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I edizione: giugno 2008
ISSN
978-88-548-1876-7 0004-0304
Indice
DOTTRINA Riflessioni sulla riforma delle impugnazioni penali GUSTAVO PANSINI .............................................................................................
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Ancora in tema di recidiva e prescrizione GIULIANO BALBI ................................................................................................
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Ulteriori osservazioni in tema di appellabilità delle sentenze di assoluzione ALESSANDRA GUALAZZI ..................................................................................
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GIURISPRUDENZA ANNOTATA Cass. Sez. Un. Pen. 27/9/07, con nota Famiglietti ........................................ Cass. Sez. Un. Pen. 11/7/06, con nota Barba ................................................ Cass. Sez. II 24/5/07, con nota Romano ....................................................... Cass. Sez. III 17/10/07, con nota Nicolucci .................................................. Cass. Sez. II 08/11/07, con nota Puglisi ......................................................... Trib. Sorv. Napoli, con nota Reccia .................................................................
111 143 179 191 201 213
RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ Panorama di attualità SERGIO BELTRANI ..............................................................................................
227
Ricorso per cassazione ADA FAMIGLIETTI ..............................................................................................
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INDICE
PANORAMA EUROPEO Violenza domestica e stalking ANTONIETTA CONFALONIERI .........................................................................
247
L’ammissibilità delle intercettazioni telematiche FLAVIO ARGIRÒ ..................................................................................................
263
Rassegna bibliografica: Lina Caraceni ANTONIO BARBA ................................................................................................
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Riflessioni sulla riforma delle impugnazioni penali (G. Pansini)
DOTTRINA
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INDICE
Riflessioni sulla riforma delle impugnazioni penali∗ GUSTAVO PANSINI
SOMMARIO: 1. Il dibattito sulla riforma delle impugnazioni penali. – 2. La funzione di controllo del giudizio di appello. – 3. La trasformazione della struttura codicistica dell’appello nella evoluzione della giurisprudenza. – 4. La funzione del ricorso per cassazione e la sua trasformazione giurisprudenziale e normativa. – 5. Le possibili correzioni normative alla struttura dei due mezzi di impugnazione. – 6. L’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e la possibilità di riviviscenza del divieto.
1. La obiettiva constatazione della indiscutibile eccessiva durata del nostro processo penale, che ha più volte portato l’Italia sul banco degli imputati ― e spesso dei condannati ― innanzi la giustizia sovranazionale, ha indotto qualcuno ad identificare una delle cause di tale eccessiva lungaggine nella esistenza, nel nostro sistema, di tre gradi di giurisdizione. Ed ecco che da tempo e da più parti, spesso con voci provenienti dalla magistratura, a volte da settori delle forze politiche, partono proposte di soppressione di uno dei tre gradi di giurisdizione. Gli argomenti sbandierati per sostenere proposte di tal genere hanno ricevuto ulteriore spinta dalla modifica apportata all’art. 111 della Costituzione, che ha costituzionalizzato il principio della ragionevole durata del processo: argomentazione questa sulla quale ci pare opportuno fare subito alcune riflessioni. Se, ai fini della individuazione dei principi fondamentali da trarsi dalle norme costituzionali, la genesi della norma stessa non può rimanere i∗
Testo registrato, con le aggiunte delle note, della Lectio doctoralis pronunciata il 6 ottobre 2007 all’Università di Roma “Tor Vergata” per la cerimonia di chiusura dell’attività accademica del prof. Gustavo Pansini.
