CORSO DI LAUREA IN FISIOTERAPIA - Parrocchia Santi Angeli ...

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Cozza Stefania. Marmonti Rossana. Mineo Francesco. Morini Giovanni. Tesi di Laurea di: Chiara Collioli. Carlo Alberto Stevanin. Anno Accademico 2011-2012  ...
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MODENA E REGGIO EMILIA Dipartimento di Scienze Biomediche, Metaboliche e Neuroscienze

CORSO DI LAUREA IN FISIOTERAPIA Presidente Prof. Adriano Ferrari Coordinatore AFP. Dott.ssa Luisa Montanari

SPERIMENTAZIONE DEL PROGETTO “PRENDERSI CURA DI CHI CURA”. PROPOSTA DI INTERVENTO DI PREVENZIONE SECONDARIA DEL MAL DI SCHIENA PER OPERATORI SANITARI

RELATORI: Bassi Sandra Cozza Stefania Marmonti Rossana Mineo Francesco Morini Giovanni

Tesi di Laurea di: Chiara Collioli Carlo Alberto Stevanin

Anno Accademico 2011-2012

ABSTRACT

INTRODUZIONE La lombalgia è una sindrome multifattoriale di cui soffre il 65-80% della popolazione mondiale. Colpisce frequentemente la popolazione lavorativa, con conseguente limitazione delle attività, richiesta di assistenza sanitaria ed elevato costo socio-economico. L'alta prevalenza di lesioni muscolo-scheletriche nella professione sanitaria è stata ben documentata, rivelando che la lombalgia è il disturbo più frequente tra gli infermieri, con una prevalenza di circa il 40-50%.

SCOPO Il mal di schiena è una patologia curabile, non comporta necessariamente dolore e disabilità permanenti. Per salvaguardare gli operatori sanitari di un'azienda sanitaria e per mantenere la qualità del servizio offerto, è stato presentato un programma di prevenzione secondaria attraverso un percorso di autocura e autotrattamento degli operatori sanitari che presentano lombalgia cronica (CLBP). Lo scopo è promuovere uno stato di salute e benessere tale da permettere agli operatori sanitari un rapido rientro alle mansioni precedentemente svolte e un livello di vita il più ottimale possibile.

MATERIALI E METODI Sono stati inclusi nel progetto 11 operatori sanitari (7 infermieri e 4 operatori socio sanitari) con lombalgia cronica con giudizio di idoneità “divieto di movimentazione pazienti con rischio medio (no fascia gialla)”. Questi hanno partecipato a 2 incontri settimanali della durata di 90 minuti per 3 settimane, dove è stato svolto un programma articolato nei seguenti punti: ¾ Il dolore lombare: origine e false credenze. ¾ Educazione all’ascolto del proprio corpo: conoscere il proprio corpo per decifrarne i messaggi. ¾ Prevenire le recidive: consigli pratici ¾ L’esercizio come terapia: breve proposta di esercizi per il benessere della propria schiena

I soggetti sono stati valutati all’inizio del progetto, alla fine degli incontri e al follow up a

un mese dal termine degli incontri in termini di dolore e disabilità, tramite rispettivamente la Visual Analogic Scale (VAS) e l’Oswestry Disability Index. Inoltre ogni soggetto è stato valutato individualmente con la scheda di valutazione della colonna lombare secondo McKenzie e con un questionario aperto per indagare le attività più compromesse sia sul lavoro che nella vita quotidiana. Alla fine del corso è anche stato somministrato il questionario di gradimento previsto dal percorso aziendale per l’accreditamento.

RISULTATI I dati relativi alla Visul Analogic Scale (VAS) e all’Oswestry Disability Index hanno testimoniato un miglioramento rispettivamente del dolore e della disabilità per la quasi totalità del campione; l’unica eccezione è rappresentata da un soggetto che ha mantenuto la propria condizione iniziale. All’inizio del corso le maggiori limitazioni dovute al mal di schiena si esprimevano primariamente nelle attività lavorative e in secondo luogo nelle attività domiciliari. Al follow up si è riscontrata una diminuzione delle limitazioni in tutte le attività della vita quotidiana, con un sensibile miglioramento nelle attività lavorative. Il questionario di gradimento ha evidenziato grande apprezzamento per le modalità di svolgimento e per i contenuti del corso, per la competenza dei docenti e per i miglioramenti ottenuti. Questo ha soddisfatto a pieno le aspettative iniziali.

CONCLUSIONI Lo studio ha realizzato un approccio multidisciplinare e ha fornito ai partecipanti nozioni teoriche sul mal di schiena e sulla sua prevenzione e ha permesso loro di conoscere e ascoltare il proprio corpo. Sono stati inoltre trasmessi gli strumenti di auto-trattamento per poter intervenire sul dolore e sulla limitazione funzionale associata. Questa sperimentazione ha portato benefici, ma sarebbe auspicabile eseguire un follow up a 3 mesi per verificare il mantenimento dei miglioramenti ottenuti.

PAROLE CHIAVE Mal di schiena, lombalgia cronica, operatori sanitari, infermieri, movimentazione manuale dei pazienti, autotrattamento, prevenzione secondaria.

INTRODUCTION Low back pain (LBP) is a multifactorial syndrome that afflicts 65-80% of the world population. LBP Frequently affects the working population, and this produce a limitation of the activities and require high cost of health care and socio-economic development. The high prevalence of musculoskeletal injuries in the health profession has been well documented, revealing that low back pain is the most frequent among nurses, with a prevalence of approximately 40-50%.

STUDY OBJECTIVE Back pain is a curable disease, does not necessarily involve pain and permanent disability. To safegard the health care people which work at AUSL to maintain quality of the service, was presented a program of secondary prevention through a process of self-care and selfcare health workers who have chronic low back pain (CLBP). The aim is to promote health and well-being such as to allow health professionals a quick return to the tasks previously performed and a standard of living as best as possible.

METHODS In the project were included 11 health care workers (7 nurses and 4 OSS) with chronic low back pain and with judgment of suitability "means preventing any move patients with average risk (no fascia gialla)." They have participated in two weekly sessions lasting 90 minutes for 3 weeks. The project program include that points: ➢ Low back pain: the origin and false beliefs. ➢ Education listen to your own body, know your body to understand the messages. ➢ Prevent recurrence: practical advice ➢ The exercise therapy: short motion exercises for the welfare of his own back Subjects were assessed at the beginning of the project, at the end of the meetings and the follow-up to a month after the end of the meetings. We used the Visual Analogic Scale (VAS) for the pain and the Oswestry Disability Index for the disability. In addition, each subject was assessed individually with the evaluation of the lumbar spine by McKenzie and a questionnaire to investigate the activities most affected both at work and in everyday

life. At the end of the course was also administered satisfaction questionnaire provided by the AUSL.

RESULTS The data relating to Visual Analogic Scale (VAS) and Oswestry Disability Index all'Oswestry have showed an improvement in pain and disability, respectively, for almost the entire group of people, the only exception is a subject that has maintained its original condition. At the beginning of the course the major limitations due to back pain were expressed primarily in work activities, and secondly in home activities. At follow-up there has been a improvement in all activities of daily living, with a significant improvement in work activities. The satisfaction questionnaire showed great appreciation for content of the course, for the competence of teachers and the improvements obtained. This has fully satisfied all expectations.

CONCLUSIONS The study has developed a multidisciplinary approach and provided the participants with theoretical knowledge on back pain and its prevention and allowed them to meet and listen to your own body. Have also been submitted to the tools of self-treatment in order to intervene on pain and functional limitation associated. This experimentation has brought benefits, but it would be desirable to do a follow-up to 3 months to verify the maintenance of improvements.

KEYWORDS Back pain, chronic low back pain, health workers, nurses, patient handling tasks, selfmanagement, secondary prevention.

