Tolomei attendeva pacatamente la morte, come il termine del suo lungo soffrire. Nei primi giorni l’abbandono, l’isolamento le furono insopportabili. Ella si aggirava smaniosa per le sale del castello, chiamando Dio a testimonio della sua innocenza, invocando Rinaldo che non avrebbe mai più riveduto. Sentendo che la follia s’impadroniva di lei a poco, a poco, si torceva 4
attrite: consunte.
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le mani per la disperazione ed esclamava: « Mio Dio, mio Dio, toglietemi di qui: mi manca il respiro, mi sento soffocare. Che ho mai fatto perché debba soffrir tanto? » L’intendente del castello aveva finito a poco a poco ad intenerirsi a quel straziante dolore e cercava di consolare del suo meglio l’infelice prigioniera. Pia de’ Tolomei, commossa a quelle pietose cure che Valfrido le prodigava, lo pregava qualche volta a restare con lei. Allora Valfrido le raccontava le terribili storie di cui era stato testimonio il castello. Pia de’ Tolomei l’ascoltava con una specie di compiacenza, ma di mano in mano che il giorno cedeva luogo 5 alle prime ombre notturne, un senso di paura s’impadroniva di lei, un tremito convulsivo l’invadeva tutta: ella diveniva inquieta, ansiosa; mormoravano le sue labbra, si aggrinzivano le sue mani; gli occhi girava intorno smarriti, come per invocare soccorso e protezioni. Era il delirio della febbre, che le ardeva le vene, le sconvolgeva il cervello. Valfrido scorgeva rabbrividendo quel corpo già sì bello, rigoglioso, sformarsi a poco a poco come cadavere: vedeva la vita fuggire lentamente da quel seno, come un sottile filo d’acqua si perde e sparisce nell’arena. In una di quelle notti in cui l’infelice vaneggiando urlava, Valfrido riscosso dal suo sonno, sentì crescere la pietà per quell’infelice, si ricordò del povero eremita, che viveva poco lontano dal castello e decise la mattina seguente di correre in
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cedeva luogo: lasciava il posto.
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cerca di quel santo uomo, certo che avrebbe portato qualche sollievo alla sventurata prigioniera. Il frate, lasciato solo, rimase, come dissi, inchiodato sul limitare della stanza, tutto assorto nella contemplazione di quella martire dell’amore, della fedeltà coniugale. Pia de’ Tolomei, volgendosi, lo scorse ed un sorriso leggiadro le spuntò sul labbro. Tentò di alzarsi, ma le forze non la ressero, prostese 6 le mani e con un filo di voce: « O padre — disse — qual consolazione è mai questa! Non è dunque un sogno? Invocava Dio, ed egli mi ha mandato uno dei suoi angeli. Oh! quanto lo ringrazio di avermi data questa contentezza prima di morire! » « Dio non si dimentica delle sue creature. » — esclamò l’eremita con voce commossa, andando ad assidersi 7 presso l’infelice prigioniera. Poi le chiese con somma dolcezza: « Come state, figlia mia? » « Male, padre mio, male. Mi sento dominare da un certo non so che di freddo, pesante, eccessivamente molesto, che si ravvolge dentro di me. 8 Ho sofferto tanto, padre: non mai un po’ d’aria libera, pura da respirare. Qui non ho sentito che un’afa continua; le carni mi bruciano addosso, eppure tremo continuamente. » Si tacque un istante, guardò il cielo sospirando, poi riprese: « Oh! è ben doloroso il vivere qui sola, senza mai udire una voce soave, dolce, che mi conforti. Le tenebre mi fanno paura. Io vedo dei fantasmi, che si aggirano per queste stanze e mi sembra prostese: protese. ad assidersi: a sedersi. 8 si ravvolge dentro di me: si rigira dentro di me. 6 7
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che tendano le braccia e vogliano condurmi seco. Talvolta mi pare di essere già morta, seppellita, ed il chiarore della lampada notturna mi mostra crani, ossi, che danzano a me dintorno e sembrano dire: la polve deve ritornare alla polve. 9 Invano io grido al soccorso: la voce mi vien meno, mi manca il respiro, e nessuno mi ode, nessuno mi ascolta. » « Sventurata. » — mormorò il frate sommessamente, poi a voce più alta: « Temete dunque tanto la morte? » — chiese. « Oh! non è la morte che io temo, perché ho il cuore spezzato. Ma quell’agonia lenta, continua: l’idea di chiudere gli occhi senza rivedere un volto adorato, senza udire una voce conosciuta, che mi chiami a nome, senza sentire una mano che risponda alle lente strette della mia! Morire innocente, e nondimeno disprezzata da tutti gli esseri più cari al mio cuore, disonorata in faccia al mondo. Oh! è orribile, padre mio, è orribile. » « Povera innocente, non piangete così, non vi affannate, guardate piuttosto quel crocifisso, che vi sta dinanzi. Egli v’insegnerà cosa sia il sacrifizio. Egli che diede la vita per la redenzione di coloro che l’avevano offeso. Chi più vilipeso di lui? Chi più di lui saturato di vituperio, 10 d’infamia! Eppure né gli uomini né i secoli hanno mai potuto oscurare la di lui fama. State di buon animo, figlia mia: se al cospetto degli uomini ora sembrate una colpevole, verrà un giorno che la vostra innocenza brillerà più fulgida della luce del sole. » « Lo spero, padre mio, lo 9
la polve … polve: la polvere deve ritornare alla polvere. saturato di vituperio: colmato di disprezzo.
10
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spero. Però 11 io non serbo rancore a nessuno. Anche in mezzo ai tormenti angosciosi, che a ripensarli mi si agghiaccia il sangue nelle vene, non un solo pensiero di odio si elevò dai miei labbri, per l’autore delle mie pene. » Pia de’ Tolomei si tacque di nuovo: ella respirava con somma difficoltà: un sudor freddo le bagnava le tempie; la colse come un finissimo capogiro, una languidezza estrema le strinse il cuore. Riavutasi alquanto, seguitò con voce affannosa: « Il mio Rinaldo, vedete, non è colpevole della mia morte: egli è stato orribilmente ingannato, altrimenti non mi avrebbe qui rinchiusa. » « Sentite, figlia mia — mormorò con voce commossa il frate — se avete alcun che da confidare, svelate tutto a me, poiché tutti i segreti non si debbono seppellire con voi, ed io potrò ancora una volta giustificare la vostra innocenza. » Sopra il volto esangue della Pia, si diffuse un rossore gentile; ella esitò alquanto, ma poi vinta dai modi soavi, pieni di carità del frate, espose distesamente i fatti senza ometterne particolarità. 12 L’eremita che prestava attentamente l’orecchio non poté a meno di credere alla parola ingenua, al candore di quell’anima, che tutta a lui si confidava. « Ed ora che sapete tutto — disse Pia abbassando vieppiù la voce — non mi rifiuterete la grazia che io vi domando. Se un giorno v’incontrerete nel mio Rinaldo, diteglielo voi, che io sono morta innocente: lo protesto 13 di Però: Perciò. ometterne particolarità: tralasciarne alcun particolare. 13 protesto: affermo. 11 12
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nuovo dinanzi a Dio, sull’orlo dell’eternità. Ditegli ancora che io reco meco nel sepolcro l’amor vivo, incessante e più che terreno che ho sempre nutrito per lui. Ditegli che nella sua collera, nello spirito della sua vendetta non uccida quell’Ugo, quel forsennato: sul mio esempio gli perdoni. Dategli poi questa ciocca di capelli — e se la trasse dal seno; — vedete padre: i più bei fiori l’hanno inghirlandata un giorno, le gemme vi scintillarono sopra luminose e il mio Rinaldo v’impresse più volte le labbra, ed ora è qui inerte, bagnata dal freddo sudore della morte. » La voce di Pia de’ Tolomei si faceva ad ogni momento più debole; di tanto in tanto il suo sguardo si spegneva e tornava a brillare più ardente e febbrile. Pareva di vedere in quei sguardi la lotta della vita colla morte. Facendo un ultimo sforzo, ella si trasse l’anello nuziale, che portava al dito e passatolo nella ciocca dei capelli, lo consegnò al frate. « Padre — mormorò — voi gli darete altresì quest’anello. Dal giorno in cui Rinaldo me lo pose in dito, io lo rispettai sempre come cosa sacra. Oh! ditegli che il mio amore verso di lui fu puro come l’oro di questo anello, ripetetegli che fui innocente e fedele a lui, che l’avrei attestato anche a costo della vita, e per questo sono morta. » Al pronunziare di queste ultime parole, l’infelice donna dette in uno scoppio di pianto: il frate stesso aveva le lacrime agli occhi. Passato quello sfogo, Pia de’ Tolomei parve alquanto più calma, e continuò: « Padre, padre mio, dite al mio Rinaldo che si penta, che Dio gli perdonerà, come io gli ho da lungo tempo perdonato; e noi potremo rivederci un giorno
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in una patria migliore. » Tacque, perché vinta e sfinita dagli affetti mestissimi e dall’infermità che la crucciava. 14 L’eremita rimase ancora qualche tempo con lei e quando lasciò il castello, Valfrido si accorse che piangeva come un fanciullo. Pia de’ Tolomei stette fissa guardando la porta dond’era scomparso il frate: le parve di aver sognato; se non che portando involontaria una mano sopra l’altra si accorse che più non aveva in dito l’anello nuziale. Allora giunse le mani ed alzò al cielo uno sguardo pieno d’infinita riconoscenza; tentò di balbettare una preghiera, ma le sue labbra non dettero alcun suono. Allora mise un lungo sospiro, lasciò ricadere il capo all’indietro, e chiuse gli occhi. Pareva dormisse: un dolce sorriso aleggiava ancora su quel volto in cui non rimaneva più che la forma ed il riflesso dell’anima, quell’ultimo splendore che rimane nell’estremo orizzonte, quando il sole è già tramontato.