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nosservata, un insegnamento va tratto dall’iter parlamentare della modifica stessa e sopratutto dalle ragioni politiche che indussero il legislatore costituzionale ad inserire tale principio nella legge fondamentale dello Stato. La modifica costituzionale nacque dalla urgenza di rispondere alla reiterata ostilità della Corte Costituzionale verso la introduzione nel sistema processuale di norme caratterizzanti la scelta accusatoria, risposta derivante dalla individuazione, da questa fatta, nel tessuto costituzionale di uno schema di processo “inquisitorio garantito”, ― che altrove ho cercato di dimostrare1 ―, scelta ovviamente contrastante con quelle del legislatore ordinario: da qui nacque l’esigenza di costituzionalizzare l’opzione accusatoria. Ma la scelta non fu priva di dissensi e di diatribe a livello politico: sicché, se fu possibile giungere alla approvazione quasi unanime della modifica, ciò fu frutto anche della mediazione nella quale venne, come contropartita, inserito in Costituzione il principio della ragionevole durata. In questa genesi, pare evidente che la indicazione di tale principio non assurge a riaffermazione di un valore assoluto ed assolutamente intangibile, ma, quasi, la introduzione di una di quelle norme che la vecchia dottrina costituzionalistica indicava come norme programmatiche2. Del resto, se anche si parla diffusamente di garanzie ed efficienza, “espressioni di questo genere ― è stato autorevolmente rilevato3 ― rappresentano i momenti di un binomio che, per essere di ardua composizione, rischiano di farlo apparire come un’alternativa”, laddove i principi del diritto di difesa, del giudice terzo ed imparziale ed altri, “sono istituti irrinunciabili e, come sempre si ripete, essi hanno un rilievo prevalente nel bilancio tra i valori statutari”4. Anzi, potrebbe addirittura osservarsi che il processo accusatorio, che vive della assunzione della prova nel dibattimento, ha bisogno di un processo rapido, ché, altrimenti vi è pericolo di dispersione di conoscenze ed il ricorso ad istituti eccezionali, come l’incidente probatorio, rischiano di diventare sostanzialmente la regola. 1 G. PANSINI, Una garanzia costituzionale per il due process of law, in La rassegnazione inquisitoria, 2002, p. 59 e ss. 2 La distinzione tra norme programmatiche e norme ordinatorie nella Costituzione tenne banco per molto tempo nella dottrina costituzionalistica, prima di essere completamente abbandonata. Cfr., sul punto, fra gli altri: T. MARTINES, Diritto costituzionale, 2000, p. 205 e ss.; V. CRISAFULLI, Le norme «programmatiche» della Costituzione e le sue disposizioni di principio, 1952, passim. 3 A. MOLARI, Considerazioni introduttive sulla ragionevole durata del processo, in La ragionevole durata del processo. Garanzie ed efficienza della giustizia penale, a cura di R. KOSTORIS, 2005, p. VIII. 4 A. MOLARI, ibidem.
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A ciò va aggiunto che la stessa formulazione lessicale della norma conferisce a questa un valore, per così dire, attenuato: la Costituzione esige che la durata del processo deve essere “ragionevole”, cioè essa non deve avere tempi morti, inutili, ma deve essere conseguenza di una normativa essenziale, focalizzata sulla garanzia dei diritti fondamentali e sulla tutela dei valori essenziali propri di un processo democratico. Non sarà mai possibile immaginare che possa avvenire l’inverso, che, cioè, sull’altare della rapidità del processo possano sacrificarsi interessi e diritti fondamentali. Si riannoda, perciò, immediatamente a ciò il secondo aspetto che va esaminato, riguardante la essenzialità dei giudizi di impugnazione in un sistema processuale quale quello adottato nel nostro ordinamento. Per quanto concerne il ricorso per cassazione non si pone un problema di scelta: essa è stata operata dal legislatore costituente, ed impedisce ogni ardita operazione normativa al riguardo: non si dimentichi che, ancor prima delle novelle introdotte nel 1955 nel codice, la ricorribilità per cassazione era stata ritenuta discendere automaticamente dalla norma costituzionale5, sicché qualsiasi modifica legislativa, oltre che costituzionalmente illegittima, sarebbe inutile, dato che, malgrado il nuovo testo, la ricorribilità in cassazione di tutte le sentenze, oltre che dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, permarrebbe nel sistema. Diverso è il discorso per l’appello6. Qui l’obbiezione di coloro che rilevano la singolarità del nostro processo che intende coniugare sistema accusatorio e permanenza dell’appello, con tale sistema assolutamente incompatibile, va attentamente meditata e verificata in ordine alle possibilità concrete di soppressione del giudizio di appello: è infatti vero che, come è stato puntualizzato7, “un’idea moderna del processo penale che implica tutta una serie di principi basilari quali quello dell’oralità, dell’immediatezza, della concentrazione, non può non riferirsi esclusivamente al 5 Si veda la giurisprudenza, precedente la riforma, sulla ricorribilità in cassazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale: Cass 25 agosto 1954, in Giust. pen. 1954, III, col. 574; Cass. 13 aprile 1954, in Arch. pen. 1954, II, p. 669; Cass. 17 ottobre 1951, in Giust. pen. 1952, III, col. 10; Cass. 25 ottobre 1950, in Riv. pen. 1952, II, p. 11, che richiama quanto precedentemente affermato dalle sezioni unite penali circa «il carattere di norma precettiva di immediata applicazione dell’art. 111 della legge fondamentale». 6 G. SPANGHER (voce Appello–Diritto processuale penale, in Enciclopedia giuridica, vol. II, 1991), esattamente osserva che le problematiche preesistevano alla formulazione del nuovo codice di procedura penale, anche se non a tutte questo ha fornito una risposta soddisfacente. 7 M. MASSA, Contributo allo studio dell’appello nel processo penale, 1969, p. 18.
