G. P. BROGIOLO, Conclusioni, p. 229 - BibAr

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lineato Paolo Delogu nelle conclusioni del conve- gno di Ascoli del 1995, hanno spiazzato le tradizio- nali interpretazioni delle necropoli barbariche a righe ...
Gian Pietro Brogiolo

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CONCLUSIONI Gian Pietro Brogiolo

Le sepolture costituiscono una delle fonti principali per lo studio delle società antiche. Lo sono ancor di più per le età di transizione, allorquando si scontrano e si sovrappongono culture diverse tra loro. Nel passaggio dall’età antica a quella medievale, particolarmente incisivi sono i cambiamenti, molti dei quali si riverberano sui riti e sulle ideologie della morte. Nella religione, con la conversione dal paganesimo al cristianesimo. Nella società con la sostituzione delle classi dirigenti romane con quelle germaniche (in Italia, Goti e Longobardi). Nell’economia, con il ridimensionamento delle relazioni commerciali da un ambito mediterraneo ad uno regionale. Nell’organizzazione e nella dimensione dello stato, con la fine di un Impero che dal Mediterraneo giungeva fino alla Britannia e l’affermazione di regni barbarici, al vertice dei quali vi era l’esercito. Di tutti questi aspetti vi è un riflesso nelle sepolture, che fino agli anni ‘70 costituirono, almeno in Italia, la fonte archeologica principale per questo periodo. Nel 1981, nel convegno di Pavia che si proponeva di individuare gli ambiti disciplinari dell’allora giovane Archeologia medievale italiana, Hugo Blake elencò alcuni dei parametri che l’archeologia delle sepolture avrebbe dovuto perseguire con attenzione: dalla posizione e organizzazione dei cimiteri, alla struttura delle tombe, ai corredi, all’antropologia degli inumati. Nel decennio successivo, con l’affermarsi di altri indirizzi di ricerca, dall’archeologia urbana all’archeologia del territorio, lo studio delle necropoli si è alquanto appannato e in nessuno dei parametri suggeriti da Blake sono state delineate sintesi complessive. Al contrario, grazie ad approfondite ricerche svolte per altri periodi anche in Italia (si pensi alle pubblicazioni di importanti necropoli dell’età del Ferro, quale quella dell’Osteria dell’Osa), o per questo stesso periodo in altri Paesi europei, l’archeologia della morte ha ulteriormente dilatato il proprio campo d’azione, sia aggiungendo altri significati ai vecchi schemi interpretativi che definendone di nuovi.Sulla scorta di queste puntualizzazioni teoriche, negli anni ‘90 l’archeologia delle necropoli si è venuta riaffermando anche in Italia

come uno degli indirizzi più vitali dell’archeologia dell’età di transizione. Le nuove ricerche, ha sottolineato Paolo Delogu nelle conclusioni del convegno di Ascoli del 1995, hanno spiazzato le tradizionali interpretazioni delle necropoli barbariche a righe, come espressione esclusiva di cultura germanica. L’incontro di Gardone, quantunque abbia in parte riproposto alcuni dei temi discussi ad Ascoli, ha visto concentrarsi l’attenzione su due argomenti: l’ingresso delle sepolture in città e l’evoluzione della ritualità della morte tra il IV secolo e l’età carolingia. La commistione delle tombe con gli abitati è divenuta, nel dibattito storiografico, uno degli indicatori di “discontinuità”. La fine della divisione tra mondo dei vivi e mondo dei morti, sancito dalla legislazione romana, e ancora proclamato da quella canonica dei primi secoli dell’alto medioevo in una società che sempre meno la rispettava, è stata considerata infatti come segno di un profondo mutamento culturale. Il tema riguarda in primo luogo, anche se non esclusivamente, la città, alla quale in questo convegno sono stati dedicati ben cinque interventi: uno (di Andrea Augenti) per il sito urbano del Palatino a Roma, due relativi ad una singola città (di Enrico Cavada per Trento, di Isabel Ahumada Silva per Cividale), due infine di sintesi regionali (di Gisella Cantino Wataghin e Chiara Lambert per l’Italia settentrionale, di Andrea Staffa per l’Abruzzo). Le inumazioni sul Palatino, compaiano a partire dal V-VI secolo soprattutto nelle aree marginali abbandonate, con una varietà di strutture e livelli sociali tipici di un settore intramurano che sarebbe andato distinguendosi, forse anche su base etnicoculturale. Assai variegata la situazione di Trento e Cividale. A Trento, le principali aree cimiteriali si collocano all’esterno della città. La più importante è attorno alla grande chiesa funeraria tardo antica di S.Vigilio, costellata all’interno di formae in lastre e in muratura con una cinquantina di epigrafi e all’esterno di nuclei cimiteriali che si estendono cronologicamente fino al VII secolo (per la presenza di corredi di armi di piazza d’Arogno). Un secondo

