In “Geografia economico-politica” sono pubblicate opere di alto livello scientifico,
.... proposte che dovrebbero appartenere alla classica tradizione del “libero.
GEOGRAFIA ECONOMICO-POLITICA
Direttore Tullio D’A Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Comitato scientifico Attilio C “Sapienza” Università di Roma
Franco S Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Maria Paola P B Università Telematica delle Scienze Umane “Niccolò Cusano”
GEOGRAFIA ECONOMICO-POLITICA
Attenta allo studio delle interazioni che legano dinamiche socio–politiche, assetto organizzativo dello spazio e competitività dei sistemi regionali, la scienza geografica assume indiscussa centralità nel dibattito sull’evoluzione del mondo contemporaneo. La produzione che il comitato scientifico di questa collana intende promuovere risponde a espliciti criteri metodologici e concettualità finalizzate alla rappresentazione delle principali innovazioni presenti nel divenire di paesaggi, modelli di sviluppo locale a diverse scale territoriali e strategie politiche ed economiche che ne sostanziano la complessità e ne definiscono i relativi scenari evolutivi. Mentre il rigore scientifico delle ricerche pubblicate costituisce precipuo impegno editoriale, la piena autonomia e indipendenza dei singoli autori rappresenta irrinunciabile espressione di pluralismo culturale. In “Geografia economico-politica” sono pubblicate opere di alto livello scientifico, anche in lingua straniera per facilitarne la diffusione internazionale. Il direttore approva le opere e le sottopone a referaggio con il sistema del “doppio cieco” (double blind peer review process) nel rispetto dell’anonimato sia dell’autore, sia dei due revisori che scelgono: l’uno da un elenco deliberato dal comitato di direzione, l’altro dallo stesso comitato in funzione di revisore interno. I revisori rivestono o devono aver rivestito la qualifica di professore universitario di prima fascia nelle università italiane o una qualifica equivalente nelle università straniere. Ciascun revisore formulerà una delle seguenti valutazioni: a) pubblicabile senza modifiche; b) pubblicabile previo apporto di modifiche; c) da rivedere in maniera sostanziale; d) da rigettare; tenendo conto della: a) significatività del tema nell’ambito disciplinare prescelto e originalità dell’opera; b) rilevanza scientifica nel panorama nazionale e internazionale; c) attenzione adeguata alla dottrina e all’apparato critico; d) adeguato aggiornamento normativo e giurisprudenziale; e) rigore metodologico; f ) proprietà di linguaggio e fluidità del testo; g) uniformità dei criteri redazionali. Nel caso di giudizio discordante fra i due revisori, la decisione finale sarà assunta dal direttore, salvo casi particolari in cui il direttore provvede a nominare tempestivamente un terzo revisore a cui rimettere la valutazione dell’elaborato. Il termine per la valutazione non deve superare i venti giorni, decorsi i quali il direttore della collana, in assenza di osservazioni negative, ritiene approvata la proposta. Sono escluse dalla valutazione gli atti di convegno, le opere dei membri del comitato e le opere collettive di provenienza accademica. Il direttore, su sua responsabilità, può decidere di non assoggettare a revisione scritti pubblicati su invito o comunque di autori di particolare prestigio.
Vittorio Amato Global . Geografie della crisi e del mutamento
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a Muzzi
Il capitale è la linfa vitale che scorre nel corpo politico di tutte le società che definiamo capitalistiche, diffondendosi, talvolta a goccia a goccia e talvolta come un’inondazione, in ogni recesso del mondo abitato. D. Harvey, L’enigma del capitale
INDICE
11 I.
Capitalismo sovralimentato ed iperglobalizzazione
29 II.
La marcia forzata verso la crisi
61 III.
La dinamica del processo di globalizzazione
91 IV.
Sviluppo economico e convergenze possibili
139 V.
Investimenti diretti esteri ed imprese multinazionali
171 VI.
Non luoghi del capitale: paradisi fiscali e fondi sovrani
201 VII.
I Regional Trade Agreements
221 VIII.
L’esperienza europea: un regionalismo “forte”
249 IX.
I BRICs: un regionalismo “virtuale”
265 X.
Il MENA: un regionalismo “auspicabile”