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processo di primo grado”; d’altronde in un sistema che privilegia il contraddittorio per la formazione della prova8 e che esalta i principi basilari del giudizio, appare quanto meno strano che risulti ― in maniera più plateale in caso di riforma del primo giudizio da parte del giudice dell’appello, ma anche in caso di conferma del primo giudizio ― riconosciuto valore definitivo al giudizio emesso in assenza di tali principi basilari, rispetto a quello emesso nella fase in cui tali principi ― che sono poi “le regole indispensabili per giudicare”9 ― sono stati puntualmente garantiti ed applicati. Devono innanzi tutto essere tenute nel giusto conto le ragioni di rispetto delle pattuizioni internazionali. Orbene, se è vero che la Convenzione Europea non prevedeva l’obbligatorietà del doppio grado, si è però, poi, inserito, con l’art. 2 del settimo protocollo, un esplicito riferimento al doppio grado di giurisdizione, queste però non impongono il doppio grado di giurisdizione di merito10; ed è altrettanto vero che tutta la comunità internazionale si muove nel senso di garantire una doppia giurisdizione di merito. Può dirsi, sotto questo profilo, che la Spagna costituisca davvero una eccezione. Non può, viceversa, considerarsi eccezione il sistema anglosassone, ed in particolare, il sistema statunitense (dato che nel Regno Unito la presenza dell’appello, sia pure con ferree limitazioni, non è del tutto esclusa). Ma la previsione dell’appello è intimamente collegata alla struttura del processo: un processo che si esaurisse nel giudizio di primo grado, sarebbe strutturato sulla presunzione ― assolutamente inconcepibile, ― della verità della sentenza di primo grado, sulla presunzione della infallibilità del giudice, laddove l’eventualità dell’errore giudiziario11, peraltro tutt’altro che remota, impone la necessità di un sistema di verifica12 della 8 L’espressione è di D. SIRACUSANO, voce Prova. III) Nel nuovo codice di procedura penale, in Enciclopedia giuridica, vol. XXV, 1991, p. 1. 9 M. MASSA, op. cit., p. 65. 10 Sul tema, cfr. M. CHIAVARIO, Le garanzie fondamentali del processo nel Patti internazionale sui diritti civili e politici, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1978, p. 465; P. FERRUA, voce Appello (Diritto processuale penale), in Enciclopedia giuridica, vol. II, p. 2. E. AMODIO (Garantismo e difesa sociale nel nuovo rito accusatorio, in AA.VV., Il nuovo processo penale, 1979, p. 245) attribuisce, peraltro, la tendenza legislativa di moltiplicazione dei mezzi di impugnazione alla carente attuazione dei diritti di difesa nel processo di primo grado, parlando anche qui di garantismo inquisitorio. 11 G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, vol. II, 1965, p. 235 e ss. 12 Non usiamo ancora la parola “controllo”, costituendo essa, in qualche modo, come si vedrà, la conclusione del nostro discorso.
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decisione del primo giudice, decisione, quindi, che, se si fonda sulla presunzione di giustezza della decisione, non può certamente fondarsi, viceversa, sulla presunzione di infallibilità del giudice. 2. La indagine va quindi spostata sulle ragioni per le quali quei sistemi, che certo non difettano di garanzie, escludano la necessità del doppio giudizio di merito. Esse risiedono nella intima connessione tra libera valutazione delle prove e necessità che tale valutazione sia controllata. In quei sistemi, non vigendo il principio del libero convincimento del giudice tale controllo non è necessario, non perché non avvenga un controllo di un secondo giudice sulla prova, ma perché l’esistenza di rigide regole probatorie consente al giudice di legittimità, attraverso la verifica del rispetto di queste, di controllare l’apparato probatorio della decisione del giudice. Il problema del mantenimento o della soppressione di un doppio giudizio di merito si sposta, allora, in altro settore: se si dovesse optare, sull’altare della rapidità della decisione finale, per la soppressione dell’appello, dovrebbe preventivamente modificarsi la struttura del sistema delle prove nel nostro processo, pervenendo alla sponda della assoluta tassatività delle prove e del conseguente abbandono della adozione del principio del libero convincimento del giudice13; se, viceversa, si vuole mantenere il principio del libero convincimento, ne discende di conseguenza che deve prevedersi un secondo giudizio di merito. Dovrà, quindi, verificarsi in qual modo sia possibile coniugare le diverse esigenze che abbiamo innanzi evidenziato, e, se possibile, coniugare a loro volta queste con una maggior speditezza del processo. Io credo che il problema vada affrontato partendo dalla corretta individuazione di cosa debba essere necessariamente l’appello. Anche qui è possibile ipotizzare varie soluzioni alternative. Se la garanzia dovesse consistere nella necessità di un doppio giudizio, la soluzione non potrebbe che essere quella prescelta dal legislatore canonico: la c.d. doppia conforme. La garanzia della certezza giudiziaria si avrebbe soltanto quando due giudici si fossero pronunciati allo stesso 13 Probabilmente ne deriverebbe di conseguenza anche la necessità di una opzione per la giuria popolare, non so oggi quanto opportuna nella nostra situazione e quanto in linea con le nostre tradizioni.