dall’infermità che la crucciava: dalla malattia che la tormentava. 14
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Capitolo decimo La giustizia di Dio Il cielo era coperto di tenebre. Dalle nubi squarciate scendevano gli ultimi raggi del sole ad illuminare la pianura e pareva che l’avvolgessero in un velo di sangue. Il vento soffiava sordamente traverso gli alberi; cresceva il caldo e l’afa fino a togliere il respiro: un’angoscia inesprimibile stringeva l’animo. Si udiva un crescente sibilo: era la bufera che si avanzava sinistra e lenta, coprendo a poco a poco quelle sterminate solitudini, che si chiamano Maremme. Un cavaliere percorreva solo quei desolati piani. Tanto rapido era il suo correre, che l’avresti detto un’ombra raminga dalle riviere della Stige, 1 anziché una creatura umana. Da alcuni mesi lo si vedeva sovente passare e ripassare in quei piani, sempre montato sullo stesso cavallo nero e tutto avvolto in un ampio mantello, che ne celava intieramente le forme, mentre le sue fattezze scomparivano sotto le tese di un largo cappello. Spesse volte, al cader della notte, lo si udì gridare, parlare come un demente, poi fuggire col suo cavallo a precipizio, non appena intendeva avvicinarsi qualcuno. In quella sera il misterioso cavaliere si mostrava più agitato del solito: egli stringeva i fianchi al cavaldalle riviere … Stige: dalle sponde della palude infernale formata dalle acque del fiume Stige, su cui vedi Dante, Inferno, VII, 100–108. 1
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lo, che precipitava il galoppo e passava come una visione in mezzo a quella triste campagna: alcuni contadini, che in lui s’imbatterono, si fecero il segno della croce, mutando lestamente il cammino. Intanto più folte crescevano le nubi: cominciava a mugghiare il tuono e non tardò a cadere a rovesci la pioggia. Il cavaliere correva come il vento; il cavallo spaventato dall’orrendo fracasso dei tuoni, dalla scintilla dei lampi, che rivestiva la natura di un aspetto spaventoso e ferale, 2 si diè ad un corsa fantastica, precipitata, sorpassando ostacoli d’ogni specie, valicando fossi, saltando cespugli, macchie, come se volesse sfuggire a qualche misterioso pericolo. Il cavaliere sembrava inchiodato sulla sella. I lampi si succedevano l’un l’altro con violenza. Il cavallo preso da folle terrore, s’impennò, nitrì, continuò a galoppare, finché stanco, spossato, affranto, cadde per non mai più rialzarsi. Il cavaliere venne sbalzato di sella e gettato nella melma. Egli non si era fatto alcun male. Si rialzò nonostante con lentezza, e guardossi 3 attorno. Alla luce vivida dei lampi, scorse un romitorio poco distante, in cui vedevasi tremolare una debole luce. Il cavaliere stette alquanto indeciso, ma poi alzando la testa come chi ha presa una risoluzione 4 improvvisa, affrettò il passo e si avvicinò al romitorio, la cui porta cedette al semplice urto della sua mano. Allora scorse una stanza di pochi
ferale: funesto. guardossi: si guardò. 4 risoluzione: decisione. 2 3
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piedi quadrati, guernita 5 di povere suppellettili e in fondo alla quale un frate curvo dagli anni, attrito 6 dalle privazioni e dai digiuni, pregava in silenzio, inginocchiato ai piedi di una rozza croce di legno. Il cavaliere stette a riguardarlo un istante: un sorriso amaro gli corse sul labbro; poi con voce stridente e rauca: « Padre, mormorò, permettete che un povero viandante, malconcio dalla bufera, si ricoveri nel vostro romitaggio? » Il frate a quel suono di voce si scosse, si alzò e piantati gli occhi sullo straniero, lo squadrò a lungo fissamente. Lo sconosciuto si era tolto il cappello e mostrava gli avanzi di fattezze regolari e dignitose. La capigliatura gli scendeva lunga e sparpagliata sulla fronte e sul collo; il suo viso aveva una tinta quasi verdastra: i suoi neri occhi incavati, mandavano all’intorno truci sguardi. « Ah! non m’inganno! » — esclamò l’eremita con vivacità. « Voi siete messer Rinaldo della Pietra. Dio, ti ringrazio! Io non sperava di poterlo vedere così presto! » Messer Rinaldo, giacché era desso, 7 aggrottò le ciglia a quelle parole e guardò il frate con aria smarrita. Il povero eremita pareva aver riacquistato tutto il suo vigore, la sua fermezza. « Sì, Dio è buono. » — ripeté con atto solenne. « Dio non permette che l’innocenza soffra a lungo. Egli vi ha qui mandato, perché io possa compiere il mio voto, salvare un’infelice, vittima della fedeltà coniugale. » Rinaldo continuava guernita: corredata. attrito: consunto. 7 desso: lui. 5 6
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a guardare il frate con volto istupidito. Al di fuori la tempesta si faceva più fiera: 8 un tuono tremendo, secco, terribile, succedeva senza posa ad un altro tuono: la folgore scoppiava ad ogni istante. L’eremita afferrò il conte per un braccio e scuotendolo con forza: « Messer Rinaldo — gli disse — la voce di quest’uragano non vi parla all’anima? Non vi dice come la natura stessa si spaventi per l’omicidio di un’innocente? » Rinaldo fe’ un balzo e indietreggiò di un passo. « Come? che v’intendete dire? » — esclamò con voce e sguardi truci. L’eremita continuò con voce grave: « Messer Rinaldo, che avete mai fatto? Perché seppellire viva in quell’orrendo castello un’anima candida, educata, come quella della Pia? Voi sì giusto, sì pietoso, che non avreste condannato un vassallo, 9 senza prima averlo ascoltato, imprigionaste la vostra pia e buona consorte, senza prima averla udita? È un’empietà per un semplice sospetto dannare a morte una creatura. » « Un sospetto, diceste? » — e gli occhi del conte scintillarono con una feroce espressione di rancore. « Un sospetto? Ma non sai che io stesso la colsi in fallo? Ah! la sua punizione è un giusto castigo alla sua colpa! » « Se questa sua colpa fosse esistita; ma quell’Ugo ti ha ingannato, ti ha tradito. L’uomo che vedesti in giardino fra le braccia di Pia, era un soldato di ventura da Ugo salariato, e che Pia credeva suo fratello Gualtiero. » « Ah! non può essere: non è! » — esclamò il conte, aggirandosi furi8 9
fiera: violenta. vassallo: suddito.