INDICE

Premessa

3

Capitolo 1 – Introduzione

6

1.1 La lombalgia

6

1.2 La lombalgia cronica

8

1.2.1 Gli approcci riabilitativi alla lombalgia cronica

9

1.2.2 Lombalgia cronica e back school

11

1.2.3 Lombalgia cronica e terapia cognitivo-comportamentale

12

1.2.4 Lombalgia cronica e autotrattamento

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1.3 Il rischio da MMP

19

1.4 Il mal di schiena negli operatori sanitari

21

1.5 La prevenzione del mal di schiena da MMP

22

1.5.1 Gli studi riportati in letteratura

22

1.5.2 La prevenzione dal punto di vista legislativo

25

1.6 Valutazione del rischio e indice Sposo Poletti

26

1.7 Scopo del lavoro

30

Capitolo 2 – Materiali e metodi

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2.1 Lo studio

31

2.2 La selezione del campione

31

2.3 Tempi e luoghi

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2.4 Outcomes

36

2.5 La proposta terapeutica

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2.5.1 Introduzione al corso e lezione frontale teorica

37

2.5.2 Educazione all’ascolto del proprio corpo

37

2.5.3 Esecuzione del programma di esercizi

38

2.6 Il materiale prodotto

39

2.7 Strumenti di valutazione

39

1

Capitolo 3 – Risultati

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3.1 Scala Analogica visiva (VAS)

41

3.2 Oswestry Disability Index

42

3.3 Analisi individuale

43

3.4 Valutazione della colonna lombare secondo McKenzie

45

3.5 Attività nel mese seguente la fine degli incontri

51

3.6 Le aspettative

53

3.7 Il questionario di gradimento

53

3.8 Soggetto non incluso nel campione

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Capitolo 4 – Discussione

63

Capitolo 5 – Limiti

69

Capitolo 6 – Conclusioni

70

Capitolo 7 – Ringraziamenti

72

Capitolo 8 – Bibliografia

74

Capitolo 9 – Allegati

2

PREMESSA Il mal di schiena e in modo particolare la lombalgia, sono divenuti negli ultimi anni una delle patologie più diffuse nei paesi industrializzati colpendo 8 persone su 10 e sono una delle cause più frequenti di assenza dal lavoro, di visita medica e indagine diagnostica. Questa patologia rappresenta così non solo un problema di salute, ma anche economico, sia in termini di costi diretti che indiretti, al punto da costituire, per assenze per malattia, cure, limitazioni dell'idoneità lavorativa e invalidità, uno dei più importanti problemi sanitari nel campo del lavoro (How D. et al., 2010). Dati riportati in letteratura, riferiscono che nella categoria dei lavoratori addetti alla movimentazione dei carichi la prevalenza di mal di schiena arriva fino all'80% (Juniper M, Le TK, Mladsi D, 2009 ). In tale ambito spicca il personale sanitario addetto alla movimentazione dei pazienti. La normativa dal 1994 ad oggi prevede che vengano valutati sul luogo di lavoro tutti i rischi connessi con le attività svolte e che vengano adottate tutte quelle misure necessarie a ridurli il più possibile sia in ambito organizzativo che normativo e strutturale. Lo Staff Sicurezza dell’Azienda Ausl di Reggio Emilia applica il metodo di valutazione del rischio da movimentazione manuale dei carichi, nominato “Sposo Poletti”, che prevede un percorso di formazione per infermieri, O.S.S., addetti all’assistenza sanitaria diretta, ostetriche e tecnici di radiologia riguardante la movimentazione dei pazienti e l’utilizzo degli ausili necessari: i corsi, strategicamente molto importanti, sono tenuti dai fisioterapisti della struttura a tutto il personale entro il primo anno di attività lavorativa e successivamente, ogni 4 anni, il personale partecipa ad iniziative di retraining. La scelta di utilizzare docenti interni è motivata dalla conoscenza dei luoghi e dell’organizzazione delle Unità Operative e per garantire aiuto e consulenza per gli operatori anche nell’attività quotidiana. Il metodo citato riassume le valutazioni per fascia di rischio, contraddistinte da un codice colore dal bianco al rosso; l'idoneità dei dipendenti rispetto alla mansione che svolgono viene espressa, anche per le eventuali limitazioni, con riferimento alle fasce di rischio. Per ridurre il rischio l'azienda USL di Reggio Emilia dal 1999 ad oggi, 2012, ha investito fino a 2,3 milioni di euro in questo ambito, dimostrando una peculiare sensibilità rispetto ad altre aziende. In particolare nelle varie fasi di ristrutturazione degli ospedali aziendali, si è cercato di adeguare sia gli spazi fisici, sia l’arredamento e le attrezzature per rendere agevole il più 3

possibile le attività di movimentazione dei pazienti. Importante novità, negli ultimi anni nelle strutture ospedaliere è stata l’introduzione di letti, sollevatori, barelle elettriche e sollevatori a soffitto, per la movimentazione sicura di pazienti non collaboranti. Sono stati introdotti anche ausili minori che sono utili non tanto per il sollevamento quanto per gli spostamenti, come le cinture con maniglie, i teli ad alto scorrimento piuttosto che il traverso. Infatti uno dei più frequenti infortuni dopo quello alla schiena risulta essere quello agli arti superiori causato dagli sforzi muscolari eseguiti degli operatori durante la sistemazione a letto del paziente. Altre attrezzature introdotte per tutelare l’ergonomia e la sicurezza sia del personale che dei pazienti, sono le sedie utilizzate per la doccia e le barelle doccia, installate nei bagni assistiti dei reparti. Tale attrezzatura purtroppo non è utilizzata costantemente in quanto richiede l’intervento di più personale e l’impiego di più tempo. È stato anche pubblicato un opuscolo che viene consegnato ad ogni dipendente con nuovo contratto addetto a mansioni con rischio da movimentazione pazienti. In tale opuscolo è illustrato il metodo di valutazione del rischio adottato in Azienda e viene spiegato come effettuare la movimentazione dei pazienti secondo il grado di collaborazione residua servendosi degli ausili disponibili. L’incidenza del mal di schiena cronico aumenta con l’età e con i carichi di lavoro sopportati. In Italia, fino a qualche anno fa, la prospettiva era di raggiungere l’età pensionabile entro la quinta decade della propria vita. Attualmente però queste previsioni sono state modificate, così come l’aspettativa di vita delle persone. L’età pensionabile si attesta a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini; nei prossimi anni si andrà quindi incontro ad un “invecchiamento” del personale sanitario e all’aumento dell’età media della popolazione. Le previsioni Istat mostrano un aumento della percentuale di ultra sessantacinquenni dal 19,5% del 2005 al 33,6% del 2050 (Ministero della Sanità Italiano, 2009. Relazione sullo stato di salute della popolazione): è prevedibile che aumenti anche il numero di persone non autosufficienti e di conseguenza il carico di lavoro in termini di movimentazione manuale di pazienti. Sulla base di questi dati è nato il progetto “Prendersi cura di chi cura”: proposta di intervento di prevenzione secondaria del mal di schiena per operatori sanitari, (Giovanardi L., 2011), condotto in collaborazione con il servizio di Prevenzione e inserito nel progetto “Sposo Poletti”. 4

La proposta di trattamento è indirizzata ad operatori sanitari che effettuano movimentazione manuale di pazienti e che hanno manifestato episodi di mal di schiena. L’intervento è suddiviso in più moduli in una visione multidisciplinare, con l’obiettivo di insegnare ai destinatari del progetto a prendersi cura della salute della propria schiena attraverso un approccio di prevenzione secondaria e di auto trattamento. È straordinariamente importante che ognuno di noi si prenda cura della propria salute, perché sul luogo di lavoro farsi male vuol dire non solo compromettere la propria persona ma anche la propria attività condizionando la qualità dell’assistenza offerta.

5

Capitolo 1 – INTRODUZIONE

1.1. La lombalgia

Il mal di schiena, in particolar modo la lombalgia, è diventato negli ultimi anni una patologia molto diffusa e costituisce una delle principali cause di dolore muscolo scheletrico e di disabilità (Nilay Sahin et al., 2011). L’incidenza di tale patologia è molto frequente, infatti si stima che l’ 85% della popolazione dei paesi sviluppati viva almeno un episodio acuto di lombalgia nell’arco della propria

vita

(Walker

BF,

Muller

R,

Grant

WD,

2004).

Il mal di schiena è correlato al lavoro, in quanto sono i lavoratori, di età compresa tra i 30 e 50 anni, che presentano più frequentemente tale sintomatologia (Andersson GBJ, 1997). Quasi il 25% dei lavoratori dell’Unione europea soffre di mal di schiena e il 23% lamenta dolori muscolari. Il 62% dei lavoratori svolge operazioni ripetitive con le mani e con le braccia per un quarto dell’orario di lavoro; il 46% lavora in posizioni dolorose o stancanti; il 35% trasporta o movimenta carichi pesanti. Da qui l’interesse più volte dimostrato dalla Comunità Europea con numerosi studi sull’argomento, tra i quali si segnala la ricerca denominata “Fit for work?” (“Idoneo al lavoro?”) del 2009, per valutare l’impatto dei disturbi muscolo scheletrici da sovraccarico biomeccanico sulla popolazione lavorativa dei 27 paesi dell’UE e le possibili buone prassi da adottare (Barellino Elisabetta et al., 2012). In Italia, secondo alcune stime epidemiologiche, almeno 5 milioni di lavoratori svolgono abitualmente attività lavorative che prevedono la movimentazione manuale di carichi. Tra questi lavoratori, i disturbi e le malattie acute e croniche sono diffusi più che in altre collettività di lavoro. Nel periodo 2005-2009 i casi di malattie muscolo scheletriche denunciati dall’INAIL hanno registrato un trend in netta crescita: 7.926 nel 2005, 9.198 nel 2006, 10.427 nel 2007, 12.094 nel 2008 e 16.593 nel 2009. In linea con il resto dell’Europa ormai queste patologie in Italia sono divenute le patologie più frequentemente denunciate all’INAIL. Ad accelerare fortemente questo processo nel 2009 ha concorso l’effetto dell’entrata a regime del D. M. 9 aprile 2008 che, con l’inserimento della maggior parte dei disturbi muscolo scheletrici nella categoria delle patologie tabellate, ha favorito l’emersione del fenomeno e il miglioramento dei livelli di tutela dei lavoratori (Barellino Elisabetta et al., 2012). Essendo una patologia che colpisce la popolazione in età lavorativa, la lombalgia 6