287 XI.
Le ICT: sinapsi digitali dell’economia globale
313 XII.
La questione ambientale nel processo di globalizzazione
341
Bibliografia non citata in nota
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I CAPITALISMO SOVRALIMENTATO ED IPERGLOBALIZZAZIONE
1.1. Il capitalismo sovralimentato Dai primi mesi del 2008, a seguito della crisi prima finanziaria e poi economica, la globalizzazione sta attraversando una fase “difficile” ed infatti, per chi la critica, essa è la causa del collasso finanziario, della crescente ineguaglianza dei redditi, di un iniquo commercio internazionale e di una diffusa insicurezza; per i suoi più accesi sostenitori, viceversa, la globalizzazione è la soluzione di tutti questi problemi. Lungi dal ritenere che la globalizzazione possa, da sola, risultare la soluzione dei problemi e degli squilibri che si sono manifestati negli ultimi vent’anni nell’economia mondiale, viene però da pensare che, nell’opinione corrente, si confondano le mutazioni subite dal capitalismo, con la rete di relazioni e flussi formatisi e consolidatisi nel processo di globalizzazione. I due elementi vanno, a nostro giudizio, tenuti su piani separati, pur nella consapevolezza che le interazioni tra globalizzazione e capitalismo, nelle sue nuove forme ed accezioni, sono profonde. Chi critica oggi la globalizzazione come causa di tutti i mali, sembra dimenticare che, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, è avvenuto un cambiamento fondamentale nel capitalismo, dapprima anglosassone e poi europeo e mondiale. Il capitalismo, infatti, ha trionfato – e non solo come ideologia – poiché la struttura dell’economia di gran parte del mondo, si è spostata verso mercati meno regolati e controllati, facendo sì che il potere passasse dalle mani dei produttori a quelle dei consumatori 11
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Capitolo I
e degli investitori. Man mano che il capitalismo è divenuto meno “controllato”, anche i suoi aspetti democratici sono diminuiti. Le istituzioni che nei decenni passati intraprendevano negoziazioni formali e informali per ripartire la ricchezza, stabilizzare il mercato del lavoro e le condizioni locali di sviluppo e garantire al “gioco” regole giuste (i grandi oligopoli, i sindacati di massa, le agenzie regolatrici nonché quell’insieme di politici sensibili alle aziende e alle comunità locali), si sono eclissate o hanno visto ridursi la loro capacità di influenza. Sotto questo profilo, il trionfo del capitalismo e l’indebolimento della democrazia, sono intimamente collegati e il capitalismo democratico e controllato è stato progressivamente sostituito dal capitalismo sovralimentato o “turbocapitalismo”, secondo la felice definizione datane da Edward Luttwak1. Ciò che i sostenitori del turbocapitalismo hanno predicato a gran voce dall’inizio degli anni Ottanta, era che «l’impresa privata fosse del tutto liberata da regolamentazioni governative, senza intromissioni da parte di sindacati efficienti, senza pastoie sentimentalistiche sui destini dei lavoratori e di intere comunità, senza l’ostacolo di barriere doganali o restrizioni sugli investimenti, e infastidita il meno possibile dalla tassazione». Pertanto, ciò che essi hanno chiesto con insistenza era «la privatizzazione di ogni genere di servizi di proprietà dello Stato e la trasformazione di pubbliche istituzioni, dalle università agli orti botanici, alle carceri, dalle scuole e dalle biblioteche alle case di riposo per anziani, in aziende private gestite nell’ottica del profitto». In cambio, i “turbocapitalisti” promettevano «un’economia più dinamica in grado di generare più ricchezza, senza precisare nulla sulla sua distribuzione, per nuova o vecchia che sia»2. Siamo, insomma, nell’ottica di Luttwak, di fronte a caratteristiche e proposte che dovrebbero appartenere alla classica tradizione del “libero mercato” ma che hanno prodotto qualcosa di radicalmente diverso dal capitalismo controllato che aveva prosperato dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni Ottanta regalando la sensazionale novità della ricchezza di massa alle popolazioni di Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone e di qualunque altro paese ne abbia seguito le orme. La progressiva affermazione del turbocapitalismo, ha prodotto politiche economiche imperniate sui dogmi della liberalizzazione e della priva1 2