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bondo per il breve spazio della stanza, in preda ad una orribile incertezza. E quasi per soffocare un istinto di pietà, pieno di cattivo umore e col cuore angosciato, stava per uscire. Ma l’uragano continuava in tutta la sua forza. In mezzo al rumoreggiare incessante degli elementi, si udì un lungo e prolungato grido, un grido di agonia, di morte. Quel grido fece gelare il sangue al conte, e produsse una viva agitazione nell’eremita. Mossi dallo stesso pensiero, i due uomini fecero alcuni passi fuori dalla capanna; ma la violenza della tempesta era tale che dovettero tosto ritrarsi. 10 Ma la casupola stessa minacciava di sfasciarsi. « In ginocchio, conte! » — gridò l’eremita. « Forse la nostra ultima ora si avvicina; ebbene, qui, sull’orlo della tomba, ti giuro che Pia de’ Tolomei è innocente. Ella stessa m’impose di dirtelo, ed aggiunse che ti perdona il tuo delitto, e muore lieta nella speranza di rivederti, un giorno, in Cielo. Prendi questi capelli, che l’infelice ti manda e li posa sul tuo cuore; tieni, questo è l’anello nuziale, che ella bagnò più volte di pianto innocente. Conte, inginocchiati e prega, prega Dio perché ti lasci ancora tanto di vita da rivederla e proclamare ad alta voce la sua innocenza. Io ti aiuterò nella tua preghiera. » Il volto dell’eremita, mentre così parlava, pareva quello di un santo ispirato. La virilità delle sue forme, lo sguardo dolce, illuminato, la lunga e fitta barba che gli scendeva sul petto, facevano un singolare contrasto colla figura sinistra di Rinaldo, che 10
tosto ritrarsi: subito tornare indietro.
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col sopracciglio abbassato, la fronte corrugata dinotava 11 abbastanza il combattimento che sosteneva dentro di sé, sì che avresti detto voler nascondere a sé stesso la sua debolezza. « Oh! se fosse vero! » — mormorava, palpando fra le dita convulse, gli oggetti inviatigli da Pia. « Se fosse vero! O padre, sa il Cielo quello che soffro! Pure io dubito ancora: dubito sempre. » Proprio mentre pronunziava queste parole, si udì un altro grido, seguito poco stante 12 dalle parole: « A me, aiuto: soccorso! » Messer Rinaldo e l’eremita si slanciarono fuori. La tempesta era cessata: il cielo divenuto tranquillo mostrava, in mezzo alle nubi, la candida luna. A quel chiarore biancastro, il conte e l’eremita scorsero una massa informe e sanguinosa, che si dibatteva sotto i denti di un lupo. Messer Rinaldo era coraggioso: col pugnale che teneva al fianco, fu d’un balzo sopra il lupo. Il frate vide il conte affrontare la belva e confondersi con lei in una sola massa. Rabbrividì e chiuse gli occhi. Contemporaneamente udì un lungo e sordo grugnito, poi un grido di trionfo. Il conte aveva colpito il lupo sotto il ventre ed aveva immerso il pugnale fino all’elsa nelle carni dell’animale. Il lupo era caduto fulminato. Allora pensarono di sollevare il ferito, che pareva svenuto. Mentre Rinaldo si abbassava, il suo cuore pulsò d’una singolare ed inesplicabile emozione. L’eremita e il conte, trasportarono quell’uomo sangui-
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dinotava: esprimeva. poco stante: poco dopo.
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nante, mutilato nella capanna. Allora solo 13 Rinaldo lo riconobbe e mandò un’esclamazione di stupore. « Ugo! » — esclamò. « Ugo! » A questa esclamazione, il ferito aprì gli occhi, trabalzò 14 e fissando sul conte uno sguardo atterrito: « Ah, diss’egli, sei tu, tu, Rinaldo! giustizia di Dio! Egli mi ha lasciato ancora alcuni minuti di vita, perché potessi salvare quella povera innocente vittima della mia perfidia. » A queste parole, il conte trasalì e fece per lanciarsi sul ferito. Ma il frate con un gesto solenne lo fermò. Ugo era in uno stato spaventevole a descriversi. Aveva le braccia, il petto, il collo, orribilmente dilaniati dai denti del lupo; il volto era sformato, e metteva i brividi a vederlo: « Rinaldo — mormorò con voce fioca — Rinaldo, deh! mi perdona! La tua Pia è innocente; un’infelice passione mi acciecò: 15 io fui il demonio che voleva sedurla. Ella non mi diè ascolto, ed io allora divenni furioso e giurai di vendicarmi. » E qui a voce bassa, interrotta, dagli spasimi e dai singhiozzi, narrò distesamente i fatti avvenuti, senza nulla omettere, sperando con questo di sgravare la sua coscienza dalle tenebre del rimorso. « Ma Dio mi ha punito. » — concluse Ugo con accento affannoso. « Mentre io stava per avviarmi al castello a pascermi 16 nell’agonia di lei, sorpreso dal turbine, ribaltato dal mio cavallo, servii di pasto ad un lupo affamato. Dio però non permise che io portassi meco solo: soltanto. trabalzò: sobbalzò. 15 acciecò: accecò. 16 a pascermi: a nutrirmi. 13 14
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nella tomba, il mio segreto. Ah! guai, guai a colui che apre il suo cuore a voglie perverse, e non ascolta più la voce della coscienza! Ah! io la merito la morte: io sono colpevole! Le mie mani sono piene di sangue: io non vedo a me dintorno che spettri, fantasmi. Dio! Dio! come mi brucia il petto: come soffro. Muoio: perdono, perdono! » Messer Rinaldo era rimasto curvo, annichilito, sotto il peso di quelle terribili rivelazioni. Ma ad un tratto egli si drizzò fremente, il suo volto bruno si coprì di un pallore nervoso, il suo occhio guizzò un lampo tremendo. « Miserabile! — esclamò — che ti aveva io fatto per attirare su di me tanta sventura? Io che ti aveva beneficato in mille guise, salvato dai ceppi, dalla morte. Ah! Dio non ha punito abbastanza il tuo delitto: i… » E si abbassò sul moribondo con truce cipiglio e minaccioso gesto. Ma l’eremita lo trattenne e con voce grave: « Fratello — disse — non vedi che la sua anima sta per partire? Giustizia è stata fatta! Vuoi tu inveire contro un informe cadavere? Fratello, perdona se vuoi essere perdonato. » Il conte tremò in tutte le membra ed i suoi occhi si fissarono sullo spaventoso volto di Ugo, in cui leggevansi espressi a chiare note 17 il pentimento, l’agonia, la disperazione. Allora una lacrima spuntò sulle ciglia di Rinaldo; un senso di pietà infinita invase la sua anima. Macchinalmente, egli stese una mano, e con voce affannosa, rotta dai singhiozzi: « Muori in pace, Ugo. » — balbettò. « Io ti perdono, così voglia perdonarti Iddio. » Il moribondo tentò di alzarsi, le 17
in cui … note: in cui si vedevano espressi a chiari segni.
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sue labbra mormorarono alcune interrotte parole, i suoi occhi si sbarrarono ancora una volta, poi si chiusero; la quiete e l’ombra della morte scesero su quelle fattezze, che tuttavia serbarono un aspetto d’orrore, da non essere dimenticato giammai. Messere Rinaldo ed il frate erano caduti in ginocchio ed orarono 18 per qualche istante presso quell’informe cadavere. Fu il primo l’eremita ad alzarsi. « Fratello — esclamò scuotendo un braccio del conte, che lo guardava istupidito — fratello, tu hai ancora un dovere da compiere. Al castello, messer Rinaldo, al castello e Dio voglia che non sia troppo tardi, che Pia de’ Tolomei viva ancora! »
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orarono: pregarono.