rappresenta una sempre più costosa condizione, a causa delle spese di trattamento, di quelle legate a esami strumentali, all’uso di farmaci e della perdita di produttività calcolata dallo 0,8 al 2,1% del prodotto interno lordo in molti paesi occidentali (Lin CW et al., 2011). Il termine “costo” in economia sanitaria si riferisce al valore delle conseguenze dell'uso di un determinato bene o servizio, piuttosto che al suo prezzo (Dagenais Simon et al., 2008). Il costo totale della malattia o onere economico ha tre componenti: (1) costi diretti (medici e non medici), (2) costi indiretti, e (3) costi immateriali. Per costi diretti medici si intendono tutte le spese che coinvolgono uno scambio monetario. Le spese mediche dirette comprendono i costi sostenuti per: servizi medici, dispositivi medici, farmaci, ospedale, servizi, test diagnostici, ecc. I costi diretti non medici sono quelli che si riferiscono a beni e servizi consumati direttamente a causa della malattia, ma che non sono cure sanitarie. Comprendono ad esempio spese di viaggio per trasportare pazienti a visite mediche, pasti consumati fuori casa quando si ricevono cure sanitarie, ristrutturazioni per rendere l’abitazione più accessibile per venire incontro alle disabilità secondarie di una malattia. I costi indiretti sono quelli che riflettono il valore economico delle conseguenze di malattia per i quali non vi è alcun trasferimento monetario diretto. Comunemente includono i costi relativi al lavoro e alla diminuzione di produttività. Vengono considerati costi del lavoro sia le assenze per malattia che si traducono in termini di riduzione della produttività (“assenteismo”) che la diminuzione della produttività per coloro che continuano a lavorare pur essendo colpiti dalla loro condizione patologica (“presenzialismo”). I costi indiretti sono spesso più difficili da misurare rispetto ai costi diretti. Il terzo tipo di costi che possono essere considerati nella valutazione del costo totale di malattia sono i cosiddetti costi intangibili. Tali costi rispecchiano il valore della diminuzione della qualità di vita a causa della malattia. Tuttavia, questi costi sono raramente inclusi nella stima economica del carico di una malattia a causa della difficoltà ad attribuire un valore monetario a questi aspetti della malattia. La storia naturale della lombalgia si orienta in tre possibili evoluzioni: - Remissione spontanea: il singolo episodio tende alla remissione spontanea progressiva. Entro 4-6 settimane dall’insorgenza della sintomatologia è apprezzabile la remissione dei sintomi nel 75-90% dei casi. Ad una diminuzione del dolore corrisponde anche una ripresa del movimento. - Tendenza alla recidiva: per alcuni autori una percentuale tra il 60 e l’80% andrà incontro ad almeno tre ricadute. Se è vero che il 35-40% dei casi di lombalgia evolve in 7

lombosciatalgia, più del 90% dei pazienti con lombosciatalgia aveva accusato in precedenza problemi di lombalgia (McKenzie Robin A., 1998). - Cronicizzazione: esiste uno stretto rapporto tra lombalgia e determinati fattori psicosociali sfavorenti che possono indurre alla cronicizzazione e alla disabilità permanente. Questa casistica riguarda il 5-10% dei casi (Monticone, 2007). Un significativo numero di pazienti con mal di schiena va incontro a lombalgia cronica (Cronic Low Back Pain, CLBP), come conferma una revisione della letteratura del 2009 che evidenzia una prevalenza di mal di schiena cronico nella popolazione generale del 5,91% (Juniper M, Le TK, Mladsi D, 2009). La CLBP si caratterizza per la presenza di persistenti dolori invalidanti nella colonna lombare, con o senza irradiazioni al gluteo e agli arti inferiori (Airaksinen O et al., 2006), per un periodo maggiore di 12 settimane (Higgins JPT, Sally Green P, 2011). Alla lombalgia cronica, oltre al dolore, si associano: una limitazione funzionale, una ridotta partecipazione alla vita sociale, un aumento dei sintomi di stress psicologico e una peggiore qualità della vita (Bogduk N, 2004). L'efficacia di interventi progettati per alleviare CLBP è pertanto oggetto di grande attenzione scientifica (Lonsdale Chris, Amanda M Hall et. all.,2012).

1.2. La lombalgia cronica

La lombalgia può presentarsi in forma acuta, sub-acuta e cronica. La lombalgia acuta è caratterizzata da un tipo di dolore causato da una lesione muscolare, legamentosa, articolare e discale accompagnato da fenomeni infiammatori della durata massima di 30 giorni. Il mal di schiena acuto può durare da alcuni giorni a poche settimane; questo dolore o fastidio può presentarsi ovunque nella schiena; la zona più comunemente colpita è la parte lombare, perché supporta la maggior parte del peso del corpo. Il periodo che va dai 7 giorni alle 7 settimane rappresenta un momento molto delicato di transizione dalla fase acuta alla fase cronica indicabile con il nome di fase sub-acuta. (Chou R et al., 2009) La chiave di passaggio fra lombalgia acuta e lombalgia cronica risiede nei fattori secondari, cioè fattori di mantenimento del dolore che si perpetuano malgrado una totale guarigione delle strutture rachidee lese. Questi fattori sono detti fattori di rischio di cronicizzazione e sono fisici ma specialmente psichici e sociali: da qui la definizione di 8

sindrome bio-psico-sociale. I fattori di rischio fisici sono una pregressa lombalgia, una lunga durata dei sintomi, un dolore esteso, un dolore irradiato agli arti inferiori, una limitazione della mobilità articolare, una errata gestione ergonomica del corpo, un basso livello di attività fisica, il sovrappeso, il fumo e altri disturbi dell'apparato locomotore. Quelli psichici sono lo stress, la scarsa cura personale, un’autovalutazione di scarsa salute, la depressione, l'ansia. Infine, i fattori di rischio sociali, che comprendono i rischi occupazionali, sono l'insoddisfazione professionale, il lavoro monotono e poco gratificante, l'assenza di padronanza del lavoro e il disagio sociale. La lombalgia cronica, quindi, tende a far perdurare il dolore oltre i 3 mesi anche a fronte di una lesione inesistente. Il dolore cronico non ha una funzione protettiva, diventa autonomo, nocivo, riduce la funzionalità del rachide e favorisce la disabilità. Imparare a prendersi cura della propria schiena e scoprire come prevenire le recidive di mal di schiena può aiutare ad evitare che la malattia possa provocare cambiamenti nelle abitudini e nelle attività quotidiane (Chou R, Huffman LH, 2007).

1.2.1 Gli approcci riabilitativi alla lombalgia cronica

Secondo uno studio australiano solo il 10% delle persone affette da CLBP pratica una cura efficace, mentre, secondo i dati rilevati da recenti studi internazionali, fino all’80% della popolazione potrebbe ottenere benefici da cure efficaci (Henry JL, 2008). Questa carenza del settore sanitario per chi soffre di CLBP è dovuta principalmente alla mancanza di personale adeguatamente qualificato e di coordinamento di assistenza interdisciplinare (Krismer M, van Tulder M, 2007). Ottenere una cura efficace è difficile, perché il dolore persistente è spesso mal compreso dalla comunità in generale ma anche dai professionisti della salute, di conseguenza le cure non sono sempre efficaci. Mentre vi è schiacciante evidenza neurobiologica dei cambiamenti nel cervello che in genere sono alla base del dolore persistente (Apkarian AV, Hashmi JA, Baliki MN, 2011), molti professionisti della salute continuano a inquadrare i pazienti con dolore persistente dal punto di vista biomedico piuttosto che biopsicosociale (Domenech J et al., 2011); in questo modo viene a mancare la visione della persona in tutta la sua interezza. Nonostante la mancanza di evidenze sono vari gli approcci riabilitativi non chirurgici alla 9

