Gelli - Gianluca Tenti

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Questo è il credo che muove i fili del pensiero di Licio Gelli. Un personaggio controverso, che racconta tutte le sue verità in un libro-intervista che esce proprio in ...
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La storia recente d’Italia

MEGLIO ESSERE

BURATTINAI...

...che burattini. Questo è il credo che muove i fili del pensiero di Licio Gelli. Un personaggio controverso, che racconta tutte le sue verità in un libro-intervista che esce proprio in questi giorni

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GIANLUCA TENTI

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«IL BURATTINAIO», COSÌ RISPOSE LICIO GELLI (NELLA FOTO), 87 ANNI, ALLA DOMANDA «LEI COSA VOLEVA FARE DA PICCOLO?» DI MAURIZIO COSTANZO PER IL «CORRIERE DELLA SERA». NON UN CASO, DATO CHE IL VENERABILE È SPESSO INSERITO TRA BURATTINAI E BURATTINI DI ALCUNI DEI GRANDI MISTERI D’ITALIA. È FACILE, QUINDI, IL PARAGONE CON IL BURATTINO PIÙ NOTO AGLI ITALIANI, PINOCCHIO, NELL’ALTRA PAGIN A.

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«C’era una volta… “Un re!”, diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta…». C’era una volta, 180 anni fa, un bimbo di nome Carlo che venne alla luce in una fredda sera d’autunno, in una piccola casa fiorentina. La mamma, Angiolina, e il babbo Domenico Lorenzini certo non sapevano che quel 24 novembre (correva l’anno 1826) era nato un bambino che avrebbe reso famoso col suo nome d’arte un paesino nel Pistoiese, Collodi, e un’opera di fantasia ancora oggi più realistica che mai: Pinocchio. Storia semplice come un cartone animato eppure complessa come un arcano. In cui un falegname scalpella un burattino e una fatina lo trasmuta in carne, la cui anima è contesa tra il Grillo della ragione e il Lucignolo della tentazione. Trama di avventure e ordito di disavventure. Ricca di mirabolanti figure che oscillano come un pendolo su una scena in costante mutamento, metamorfosi del pensiero: ora il burattinaio Mangiafoco, ora i malfattori Gatto e la Volpe, ora l’oste del Gambero rosso, ora la Fata Turchina. Dove ci sono pure un magistrato di Acchiappa-citrulli e giudici dediti all’abbuffatta di lecca-lecca, medici del dubbio, un contadino incollerito e pure i Carabinieri. Dove i toni cupi di una quercia ammantata di luna si uniscono a quelli subdoli di un Omino di burro, gioviale e persuasivo, che ha origine nell’umana degenerazione. Dove tutto sembra un enorme, immenso Paese dei balocchi e in realtà è umido e freddo ventre di Balena. Storia nota ai più, familiare, ma non quanto si dovrebbe. Rivolta a noi italiani che siamo in fin dei conti tutti figli di Pinocchio. Della maestria con cui Collodi scrive per i bambini (tanto da sedurre un maniaco della perfezione come Walter Elias Disney che renderà Pinocchio universale), all’abilità con la quale miscela la fantasia ai paesaggi immaginati nel giardino del marchese Garzoni, presso la cui villa-tenuta prestava servizio Angiolina (la mamma del Collodi) bella, abile e iniziata ai misteri delle carte. Ecco perché Pinocchio è in realtà figlio di un arcano. Pensate a quanto è difficile e complicata la sua lettura che si adatta a ogni età. Lui, frutto di un ceppo di legno, che nasce senza madre ed è già adolescente, che dice bugie e mentre le dice gli si allunga il naso. Certo, visto con l’obiettivo di Comencini tutto resta nell’alveo di una fiaba, con il grande Nino Manfredi che è un po’ il Geppetto che tutti abbiamo sognato. Ma in realtà lo scritto di Collodi è un testo di una difficoltà inaudita, capace di abbattere anche il mito del re Mida dei film: Roberto Benigni, che fresco di Oscar giocò subito la carta Pinocchio. Ero sul set di Castelfalfi il giorno prima che iniziassero quelle riprese. E ricordo i più stretti collaboratori di Benigni sussurrare non senza timore: «O bene bene, o male male». Bene bene non andò. Neppure a un geniaccio come Roberto da Vergaio che pure svelava ai taccuini: «La mia mamma da piccino mi diceva sempre “Se dici le bugie ti si allunga il naso come a Pinocchio e poi Dante Alighieri ti mette all’Inferno”. Finché un giorno in piazza vidi una statua di Dante e con quel naso che si ritrovava pensai che Pinocchio fosse lui». Così parlò Benigni, l’attore che Federico Fellini chiamava «Pinocchietto». Così disse ricor-