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modo. Ma, a prescindere da quanto appresso si dirà, circa la impossibilità di un doppio “giudizio”, io mi domando se una soluzione di tal fatta possa coniugarsi con l’auspicato snellimento del processo! Egualmente non condivisibile appare la posizione, fortemente sostenuta dai magistrati, secondo cui, essendo ogni magistrato portatore dell’intera giurisdizione, ciò non appare compatibile con la esistenza di un secondo giudizio di controllo. Con felice ed efficace commento, Giorgio Spangher14 sintetizza la problematica, dicendo: “Io non mi sento garantito in un sistema che divida un potere infinito senza possibilità di controllo. Mi hanno insegnato che un numero infinito, diviso per un numero finito, dà un risultato infinito: un potere infinito, diviso per 8.000, resta un potere infinito”. Ed ecco, allora, che, in questo difficile, ma necessario, e speriamo non impossibile, bilanciamento di interessi, bisogna cercare di trovare la dritta: è questo lo sforzo che mi permetterò di operare. La ricerca, deve, a mio avviso partire da due pilastri: il primo, la funzione essenziale dell’impugnazione, soprattutto in un sistema che lega la decisione del giudice alla attuazione irrinunciabile dei principi di oralità ed immediatezza; il secondo, la normativa vivente, per usare un termine caro ai costituzionalisti, in materia di appello e di ricorso per cassazione, soprattutto con riferimento ai poteri dei rispettivi organi giudicanti, quale emerge dalla consolidata prassi giurisprudenziale. Parlando della funzione dell’appello non intendo certamente allinearmi con coloro che pretendono di interpretare le norme sull’appello partendo da una definizione astratta15, conscio dell’esattezza della intuizione che strumento di interpretazione devono essere le norme della legge nella loro ragion d’essere e giammai un concetto di natura dommatica16: ma nel momento nel quale ci poniamo non il problema di interpretare il dato normativo, ma quello di individuare i criteri di possibili scelte legislative, dalla individuazione delle linee essenziali dell’istituto non può prescindersi. La funzione dell’impugnazione, e segnatamente dell’appello, è essenzialmente una funzione di controllo. Tutta la normativa vigente del sistema dell’impugnazione di merito nel nostro processo, consente di eviG. SPANGHER, Riformare il sistema delle impugnazioni, in La ragionevole durata, cit., p. 107 e ss. U. DEL POZZO, L’appello nel processo penale, 1957, p. 1 e ss. 16 M. GALLO, Appunti di diritto penale, 1962–1963, p. 30 e ss. 14 15
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denziare questa funzione: rapidamente farò riferimento al principio della devoluzione, alla estraneità del potere di impugnazione ― e qui mi riferirò agli insegnamenti, poi obliati dalla stessa Corte, della Corte Costituzionale17 ― rispetto al potere di azione, alla funzione sussidiaria del potere di investigazione probatoria del giudice di appello. Ed, esaminando questo aspetto, è con viva emozione che riferirò tali osservazioni: ma la loro citazione vuole essere ad un tempo indice di apprezzamento per la lucidità del Suo pensiero e di gratitudine per l’insegnamento che ne abbiamo tratto. Le osservazioni si appartengono, infatti, a Colui che mi ha preceduto su questa cattedra e che di recente ci ha lasciato: Michele Massa. L’appello, ha osservato Michele Massa, “si contraddistingue per essere, per definizione, un giudizio mediato, mediato appunto dal giudizio di primo grado. A rigore, anzi, nell’appello non si può neanche ritrovare un vero e proprio giudizio, se con questo termine si deve sintetizzare il procedimento mentale del giudice, bensì la logica propria di un’operazione di controllo sul giudizio”18: esso deve adempiere ad una funzione la cui “meta finale non è una decisione nella quale si concretizza un giudizio relativo direttamente all’imputazione, bensì una decisione che dà atto dell’avvenuto controllo di un giudizio già espresso”19. Questa osservazione costituisce già di sé la risposta, che avevo preannunciato, alla possibilità di adottare il sistema della doppia conforme. Non è tanto il problema, che pure vi è, dell’aggravio ingiustificato di lavoro per un