lombalgia cronica, come l’esercizio fisico, la terapia fisica, la back school, la terapia cognitivo comportamentale e l’autotrattamento. Modalità di trattamento fisico quali impacchi freddi, impacchi caldi, diatermia, ultrasuoni e tens, sono usati per diminuire i sintomi per un breve periodo di tempo, per questo non risultano efficaci nel trattamento del dolore cronico (Shahbandar L, Press J., 2005). Tra le cure suggerite l'esercizio fisico è una delle principali raccomandazioni per CLBP: esercizi di potenziamento dei muscoli della zona lombare e degli addominali possono diminuire la frequenza e la durata della lombalgia (Van Middelkoop M. et al., 2010). L’attività fisica e l’esercizio fisico sono suggeriti dalle linee guida della riabilitazione e sono consigliati come modalità di autogestione per la lombalgia cronica (Hurwits E., Morgenstern H., Chiao C., 2005). Tuttavia, molti soggetti con CLBP non aderiscono alle raccomandazioni dei loro fisioterapisti; l’insufficiente aderenza del paziente può diminuire l’efficacia del trattamento e l’esecuzione degli esercizi a domicilio (Worl Health Organization, 2001). Secondo la teoria dell’autodeterminazione, il sostegno degli operatori sanitari è in grado di promuovere la motivazione e il mantenimento delle raccomandazioni a lungo termine. Lo studio randomizzato controllato di cluster a singolo cieco di Chris Lonsdale et al. (Lonsdale Chris et al., 2012) è il primo che si pone l’obiettivo di valutare l’effetto di un intervento progettato per aumentare l’aderenza dei soggetti con CLBP ai consigli dei fisioterapisti sull’attività ed esercizio fisico. Sono stati presi in considerazione 292 pazienti con lombalgia cronica di 12 centri di fisioterapia di Dublino, tutti in cieco rispetto all’assegnazione del trattamento. I fisioterapisti del gruppo sperimentale hanno partecipato a otto ore di formazione sulla capacità di comunicazione. Con l’aiuto di dispense, cartelle di lavoro, video, giochi di ruolo e discussioni, si sono date le nozioni necessarie per saper comunicare al paziente quanto sia importante la motivazione personale. I fisioterapisti del gruppo di controllo non hanno ricevuto questa formazione. Le valutazioni sono state fatte all’inizio della prima seduta di fisioterapia, 1 settimana, 4 settimane, 12 settimane e 24 settimane dopo. Poiché questo studio è molto recente e le valutazioni prevedono un tempo massimo di attesa di 24 settimane, i risultati di tale intervento non sono ancora stati raccolti nella loro completezza e diffusi.

10

1.2.2 Lombalgia cronica e back school

Dove non è possibile automatizzare le procedure, accanto agli interventi per ridurre il sovraccarico funzionale, da un punto di vista preventivo diventano fondamentali la formazione e l’informazione dei lavoratori riguardo i rischi a cui possono essere esposti. (Waddell G, Burton AK., 2005) Precedenti esperienze europee dimostrano come la formazione dei lavoratori (Back School) da parte di una figura esperta, un fisioterapista, potrebbe rappresentare una nuova frontiera della prevenzione (Moffett J, McLean S., 2006); gli autori di questo studio indicano che la back school ha effetti favorevoli su parametri come il dolore e la disabilità, ma la loro efficacia non è chiara, per cui in Europa gli interventi di back school sono in fase di sperimentazione (Heymans MW et al., 2005). In letteratura è presente un recente studio randomizzato controllato sull’efficacia della back school in aggiunta agli esercizi e alle modalità di esercizio fisico per il trattamento del dolore e della disabilità in pazienti con dolore lombare cronico ( Nilay Sahin et al., 2011). Sono stati inclusi nello studio 146 pazienti con lombalgia aspecifica per più di 12 settimane senza deficit neurologici. Questo studio propone sedute dove si suggeriscono esercizi di flessione e di estensione lombare, stretching della zona lombare ed esercizi di rafforzamento per i muscoli delle cosce, ripetuti cinque volte alla settimana per due settimane. Viene proposta anche la terapia fisica una volta al giorno, cinque giorni la settimana per due settimane. Il programma di back school consiste in 2 sedute settimanali della durata di un’ ora per 2 settimane, dove i pazienti ricevono una formazione teorica e pratica. Gli obiettivi della back school comprendono: insegnare ai pazienti l’anatomia e la biomeccanica del rachide, i meccanismi di produzione del dolore, il corretto utilizzo della schiena nella vita quotidiana; fornire conoscenze che consentano ai pazienti di gestire il mal di schiena; aumentare l'autostima e migliorare la qualità di vita riducendo il rischio di recidive. Ogni paziente che ha partecipato al programma ha esposto i propri problemi ed è stato istruito su come utilizzare e gestire la propria schiena nella vita quotidiana. Sono stati costituiti due gruppi di pazienti: il gruppo 1 (BSG, programma di back school) ha ricevuto un trattamento basato su terapia fisica, esercizi generici e il programma di back school, mentre il gruppo 2 (GC, gruppo di controllo) è stato sottoposto solo a terapia fisica ed esercizi. 11

I pazienti sono stati valutati in tre momenti: all'inizio dello studio, dopo il trattamento e al terzo mese post-trattamento. Si è misurata l’intensità del dolore degli ultimi 7 giorni, tramite la scala VAS e per gli aspetti funzionali si è utilizzato l’Oswestry Low Back Pain Disability Questionnaire (ODQ). I risultati hanno messo in luce che nel gruppo BSG c'è stata una significativa riduzione della VAS rispetto al gruppo CG dopo il trattamento e a 3 mesi post-trattamento; anche la Disabilità era significativamente inferiore nel BSG rispetto al CG dopo li trattamento e a 3 mesi post-trattamento . Si può quindi affermare che il programma di back school ha un effetto sul dolore e sulla disabilità, con impatto positivo sullo stato funzionale quindi è indicato per affiancare il trattamento con terapia fisica e l’esercizio (Tavafian SS, Jamshidi A, Montazeri A., 2008).

1.2.3 Lombalgia cronica e terapia cognitivo-comportamentale

Waddel (Waddel G., 1987) per primo ha cercato di guardare oltre la pura “dimensione dolore”, applicando un modello più complesso, ma più vicino alla realtà, delineando i fattori

che

interagiscono

tra

loro

nella

determinazione del dolore lombare cronico e della disabilità. La figura: 1 rappresenta questo modello denominato: “modello bio-psico-sociale”, in cui il dolore lombare origina da stimoli nocicettivi vertebrali, ma esprimendosi, integra aspetti fisici con manifestazioni psico-comportamentali e perdita funzionale, divenendo modello di patologia umana Figura 1MODELLO BIO-PSICOSOCIALE DI WADDEL

e non solo di sintomatologia algica. Lombalgia cronica e disabilità non dipendono,

dunque, da fattori puramente fisici o puramente psicologici, ma piuttosto da una complessa integrazione degli stessi nel corso del tempo. Esistono fattori psicosociali associati al perdurare della lombalgia, quali credere che la lombalgia sia pericolosa e potenzialmente disabilitante in modo grave, la paura di comportamenti e/o movimenti che scatenano il dolore, la riduzione delle attività con significativa limitazione delle ADL, sintomi correlati a depressione, rabbia o ansia, aspettativa nell’utilità di trattamenti “passivi” rispetto alla partecipazione attiva.

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Se è vero che l’origine del dolore è da ricercare nei fattori biologici, gli aspetti cognitivi, emotivi, percettivi e comportamentali ne possono influenzare la percezione e l’intensità. In accordo con il modello biopsicosociale è possibile avvalersi della cosiddetta Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC), che può aiutare molte persone affette da mal di schiena cronico. Essa ha come scopo principale quello di sostituire le competenze “maladattive” del paziente nell’affrontare la malattia (pensieri, emozioni, comportamenti) con altre maggiormente “adattive”. Infatti, l’interazione di fattori emozionali (dolore), cognitivi (interpretazione individuale del proprio stato di salute) e comportamentali (modalità con cui affrontiamo/evitiamo il dolore) insieme ai fattori biologici veri e propri, possono condurre al cosiddetto “comportamento abnorme di malattia”. Esso non è altro che l’assenza di una ragionevole correlazione tra il danno biologico reale e il modo in cui la persona descrive, affronta e considera il proprio sintomo. La TCC tenta di correggere le credenze negative nei confronti del dolore, controllare gli aspetti emotivi nella gestione del sintomo e fornire strumenti adeguati per meglio adattarsi al proprio stato di salute, al fine di migliorarlo facendo assumere un ruolo attivo al paziente nell’iter riabilitativo. Occorre cioè riconoscere i pensieri negativi che emergono quando si ha mal di schiena e imparare a modificarli in pensieri e in azioni utili; modificare i pensieri da negativi a positivi, può aiutare a gestire il dolore e può cambiare la modalità in cui il nostro corpo risponde al dolore. Sicuramente questa terapia non è in grado di impedire che il dolore fisico si presenti, ma può influire positivamente nell’affrontare il dolore con un appropriato approccio psicologico (Henschke N et al., 2010). Inoltre questo approccio può insegnare a diventare più attivi; questo è importante perché un regolare esercizio a basso impatto, come camminare e nuotare, può contribuire a ridurre il mal di schiena nel lungo periodo. Un esempio è la modifica di un pensiero negativo come "non posso fare più niente," ad un pensiero più positivo come "mi sono occupato di questo prima e posso farlo di nuovo." Per aiutare a ridurre il dolore, gli obiettivi del trattamento devono essere realistici e il trattamento deve essere fatto a piccoli passi. Per quanto riguarda le evidenze scientifiche in materia di TCC sono significativi i risultati di una revisione sistematica della letteratura eseguita tra il 2008 e il 2010 (Santandrea Sheila, Boschi Marco, Vanti Carla, 2010), che ha portato alla selezione di 46 studi RCT reperiti sulle principali banche dati mediche mondiali. 13