Luttwak E.N., 1998, La dittatura del capitalismo, Milano, Mondadori. Ibidem, p.42
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tizzazione, applicate in maniera sin troppo omogenea ed uniforme, in tutti i paesi del mondo, ignorando le specificità sociali, culturali ed in generale nazionali. Il capitalismo controllato, viceversa, era gestito in modo molto diverso negli Stati Uniti, in Europa occidentale e in Giappone, nonostante in ognuna di queste versioni si prefiggesse comunque di porre alcuni limiti alla libera concorrenza, sacrificandone una parte sull’altare della stabilizzazione delle industrie e, di riflesso, dell’esistenza di chi ne dipendeva economicamente. Secondo il credo turbocapitalista, il capitalismo controllato, nelle sue diverse varianti regionali, aveva alimentato perniciose interferenze governative, foriere di inefficienze e di un rallentamento della crescita potenziale, dimenticando che il Mondo occidentale negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta ha avuto una crescita economica molto più elevata di quanto non sia accaduto successivamente. Ciò vuol dire che o non c’era tutta quella inefficienza, oppure esisteva, ma era controbilanciata dal vantaggio non manifesto della stabilità3. É facile dimostrare l’inefficienza di pratiche non competitive originate dal capitalismo controllato, ma è ben più complessa la concatenazione di cause ed effetti che collega la stabilità sociale alla crescita economica, talora tramite nessi di ordine psicologico, che costituiscono un elemento scarsamente considerato dagli economisti ortodossi. Nell’eclissi del capitalismo controllato, l’ideologia e le mode hanno svolto, a partire dagli anni Ottanta, un ruolo essenziale, soprattutto nello smantellamento del sistema di regolamentazioni in vigore negli Stati Uniti prima e in Europa poi4. Ogni paese ha iniziato, quindi, a dismettere il capitalismo controllato, secondo il proprio ritmo e le proprie specifiche motivazioni, cedendo il passo alla deregulation e alle liberalizzazioni. In questo scenario, è sicuramente mancato un ambito comune nel quale condurre un significativo dibattito internazionale sulle ripercussioni combinate di ordine politico, economico, sociale e culturale che lo smantellamento del capitalismo controllato avrebbe implicato. Ancor meno si è riusciti a condurre una valutazione internazionale congiunta delle con3 Si può ragionevolmente supporre che la certezza del reddito agevola le famiglie e le spinge sia a risparmiare di più, fornendo quindi capitali per altri investitori, sia a investire a loro volta, ad esempio nel capitale umano dei loro figli. 4 In Europa, ed in particolare in Italia, accanto a mode e ideologie riaffioranti, la ritirata del pubblico è stata una scelta in molti casi obbligata, dopo decenni di politiche inflazionistiche e di debito pubblico in continua crescita.
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Capitolo I
seguenze che ciò avrebbe comportato, per ogni paese singolarmente e per il mondo nel suo insieme. In sostanza, le varie ondate di liberalizzazioni e privatizzazioni che si sono succedute, sono state decise senza che gli interrogativi più “scomodi” venissero neppure posti, liberando le forze incontrollate del turbocapitalismo che hanno portato all’epilogo della crisi prima finanziaria e poi economica del 2008. Un decennio dopo la visione anticipatoria di Luttwak, Robert Reich è tornato con un’analisi ex post sulle dinamiche consolidatesi negli ultimi vent’anni nel “nuovo” capitalismo, sostituendo il prefisso “Super” al “Turbo” usato da Luttwak5. La convincente analisi sugli esiti del supercapitalismo è incentrata essenzialmente sull’affievolimento dei diritti garantiti dalla democrazia, progressivamente indeboliti proprio dalle pressioni esercitate dal nuovo sistema economico. Secondo Reich, infatti, negli ultimi decenni si