potere giudiziario già sovraccarico, ma l’impossibilità ontologica della ripetizione del giudizio: il giudizio è unico, sempre, ed ogni ulteriore intervento di un giudice non può strutturarsi nella formulazione, impossibile, di un nuovo giudizio, ma esclusivamente nel controllo sull’operato del primo giudice, il solo che ha effettuato un giudizio. Occorrerebbe ipotizzare un giudizio in cui il secondo giudice fosse completamente all’oscuro della decisione del primo giudice, in modo da poterlo ripetere, anzi effettuare ex novo, nella rigorosa attuazione del principio di oralità20. Questa struttura, anche logicamente corretta, dell’appello appare recepita dal nostro legislatore, sia nella regolamentazione dell’appello nel C. Cost. 28 giugno 1995 n. 280, in Giur. cost. 1995, p. 1973. M. MASSA, op. cit., p. 19. 19 M. MASSA, idem, p. 22. 20 Si vedano, in proposito le osservazioni di M. MASSA, op. cit., p. 235 17 18
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vecchio codice, sia in quella del codice vigente. Tre i capisaldi del sistema, sul quale si fonda l’affermazione dell’avvenuto recepimento nel nostro codice dell’appello come mezzo di controllo e non come momento di un nuovo giudizio. Innanzi tutto il principio della devoluzione parziale. Per rispettare la logica del controllo, il legislatore doveva necessariamente legare l’introduzione del secondo grado del procedimento all’iniziativa della parte; e doveva contemporaneamente circoscrivere i poteri di controllo del giudice dell’appello sulla esattezza della decisione impugnata nell’ambito di ciò di cui la parte, richiedente l’intervento ulteriore della giurisdizione, si è doluta: in relazione, cioè, ai motivi proposti dalle parti. È in questa esigenza, e non soltanto in una più efficace e completa esplicazione del diritto di difesa21, che deve individuarsi la ragion d’essere del divieto della reformatio in peius, esattamente, a nostro avviso, identificata come norma non di carattere eccezionale22, ma legata alla limitazione dell’ambito della cognizione e non della decisione per il giudice di appello. Poi la previsione della relazione introduttiva nel giudizio di impugnazione, da intendersi come delimitazione delle conoscenze del giudice alla decisione di primo grado ed alle ragioni di critica prospettate nei suoi confronti23; previsione che ha ulteriormente caratterizzato la scelta legislativa con la introduzione della norma contenuta nell’art. 164 delle disposizioni di attuazione, che disciplina il numero delle copie degli atti di appello e la formazione dei relativi fascicoli24. 21 Si ricordino le affermazioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale, quando ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale della norma che, nel vecchio codice, prevedeva la possibilità dell’appello incidentale del P.M. (C. Cost. 17 novembre 1971 n. 177, in Giur. cost. 1971, p. 2174). 22 Estremamente vivace è stata sempre in dottrina la disputa sul carattere di eccezionalità o meno della norma in questione: per il carattere eccezionale si vedano, fra gli altri, U. DEL POZZO, L’appello nel processo penale, 1957, p. 220 e ss.; P. NUVOLONE, Contributo alla teoria della sentenza istruttoria penale, 1943, p. 156 e ss.; M. PISANI, Il divieto della reformatio in peius nel processo penale italiano, 1963, p. 59. In senso contrario: G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, vol. III, 1961, p. 102 e ss.; A. DE MARSICO, Lezioni di diritto processuale penale, 1955, p. 256, e, ampiamente, M. MASSA, op. cit., p. 172 e ss. 23 G. PETRELLA, (Le impugnazioni nel processo penale, vol. II, 1965, p. 268) ritiene sia imposto al consigliere relatore l’obbligo di esporre i fatti e lo svolgimento del processo, astenendosi dall’esprimere opinioni. Peraltro, E. SOMMA (La relazione della causa nel dibattimento di appello e la pretesa di considerare la sua omissione come causa di nullità, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1960, p. 1293) si duole della genericità della norma, che può compromettere l’obbiettiva della relazione. 24 La norma fa in modo, infatti, che ogni componente del collegio che si occuperà del giudizio di impugnazione sia in possesso della sentenza impugnata e dell’atto di appello.