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Conclusione Il pentimento Il cielo si era rasserenato, come succede sempre dopo un violento uragano. Placida, dolce e bella scendeva la notte: i venti riposavano tranquilli, la luna irradiava d’un soave splendore tutta la natura. Il tetro castello della Pietra appariva tutto illuminato; spalancata era la gran porta; abbassato il ponte levatoio; nel cortile udivasi 1 un confuso mormorio di voci e di preci. 2 Che avveniva? Pia de’ Tolomei era morta: la sua bell’anima era ritornata al Cielo, dal quale era partita, e gli uomini e le donne dei dintorni erano venuti a levarne il corpo per rendergli gli estremi onori. Pia de’ Tolomei era morta senza soffrire, sorridendo. Valfrido, entrando nella stanza di lei, dopo che era uscito il frate, la scorse abbandonata sulla poltrona, colle mani giunte, il volto sollevato, gli occhi socchiusi ed un sorriso di felicità sulle labbra. Credette che ella dormisse, si avvicinò con taciti 3 passi e si accorse che non respirava più, che il di lei sonno era quello della morte. Presto si sparse la nuova nei dintorni e tutti, uomini e donne, si portarono al castello onde onorare morta quell’angelica creatura, che avevano tanto compianta in vita. Ecco, i lumi
udivasi: si udiva. preci: preghiere. 3 taciti: silenziosi. 1 2
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brillano ancora un istante nel castello, poi da questo esce una lunga fila d’uomini e di donne che fanno ala ad una bara scoperta, portata da quattro donzelle, e su cui è deposta la salma della povera Pia, inghirlandata di fiori bianchi, simbolo dell’innocenza, del candore dell’anima sua. La processione camminava lentamente alternando meste cantilene: le torce accese mandano all’intorno un chiarore rossastro, le voci scemano 4 sempre più, finché dileguansi affatto 5 fra gli andirivieni delle strade, e le tenebre del silenzio e della morte tornano a dominare il castello della Pietra. La pia processione non si fermò che al cimitero, dove era già pronta un’ampia fossa, in cui la bara venne deposta. Più dolenti s’alternarono allora i canti, con molti gemiti mandarono l’ultimo addio al cadavere, poi la folla si allontanò, svanì e in quel campo dell’eterno riposo, non rimase che il becchino che doveva riempire la fossa. Ad un tratto, si udirono alcuni passi precipitosi, e poco dopo si vide comparire un uomo appoggiato al braccio di un frate. Era il conte Rinaldo della Pietra. Egli camminava a passi vacillanti, febbrili; il suo petto ansava 6 tremendamente; gli occhi fissi, sbarrati in terribile guisa, 7 vagarono un istante all’intorno, poi si fermarono smarriti sulla fossa in cui era stata deposta la Pia. Allora un grido o piuttosto un scemano: diminuiscono. dileguansi affatto: si perdono del tutto. 6 ansava: ansimava. 7 in terribile guisa: in maniera terribile. 4 5
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urlo sfuggì dal petto di Rinaldo. Egli lasciò il braccio del frate, si precipitò ai piedi di quella fossa e con voce rotta dai singhiozzi: « Pia, Pia — esclamò — è pur vero? Tu sei morta: morta per cagion 8 mia? » Il becchino spaventato aveva lasciato cadere la vanga ed era fuggito. Rinaldo della Pietra guardò al lume di una torcia il cadavere di quella donna, che aveva tanto amata e che egli aveva uccisa. Sebbene il viso della povera morta fosse gonfio, sformate e livide le labbra, pur tuttavia il sorriso che tutto l’irradiava, lo faceva apparire quasi ancora attraente. Calde, spesse lacrime, ahi! pur troppo non sentite da quella per cui si spargevano, rigarono le guance del cadavere. « Perdono, Pia, perdono. » — esclamava l’infelice conte della Pietra singhiozzando. « No, è impossibile che Dio abbia voluto punirmi così, non mi abbia concesso un ultimo tuo sguardo, una tua parola di amore. Pia, mia Pia, non mi odi tu? Non vedi il mio strazio, il mio rimorso? Rispondi. » E Rinaldo si curvava fremente, delirante verso la fossa; ma allora il frate lo prese per il braccio e fissando su di lui uno sguardo calmo e terribile ad un tempo: « Conte della Pietra — disse — tu non puoi richiamare alla vita la muta argilla. Se vuoi rivederla ancora Pia de’ Tolomei, se vuoi che Dio ti perdoni, prega e pentiti: la preghiera ed il pentimento conducono al Cielo tanto quanto l’innocenza e la virtù! »
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cagion: causa.
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*** Narra la tradizione che il conte Rinaldo della Pietra sinceramente pentito del suo misfatto, si ritirò nel suo castello, dove visse molti anni rinchiuso nella stessa stanza, dove Pia de’ Tolomei aveva esalato l’ultimo sospiro, finché una mattina fu trovato morto nel suo letto, stringendo ancora fra le mani la ciocca dei capelli e l’anello nuziale che Pia gli aveva mandati. Quando il corpo del conte fu portato al cimitero, si vide accompagnare il modesto mortorio 9 di lui, un vecchio curvo dagli anni, che piangeva profusamente e pregava. Era l’eremita. *** Oggi del castello della Pietra non rimangono che poche vestigia, 10 ma il ricordo e l’amore verso Pia de’ Tolomei non si è estinto nel cuore degli uomini. Se mai vi avvenisse 11 di viaggiare in quei luoghi, sentireste da tutti quei buoni contadini raccontarvi la pietosa leggenda della Pia: alcuni anche vi mostreranno il luogo dove sorse il castello, dove Pia visse prigioniera, ed abbassando la voce vi diranno che l’anima dell’innocente contessa vaga sovente fra quelle rovine e spesse volte si ode uscire da esse gemiti prolungati che poi finiscono in una melodia dolce e soave come le melodie degli angeli. mortorio: funerale. poche vestigia: pochi resti. 11 vi avvenisse: vi capitasse. 9
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Sono pie superstizioni; ma chi non sa che anche nelle superstizioni dei contadini si racchiude un principio morale ed un immenso tesoro di poesia, atto a 12 risvegliare l’immaginazione di un poeta, di un romanziere? La storia non si seppellisce coi cadaveri dei traditi; essa vive nel cuore del popolo ed è quasi sempre il popolo che la mette alla luce colle sue poetiche leggende e pietose superstizioni! Fine.
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atto a: capace di.
PADRE PIO DA PALESTRINA PIA DE’ TOLOMEI Foligno, senza data
Fig. 13 — Riproduzione del frontespizio di Padre Pio da Palestrina, Pia de’ Tolomei. Storia in ottava rima, Foligno, senza data.
Presentazione Questa Pia de’ Tolomei del padre Pio da Palestrina è una riduzione, peggiorativa, della Pia de’ Tolomei del Moroni, della quale testimonia a suo modo il grande successo popolare. Inferiore per ogni aspetto al suo modello, questa Pia si caratterizza soprattutto per il colore clericale che l’autore impone alla vicenda: un colore del tutto assente in Dante e vagamente latente negli altri scrittori, ma che ora finisce per trasformare la novella romantica del Sestini in una predica in versi di argomento matrimoniale. Una predica da leggere piuttosto che da cantare, come dimostra anche l’abbandono dell’ottava incatenata, tecnica evidentemente troppo difficile da padroneggiare per un autore non privo di ambizione letteraria, ma troppo modesto nella padronanza linguistica e soprattutto nella ispirazione poetica.
