Gli strumenti musicali dei popoli - Progetti Sonori

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Barbara Filippi. Gli strumenti musicali dei popoli. Progetti Sonori Edizioni - Via Nazionale, 15 - 61040 Mercatello sul Metauro (PU) - Italy. Tel. 0722 816053 ...
Barbara Filippi

Gli strumenti musicali dei popoli

Progetti Sonori Edizioni - Via Nazionale, 15 - 61040 Mercatello sul Metauro (PU) - Italy Tel. 0722 816053 - 0722 816895 • Fax 0722 816055

Coordinamento editoriale: Anna Maria Londei Grafica e impaginazione: Francesca Marchetti Copertina: Progetti Sonori Fotografie: Corrado Salvo

ISBN 978-88-88003-61-0 Proprietà letteraria riservata © 2012 by Progetti Sonori - Mercatello sul Metauro (PU) All rights reserved. International Copyright secured Prima edizione: Maggio 2012 0

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_______________________________________________________________ La realizzazione di un libro presenta aspetti particolarmente complessi e i numerosi controlli effettuati, a volte, non sono sufficienti ad evitare completamente inesattezze o refusi. L’Editore ringrazia sin d’ora chi vorrà gentilmente segnalare qualsiasi forma di imprecisione.

INDICE

7 Presentazione Introduzione

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AEROFONI Rombo Flauti globulari Ocarina Cuyvi Apito Flauto di Pan Pinquillo e Quena Tarka Mohozeño Tin whistle Mizmar Launeddas Zampogna e Ciaramella Punji Khæn hok Khæn bæt Cassis cornuta Didgeridoo Trutruca e Herque Dung Chen Sylvestertrompete

20 21 22 23 24 25 27 28 29 30 31 32 34 36 37 38 40 42 43 44 45

MEMBRANOFONI Tamburi a cornice Tammorra Bendir Riqq Daff Tinya Beaver Darbuka Djembé Damaru Lag-rnga Taman Kundu Dholak Tabal Bombo Nakkarat Tbilat Tabla Tamburi a frizione Khamak

48 49 51 52 52 53 54 55 56 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 70

IDIOFONI GRUPPO 1: IDIOFONI A CONCUSSIONE

72

Nacchere Karkabat Ting sha e Zagat Hyoshiji Triccheballacche Bin zasara

72 73 73 74 74 75

GRUPPO 2: IDIOFONI A FRIZIONE

76

Guiro Raganella Kajambarambo Calebasse

76 77 78 79

GRUPPO 3: IDIOFONI A SCUOTIMENTO

80

Maraca Scatola e cestino sonori Palo de agua Sistro Angklung

80 81 82 83 84

GRUPPO 4: IDIOFONI A PIZZICO

85

Scacciapensieri Zanza e mbira

85 87

GRUPPO 5: IDIOFONI A PERCUSSIONE

89

Tamburi a fessura e parlanti Muyu Teponaztli Tamburo parlante N’teu njon Udu Buncacan Quijada de asno Balafon Marimba Gong Saron Campana Njang Thil bu

89 89 90 91 92 94 95 96 97 98 100 102 104 108 109

CORDOFONI Berimbau Pluriarco

112 114

GRUPPO 1: LE ARPE

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Arpa arcuata africana Arpa di Viggiano Kora

