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Dr. Fabrizio Boninu, Psicologo – Psicoterapeuta, Piazza Salento 7, Cagliari
94 - S’ accabbadora…
Il post di oggi riguarda una vicenda della quale ben poco sapevo fino a non molto tempo fa ma che ha forti risvolti con un dibattito in corso attualmente. Pur essendo sardo, non avevo mai sentito parlare della figura de s’accabadora. Per chi non lo sapesse il termine fa riferimento alla persona de s’accabadora, termine che potremmo tradurre con ‘colei che da la fine’, una sorta di incaricata dell’eutanasia delle persone moribonde nei piccoli paesini della Sardegna. Il termine ebbe un risalto nazionale grazie al libro della scrittrice sarda Michela Murgia che, nel 2009, pubblicò un libro dal titolo Accabbadora e che vi consiglio di leggere se voleste saper qualcosa di più sul tema. Ma torniamo a noi. Perché mi sto occupando di questo tema? Il pretesto de s’accabadora è utilizzato per parlare più specificamente dell’eutanasia. Il termine eutanasia composto dal suffisso eu-buona e dal sostantivo tanatos-morte, vuol dire appunto buona morte. Il tema è dibattuto ancora oggi e lo è stato molto in occasioni particolari come la morte di Eluana Englaro o di Piergiorgio Welby. In realtà, il tema dell’accompagnamento delle persone sofferenti alla morte è stato, e la figura dell’accabadora sembra dimostrarlo, sempre presente nella società. Forse era necessaria nelle società pre-mediche, società dove, cioè, la medicina non aveva ancora questa aura salvifica, una figura che fungesse da ‘intermediario’ tra le sofferenze della persona malata, la famiglia e la morte stessa. La funzione di questo tipo di figura era, essenzialmente, quella di dare una degna fine alla vita di un individuo non più in grado di viverla, alleviando non solo le sue sofferenze, anche solo quella di non poter più considerare quella che stava vivendo come Vita, ma anche quella del gruppo familiare e sociale più esteso dato che si doveva comunque fare fronte all’accudimento di una persona non più autosufficiente e per il quale, magari, non c’erano strumenti che consentissero di consentirgli di vivere in maniera decente. Curiosamente, anche dal punto di vista religioso s’accabadora godeva di un certo status, dal momento che, non considerata ‘assassina’, aveva una valenza sociale riconosciuta. Questa premessa dava luogo ad una certa considerazione: prima dell’avvento della medicina di massa, esisteva un forte legame tra la vita e la morte dove la seconda era considerata come necessaria conseguenza della prima. Ho l’impressione che noi abbiamo perso tutto quest’insieme di simbolismi e di concezioni sulla morte. Schiavi ormai dell’idea di una medicina onnipotente, prendiamo in considerazione con sempre maggiore difficoltà che ci siano condizioni nelle quali la morte è preferibile ad una nonvita. Convinti fermamente di poter decidere in tutto e per tutto cosa ci possiamo (o no) permettere, siamo accecati da questa apparente onnipotenza. Questa onnipotenza viene meno nel momento in cui potremmo decidere della nostra fine. In questo la società sembra essere molto categorica e si rifugia dietro dogmi religiosi: non si può avere una ‘dolce morte’, partendo dal rispetto dei tempi della morte, perché la vita non è nelle nostre disponibilità e, privandocene, non rispetteremmo il volere di dio. In realtà, a ben pensare, se dovesse essere rispettato il volere di dio probabilmente bisognerebbe spegnere le apparecchiature che, artificialmente, tengono in vita le persone grazie al mantenimento, sempre artificiale, di tutte le funzioni vitali più importanti. Chi non rispetta allora il volere di dio? E ancora più paradossale sembra essere il fatto che siamo privati della possibilità di decidere sulla nostra morte anche se la nostra palese volontà è quella di far terminare la vita al di là di qualsiasi accanimento terapeutico. E tutto ciò avviene in
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Dr. Fabrizio Boninu, Psicologo – Psicoterapeuta, Piazza Salento 7, Cagliari una società che apparentemente spinge a pretendere indipendenza e poi la nega sulle scelte di vita più intime e private. Solo a me pare un enorme contraddizione? Perché è andato perso il valore sociale della possibilità di porre fine alla nostra vita? Sembra come se, una volta che venisse tenuto in vita a qualsiasi costo, la persona stesse ‘vivendo’. Forse dovremmo necessariamente partire da questa accezione meccanica della vita (la mia vita è respirare o io sono qualcosa di più del mio solo battito cardiaco?) per cercare di riconsiderare il senso intero della nostra esistenza. Non vorrei che, ottenebrati dalla possibilità di vivere ‘per sempre’, non finissimo davvero per considerare vita il solo respirare.
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