è assistito ad un progressivo svuotamento del potere esercitato in quanto cittadini, in favore di un maggiore potere in quanto consumatori e investitori. Ciò deriva dal fatto che molti hanno una mente divisa, nel senso che, per citare Reich, «come consumatori e investitori vogliamo l’affare migliore. Come cittadini, però, non apprezziamo molte delle conseguenze sociali che questo comporta». Insomma, possiamo dire che prima del turbo/super capitalismo, «come consumatori e investitori eravamo messi molto peggio, ma come cittadini le cose ci andavano meglio»6. La sostanza del ragionamento è che i mercati sono diventati incredibilmente sensibili alle richieste individuali dei consumatori e degli investitori, senza però essere in grado di soddisfare le richieste della collettività. In tal senso si spiega come, mentre oggi la grande distribuzione commerciale e i gestori del risparmio aggregano gli interessi rispettivamente dei consumatori e dei risparmiatori/investitori in potenti blocchi di potere, le istituzioni che un tempo aggregavano le volontà dei cittadini si sono progressivamente indebolite; dunque, proprio a causa del fatto che il “nuovo” capitalismo è così efficiente e dinamico (sotto la spinta del cittadino consumatore/investitore), il cittadino “politico” è divenuto estremamente più vulnerabile. In tale contesto, l’unico modo affinché il Reich R.B., 2008, Supercapitalismo. Come cambia l’economia mondiale e i rischi per la democrazia, Roma, Fazi. 6 Ibidem, p. 105 5
Capitalismo sovralimentato ed iperglobalizzazione
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“politico” abbia la meglio sul consumatore/investitore – o almeno ne bilanci lo strapotere – è attraverso leggi e norme capaci di trasformare le scelte di acquisto ed investimento, in scelte sociali che vadano oltre quelle meramente ed utilitaristicamente personali. Ma se le norme hanno un peso fondamentale nel riequilibrare gli scompensi prodotti dal “nuovo” capitalismo all’interno dei confini degli Stati, esse ne hanno uno ancor maggiore, là dove si guardi al turbocapitalismo globalizzato, poiché molti dei problemi interni alle economie dei singoli Paesi, nascono dall’assenza di regole di governo dei mercati globali. Vi è quindi la necessità di costruire ed adottare un insieme di regole condivise. Già qualche anno fa il premio nobel Joseph Stiglitz suggeriva che l’unico modo per risparmiare all’economia globale le distorsioni in cui essa è incorsa dal caso Enron in poi era la creazione di una struttura legale internazionale, con efficacia garantita da una corte internazionale7. I fatti sembrano avergli dato ragione ma sino ad ora l’unico tentativo di costruire (e suggerire) un quadro regolatorio articolato e completo è stato quello fatto dall’OCSE (anche su proposta e stimolo dell’Italia), che ha definito un nuovo Global Legal Standard per l’economia e la finanza mondiale, mirante ad una convergenza condivisa al massimo livello da strutture legali internazionali8. Tra i punti del nuovo codice etico-economico, ci sono il superamento del segreto bancario, nuove governance societarie, il rispetto degli standard per la difesa dell’ambiente, del lavoro, la lotta all’evasione e all’elusione fiscale, la lotta alla criminalità finanziaria e al riciclaggio di denaro sporco, la definizione di tetti agli stipendi per i top manager delle banche e dell’industria che siano “sostenibili” e collegati a obiettivi di lungo termine degli stakeholder nonché la definizione di una governance delle grandi imprese condivisa e basata su regole certe e trasparenti9. J.E. Stiglitz, 2007, La globalizzazione che funziona, Torino, Einaudi. OECD, 2009, A “Global Charter”/”Legal Standard”. An inventory of possibile policy instruments, disponibile in rete su: http://www.oecd.org/dataoecd/35/63/42393042.pdf 9 I contenuti di quelle che sono state ribattezzate le dodici tavole del Global Legal Standard sono in dettaglio i seguenti: 1) un’economia forte, equa e pulita deve basarsi sui valori della propriatà, integrità e trasparenza. Questi valori devono essere promossi dalle politiche pubbliche e ispirati dal mondo degli affari. L’effettivo monitoraggio dell’applicazione di tali principi e standard dovrebbe essere intrapreso su basi regolari; 2) I governi, le compagnie e le entità del mondo degli affari riconoscono che questi principi sono la pietra miliare di un’economia di mercato che serva i bisogni e le aspirazioni dei cittadini di ogni paese e di cui occorre meritarsi il rispetto e la fiducia; 3) Qualsiasi “corsa al ribasso” negli standard di lavoro, sociale e ambientale e nell’arbitraggio sulla 7 8