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Nota sull’autore. Del padre Pio da Palestrina non siamo riusciti a trovare alcuna notizia biografica; dal titolo padre, deduciamo che fosse un frate, forse francescano; dal sottotitolo della sua Pia apprendiamo che veniva detto il Romano; dal luogo di edizione, Foligno, siamo indotti a pensare che egli fosse attivo in Umbria. Nota sul testo. Il testo che qui pubblichiamo è tratto da Pia de’ Tolomei. Storia in ottava rima narrata da P. Pio da Palestrina, detto il Romano, Foligno, Stab. Tip. Editoriale G. Campi, senza data.
Pia de’ Tolomei
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Pia de’ Tolomei 1. Nei tempi sanguinosi dei partiti di Vieri Cerchi e ser Corso Donati, 1 ovunque risuonavano infiniti cozzi di spade e grida di soldati, s’udivano i lamenti dei feriti balenavan corruschi elmi ferrati: Pisa con Fiore,2 Chiusi con Volterra, in ogni loco vi regnava guerra. 2. In quei tempi, dicevo, in cui la terra si dirompeva sotto il fero Nume, 3 una leggiadra ninfa, un fior di serra, bella in sembiante e proba nel costume, a nozze andava a un uomo che non erra. Cara ei l’aveva più degli occhi il lume. Era gagliardo e nel sembiante bello, e si chiamava Della Pietra Nello. 3. Apparteneva la gentil donzella a quella nobilissima casata I Cerchi, guelfi bianchi, ed i Donati, guelfi neri, sono famiglie fiorentine rivali dei tempi di Dante. 2 Fiore: Firenze. 3 si dirompeva … Nume: si dilaniava sotto il feroce dio; cioè Marte, dio della guerra. 1
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de’ Tolomei che, come viva stella, splendeva in Siena ed era assai stimata per valore, onestà ed ogni altra bella virtù che, in quella età gentile e fiera, era retaggio d’ogni stirpe altera. 4 4. La giovinetta aveva nome Pia e prima di sposarsi col suo Nello viveva nella sua casa natia col genitore e Piero suo fratello. Andata a nozze, la sua compagnia fu sol colui che le donò l’anello. Solo in casa venìa, per puro invito, un certo Ghino, amico del marito. 5. Quand’ecco da Valdenza giunge un messo che porta a Nello l’ordin di partire, ché la guerra divampa ormai all’eccesso e al comando necessita ubbidire. Nello prende le armi al tempo stesso, ché la giurata fé non vuo’ tradire. Abbraccia lacrimando la sua sposa: « Solo per te mi dolgo, o mia amorosa! » 6. « Però nel tempo ch’io sarò lontano t’affido a Ghino, il mio fedele amico.
Per una svista dello scrittore o dello stampatore, questa strofe monca del secondo verso del terzo distico, cioè di quello che avrebbe dovuto essere il sesto verso, e pertanto risulta composta di sette versi, anziché di otto come sono tutte le altre stanze. 4
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Egli, che è cavaliere ed è cristiano, veglierà su di te, mentr’io il nemico affronterò; e mi sia forte la mano sì ch’io sia degno del mio nome antico. Ritornerò ben presto vincitore A te mia sposa ed unico mio amore. » 7. Parte quindi pel Colle di Valdenza, mentre Pia s’inginocchia costernata, pregando la Divina Provvidenza che protegga il suo sposo e la casata con la sua celestiale alta potenza. Poi, dalla prece sua rasserenata, s’asciuga gli occhi e quindi il viso bello volge a Ghino, che reputa fratello. 8. Mentre attende lo sposo, il genitore le scrive che è partito per la guerra anche Piero, il fratello suo maggiore ch’ella adorava, e il petto le disserra nuovo acerbo e fierissimo dolore: « Quando la pace tornerà qui in terra? » E nuovamente prega il sommo Iddio: « Serba i miei dolci beni all’amor mio. » 9. Intanto Ghino, amico traditore, è tutto preso per la bella Pia: sente per lei un veemente, ardente amore nel vederla sì pien di leggiadria; e ghignando si dice in fondo al cuore: « O volente o nolente sarai mia. » E già pregusta i baci suoi roventi, gli amplessi e le carezze le più ardenti.
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10. E le parla così: « Dolce adorata, da gran tempo desidero il tuo affetto. Tu per me sei la dea più idolatrata! Se potessi guardare nel mio petto, vedresti quale fiamma s’è destata nel vederti qui sola al mio cospetto. Ricambia, dolce amor, l’affetto mio, e l’umile tuo schiavo sarò io. » 11. Avvampando di sdegno ella gli dice: « Non favellar di più, vil traditore! Mancare alla tua fede a te non lice: il mio sposo t’elesse a protettore della persona mia, e ne fui felice. E invece vuoi insidiarmi nell’onore? Sei un infame e non sai quel che t’aspetta: Nello contro di te trarrà vendetta. » 12. Scornato, si ritira il traditore, meditando, nel suo pensiero rio, a colei, che sdegnar volle il suo amore, della ripulsa far pagare il fio: « Dovrai scontar col più fiero dolore il tuo diniego, o io non son più io! » Esclama con livore, e l’occasione l’aiuta nella truce decisione. 13. Era tornato dal cimento 5 Piero e tosto la sorella andò a trovare.
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cimento: battaglia.
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Ma di nascosto, ché quel cavaliero era di una fazione militare avversa a Nello, e quindi nel mistero dovea l’amata suora 6 visitare, sperando che i conflitti fra i partiti con la pace sarebbero finiti. 14. Ma dalla guerra torna pure Nello e Ghino gli va incontro cavalcando. Giunto a circa due miglia dal castello, lo incontra, lo saluta e dopo, quando le notizie di Pia gli chiede quello, dapprima tace, quindi di rimando gli sussurra: « Purtroppo, sei un marito sventurato: la sposa ti ha tradito! » 15. Nello risponde irato: « Questa è fola! 7 Conosco appieno la consorte mia. Ritira, quindi, presto ogni parola che offender possa la mia dolce Pia. Chi la dispregia, mente per la gola, come tu menti, alma perversa e ria! Sappi che di chiunque la sospetta con la mia spada saprò trar vendetta! » 16. Ghino risponde: « Nello, tu lo sai che non è mio costume calunniare e mettere gli amici in mezzo ai guai, quando non posso i detti miei provare. 6 7
suora: sorella. fola: favola.
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Con te mentire non potrei giammai né la consorte tua potrei infamare. Ma ti posso provare in un istante che la tua Pia si è fatta un bell’amante. 17. Lo riceve ogni sera nel giardino, e lietamente immersi nell’amore trascorrono, tenendosi vicino, nelle notti serene, l’ore e l’ore. Se vuoi, stanotte stessa il tuo destino conoscerai e vedrai che il disonore insozza la tua nobile casata e quella donde la tua sposa è nata. » 18. Suonava mezzanotte, quando Ghino unitamente al contristato Nello, giunge cauto nei pressi del giardino, che si distende a nord del castello. Si ferman quivi e vedono vicino, su un poggiolo 8 che sta presso al cancello, seduti poco lungi, in compagnia e in dolce conversare, Piero e Pia. 19. Nello non riconosce il suo cognato, che tutto chiuso sta nell’armatura, e in ogni modo glielo tien celato anche la notte tempestosa e scura. Avvampa di furor, ma consigliato da Ghino attende, come più sicura,
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poggiolo: piccolo rialzo del terreno.
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una tarda vendetta, per punire l’indegna che la fé 9 volle tradire. 20. Il giorno dopo ei 10 torna al suo castello, fingendo di arrivare allora allora. Pia giubilante esclama: « O caro Nello, quanto ho sognato questa lieta ora! Benvenuto tu sia nel dolce ostello, dove con te la sposa tua dimora! » Ma Nello non risponde al suo sorriso e, fosco e torvo, non la guarda in viso. 21. Ella, allora, gli dice: « Perché mai, ti mostri così cupo, o mio signore? Perché il bacio d’arrivo non mi dai? Se qualche affanno serbi nel tuo cuore, con il mio affetto ti consolerai e troverai conforto nel mio amore. » Ma Nello non risponde una parola ed ella sente stringersi la gola. 22. Alfine Nello, tanto per trovare un pretesto a spiegare il malumore, le dice che, purtroppo, il guerreggiare non ha portato frutto, e il suo valore nulla è valso: l’armata ritirare si è dovuta e concluder con dolore una pace obbrobriosa: « Questo solo — le dice — è la cagione del mio duolo. » 9 10
la fé: la fedeltà matrimoniale. ei: egli.