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Gli vengono attribuiti

ruoli in tutti i misteri che hanno segnato il Paese r

dando di non essere nato (meglio sarebbe dire cresciuto) lontano da Collodi. Un particolare che riprenderò dopo questa parentesi dedicata al simbolo Pinocchio, eletto pure a logo-stilizzato del Mondiale delle Notti magiche del 1990, quelle che dovevano essere e non furono. Un po’ come gli stadi costruiti con gran dispendio di energie e risorse dal Col, guidato da un Luca Cordero di Montezemolo agli albori della carriera, ma poi risultati cattedrali faraoniche e poco funzionali. Ed ecco quindi Pinocchio come simbolo di un’Italia che ha adottato ambienti e protagonisti di quella storia. Non a caso da quando la favola è stata pubblicata (1883, editore Paggi di Firenze) certi nomi diventano lessico italiano: «il Gatto e la Volpe» per definire due tipi ambigui, «Gambero rosso» come nome di locanda. Ma torniamo a quello che aveva detto Benigni: «Non sono nato lontano da Collodi», il paese, originariamente in provincia di Lucca e solo dal 1927 in provincia di Pistoia. Città, quest’ultima, alla quale sono legati anche gli albori di un altro protagonista dei nostri anni più recenti: Licio Gelli, forse non a caso inserito da una pubblicistica sempre più ampia tra burattini e burattinai di alcuni dei grandi misteri d’Italia. Lo scorso

11 febbraio il Venerabile ha inaugurato il Fondo Gelli, una parte della sua «ricchezza» personale, all’Archivio di Stato di Pistoia. Un carteggio, come hanno scritto i quotidiani, composto di circa 400 contenitori, con documenti autografi di Benito Mussolini, Papa Pio XI, Juan Domingo Perón, Giuseppe Verdi e Giuseppe Garibaldi, cimeli, fotografie e libri. Un patrimonio immenso, affidato alla cura storica di Linda Giuva, coniugata con Massimo D’Alema. La notizia di questa inaugurazione ha strappato Gelli dall’oblio nel quale pure si era eclissato negli ultimi anni. In una sorta di esilio volontario, sia pur inframezzato da continui richiami all’attualità che animano alcuni giornalisti, in quella Villa Wanda che è stata baricentro di alcuni capitoli della storia italiana. E il legame alla fiaba di Collodi appare evidente in una frase, a suo modo storica, pronunciata dallo stesso Licio Gelli in risposta a una domanda di Maurizio Costanzo per il Corriere della Sera. «Lei cosa voleva fare da piccolo?», chiese il giornalista. «Il burattinaio», rispose il Venerabile. «Meglio fare il burattinaio che il burattino… Il burattinaio è sempre uno, non ce ne possono essere diversi». Il discorso potrebbe estendersi pressoché all’infinito data la mole di documenti, atti, ma soprattutto sospetti che continuano ad aleggiare attorno alla figura di Gelli, il cui «pensiero» è stato abilmente raccolto dal giornalista Sandro Neri in un lungo libro-intervista che esce proprio in questi giorni per Aliberti editore. Un giudizio storico su Gelli, sia ben chiaro, è impossibile perché equivarrebbe a voler giudicare la storia stessa del nostro Paese. Un po’ come accade ogni qualvolta si fa riferimento a un protagonista assoluto della nostra politica come Giulio Andreotti, al quale il Venerabile viene spesso accostato, almeno dai tempi in cui i due furono definiti «Belzebù e Belfagor», specie in ricostruzioni difficili da dimostrare, e con il quale condivide di sicuro un unico dato: l’anno di nascita, 1919. E non sono certo in grado di confermare o meno se Licio Gelli sia stato davvero un «burattinaio». Quello che so, e che l’Italia sa, è che a Gelli viene attribuito praticamente di tutto. Dallo «Schema R» col quale il Venerabile definì con oltre 30 anni d’anticipo certe linee guida per il Paese, alle alterne vicende dei Rizzoli prima e del Corriere poi, dalla conoscenza di Carmine Pecorelli (e del suo OP) alla nebulosa che avvolge Sindona, Calvi, l’Ambrosiano, il 1978 dei tre Papi che pure cambiò la nostra storia. Ed è certo che molto attorno al-