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Capitolo I
Anche la volontà, apertamente manifestata, di ricercare più efficaci regole di governo dell’economia mondiale, lascia intendere che la globalizzazione continuerà ad avere una propria vitalità e a caratterizzare in modo marcato il futuro dell’economia, nonostante i venti di crisi che imperversano dal 2008. In sostanza la globalizzazione non cadrà sotto i colpi della crisi economica, a meno che non si creda che la globalizzazione sia solo, o quasi, sinonimo di commercio ed investimenti internazionali. Ma, come è noto, la globalizzazione è molto più di questo e, dunque, le voci di un suo possibile collasso sono decisamente esagerate. Infatti, la globalizzazione in senso ampio, come messo in evidenza da molti autori, non è altro che l’allargamento, l’approfondimento e l’accelerazione della interconnessione, a livello mondiale, tra tutti gli aspetti della vita sociale contemporanea10. Ciò, evidentemente, ha poco a che vedere col fatto che, in seguito alla crisi, i flussi privati di credito ed investimento internazionali siano temporaneamente precipitati. Per di più, se è vero che l’attività economica privata precipita, è anche vero che il movimento internazionale di fondi pubblici a sostegno delle economie esplode. Inoltre, le manovre di stabilizzazione dei mercati messe in atto dai governi e dalle banche centrali tende sempre più a legare le economie europee, americane ed asiatiche. giurisdizione dovrebbe essere prevenuta attraverso la cooperazione internazionale e la convergenza delle strutture legali interne; 4) L’evasione e l’elusione fiscale sono un’offesa alla società nella sua interezza e tutte le entità aziendali ed economiche in tutte le loro forme legali dovrebbero adempiere pienamente ai loro doveri fiscali; 5) I rapporti tra i governi e le imprese, incluse le attività di lobby, dovrebbero essere condotte in accordo con principi equilibrati, trasparenti ed equi; 6) Gli affari e la governance delle aziende e delle entità economiche siano esse quotate, non quotate, private o pubbliche, dovrebbero assicurare la capacità di controllo della contabilità e l’equità nelle relazioni tra management, consigli di amministrazione, azionisti ed altri stakeholder. Le strutture e gli strumenti finanziari non dovrebbero essere usati in maniera distorta allo scopo di nascondere il vero beneficiario, proprietario, o veicolo finanziario, nelle loro varie forme, non dovrebbero essere usati per attività illecite, incluso il riciclaggio del denaro, la corruzione, o la sottrazione di attività ai creditori, le pratiche fiscali illecite, la diversione delle attività, la frode di mercato, l’aggiramento dei requisiti informativi; 7) deve essere assicurata la diffusione di accurate e tempestive informazioni sulle attività, la struttura, la proprietà, la situazione finanziaria e l’andamento delle imprese; 8) Gli schemi di retribuzione e i compensi dovrebbero essere sostenibili e consistenti rispetto agli obiettivi di lungo periodo, la forma legale delle entità economiche e una prudente gestione dei rischi; 9) La corruzione, incluse le tangenti nelle transazioni internazionali, dovrebbe essere trattata come un reato penale ed efficacemente perseguita e punita; 10) Il riciclaggio di denaro deve essere penalmente perseguito; 11) Ogni tipo di protezionismo deve essere vietato; 12) Il segreto bancario non dovrebbe costituire un ostacolo all’applicazione dei principi etici qui prospettati, incluso il rispetto delle norme fiscali mondiali. 10 Si veda ad esempio D. Held et al., 1999, Che cos’è la globalizzazione, Trieste, Asterios.