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23. Pia crede a tutto quel che dice Nello e dal pensiero ogni idea triste scaccia. Egli le dice poi: « Nel mio castello della Pietra n’andremo. » E poi l’abbraccia. « Voglio passare un po’ di tempo bello e divertirmi un poco andando a caccia. » E, sì dicendo, ordina ai vassalli che insellino al più presto due cavalli. 24. Saliti in sella, lasciano l’ostello gli sposi, e lui le dà la destra mano; poi s’incammina verso il gran castello della Pietra di cui Nello è sovrano. Quell’edificio forte, antico e bello, è sito in territorio maremmano; lunga perciò, per quanto lieta e amena, è la strada che al dolce nido mena. 25. Lungo la strada Pia dice al marito: « La polvere ed il sol mi dan l’arsura. Fermiamoci un momento in qualche sito, per godere un pochino di frescura. Vedo là la capanna d’un romito che spicca gaia in mezzo alla pianura. Se ti aggrada, sostiamo qualche istante. » « Volentieri. » E si fermano lì avante. 26. Il romito, ch’è un uomo santo e pio, accoglie i due con grande contrizione, li benedice nel nome di Dio e poi si pone a lor disposizione. Pia dice: « Grazie, solo mio desio
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è un po’ d’acqua a mitigar l’arsione. » Ed il sant’uomo subito s’affretta a empire ad una fonte una brocchetta. 27. Bevuto e riposatisi, sen vanno ringraziando il romito sì gentile; ed ancora parecchie miglia fanno, lui sempre torvo e lei sempre più umile e sempre rósa da un interno affanno, che il cor le punge come acuto stile: non sa che tema, ma d’un tradimento ha nell’anima sua il presentimento. 28. Alfine giunti al turrito 11 castello della Pietra e incontrato il castellano, scendono e senza far parola Nello le briglie del destrier gli 12 pone in mano. Poi invita Pia ad entrare nell’ostello dove egli comanda da sovrano. E dà ordine ai servi che in dispensa prendano cibi e vini per la mensa. 29. Finito appena di mangiare, Nello chiama in disparte il fido castellano, e dice: « Domattina dal castello io partirò, ché debbo andar lontano. Ma la mia sposa resta in questo ostello. Guai a te se te la fai fuggir di mano:
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turrito: ricco di torri. gli: a lui (castellano).
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libera ella sarà nella magione, ma come chiusa dentro una prigione. » 30. Alla mattina, infatti, mentre Pia dorme e, nel suo dormir, sembra più bella, Nello si leva: con malinconia la guarda, poi discende e ratto 13 in sella sale e a galoppo se ne corre via verso altri paesi e altre castella. Cerca di non pensare a lei, ma in core lo tormenta l’aculeo del dolore. 31. Intanto Pia si desta e cerca Nello per ogni dove, ma lo cerca invano. Infine, mentre il suo visino bello impallidisce, chiama il castellano: « Il mio sposo non è più nel castello, come mai? » « Eh, madonna, egli è lontano. È partito stamane di buon’ora e molte miglia avrà fatte a quest’ora. » 32. « Ma tornerà? » « Lo ignoro, o mia signora. Nulla mi ha detto né l’ho addimandato. » « Ebbene, tornerà fra breve ora. Ora dammi un cavallo ben sellato, ché voglio andargli incontro. » Si scolora il volto del buon uomo, ed impacciato risponde: « Non vi posso accontentare, ché voi dovete qui chiusa restare. »
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ratto: rapido.
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33. Comprende bene allor la gentil donna che nel castello è chiusa prigioniera. « Ma che mai ho fatto io, povera donna, da meritare tale sorte fiera? » E s’inginocchia e prega la Madonna. Ma intanto muore il giorno e vien la sera a stendere i suoi veli sul creato, ed ella piange ancora il bene amato. 34. Intanto Nello è ritornato in Siena e quivi si diverte sera e mane. Una vita di lusso lieto mena e si trastulla con le cortigiane. Poi cerca d’alleviare la sua pena tra i duelli, le giostre e le gualdane, 14 ma sempre gli sta fisso nella mente un pensiero: « Se Pia fosse innocente? » 35. Son trascorsi sei mesi. La dolente è divenuta l’ombra di se stessa. E il castellano, che pietade sente per quella poveretta che ha riflessa nei begli occhi la morte, è più indulgente. E un giorno, che la vede genuflessa all’altare, le dice: « Fuori andare volete? Ma vi debbo accompagnare. »
La gualdana è una giostra, in cui il cavaliere cerca di colpire lo scudo infisso in un braccio di una sagoma ruotante, senza farsi colpire dal martello appeso all’altro braccio della sagoma. 14
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36. Ella accetta ed insieme al castellano sen va verso la casa del romito. Giunta, ansante, allo speco, 15 ella la mano al veglio bacia e poscia lo smagrito volto levando verso lui, pian piano dice: « Ho un dolore in cor, alto, infinito: muovetevi a pietade, padre santo, d’un’infelice: soffro, soffro tanto! » 37. E seguita così: « Di me serbate forse la ricordanza, o vecchio santo. » « Sì — risponde il romito — nell’estate vi soffermaste qui, ed a voi d’accanto era un bel cavaliere. Chiedevate riposo ed un bicchier d’acqua soltanto. » « È vero, e quegli che mi stava a lato, era il mio sposo che m’ha abbandonato! » 38. « E per quale ragione? » « Non so niente; vi giuro, padre mio, che tutto ignoro — la bella Pia risponde ingenuamente — ed è per questo che intristisco e moro; ché d’ogni colpa mi sento innocente e il bacio della morte solo imploro! » Così dicendo, piange, ed il vegliardo pietoso verso lei volge lo sguardo. 39. Ma calmatasi, poi, la donna alquanto, prosegue: « Ora una grazia da fratello: quando la morte avrà steso il suo manto 15
speco: spelonca, grotta.
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su di me, consegnate quest’anello al mio consorte e ditegli che tanto l’amai. Si chiama Della Pietra Nello. » Così dicendo, sfilasi dal dito la fede 16 e la consegna al buon romito. 40. « Ed ora addio » — conclude; « quando in pace dormirò, qualche volta, in sulla sera, sopra la tomba mia, se non vi spiace, volgete al ciel pietoso una preghiera per la povera donna che vi giace e che non meritò sua sorte fera! 17 Forse, pentito, anche lo sposo mio verrà colà a prostrarsi. Padre, addio! » 41. Frattanto, in quel di Siena, stanco Nello di bagordi e di giostre, e tormentato dal dubbio muove verso il suo castello, per saper della moglie che sia stato. Ed ecco che vicino ad un ruscello ei vede un cavalier venir da un lato: lo guarda e riconosce in quel signore della consorte il vecchio genitore. 42. Il gentiluomo chiede della Pia e Nello gli risponde: « È al mio castello rinchiusa, ché tradì la fede mia! » Il vecchio avvampa: « Bada bene, Nello, come parli! La tua è una vil bugia. 16 17
la fede: l’anello nuziale. fera: crudele.