Il trattamento prevede l’identificazione delle situazioni che provocano e che aggravano i pensieri dolorosi e l’impatto che il dolore ha sulla propria personalità mediante una presa di coscienza consapevole. Condizione essenziale per lo sviluppo di questo trattamento è la presenza di una comunicazione efficace tra terapeuta e paziente; questa è fondamentale per stimolare la riflessione su come “gestire” il dolore poiché un differente approccio influenza in modo decisivo la percezione del dolore e di conseguenza lo stato di disabilità indotto. Le evidenze scientifiche sull’efficacia della TCC risultano più rilevanti per quanto riguarda il dolore lombare, mentre meno significative per quello cervicale e dorsale. Dunque la revisione si esprime decisamente a favore di un approccio multidisciplinare che utilizzi la TCC nella gestione della componente psicosociale della lombalgia aspecifica. Si evidenzia come la maggior parte degli studi conferma che la diminuzione del comportamento di paura-evitamento del dolore, ottenuta tramite la TCC, contribuisce alla riduzione del numero di visite mediche, del numero dei giorni di malattia e della disabilità causata dal dolore, con conseguente incremento del livello di attività. Il quadro generale delineato dalla revisione mostra inoltre come l’efficacia della TCC sia legata alla tipologia dei pazienti presi in considerazione risultando maggiormente efficace dove la componente psicologica e sociale occupa uno spazio di maggior rilievo tra le cause che favoriscono l’insorgenza e, soprattutto, il protrarsi del disturbo. La corretta definizione del ruolo dei fattori biologici, psicosociali ed ambientali è illustrata nella recente Classificazione ICF, Interntional Classification of Functioning Disability and Health, accettata quale standard internazionale per misurare Salute e Disabilità. Raccogliendo i principali aspetti della salute umana, l’ICF serve da modello di riferimento per le Strutture Corporee (aspetto anatomico), le Funzioni Corporee (aspetto fisiologico), le Attività di Partecipazione (attività della vita quotidiana), i Fattori Ambientali (caratteristiche familiari, lavorative, sociali,…) e i Fattori Personali (atteggiamenti, comportamenti, ambiente fisico e sociale) (World Health Organization, 2001). La Disabilità viene dunque ridefinita ed intesa come risultato di una complessa relazione tra condizione di salute, fattori personali e fattori ambientali. Direttamente correlata alla visione bio-psico-sociale della realtà, essa supera le distinzioni formali tra ciò che è salute e ciò che è menomazione, pensando all’essere vivente nella complessità del suo funzionamento (Stucki G, Ewert T, Cieza A, 2002).

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1.2.4 Lombalgia cronica e autotrattamento

Le malattie croniche saranno la principale causa di morte e di disabilità a livello mondiale entro il 2020, secondo stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e da allora saranno i due terzi del peso globale delle malattie (Epping Jordan et al., 2001). Il monitoraggio delle malattie croniche per l'assistenza sanitaria è all’attenzione dei governi nazionali, che si impegnano a promuovere l’ autogestione della malattia cronica. L'autogestione si occupa di gestire l’impatto quotidiano che ha una condizione di malattia spesso permanente; è un supporto collaborativo che aiuta i pazienti ad acquisire le competenze e la fiducia di gestire la propria condizione. Per quanto riguarda il trattamento della lombalgia cronica l’auto-gestione consiste in una parte di esercizi fisici e di rilassamento, e una parte di strategie che dovrebbero consentire ai pazienti di affrontare autonomamente il dolore nella vita quotidiana, riducendo la depressione e l'ansia (Simmonds 1996). Uno studio qualitativo condotto in un centro medico dell'Indiana University (UI) di Indianapolis, ha studiato gli elementi ostacolanti e quelli facilitanti l’autogestione, in un campione di 18 pazienti tra i 27-84 anni, con dolore muscoloscheletrico cronico. I risultati hanno individuato come ostacoli nell’autogestione del dolore la mancanza di sostegno da parte di amici e familiari, le risorse limitate (come trasporti, finanze), la depressione, l’inefficacia di strategie di sollievo dal dolore, i vincoli di tempo, i bisogni di altri familiari ritenuti prioritari, la paura di esacerbazione del dolore, la mancanza di conoscenze relative a strategie da adottare per evitare il dolore durante le attività della vita quotidiana, l’incapacità di mantenere l'uso di strategie dopo il completamento dello studio, le limitazioni fisiche e le difficoltà di relazione medico-paziente. Gli elementi facilitanti per migliorare l'autogestione del dolore invece riguardano l’incoraggiamento da parte dei curanti, il miglioramento della depressione con il trattamento, il sostegno della famiglia e degli amici, la conoscenza di diverse strategie di autogestione da poter utilizzare. Ulteriori studi sono però necessari per confermare questi risultati e per poter progettare interventi che favoriscano sempre più gli elementi facilitanti e migliorino gli aspetti risultati negativi (Bair Matthew J. et al., 2009). Uno studio australiano ha indagato l'utilizzo di strategie di autogestione in una popolazione di soggetti con dolore cronico. È stato effettuato un sondaggio telefonico previa 15

randomizzazione del campione che comprendeva 474 adulti maggiorenni con dolore cronico (tasso di risposta 73,4%). Sono state riportate più spesso strategie passive, come l'assunzione di farmaci (47%), di riposo (31,5%), e l'utilizzo d’impacchi caldo / freddo (23,4%), rispetto a quelle attive: esercizio fisico (25,8%). Strategie autonome di gestione sono state associate a una riduzione del dolore e disabilità, tra queste, le strategie attive hanno ridotto la probabilità di avere alti livelli di dolore di disabilità associata. (Lyn M. Marchb et al., 2004). Oggi Internet è generalmente riconosciuto come un canale che può offrire strumenti multimediali interattivi esclusivi per migliorare l’autogestione di una malattia cronica (Wantland et al 2004). Uno studio randomizzato del 2002 (Lorig et al. 2002) conclude che una discussione di gruppo tramite e-mail può influenzare positivamente lo stato di salute, e può avere un ruolo nel trattamento del mal di schiena cronico. Allo stesso modo, uno studio del 2004 (Buhrman et al. 2004) dimostra che un intervento su internet

con

assistenza

telefonica

può

costituire

un

efficace

approccio per il trattamento di disabilità del mal di schiena. In contrasto con questi studi tuttavia, la letteratura sottolinea alcune limitazioni fondamentali, quali la scarsa qualità di informazioni sulla lombalgia disponibili per gli utenti su Internet (Schulz, Setola 2005); in particolare, i siti web medici hanno generalmente mostrato di non fornire sufficienti informazioni personalizzate. Questa mancanza d’informazioni dal punto di vista del paziente, crea un gap informativo tra le conoscenze generali sulla prevenzione e sui trattamenti e le capacità di sviluppare comportamenti corretti, o di modificare e cambiare quelli che possono essere sbagliati (Payne, Kiel 2005). Su questa base, è stato svolto uno studio per illustrare lo sviluppo e la valutazione di un sito web progettato per migliorare l'autogestione della lombalgia cronica nella popolazione di lingua italiana in Svizzera (Schulz Peter Johannes, Rubinell Sara, Uwe, 2007). Sono stati inclusi nello studio 15 pazienti con lombalgia cronica, che hanno utilizzato un sito web creato specificamente per il progetto, per un periodo di cinque mesi, sotto la sorveglianza di un team di professionisti della salute. La valutazione è stata effettuata per mezzo di un questionario telefonico somministrato all’inizio, al quarto mese e alla fine dell’intervento. Alla valutazione, rispetto al gruppo di controllo, i risultati suggeriscono una diminuzione dell'intensità del dolore lombare nelle persone che hanno avuto accesso al sito, con 16