115 117 119

GRUPPO 2: LE LIRE

121

Kissar

121

GRUPPO 3: LE CETRE

123

Valiha Zither Siter Celempung Dulcimer Mountain dulcimer Hammered dulcimer Ektar

124 126 128 129 130 130 132 134

GRUPPO 4: I LIUTI

136

Ud Charango Cekuntrung

136 138 140 141

Kacapi

Sitar

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GRUPPO 5: LE FIDULE

143

Rebab Lira calabrese Erhu Ghironda

143 145 146 147

Proposte operative

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Partiture

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Conclusione

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Bibliografia

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PRESENTAZIONE

L’etnomusicologia ha festeggiato il secolo di vita, contribuendo alla conoscenza di noi stessi quasi al pari della psicoanalisi. Senza di essa mancherebbero tutti i principali metodi d’insegnamento, non esisterebbero diversi generi musicali e non sarebbe stata scritta una buona quantità di repertorio, senza parlare dell’immenso lavoro di ricerca, catalogazione e divulgazione del materiale raccolto, che è poi la sua finalità propria. Oggi gli etnomusicologi sono specializzati in vari settori: vocale, strumentale, coreutico… Tra le discipline più recenti c’è la campanologia, che studia una cultura, quella dei suonatori di campane, proclamata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Sebbene le fonti di ricerca sul campo siano sempre più scarse, i documenti già catalogati sono da tempo disponibili al pubblico grazie alle attuali tecnologie di riproduzione video-audio. Tutto ciò torna di grande utilità quando si educa, si cura o, semplicemente, si desidera conoscere le proprie radici musicali. Ricordo di essere rimasta molto colpita da una vetrina di strumenti musicali esotici all’interno dell’Orff-Institut di Salisburgo: in particolare, si trattava di xilofoni e metallofoni provenienti dall’Estremo Oriente e appartenuti allo stesso Orff, il quale li utilizzò per creare lo strumentario che porta il suo nome. Da allora cominciai ad interessarmi di qualunque cosa potesse suonare, scoprendo infinite possibilità timbriche e gestuali che in parecchie occasioni mi sono servite, nel lavoro come nella vita. Ho raccolto, acquistato, ricevuto in regalo un buon numero di strumenti musicali popolari, provenienti da ogni parte del mondo, molti dei quali usati, qualcuno da restaurare, ma tutti in condizione di suonare. Il mio orecchio si è abituato alle scale “slendro” e “sauta”; i miei occhi alle più strane tecniche di costruzione e di assemblaggio dei componenti; le mie mani a suoni uditivamente ascendenti, ma definiti discendenti per la loro posizione sullo strumento, e viceversa. Per eseguire una scala qualunque su alcuni strumenti devo muovermi a zig-zag tra linguette, corde e canne; maneggio ogni giorno i materiali più vari, dal carbonato di calcio alle ossa animali. È arrivato il momento di “raccontare” una parte di questi strumenti, con la loro storia e i loro suoni, quindi non come muti reperti da museo, ma come oggetti vivi, sempre simpaticamente presenti nelle mie giornate. 7

INTRODUZIONE In compagnia degli strumenti musicali Gli strumenti musicali non rappresentano solo il prolungamento fisico del corpo, ma sono destinati uno ad uno a tutte le funzioni della musica da suonare. Se un balafon o una marimba si devono pensare con più di un suonatore, altri strumenti servono al teatro più che alla danza, altri ancora si suonano solo per pregare e, perché no, ci sono anche quelli con i quali divertirsi, giocare, trascorrere del tempo da soli, ad esempio seguendo gli spostamenti del proprio bestiame. Un educatore ha, a questo punto, un'ampia scelta di strumenti dalle tante possibili destinazioni d’uso, che contribuiscono a sviluppare armoniosamente motricità, intelligenza e personalità. L’aspetto motorio è stato ampiamente messo in rilievo da pedagogisti del calibro di Roberto Goitre: “Per quanto riguarda l’educazione motoria l’uso degli strumenti musicali riveste un’importanza fondamentale non mai abbastanza valutata. Ad esempio, il triangolo impone un movimento verticale di una sola mano con prensilità, il tamburo impone il movimento verticale con prensilità, il tamburo basco richiede il movimento verticale e rotatorio del polso, per i legnetti occorre la prensilità di una mano con prensilità e movimento verticale dell’altra, per i campanelli è necessaria una rapida torsione del polso, mentre per le maracas si deve coordinare il movimento del braccio con quello del polso, il bongo sviluppa il coordinamento bilaterale delle braccia e delle mani, lo xilofono serve a educare allo spostamento laterale del braccio e all’ortometria, e così via.” (Far musica è... Suvini Zerboni)

Ma non va trascurato il contributo che, attraverso un'adeguata attività strumentale, si può dare allo sviluppo dell'autostima, delle capacità di relazione e socializzazione, di confronto, di mettersi in gioco, di collaborare. Non a caso, in tempi di scarsa istruzione di massa, attraverso la musica avveniva una vera e propria autoeducazione che oggi si dovrebbe, almeno in parte, recuperare, visto l’aumento dei casi di fragilità e devianza spesso dovuti all’incapacità di mettersi in relazione con l’ambiente.