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In tale contesto, è possibile che alcuni governi possano essere tentati di rispondere alla crisi adottando politiche protezionistiche, imponendo regole che possano inibire l’integrazione finanziaria, o prendendo misure che tengano a freno l’immigrazione. I costi per questo tipo di operazioni sono, però, enormi e difficili da sostenere nel lungo periodo. A ciò si aggiunga che la possibilità dei singoli governi di difendere le loro economie e le loro società civili dalle influenze e dalle politiche esterne, sono costantemente evaporati negli ultimi due decenni e non vi è nessuna indicazione che questo trend possa essere ribaltato. La globalizzazione è una forza così potente e diversificata che neanche la gigantesca crisi economica in atto, la rallenterà o le farà fare marcia indietro. Insomma, piaccia o non piaccia, la globalizzazione sopravviverà alla crisi. Molti analisti, come è noto, hanno sostenuto che l’ondata di globalizzazione emersa negli anni Novanta è solo il proseguimento di un processo di lungo periodo iniziato già nell’Ottocento, quando l’introduzione del battello a vapore ha rivoluzionato i trasporti, quanto se non più dell’avvento del trasporto marittimo containerizzato, così come la stampa, il telegrafo ed il telefono hanno rappresentato novità così dirompenti, quando apparse, da essere paragonabili ad internet. In sostanza vi sarebbe poco di nuovo sotto il sole. Tuttavia, l’ondata attuale di globalizzazione ha un insieme di caratteristiche senza precedenti. La diffusione dell’accesso ad internet nei più remoti angoli del globo, infatti, sta trasformando la vita di più persone, in più luoghi e a minor costo di quanto sia mai accaduto in precedenza ed il ritmo del cambiamento sta accelerando più velocemente di quanto non lo si riesca a descrivere. La vera differenza rispetto al passato è, però, che l’odierna globalizzazione è anche più individualizzata di quanto lo fosse in precedenza. Il telegrafo era principalmente usato dalle istituzioni, ma internet è uno strumento assolutamente individuale che consente ad ingegneri indiani di lavorare in tandem con colleghi della Silicon Valley o ad imprese italiane di trovare intorno al mondo i più efficienti e competitivi fornitori. La globalizzazione contemporanea differisce anche per il fatto che la velocità con la quale sta integrando le attività umane è spesso istantanea e, prevalentemente, a costi bassi o nulli. A ciò va aggiunto che il mutamento quantitativo in ciascuna delle componenti della globalizzazione è talmente consistente e significativo, che finisce col produrre un mutamento che, di per
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Capitolo I
se stesso, è anche qualitativo. Per alcuni la globalizzazione è stato niente più che un progetto americano teso ad espandere il dominio economico, militare e culturale degli Stati Uniti11. A tal proposito è arduo difendere l’idea che la globalizzazione sia una strada a senso unico, realizzata per diffondere gli interessi americani nel mondo. I cambiamenti apportati dalla globalizzazione hanno, infatti, attivato nuovi ed improbabili rivali nel contendere l’egemonia americana in un ampio ambito di settori. I fondi sovrani dell’Asia e del medio oriente, infatti, hanno spiazzato le banche americane; il successo delle aziende cinesi o dei produttori di software e di film indiani, per citare solo qualche caso isolato, affondano le loro radici in un mondo rimodellato da due decenni di rapida crescita economica e di globalizzazione. Volendo estremizzare, si può dire che persino Al Qaeda è figlia della globalizzazione. Infatti, la mobilità internazionale dei suoi membri, la raccolta di fondi e risorse finanziarie, la sua capacità di reclutamento, sono enormemente avvantaggiate dalle forze che guidano la globalizzazione: la facilità di viaggi e spostamenti, di trasporti e comunicazioni, la liberalizzazione economica e le frontiere porose. Gli Stati Uniti hanno beneficiato molto della globalizzazione, ma non si può certo dire che siano stati i soli. Tra i maggiori limiti che vengono evidenziati, vi è inoltre quello che si tratti di un “affare dei ricchi per i ricchi”. Probabilmente non sono della stessa idea gli indiani o i cinesi o anche le emergenti classi medie del Brasile, della Turchia, del Vietnam e degli innumerevoli paesi che devono il loro recente successo al boom degli investimenti e del commercio facilitati dalla globalizzazione. Fino a quando nel 2008 non è esplosa la crisi finanziaria, la classe media dei paesi in via di sviluppo era il segmento della popolazione mondiale che cresceva più velocemente. Questo trend tenderà inevitabilmente a rallentare e, in alcuni paesi, sarà tragicamente ribaltato, poiché la crisi tende a respingere nuovamente verso il basso, un ampio numero di individui che faticosamente avevano scalato la piramide del reddito. Resta però il fatto che negli ultimi vent’anni, un significativo numero di paesi poveri, ha avuto successo nel togliere, decine di milioni di cittadini, dalla morsa della