aumento dell'attività fisica, riduzione del consulto del medico e dell'uso di antidolorifici, e un guadagno di conoscenza dichiarativa e procedurale. Ciò coincide con una valutazione generale positiva del sito web, ma nonostante questo, sono necessari altri dati sull'applicazione dell’iniziativa su scala più ampia. Nel campo dell’autotrattamento si trova in letteratura uno studio sul coinvolgimento nell’autocura del mal di schiena di persone abitanti in alcune zone dell’Australia occidentale (Helen Slater et al. 2012). In Australia, il CLBP rappresenta una parte significativa dei disturbi muscoloscheletrici e vi è un ulteriore svantaggio per coloro che risiedono in regioni geograficamente isolate dal momento che l'accesso ai servizi è reso più difficile (McGrath P, 2006) . Questo studio è stato realizzato nel Western Australia (WA) in tre sedi isolate, Kununurra, Albany e Kalgoorlie, città che si trovano rispettivamente a 3.206 km, 595 km e 409 km rispettivamente dalla capitale dello stato di Perth. Parte integrante del modello di assistenza per la gestione del mal di schiena cronico è rendere questi soggetti attivi e autonomi con strategie autonome di autogestione, in quanto l’assistenza sanitaria che prevede trattamenti passivi o guidati dal curante è difficilmente raggiungibile (Blyth FM, March LM, Cousins MJ). Questo studio ha realizzato un modello interdisciplinare di cura utilizzando un programma autonomo di educazione e autogestione del dolore (STEPS), che ha dimostrato una riduzione dei tempi di attesa, dei costi per incremento di nuovi pazienti, del numero di appuntamenti ambulatoriali e un maggiore impiego di strategie attive di gestione del dolore con maggiore soddisfazione del paziente (Davies S. et al., 2011). Lo studio ha incluso 51 persone con dolore lombare cronico. Il programma è stato fornito in un modulo della durata di 6,5 ore nell’arco di una sola giornata; i valutatori sono rimasti in cieco sulla raccolta dei dati. Il primo giorno in cui si è iniziato questo programma, ai partecipanti sono stati dati una batteria di questionari da compilare, che sono poi stati ripresentati loro a tre mesi dall’intervento, ed a completamento, è stato chiesto loro di valutare l’utilità dell’intervento e quali credenze avessero sul dolore. Sono stati indagati: • i dati demografici (età, sesso, stato civile, paese di nascita, lingua parlata, livello di istruzione, condizione lavorativa) • l’intensità e la durata del dolore • le limitazioni funzionali, chiedendo di nominare fino a tre attività funzionali che 17

non erano in grado di fare o che svolgevano con difficoltà a causa della loro LBP • quali cure eventualmente avessero già svolto in precedenza • quale strategia di autogestione fosse stata messa in pratica, scelta tra comportamentale attiva, attivo-cognitiva, comportamentale passiva e passiva convenzionale • lo stato emotivo, tramite la scala di depressione, ansia e stress (DASS21). Sono inoltre stati somministrati: • un questionario sulla scala di misurazione della cultura della salute tra cui la possibilità di cercare, comprendere e utilizzare le informazioni di salute (Helms) • un questionario delle abilità, per valutare i pensieri catastrofici sul dolore • un questionario sulle credenze di paura-evitamento, che portano ad una riduzione dell’attività fisica e quotidiana • un questionario di gradimento dell’intervento. Al momento della verifica dei risultati, i partecipanti di questo studio hanno dimostrato punteggi positivi sulle credenze del mal di schiena, su una cultura sanitaria adeguata e su comportamenti positivi, tra cui l'uso maggiore di strategie attive piuttosto che passive; inoltre la stragrande maggioranza dei pazienti ha valutato il programma come utile. Al follow up dopo tre mesi, non vi è stata però alcuna evidenza significativa di miglioramento; questo può dipendere dal fatto che erano stati raggiunti outcome già elevati al termine del corso, oppure potrebbe indicare che strategie di rinforzo sono necessarie per ottenere miglioramenti duraturi a discapito delle credenze sul mal di schiena, al fine di concentrarsi sulla gestione di tutta la persona e di incoraggiare la buona salute. Queste strategie possono comportare la ripetizione di semplici messaggi con evidenza scientifica utilizzando le applicazioni multimediali, la distribuzione di materiale educativo supplementare e tutti gli strumenti utilizzabili anche in gruppo e basati su approcci cognitivo-comportamentali (Johnson RE et al., 2007). Dal momento che la paura del dolore o di compiere movimenti dannosi può interferire con l'adozione di comportamenti benefici per la salute; si raccomanda l'uso di una tempestiva sessione di terapia cognitivo-comportamentale, che sembra rassicurare, ridurre l'isolamento e consentire inoltre ai partecipanti di imparare le strategie gli uni dagli altri.

18

1.3 Il rischio da MMP

Come abbiamo precedentemente ricordato, nel nostro Paese circa tre milioni di lavoratori svolgono attività lavorative comportanti la MMC (Movimentazione Manuale dei Carichi), che viene definita come l’insieme delle “…operazioni di trasporto o di sostegno di un carico ad opera di uno o più lavoratori, comprese le azioni del sollevare, deporre, spingere, tirare, portare o spostare un carico, che, per le loro caratteristiche o in conseguenza delle condizioni ergonomiche sfavorevoli, comportano rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso-lombari…” . questo rappresenta quindi un fattore di rischio comune nella maggior parte delle attività lavorative ed extralavorative ( Lic. Rik, Op. De Beeck, Dr. Veerle Hermans, 2007). Gli effetti finali della MMC, dei movimenti ripetitivi e degli altri fattori di rischio si evidenziano prevalentemente a livello dell’apparato locomotore, in particolare della colonna vertebrale, dando origine a un processo fisiopatologico detto sovraccarico biomeccanico. (Campo M. et al., 2008). In ambito sanitario, considerando il modello biopsico-sociale, è fondamentale la centralità del paziente nel trattamento e nella cura, per cui non si parla più di MMC, ma di Movimentazione Manuale dei Pazienti (MMP). La categoria degli infermieri si colloca al vertice delle occupazioni caratterizzate da un alto tasso di disturbi scheletrici; l’invecchiamento e il diradamento della forza lavoro infermieristica, la crescente domanda assistenziale sul territorio e le modifiche organizzative pongono ulteriori sfide alla salute e alla sicurezza in questo ambito lavorativo (Capodoglio E. M. et al., 2011). A livello internazionale gli interventi attuati finora relativamente alla prevenzione del rischio di Movimentazione dei Pazienti (MMP),hanno previsto la dotazione standard di ausili e la formazione degli operatori, non mostrando però l’efficacia sperata (Martino KP et al., 2008). Il rischio relativo alla MMP in ambito ospedaliero è legato al carico biomeccanico a cui gli operatori sono sottoposti durante le attività di movimentazione, cura e assistenza dei pazienti. Da parte del Niosh è stato stabilito in 16 kg il limite massimo relativo alla forza applicata che gli operatori sanitari possono sostenere durante le attività svolte sui pazienti in condizioni ottimali (Waters TR, 2007). Oltre alle manovre di movimentazioni, vengono riconosciute potenzialmente rischiose anche altre attività legate all’assistenza (sostegno, terapia, igiene, riposizionamento..) che implicano postura eretta prolungata o posture a 19

tronco flesso, protratte, concomitanti ad applicazioni di forza, in grado di causare carichi eccessivi su schiena e spalle. L’utilizzo di ausili meccanici riduce solo parzialmente l’esposizione al rischio, ma non elimina l’esposizione a un carico cumulativo che si configura come fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di disturbi muscolo scheletrici, relativo a fasi con impegno posturale e di forza che costituiscono la maggior parte delle attività svolte soprattutto dalle figure assistenziali negli ambiti di lungodegenza. Aspetti relativi all’organizzazione del lavoro, alle condizioni tecniche e a fattori sociali, economici e ambientali contribuiscono ad aggravare l’esposizione degli operatori sanitari. Il livello di rischio è maggiore per le figure professionali coinvolte in compiti svolti strettamente a contatto con il paziente (Schoenfish AL, Lipscomb HJ, 2009). La necessità di intervenire manualmente per assistere nella movimentazione i pazienti è data dallo svolgimento di attività diagnostiche, terapeutiche, compiti di mobilizzazione , cura e igiene. Alcune attività di movimentazione sono intrinseche al processo di cura e recupero del paziente: si tratta in particolare degli interventi di riabilitazione motoria. Nelle attività di movimentazione che possono essere definite accessorie, cioè connesse ad esempio ad attività di trasferimento del paziente per effettuare esami o trattamenti, l’attenzione alle caratteristiche e alle necessità del paziente è più sfumata. Tradizionalmente si è interpretata la prevenzione unicamente dal punto di vista dell’operatore nel senso di “ridurre al minimo l’intervento manuale” e “meccanizzare il più possibile”, per minimizzare l’esposizione al carico biomeccanico e ridurre la probabilità di infortunio dell’operatore.. Quando si movimenta un paziente si applica infatti un criterio esterno, senza riflettere sulle implicazioni sull’assistito. Ad esempio per effettuare un passaggio seduto-eretto del paziente, il nostro modello mentale è quello di un sollevamento, secondo una traiettoria lineare basso-alto, con prese ancorate sul paziente in punti più o meno sicuri o confortevoli, o per effettuare un posizionamento del paziente sdraiato supino verso la testata del letto, il nostro modello è quello di un sollevamento di peso, attuato in due operatori con l’uso di traversa, con il paziente trattato come un peso passivo. La MMP in quest’ottica è interpretata unilateralmente dal punto di vista dell’operatore, travisando l’importanza per il paziente di partecipare attivamente. Ampliando il concetto di prevenzione al punto di vista del paziente si apre la prospettiva di un suo coinvolgimento nella manovra, con l’impiego calibrato delle capacità residue, con un intervento variabile dell’operatore, che potrebbe spaziare dalla supervisione, alla manovra manuale assistita, all’uso di ausili minori o maggiori. Diverse

pubblicazioni

recenti

mostrano 20

come

l’applicazione

di

programmi

multidisciplinari associati all’utilizzo di dispositivi tecnologici sono in grado di ridurre gli infortuni sul lavoro e le assenze per malattia degli operatori, migliorando gli outcome del paziente (Nelson A. et al., 2008). La tecnologia assistiva può contribuire a mantenere/incrementare la mobilità, la forza, l’autonomia dei pazienti e a configurare un ambiente di lavoro sicuro.