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SEPOLTURE TRA IV E VIII SECOLO

cimitero organizzato, di incerta datazione ma presumibilmente alto medioevale, si trovava presso l’oratorio di S.Maria Maddalena. Altri sporadici rinvenimenti suburbani, due con corredi di VI e un terzo con armi del VII secolo, potrebbero invece riferirsi a nuclei familiari presso proprietà suburbane secondo un modello che è stato ipotizzato anche per Brescia. Un confronto con la città lombarda è proponibile anche per le sepolture intramurane della prima età longobarda: per i sette inumati, appartenenti alla popolazione romana, di palazzo Tabarelli e per quello di piazza Pasi che aveva come corredo elementi di cintura multipla della metà-seconda metà VII secolo. Ancor più complessa la situazione di Cividale. In area extraurbana vi sono ben tre diversi modelli per l’età longobarda: (1) continuità di utilizzo di una necropoli romana (cimitero di loc. Cella-San Giovanni), (2) fondazione di una nuova necropoli (le sepolture della collina di S. Mauro e quelle pertinenti alla zona identificata nel XIII secolo con il toponimo di Pertica, che comprenderebbe i rinvenimenti di loc. Gallo, della prepositura di S.Stefano, quelli presso la ferrovia e di Grupignano), (3) riuso di un’area di necropoli romana (nel settore a sud della città esteso dalla chiesa di S. Martino a quella di S.Pantaleone). Nel VII secolo molteplici sono le inumazioni all’interno delle mura, spiegate con “la contrazione del nucleo abitato” e con “un nuovo piano di utilizzazione dello spazio”. La maggior parte delle sepolture con corredo longobardo si trova presso le chiese (la cattedrale di S.Maria e le chiese di S.Pietro e di S.Giovanni in Valle). Altre aree di sepolture sembrano indipendenti dai luoghi di culto: in Piazza S.Francesco, tombe con corredo della fine del VI, accanto ad altre che ne erano prive, si trovavano presso “strutture murarie in disuso”; nel cortile del palazzo dei Provveditori, su una necropoli medio imperiale (esempio eccezionale, se confermato, di area cimiteriale intramurana e la questione meriterebbe ulteriori verifiche in rapporto alla cronologia delle mura) si imposta un complesso abitativo, all’interno del quale vengono collocate tre sepolture di romani; anche in piazza Paolo Diacono, sepolture con lucerne di V secolo anticipano un’area funeraria di età longobarda, nella quale si rinvenne la famosa tomba di Gisulfo. Questa, di poco posteriore alla metà del VII secolo, era costituita da un sarcofago all’interno di un’edicola funeraria, realizzata con materiale di recupero e ubicata nei pressi di un edificio tardo antico che si segnala per la qualità degli elementi architettonici. Queste sintesi presentano un quadro che, per taluni aspetti, si avvicina, per altri diverge rispetto ai modelli di alcune delle città dell’Italia settentrionale (Aosta, Milano, Aquileia, Brescia e Verona), richiamati nella relazione di Cantino Wataghin e Chiara Lambert.

In tutte le città considerate, i cimiteri suburbani permangono fino almeno all’VIII secolo (in taluni casi, come nella necropoli del suburbio orientale di Aosta, fino ad età moderna), pur in un quadro di mobilità che vede lo sviluppo, a scapito di quelle più antiche, di nuove aree funerarie più vicine al perimetro difensivo. L’inserimento cristiano è dapprima pragmatico, poi, con la costruzione delle basiliche cimiteriali sull’esempio di Milano, teso ad una “conquista cristiana dello spazio e del tempo”. L’ingresso delle tombe privilegiate nell’area urbana è peraltro attestato precocemente: fin dal V secolo ad Aquileia con le sepolture del gruppo episcopale, e forse a Brescia, con l’inumazione del vescovo Tiziano in una cappella a nord della cattedrale, dal secondo quarto del VI secolo a Verona con le deposizioni dei vescovi nella chiesa di S. Pietro in castello. Nella prima età longobarda, a Brescia come a Verona, compaiono sepolture isolate o a piccoli gruppi, sintomo del disgregarsi, al contempo sociale ed urbanistico, della compagine antica, situazione questa che trova confronti nei dati presentati da Andrea Staffa per l’Abruzzo. Queste trasformazioni si collocano in un periodo, compreso tra il tardo antico e l’età carolingia, di mutamento dei riti e delle ideologie, tema questo sviluppato in una seconda sezione del convegno da quattro interventi, rispettivamente di Guido Gastaldo, Anna Maria Giuntella, Chiara Lambert e Cristina La Rocca. Gastaldo ha proposto un’analisi quantitativa dei corredi delle sepolture “tardo romane”, ovvero quelle in cui non “compaiono manufatti o associazioni di manufatti di evidente impronta germanica”. La scelta desta qualche perplessità: spesso, come consente l’autore, non è infatti possibile discriminare tra corredi romani e corredi germanici e in molti casi i due tipi di corredo si ritrovano nella medesima necropoli. L’analisi assai raffinata e puntuale dimostra peraltro un graduale cambiamento del rito, contrassegnato da una “riduzione nel tempo delle componenti proprie del corredo “rituale” (vasellame, lucerne, monete, resti alimentari), in favore della graduale affermazione del “corredo personale”, composto da elementi più strettamente legati alla persona del defunto (l’abbigliamento, i gioielli, le armi, gli strumenti, gli oggetti personali). Indizio probabile, a mio avviso, di un assorbimento del rituale longobardo che ribadisce al momento della morte, come ha sottolineato Cristina La Rocca, lo status sociale del defunto e conseguentemente del gruppo parentale in rapporto alla comunità di appartenenza. La relazione tra clan e comunità meriterebbe ulteriori analisi. Qual è, ad esempio la comunità di riferimento per i piccoli gruppi di sepolture? Quanto incide tale rapporto nell’ubicazione del cimitero e nel variare del rito e dei corredi? E fino