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la figura di Licio Gelli, che pure è poeta apprezzato, si è scritto: dalla lunga inchiesta di Giulio Giustiniani poi ricompresa in un libro di Gianfranco Piazzesi (che perse la direzione de La Nazione, scrisse, per aver indagato giornalisticamente sul passato del capo della Loggia P2), alle trame di Sergio Flamini e agli affari di Giorgio Galli. Una fitta pubblicistica che viene riletta dal Venerabile nel libro di Neri, ricco di riferimenti storici. C’è il Gelli dei tempi del Fascio e volontario nella Guerra di Spagna («viceconsole della Milizia volontaria a Pistoia era il maggiore Caponnetto, padre di Antonino»), e c’è il Gelli della misteriosa missione di Cattaro, 65 anni fa, dove recuperò il tesoro di re Pietro, cioè 60 tonnellate di lingotti d’oro, 2mila chili di monete antiche, 6 milioni di dollari, 2 di sterline. Un «tesoro» che gli uomini del Sim avevano prelevato dai forzieri della Banca nazionale iugoslava e nascosto in una grotta, e che Gelli fece viaggiare su un «treno adibito al trasporto malati, con tanto di simbolo della Croce rossa e altre due bandiere gialle che indicavano che i passeggeri erano colpiti da malattia infettiva» (come ricorda il giornalista Neri). C’è quindi il giovane Gelli che perde il fratello in Spagna e che diventerà «ufficiale di collegamento» tra le forze tedesche e le federazioni repubblichine di Firenze e Pistoia. Ma anche l’uomo che consentirà la liberazione di 50 prigionieri politici dal carcere pistoiese di Villa Sbertoli e meriterà una sorta di «salvacondotto» dal Cln locale, prima di consegnarsi non certo ai partigiani («Togliatti mi propose di passare al partito comunista, ma rifiutai», ricorda il Venerabile) bensì ai neozelandesi. Un uomo che non ha praticato lo sport italico del trasformismo, in una Toscana che pure diventò comunista poche ore dopo esser stata fascista, ma rimase fedele ai suoi ideali prim’ancora che alle sue idee. E, soprattutto, c’è il Gelli fortemente intraprendente che passa da ruoli come rivenditore di macchine da scrivere Remington, a direttore della Permaflex, da manager di fiducia della famiglia Lebole ad addetto commerciale dell’Ambasciata Argentina in Italia, salendo tutti i gradini del potere vero, tra un letto dorato donato personalmente a Paolo VI (col quale entrò in confidenza) fino all’iniziazione massonica che lo vedrà protagonista assoluto con la Loggia P2 che racchiuse, con lui, i vertici dei servizi segreti italiani, politici di primo piano, industriali, imprenditori e pure giornalisti. Non c’è mistero d’Italia sul quale Gelli non esprima un proprio personale giudizio. Ma il fatto non è questo. Non è sapere se Gelli è stato un «burattinaio». Il fatto è che in Italia restano inalterati i misteri. Un fitto, lungo elenco di misteri. Solo nell’ultimo quarantennio (per quelli precedenti basterebbe rileggersi un po’ cosa scrive Pansa) si parte dalla strage di Piazza Fontana a quella di Piazza della Loggia, dall’Italicus alla strage di Bologna, passando dal presunto Golpe Borghese, dalla morte di Pier Paolo Pasolini, al rapimento Moro, a Ustica, all’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fino a quella di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, fino all’affaire Tangentopoli. Anche questa, bene o male, è l’Italia. Ed ecco allora che possiamo considerarci tutti, almeno un po’, figli di Pinocchio. Vi spiego perché, violando un verso di Borges: «Dio muove il giocatore, questi il pezzo. Quale dio, dietro dio, la trama ordisce?».

LICIO GELLI È LEGATO A PINOCCHIO ANCHE PER LA SUA CITTÀ DI NASCITA, PISTOIA, NELLA CUI PROVINCIA C’È COLLODI, PAESE CHE PRENDE NOME DAL «PADRE» DEL BURATTINO. LO SCORSO 11 FEBBRAIO, IL VENERABILE HA INAUGURATO IL FONDO GELLI: UNA PARTE DELLA SUA RICCHEZZA PERSONALE È STATA AFFIDATA ALLA CITTÀ TOSCANA; CIRCA 400 CONTENITORI CON DOCUMENTI AUTOGRAFI DI BENITO MUSSOLINI, PAPA PIO XI, GIUSEPPE VERDI, GIUSEPPE GARIBALDI.

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