1.4 Il mal di schiena negli operatori sanitari

Sono pochi i lavori in letteratura che si occupano del LBP nei fisioterapisti, nonostante il loro lavoro sia fisicamente molto impegnativo e comporti spesso movimenti in flessione durante l’attività coi pazienti con un conseguente aumento del carico sul tratto lombare. Limiti di tempo, la mancanza di supporto da parte dei membri dello staff, e improvvisi sforzi durante lo spostamento o il sostegno di pazienti possono ulteriormente aumentare il rischio di incorrere in mal di schiena. Per il loro specifico professionale, i fisioterapisti conoscono i principi di prevenzione trattamento e controllo del mal di schiena. Questa loro competenza deriva da conoscenze specifiche di biomeccanica, di principi e tecniche di movimentazione, di educazione e cura del paziente con LBP, che sicuramente favoriscono la consapevolezza dei fattori di rischio e meccanismi di insorgenza del LBP. L'ipotesi che questa consapevolezza del rischio e la conoscenza degli strumenti di prevenzione e cura riducano le probabilità di LBP nei fisioterapisti, spiega l'omissione di questa professione dagli studi riportati in letteratura (M. Molumphy, B. Unger et al., 1985). Un recente studio del 2007 afferma che una percentuale tra il 30% e il 63% dei fisioterapisti, nonostante la loro formazione, incorre in mal di schiena a un certo punto della carriera. Oltre a confermare l'ipotesi sopra riportata, questo studio afferma anche che la presa in carico dei fisioterapisti colpiti da mal di schiena è affidata ai colleghi stessi (Hanson H. et al., 2007). Molti studi hanno indagato invece l’incidenza di LBP negli infermieri. La categoria degli infermieri si colloca al vertice delle occupazioni caratterizzate da un alto tasso di disturbi scheletrici; l’invecchiamento e il diradamento della forza lavoro infermieristica, la crescente domanda assistenziale sul territorio e le modifiche organizzative pongono ulteriori sfide alla salute e alla sicurezza in questo ambito lavorativo (Capodoglio E. M. et al., 2011). Il mal di schiena ha un impatto importante sull’efficienza della forza lavoro degli 21

infermieri: assieme agli assistenti di cura e inservienti, hanno, tra tutte le occupazioni, un punteggio più alto di lesioni alla schiena che comportano assenza dal lavoro, con prevalenza annuale del 40-50% e una prevalenza nell’arco della vita che varia dal 35 all’80% (How D. et al., 2010; Juniper M, Le TK, Mladsi D, 2009). Una revisione della letteratura che analizza numerosi studi eseguiti tra il 1994 e il 2007 (Lo russo Antonio, Bruno Stefano, L’Abbate Nicola, 2007) sui disturbi muscolo scheletrici nel personale sanitario soggetto a movimentazione di pazienti, incentrando l’indagine sulla lombalgia (LBP), conferma che la movimentazione manuale dei pazienti è un fattore di rischio per i disturbi del tratto lombare e che dunque è necessaria una maggiore informazione del personale e, non meno importante, un adeguamento strutturale dell’ambiente di lavoro. Le lesioni alla schiena e le conseguenti richieste di risarcimento nella categoria degli infermieri sono costose. Nel lungo termine nelle strutture di assistenza degli Stati Uniti, le lesioni alla schiena degli infermieri sono stimate più di 6 milioni di dollari d’indennizzo e pagamenti medici. Le compensazioni di questi operatori per le lesioni alla schiena comprendono 56,4% di tutti i costi d’indennizzo e 55,1% di tutti i costi medici (Ministero della Sanità Italiano, 2009. Relazione sullo stato di salute della popolazione).

1.5 La prevenzione del mal di schiena da MMP

1.5.1 Gli studi riportati in letteratura

La prevenzione del mal di schiena si basa su due livelli. Il primo stadio, o livello di prevenzione primaria, è comune per tutti i tipi di lombalgia ed è basato sull'acquisizione delle corrette abitudini di vita. In questo modo si combatte il mal di schiena prima della sua comparsa. La prevenzione secondaria si fonda invece su un intervento rieducativo che coinvolge molte figure professionali come medici, terapisti della riabilitazione. Con tali interventi si cerca da un lato di ristabilire le condizioni precedenti al trauma e dall'altro di allontanare il rischio di eventuali recidive tramite un programma educativo-riabilitativo. È presente una revisione sistematica pubblicata su Occup Environ Med 2007, il cui disegno metodologico

ha

seguito

le

linee

guida

sviluppate dal Comitato di Redazione della Cochrane Collaboration Back Review Group, con l'obiettivo primario di determinare se ci sono interventi di efficacia provata per 22

impedire o prevenire il mal di schiena e l’infortunio alla schiena in particolare negli infermieri e assistenti di cura (Dawson Anna P. et al., 2007). Sono stati presi in considerazione interventi che prevedevano esercizi, formazione e movimentazione manuale, supporti lombari,

gestione dello

stress e interventi

multidimensionali. Questa revisione ha individuato che: • la sola formazione sulla movimentazione manuale non è efficace (Alexandre N. et al., 2001). • i programmi di gestione dello stress non impediscono il mal di schiena (Horneij E. et al., 2001). • i supporti lombari sono inefficaci nel prevenire mal di schiena, in accordo con le linee guida europee che affermano che i supporti lombari non sono raccomandati per la prevenzione delle LBP nei lavoratori (Burton A. et al., 2005). • l'autoapprendimento di programmi di esercizi eseguiti nel tempo libero per gli infermieri potrebbe non essere così efficace come se fosse diretto e guidato dal fisioterapista nel luogo di lavoro (Horneij E. et al., 2001). • gli esercizi di rinforzo e stretching sono raccomandati (Hayden J, van Tulder M, Tomlinson G., 2005), in accordo con le linee guida europee, che riportano evidenza di alto livello nel raccomandare l’esercizio fisico come intervento per la prevenzione del mal di schiena in generale nella popolazione di operatori sanitari. • programmi di esercizi di stabilizzazione specifici che coinvolgono i muscoli spinali profondi e gli addominali hanno recentemente dimostrato di essere più efficaci delle solite cure mediche e della sola istruzione, nel trattamento di mal di schiena cronico, e di essere altrettanto efficaci delle manipolazioni (Ferreira P. et al., 2006). • interventi

multidimensionali,

come

la

combinazione

tra

formazione,

movimentazione manuale, esercizio fisico, gestione del dolore e dello stile di vita, comportando una riduzione di LBP risultando efficaci nel prevenire mal di schiena e lesioni negli infermieri (Alexandre N. et al., 2001). Negli ultimi vent’anni, le associazioni infermieristiche hanno sviluppato e sostenuto la politica “non sollevare”, in cui è prevista attrezzatura e il sollevamento manuale viene eliminato se non in circostanze eccezionali (Engkvist I., 2006). Una recente valutazione dell’applicazione di un programma '' non sollevare '', realizzato negli ospedali australiani, ha riportato una forte evidenza di riduzione degli infortuni alla schiena e di congedo per