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a che punto il variare nella composizione dei corredi riflette o meno la coesistenza di riti diversi? Problemi che si propongono anche per la piccola, ma ricca necropoli longobarda da me scavata presso una torre del castello di Monselice e presentata in questa sede da Marina De Marchi ed Elisa Possenti. Necropoli di un gruppo familiare, nel quale si segnala un guerriero di alto rango deposto in una tomba bisoma con un individuo pressoché privo di corredo, forse un suo scudiero o dipendente. La commistione di manufatti di tradizione longobarda con altri di ambito bizantino trova confronti in necropoli, come quella di Castel Trosino, ubicate in aree di confine. Il rinvenimento a Roma di un’officina monastica che nel VII secolo produceva oggetti di entrambe le culture ha peraltro sconvolto le tradizionali interpretazioni di una distinzione tra le due aree politiche. E quanto sia problematico stabilire luoghi e modi della produzione e degli scambi lo si evince dal contributo di Carlo Citter, che ha riorganizzato le informazioni archeologiche e quelle fornite dalle fonti scritte sulla Tuscia longobarda. I dati riferiti da Anna Maria Giuntella per alcuni siti bizantini dell’Italia centrale (Roma, Corfinio, Cimitile) e per la Sardegna (Tharros e soprattutto Cornus) attestano poi il persistere di riti e liturgie dei defunti legate alla tradizione: fino almeno alla metà del VII secolo, sopravvivono spazi organizzati destinati alle agapi funerarie e, fino alla fine del secolo, permangono non solo l’uso di corredi personali, ma anche riti con offerte alimentari e di monete. La rinuncia ai corredi tombali coincide, come ripropone Chiara Lambert, con “la cristianizzazione della morte”, ovvero con il passaggio da una gestione privata delle cerimonie funebri ad una “codificazione dei riti canonici di accompagnamento verso l’ultima dimora”. Cristina La Rocca, da parte sua, riprendendo con nuove fonti un precedente lavoro, ribadisce come, attraverso la mediazione ecclesiastica, i riti funerari si indirizzino ormai, con un processo che giungerà a pieno compimento in età carolingia, verso una perpetuazione della memoria del defunto, non più mediante i corredi deposti nella tomba,

ma attraverso i beni affidati ad un ente ecclesiastico, che in cambio assicura la salvezza dell’anima ed il rafforzamento patrimoniale degli eredi che riescono a controllare l’istituzione religiosa. Alla fine di questo processo saranno le chiese parrocchiali, luogo di celebrazioni delle cerimonie funebri, il punto di aggregazione delle aree cimiteriali, un modello che sopravviverà fino all’editto napoleonico di St. Cloud del 1806. La conclusione della divisione tra spazio per i vivi e spazio per i morti con l’ingresso delle sepolture negli abitati e l’evoluzione della ritualità della morte sono dunque due aspetti di un identico percorso evolutivo del quale si avvertono a grandi linee i contorni, ma del quale occorrerà approfondire ulteriormente scansione e contenuti, sia attraverso sintesi regionali, sia con ricerche mirate. Se si può indicare un comune denominatore per l’età di transizione, questo è non nell’assenza di regole (come rammenta Anna Maria Giuntella), ma nel rifiuto o nell’impossibilità di applicarle, il che determina la varietà di situazioni documentate dall’archeologia. Tale instabilità appare conseguenza di numerose concause che a livello locale possono aver interagito in modi e con conseguenze diversi: l’inserimento dei luoghi di culto cristiano, l’ideologia germanica della morte, la persistenza di tradizioni pagane. La fine della lunga età di transizione sarà agevolata, nei riti della morte come in altri aspetti della società, dal ristabilirsi, in età carolingia, di nuove regole che si tradurranno nella certezza del luogo di sepoltura e nella uniformità del rito. Ma su questi aspetti, solo accennati in questo convegno, l’archeologia italiana, in forte ritardo rispetto a quella d’Oltralpe, non ha ancora intrapreso ricerche che consentano sintesi anche provvisorie. L’augurio è quello di poter tornare, fra qualche anno, a discuterne in un altro convegno. Purtroppo non sarà più tra noi il professore ed amico Ottone d’Assia, fondatore dell’archeologia delle necropoli in Italia, che ci ha prematuramente lasciati. A lui, che partecipò con grande efficacia alle discussioni del convegno di Gardone, è dedicato, in segno di riconoscenza, questo volume.