Si veda, tra gli altri, J. Agnew, 2005, Hegemony. The new shape of global power, Philadelphia, Temple University Press. 11
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povertà, grazie alle dinamiche della globalizzazione12. I paesi BRIC, di cui si discuterà più avanti, sono esempi paradigmatici di questa tendenza. Sfortunatamente questi paesi sono anche esempi paradigmatici di realtà dove una povertà degradante, coesiste con una ricchezza estrema. Va tuttavia rilevato che, tanto nei paesi ricchi quanto in quelli poveri, l’ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza è diventata una delle principali preoccupazioni e la globalizzazione, specialmente nella componente del libero commercio, viene additata come una delle cause all’origine di tale disuguaglianza. Ma rimane estremamente difficile provare se la globalizzazione produca, essa stessa, disuguaglianza. In verità, la questione è stata affrontata, in tempi più o meno recenti, da diversi economisti, i quali hanno tentato di esaminare le connessioni tra globalizzazione e disuguaglianza, senza tuttavia, dimostrare convincenti nessi causali tra i due fenomeni13. 1.2. L’iperglobalizzazione 1.2.1 Globalizzazione ed iperglobalizzazione Come si mostrerà nel dettaglio nel capitolo III, la globalizzazione non è un fenomeno nuovo. Dall’alba della civilizzazione è stato il costo di trasporto di beni, persone e idee a determinare l’organizzazione geografica dell’attività economica. Per lungo tempo ne è derivato un utilizzo inefficiente delle risorse di ogni nazione proprio perché la morsa di ferro dei costi del commercio imponeva che le cose fossero fatte vicino e non dove era più efficiente realizzarle. Con la graduale riduzione del costo del commercio di beni, del trasporto di persone e della condivisione delle idee, l’attività economica si è spostata verso i luoghi dove può realizzarsi in modo più efficiente: se si tratta di moda, questo luogo è forse Milano piuttosto che Manila, se si tratta di automobiline-giocattolo, il luogo è forse Pechino piuttosto che Napoli.
C. Prestowitz, 2006, 3 miliardi di nuovi capitalisti, PIEMME. A. Sudhir, P. Segal, 2008, What Do We Know About Global Income Inequality?, in “Journal of Economic Literature”, vol. 46, n. 1. 12 13
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Molti problemi dell’Europa, ed in parte degli Stati Uniti, hanno un’origine interna ed esisterebbero anche senza la crescente competizione di un’industria asiatica poco qualificata e la forte tendenza alla delocalizzazione ma la rapida riallocazione geografica dell’attività economica ne ha certamente accentuato le debolezze intrinseche e ha reso molto più critico l’affrontarle per tempo. Tuttavia, diversi eminenti autori sostengono che la globalizzazione è entrata in una fase nuova14. Nuovo e vecchio paradigma si integrano perfettamente se pensiamo la globalizzazione come il risultato di due grandi “spacchettamenti” (unbundlings). Il rapido declino dei costi di trasporto – un fenomeno iniziato alla fine del diciannovesimo secolo – ha prodotto il primo spacchettamento, ovvero il venir meno della necessità di produrre i beni vicino al luogo di consumo generando il processo di globalizzazione. In seguito, la rapida caduta dei costi di comunicazione e di coordinamento ha avviato un secondo spacchettamento che ha avuto come conseguenza la fine della necessità di realizzare molti stadi dell’attività manifatturiera uno vicino all’altro. In anni più recenti, il secondo spacchettamento si è esteso dalle fabbriche agli uffici, e ne è derivata la delocalizzazione di lavori che appartengono al settore dei servizi portando a quella che possiamo definire “iperglobalizzazione”. Per riprendere un esempio classico di Adam Smith, in un paese di produttori di spilli, se si vuole arrivare a produrre spilli, qualcuno deve pur tagliare, trafilare e raddrizzare il metallo; modellare e attaccare la capocchia; pulire e mettere nella carta il prodotto finito. Ciò che accade con il secondo “spacchettamento” è che la produzione può venir suddivisa e distribuita in momenti separati che possono essere realizzati in giro per il mondo. In sostanza accadrà che gli spilli saranno puliti in un paese mentre il taglio del metallo si farà in un altro. In sintesi, se il primo spacchettamento ha permesso la separazione geografica di fabbriche e consumatori, il secondo ha frammentato nello spazio le fabbriche e gli uffici stessi. Il vecchio paradigma – essenzialmente la tradizionale economia del commercio internazionale – è stato utile per comprendere l’impatto del primo unbundling. Per comprendere il secondo (che è stato chiamato in vari modi: frammentazione, delocalizzazione, specializzazione verticale, frammentazione della catena del valo14 Il lavoro che in modo più efficace ha dato la stura al nuovo paradigma interpretativo della evoluzione della globalizzazione è quello di G. M. Grossman e E. Rossi-Hansberg, 2008, Trading Tasks: A Simple Theory of Offshoring, in “American Economic Review, 98:5, 1978–1997