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Nessun dei Tolomei fu vile e fello! » Allora l’altro dice: « Coi miei occhi io vidi un cavaliere ai suoi ginocchi! » 43. Il vecchio l’interrompe: « C’è un arcano certamente, e la voglio interrogare. Andiam da lei e, se è vero che un insano amor la prese, io stesso giudicare voglio e l’ucciderò con questa mano, s’ella alla fede sua provò a mancare. Son padre, ma sarò giudice, Nello; andiamo senza indugio al tuo castello. » 44. Mentre dice così, molto vicino, si sente un grido acuto di dolore. Corrono i due, e chi trovano? Ghino che, assalito da un orso con furore, aveva lacerato l’intestino, sì ch’egli l’alma è presso a render fuore. Il traditor li mira e di repente 18 a voce fioca dice lentamente: 45. « Pietà di me. Fui vile. Ascolta, Nello, e voi pure ascoltate, o mio signore. Mentre tu eri lontano dal castello, per Pia fui preso da un immenso amore. Ella mi dispregiò, ed allor, da fello, ti dissi che tradito avea l’onore. Quel che vedesti accanto a lei era Piero il fratel suo. Tel giuro, son sincero. » 18
di repente: subito.
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46. Quasi subito spira; e, galoppando, i due verso il castello della Pietra muovono, e intanto Nello va implorando il Signore e il perdono al fallo impetra: « Oh, maledetto, maledetto quando al traditore diedi ascolto! » E l’etra 19 fa risonar del suo pianto accorato e sprona a sangue il suo destrier sfrenato. 47. Quand’ecco, per la china, un funerale vedon venire e il suon d’una campana odon, portato dal vento sull’ale, e un’altra squilla risonar lontana. Nello, ch’è preda d’una pena arcana, ferma tutto d’un colpo l’animale e chiede: « Chi portate in questa bara? » « Pia Della Pietra, la signora cara! » 48. « Fermate! » — urla, e poi scopre il cataletto 20 con man tremante e vede allor di Pia il sembiante smagrito eppur diletto. Allor grida demente: « Oh sposa mia, ch’eri stata per me l’unico affetto, io sol t’ho uccisa, e maledetto sia colui che volle avvelenarmi il core e dannarmi a insanabile dolore! »
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l’etra: l’aria. il cataletto: la bara.
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49. Poi tra le braccia del padre di lei si getta, lacrimando: « Padre mio! Parente indegno fui de’ Tolomei! Perdonate e così perdoni Iddio! Orrenda pena per i falli miei mi sarà il non poter trovar l’oblio, ché, finché durerà la vita mia, scordar non mi potrò della mia Pia! » 50. Qui termina la storia della Pia, che i poeti chiamaron la dolente. Un’altra Musa che non questa mia occorreria a parlare degnamente di questa donna tutta leggiadria che amò, gioì, soffrì e morì innocente. E se con i miei versi ho osato tanto, vi chiedo perdonanza e smetto il canto. Fine.
ANONIMO LA PIA DE’ TOLOMEI. BEFANATA Lucca, 1980
Presentazione Come esempio della grande diffusione che la leggenda della Pia ha avuto nel teatro popolare toscano del Novecento, nella forma cantata propria del maggio, del bruscello e della befanata, pubblichiamo il testo della befanata Pia de’ Tolomei, secondo il testo adottato dalla Compagnia di Soiana (Pisa), stabilito da Daniela Menchelli, per il Centro per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari della Provincia di Lucca. Si tratta di un testo che ha come modello narrativo la Pia del Moroni e che si raccomanda sia per la sua brevità e facilità letteraria sia per la sua conclusione che segna la completa trasformazione della leggenda della Pia in un modesto canto di questua da farsi in occasione della festa della Befana: un canto in cui gli ascoltatori non cercano più la storia, che tutti conoscono bene, ma tornano a commuoversi al ricordo di quella tragica storia d’amore che le voci dei cantori rivivono e ripresentano ancora.
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Nota sull’autore. Non sappiamo chi sia l’autore di questa Befanata; per questa ragione lo indichiamo come Anonimo. Nota sul testo. Il testo che qui pubblichiamo è tratto da La Pia de’ Tolomei. Befanata. Secondo il testo adottato dalla Compagnia di Soiana (Pisa), a cura di Daniela Menchelli, Lucca, Provincia di Lucca, 1980, di cui non riproduciamo il frontespizio, perché si tratta di un semplice dattiloscritto.
Pia de’ Tolomei. Befanata
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1. Poeta
Già che il permesso ce lo avete dato fate attenzione, cari uditor miei. Ogni attore, vedete, è preparato canteranno la Pia de’ Tolomei. 2. Nello che da Ghino restò ingannato; misera Pia, quanto soffrì colei: la portò1 nel castello maremmano. Ora, attenzione, incomincerà il Befano. 3.
Befano
Io vi vengo a salutare di buon cuore, amata gente. Ascoltate attentamente: la Befana si va a cantare. 4.
Befana
1
E quest’anno, uditor miei, ammirate di buon cuore: canterem pene ed amore della Pia de’ Tolomei.
la portò: (Nello) portò la (Pia).
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ANONIMO
5. Messaggero È arrivata una staffetta e tu, Nello, partirai. In battaglia ne anderai: il nemico è là che aspetta. 6. Nello Pia Nello
Io ti lascio, cara Pia. Tu mi lasci nei pensieri. Tu lo sai: sono un guerrieri.2 Dammi un bacio, e vado via. 7. E tu, Ghino, resterai a badare ai miei possessi; e di tutti l’interessi al ritorno mi dirai. 8.
Ghino
2
Io son pronto all’obbedienza: ti prometto e te lo giuro. Parti pur lieto e sicuro, ché si affretta la partenza.
guerrieri: guerriero.
Pia de’ Tolomei. Befanata
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9.
Pia Ghino
(Ghino alla Pia) Or guardiam se mi contenti: siamo soli, cara Pia. Traditore, fuggi via! Lo vedrai che te ne penti. 10.
Nello
(Nello al campo) Ecco qua l’accampamento dei nemici bene armati. Ho perduto i miei soldati, deo 3 fuggire nel momento. 11.
Piero Nello
Non fuggir, brutta canaglia. Io son qua, non mi nascondo. Al dovere corrispondo: sarò pronto alla battaglia. 12.
Due soldati Qui la guerra terminate da cognati e da parenti. Della pace siate contenti ed a casa ritornate.
3
deo: devo.
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ANONIMO
13.
Nello Ghino
(Nello incontra Ghino.) Ora a casa son tornato. Ghino, dimmi della Pia. Tutti i giorni in compagnia ci ho veduto andà un sordato.4 14.
Nello Ghino Nello
Giura al cielo di non mentire. Te lo giuro sul mio cuore. Mi ha ridotto al disonore, la dovrò tosto punire. 15.
Nello Pia
(Nello va da Pia) Pia, con me tu ci verrai. Anderemo al mio castello. Io preparo il mio mantello, e lassù mi porterai. 16.
Nello
4
Sento sete, o mio marito, e più avanti non so andare. Lo verremo a domandare dove alberga qua un romito.
ci ho veduto … sordato: ho visto andarci un soldato.
Pia de’ Tolomei. Befanata
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17.
Romito
(Al romito) Buon romito, per piacere un po’ d’acqua in un bicchieri. 5 Io son pronto, e volentieri la signora la può bere. 18.
Nello Romito
Di virtù ci daste 6 un saggio. Grazie a voi, buon padre amato. Ogni cuor sia consolato. Dio vi assista, e buon viaggio. 19.
Nello
(Nello al castellano) Castellano, fai coraggio e preparaci la cena. Ben lo sai, si vien da Siena, siamo stanchi dal viaggio. 20.
Castellano
5 6
Mio gratissimo Signore, sono pronto all’obbedienza. Preparata avrò la mensa, sempre vostro servitore.
bicchieri: bicchiere. daste: deste.
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ANONIMO
21. Nello
Son venuto con la Pia; ora pronti andiamo a letto. Stai attento a quel che ho detto: quando dorme, fuggo via. 22. Non ti fugga alla foresta, non ti sorta 7 dal cancello; stai all’ordini di Nello, ché per te pena è la testa. 23.
Pia
(Pia si sveglia) Castellano, ov’è il mio Nello? Mi ha lasciata addormentata. A me l’ordine l’ha data di star chiusa i nel castello. 8 24.