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malattia tra gli infermieri. I recenti studi di Hodder et al. e Holmes et al. ( Hodder JN, Holmes MWR, Kleir PJ, 2010), hanno suggerito e messo in evidenza che solo il 40% de LBP sono causati dal sollevamento/trasferimento dei pazienti e possono essere prevenuti attraverso l’utilizzo di sollevatori meccanici. Il restante 60% dei disordini muscoloscheletrici sembra essere causato da altri compiti svolti dagli infermieri durante la loro giornata lavorativa, come ad esempio riposizionare i pazienti allettati, portare a passeggio i pazienti, svolgere pulizie o attività di cura e igiene dei pazienti non autonomi o parzialmente autonomi. Questi risultati indicano quindi che tali operazioni non devono essere trascurate come fattori di rischio lavorativo perché aumentano la possibilità d’insorgenza di lombalgia a causa dello stress cui è soggetta la colonna vertebrale durante lo svolgimento di tali attività che, peraltro, occupano la maggior parte del tempo lavorativo di un infermiere. L’utilizzo di sollevatori meccanici sembra aiutare a ridurre il carico della colonna lombare, tuttavia secondo uno studio (Karahan A, Bayraktar N., 2004) un utilizzo scorretto degli ausili meccanici è associato a comparsa di lombalgia. In tale studio è stata studiata la postura sia lavorativa sia durante attività di vita quotidiana, arrivando alla conclusione che alcuni degli infermieri che soffrivano o avevano sofferto di lombalgia, non usavano i sollevatori meccanici e non effettuavano correttamente le tecniche di sollevamento nella percentuale del 57.1%. Da qui la necessità secondo l’autore di fornire un addestramento adeguato al personale sanitario. I dispositivi di sollevamento e trasferimento, se utilizzati correttamente, possono quindi contribuire alla riduzione dei disturbi muscoloscheletrici. Tuttavia l’effettivo utilizzo di tali dispositivi tra gli infermieri appare piuttosto limitato, anche a causa della mancanza di disponibilità delle attrezzature e di tempo sufficiente. I dati riportati dallo studio sopra citato, sono confermati in una recente revisione narrativa che indaga quali strategie preventive e terapeutiche si siano dimostrate più efficaci per il trattamento della lombalgia nel personale sanitario (Salvano E., Vanti C., 2012). Questa revisione analizza 14 articoli che prendono in considerazione diverse tipologie di trattamento, tra cui: • l’educazione e la formazione del personale sanitario, con particolare attenzione alla postura e all’ergonomia durante l’esecuzione delle manovre; • i programmi di esercizi fisici generali e specifici a scopo riabilitativo e di prevenzione primaria e secondaria; • l’utilizzo di cinture o supporti lombari e gli interventi multidisciplinari. Dalla valutazione dei dati emergono forti evidenze circa la non efficacia della formazione e 24

addestramento o dell’utilizzo di supporti lombari per ridurre l’incidenza di lombalgia nel personale sanitario addetto alla movimentazione manuale dei pazienti (Dawson AP et al., 2007). Nella revisione gli autori ricordano che ci sono limitate evidenze sull’efficacia di programmi di esercizi fisici specifici o generali, mentre sottolineano che gli interventi multidisciplinari risultano più efficaci di qualsiasi altro intervento considerato singolarmente (il dato confermato da 6 articoli compresi nella revisione) . Le strategie d’intervento multidisciplinare includono: • a valutazione e l’eliminazione, quando possibile, dei fattori di rischio; • l’istruzione e la formazione sulla corretta esecuzione delle tecniche di movimentazione manuale dei pazienti o l’utilizzo di dispositivi meccanici; • a valutazione e la riprogettazione dell’ambiente lavorativo e dell’organizzazione delle attività; • gli interventi cognitivo-comportamentali per incentivare il ritorno al lavoro ed alla attività fisica precoce; • i programmi d’intervento riabilitativo e preventivo allo scopo di recuperare o mantenere una forma fisica idonea attraverso gli esercizi fisici di stretching per la flessibilità, il potenziamento paravertebrale ed addominale e il recupero dei corretti automatismi statico-dinamici; • la correzione e l’educazione posturale e l’allenamento cardiovascolare.

1.5.2 La prevenzione dal punto di vista legislativo

La prevenzione dei disturbi muscolo scheletrici, così come confermato anche dagli studi presi in esame, prevede innanzitutto l’eliminazione delle cause meccaniche che li determinano, attraverso la meccanizzazione/automazione dei processi. Dove questo non sia tecnicamente fattibile, si deve ridurre/contenere il rischio il più possibile attraverso l’utilizzo di ausili meccanici, l’applicazione dei principi ergonomici e un’appropriata organizzazione del lavoro (pause, turnazioni…), opportune modifiche delle strutture e delle attrezzature. Obbligo del datore di lavoro è effettuare questo tipo di interventi a completamento dei quali deve fornire ai lavoratori un’adeguata informazione e una specifica formazione sui rischi presenti nell’attività lavorativa, affinché possano assumere un ruolo attivo

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nell’adozione di comportamenti sicuri nel luogo di lavoro. Gli obblighi di legge riguardanti, direttamente o indirettamente, la prevenzione dei disturbi muscolo scheletrici e in particolar modo il mal di schiena, sono definiti da specifiche direttive emanate dall’Unione Europea al fine di garantire nei paesi membri il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. In Italia il provvedimento che recepisce tali direttive è di Decreto Legislativo 626/94, abrogato e sostituito dal Decreto Legislativo 81/80. Tale decreto, articolato in più parti (Titoli), nel Titolo primo, a valenza generale, definisce il “sistema di gestione del lavoro in sicurezza” che deve essere adottato in ogni luogo di lavoro in cui vi sia anche un solo lavoratore dipendente. Tra le principali disposizioni si ricorda il richiamo alle condizioni ergonomiche del lavoro affinché, fin dalle fasi di progettazione delle attività, il lavoro, la mansione e i compiti lavorativi siano adattati all’uomo e non viceversa. Il D.Lgs 81 obbliga infatti il datore di lavoro ad effettuare la valutazione di tutti i possibili rischi presenti nell’unità produttiva per eliminarli o quantomeno ridurli al di sotto della soglia di pericolo, con adeguate misure tecniche, organizzative e procedurali di prevenzione e protezione dei lavoratori. Inoltre, tra i doveri previsti, vi è il coinvolgimento degli stessi lavoratori attraverso le azioni di informazione e formazione specifiche e la consultazione del loro rappresentante per la sicurezza del lavoro (Costa F. e Tosi F., 2002).

1.6 Valutazione del rischio e indice Sposo Poletti

Il D.lgs. 626/94 al titolo V, definisce cosa si intende per movimentazione manuale di carichi e quali siano gli obblighi del datore di lavoro. Lo scopo della norma prevede come primo obiettivo, l’eliminazione/riduzione del rischio, consapevoli che in ambito ospedaliero, e in particolare nelle attività di assistenza a degenti non autosufficienti, per le ragioni che abbiamo precedentemente ricordato, tale indicazione è di difficile attuazione. Gli interventi devono essere basati sulla valutazione del rischio da movimentazione manuale di pazienti, sull’introduzione di ausili e procedure adeguate, sulla sorveglianza sanitaria e sulla formazione degli operatori. Strategico diventa quindi un approccio multifattoriale alla riduzione del rischio poiché è dimostrato che può avere maggiori probabilità di successo. La riduzione del rischio può e deve essere pertanto perseguita combinando i molteplici fattori che la determinano e dovrebbe comprendere una dotazione organica adeguata, la presenza ed effettiva utilizzazione di ausili appropriati, adeguati programmi di 26

informazione, formazione e training del personale e la definizione di un sistema organizzativo di gestione dello specifico rischio. L’AUSL di Reggio Emilia per la valutazione del rischio nella Movimentazione Manuale dei Pazienti (MMP) ha applicato nei servizi ospedalieri della provincia Emiliana il metodo Sposo Poletti, che rientra tra i metodi “multidimensionali” che si basano sulla raccolta di dati informativi mediante colloqui con il personale dell’azienda e sopralluoghi conoscitivi negli ambienti di lavoro e sull’osservazione diretta delle operazioni di movimentazione (Poletti M., Pinotti A., Morini G, 2003). Il Metodo SpoSo si propone di individuare il livello di rischio da movimentazione manuale di pazienti attraverso un modello matematico centrato sulla quantità di azioni di sollevamento e spostamento realmente effettuate dagli operatori addetti all’assistenza e sulla dotazione di arredi, attrezzature e ausili specifici. Per la sua corretta applicazione il criterio di valutazione SpoSo si basa su una serie di presupposti fondamentali: • formazione adeguata del personale; • ambienti conformi agli standard previsti per autorizzazione-accreditamento; • manovre di sollevamento e spostamento fatte da due operatori, salvo casi “leggeri”; • impiego di tre o più operatori e altre soluzioni specifiche per i casi “particolarmente gravosi”; • carrozzine idonee. (Vedi Allegato 1) In base alla formula di calcolo il metodo SpoSo individua quattro classi di rischio progressivamente crescenti, dalla prima a rischio trascurabile alla quarta a rischio massimo: riportiamo in tabella i valori delle fasce di rischio correlate al colore che le identifica (Tabella 1).

Classe rischio 0

1 (bianco)

2 (verde)

3 (giallo)

4 (rosso)

Definizione

trascurabile

basso

medio

alto

assente

rischio Criterio

Sposo