Nello Ghino
7 8
(Nello a Ghino) Ghino, più non sento pena. L’ho rinchiusa e ’un vi è da dire. Se ti vuoi divertire, tante donne trovi a Siena.
sorta: esca. i nel castello: nel castello.
Pia de’ Tolomei. Befanata
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25.
Pia
(Pia al romito) Buon romito, per piacere, se ascoltate mia preghiera. Son dannata prigioniera, 9 dal dolore e il dispiacere. 26. Se incontrar potrete Nello, dite presto 10 l’abbandono e morendo lo perdono. Gli darete questo anello. 27.
Donna
(A una donna in ginocchio) E tu misera che stai lì pregando, qual tormento? Mio marito restò spento e mai più dimenticai. 28.
Pia
Anche a me, 11 se ti è concesso, dei pregar. Fra pochi giorni, quando qui tu ci ritorni, altra tomba vedrai appresso.
Son … prigioniera: Sono condannata ad essere prigioniera. dite presto: dite che presto. 11 Anche a me: Anche per me. 9
10
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ANONIMO
29.
Donna
Ti regalo una crocetta, vedi, già imperlata d’oro. Pregherò. Le grazie imploro Per un’alma 12 benedetta. 30.
Padre
(Padre a Nello) Nello, qua ti voi parlare: la mia figlia dove sia. 13 Dunque, insegnami la via, la vuo’ andare a ritrovare. 14 31.
Nello
Su, partiamo prestamente, non perdiamo di coraggio. Faticoso gli è il viaggio, ma di ciò non curiam niente. 15 32.
Romito
Fermi qui, tu ascolterai. Debbo renderti un anello, ché Pia dentro il castello me lo diede, e io lo accettai.
Per un’alma: per un’anima. Nello … dove sia: Nello, ora ti voglio parlare: (per sapere) dove sia la mia figlia. 14 la vuo’ andare a ritrovare: voglio andare a ritrovarla. 15 ma di … niente: ma di questo non ci importa niente. 12
13
Pia de’ Tolomei. Befanata
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33.
Nello
Ora andiamo ad altro sito, ristorarsi alla capanna. Chi è quell’uomo che si affanna? Ahimé, Ghino è ferito! 34.
Ghino
Nello, mi perdonerai. Quel soldato era il fratello. Se l’hai chiusa nel castello, guarda se la salverai. 35.
Nello Ghino Nello
Ti dovrei qui trucidare. Vedi, un lupo mi ha sbranato. Ora sconta il tuo peccato. Io la Pia vo’ andà a trovare. 16 36.
Pia
Quanto ormai ebbi a soffrire. Castellano, ti abbandono. Digli a Nello lo perdono. Ohi, mi sento di morire. 37.
Nello
16 17
Affrettiamo la partenza, per sarvar 17 l’amata Pia.
Io la Pia vo’ andà a trovare: Io voglio andare a trovare la Pia. sarvar: salvare.
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ANONIMO
Sento in cuor l’anima mia: conosciuta è l’innocenza. 38.
Castellano Nello
Castellano, ov’è il mio amore? Siamo stanchi della gita. È passata ad altra vita. Ohi, mi sento schiantà 18 il cuore. 39. Mesta mia moglie adorata, traditor l’infame Ghino, io di te fui l’assassino, io innocente condannata. 19 40.
Padre
Il mio corpo al tuo è diviso. Figlia mia, fosti innocente. Pregherò l’onnipotente: ci vedremo in Paradiso. 41.
Coro
18 19
Or cantiamo a questa gente, con gran pena e gran dolore, perché Ghino traditore fa morir la Pia innocente.
schiantà: schiantare. io innocente condannata: Io (ti ho) condannata innocente.
Pia de’ Tolomei. Befanata
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42. Ora, o nobili persone, che ci avete qui ascoltato, sarà ognun ricompensato della rappresentazione. 43. E per darci una risorsa, ammirabil cittadini, preparate dei quattrini: viene lui con la sua borsa. 44. Getti ognuno a piena mana, 20 se il buon cuore ognuno tiene, o un altr’anno ’un 21 si riviene a cantare la Befana. Fine.
20 21
a piena mana: a piene mani. ’un si riviene: non si ritorna, non torniamo.
Indice
Parte I. La questione storica CARLO CORSETTI La questione della Pia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
Parte II. I testi letterari DANTE ALIGHIERI Purgatorio, V, 1309–1313 ca. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
83
MATTEO BANDELLO Novelle, I, 12, prima del 1524 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
99
BARTOLOMEO SESTINI La Pia. Leggenda romantica, Roma, 1822 . . . . . . . . . . . . . . . . 119 GIACINTO BIANCO Pia de’ Tolomei. Dramma storico, Napoli, 1836 . . . . . . . . . . . . 247 SALVATORE CAMMARANO Pia de’ Tolomei. Tragedia lirica, Venezia, 1837 . . . . . . . . . . . . 341 CARLO MARENCO La Pia. Tragedia, Torino, 1837 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 397 LIONARDO MORRIONE Pia dei Tolomei, Palermo, 1858 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 529 PIETRO FREDIANI Maggio della Pia de’ Tolomei, Volterra, 1867 . . . . . . . . . . . . . . 617 857
858
Indice
GIUSEPPE MORONI detto il Niccheri Pia de’ Tolomei, Firenze, 1874 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 663 GIUSEPPE BALDI Pia de’ Tolomei, Firenze, 1874 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 697 CAROLINA INVERNIZIO, Pia de’ Tolomei. Romanzo storico, Milano, 1879 . . . . . . . . . . 715 PADRE PIO DA PALESTRINA Pia de’ Tolomei, Foligno, senza data . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 819 ANONIMO La Pia de’ Tolomei. Befanata, Lucca, 1980 . . . . . . . . . . . . . . . 841
Indice delle figure
1.
Riproduzione dell’illustrazione premessa al primo canto del Purgatorio nell’edizione di Venezia, Giolito, 1555 . . . . . . . . . . . . . .
85
2.
Riproduzione del frontespizio della prima parte di Matteo Bandello, Novelle, Lucca, Busdrago, 1554 . . . 101
3.
Riproduzione del frontespizio di Bartolomeo Sestini, La Pia. Leggenda romantica, Roma 1822 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121
4.
Riproduzione del frontespizio di Giacinto Bianco, Teatro, Napoli 1938 . . . . . . . . . . . . . 249
5.
Riproduzione del frontespizio di [Salvatore Cammarano], Pia dei Tolomei. Tragedia lirica, Venezia 1837 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 343
6.
Riproduzione del frontespizio di Carlo Marenco, Tragedie, I, Torino 1837 . . . . . . . . . . . 399
7.
Riproduzione del frontespizio di Lionardo Morrione, Pia dei Tolomei. Tragedia, Palermo 1858 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 531
8.
Riproduzione del frontespizio di [Pietro Frediani], Maggio della Pia de’Tolomei, Volterra 1867 . . . . . . . . . . . 619
9.
Riproduzione di Giuseppe Moroni, Pia de’ Tolomei. Fatto storico, Firenze 1874 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 665
10. Trascrizione Base della Pia de’ Tolomei di Giuseppe Moroni . . . . . . . . . . . . 695 859
860
Indice
11. Riproduzione del frontespizio della Raccolta di canzonette bernesche in ottava rima, Firenze 1874 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 699 12. Riproduzione del frontespizio di Carolina Invernizio, Pia de’ Tolomei. Romanzo storico, Milano 1879 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 717 13. Riproduzione del frontespizio di Padre Pio da Palestrina, Pia de’ Tolomei. Storia in ottava rima, Foligno, senza data . . . . . . . . . . . 821
AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI
Area 01 – Scienze matematiche e informatiche Area 02 – Scienze fisiche Area 03 – Scienze chimiche Area 04 – Scienze della terra Area 05 – Scienze biologiche Area 06 – Scienze mediche Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie Area 08 – Ingegneria civile e Architettura Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche Area 12 – Scienze giuridiche Area 13 – Scienze economiche e statistiche Area 14 – Scienze politiche e sociali
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