Gesti e suoni: un percorso di scoperta Quanto scriveva Goitre a proposito dell’educazione motoria sugli strumenti musicali può essere ulteriormente sviluppato alla luce delle infinite esperienze possibili col suono. Ogni giorno produciamo una quantità enorme di suoni semplicemente muovendoci. L’elenco dei nostri “gesti sonori” è lungo e costituisce già di per sé un piacevole esercizio musicale. Riporto qualche voce a caso: battere, grattare, soffiare, mescolare, pizzicare, trascinare, rotolare, scorrere, agitare, strofinare, accarezzare, scuotere, urtare, stropicciare, premere, picchiettare, calpestare, toccare, sfiorare, sventolare, roteare, scricchiolare… solo per rimanere in ambito “non vocale”. Tutte queste azioni che, ripeto, compiamo quotidianamente per i più svariati motivi, hanno un puntuale riscontro musicale: non a caso, gli strumenti musicali più antichi sono stati gli attrezzi di lavoro che cambiavano di funzione secondo la necessità. Così, abbiamo strumenti da battere, grattare, soffiare, pizzicare, sfiorare, scuotere, picchiettare, accarezzare, toccare, urtare, roteare, e così via. Conoscere tutto ciò significa scoprire suoni sempre nuovi; ci rende aperti all’ascolto e all’esperienza concreta. La nostra tradizione colta, peraltro ricchissima, ci ha abituati a pochi, modernissimi strumenti musicali, dall’elevata tecnologia e dalle sicure prestazioni foniche; ma è difficile che nei Conservatori di musica si insegni la loro storia e i musei, come dicevo, espongono gli

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esemplari più antichi nel più assoluto silenzio. È facile, a questo punto, che si spezzi la preziosa continuità tra l’antico e il moderno e tra ciò che è popolare da ciò che è “serio”. Con quest’opera vorrei proporre un percorso di recupero e di esplorazione di quanto, anche inconsapevolmente, portiamo dentro di noi da generazioni. La musicalità che abbiamo espresso nel corso dei millenni si è variamente concretizzata, sia nei canti che nei suoni, con modalità assolutamente interdipendenti. Per compiere questo percorso alla riscoperta dei suoni dei popoli, è quindi indispensabile conoscere:

LE NOSTRE RADICI MUSICALI Le musiche pentatoniche Il semplice raccogliere musica o altri patrimoni sonori della tradizione orale non è accettato come etnomusicologia: dai tempi dell’“Homme armé” in poi, passando per Frescobaldi, Haendel, Schubert, Liszt e così via, la musica popolare (cioè quella delle società non industrializzate) ha sempre offerto materiale di composizione o di rielaborazione per l’utenza “colta”. Tuttavia, è sempre mancato l’interesse verso la catalogazione sistematica e la trasmissione delle musiche raccolte: forse perché non ritenute degne di essere rieseguite tali e quali; forse perché simbolo di comunità che, ad occhi esterni, sembravano immutabili nel tempo. Soltanto agli inizi del Novecento, con l’apparire dei primi mezzi di registrazione del suono e con il progresso delle scienze umane, si crea un nuovo ramo della musicologia, volto allo studio, alla comparazione e all’utilizzo didattico/terapeutico delle strutture più profonde e primigenie della musica, da ricercarsi presso i gruppi umani meno “evoluti”, ma ancora più che mai presenti nella nostra attualità. Prendiamo ad esempio la scala pentatonica, che non contiene semitoni bensì suoni a distanza variabile, grosso modo (dipende dai temperamenti: solo l’Occidente ha adottato quello equabile), tra il tono e il tono e mezzo. Un motivo molto popolare tra gli sportivi è:

che effettivamente si muove su una scala pentatonica, a dimostrare che ancora oggi si conserva questa struttura melodica così arcaica; tanto arcaica e diffusa geograficamente che gli studiosi la ritengono “espressione musicale primordiale”. E infatti le musiche pentatoniche nascono ovunque: Nativi americani

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Scozia

Stati Uniti

Africa

A questo si aggiunga lo sterminato patrimonio, colto e popolare, dell’Estremo Oriente! Lo stesso Kodàly giungeva a dichiarare che la scala pentatonica è alla base della musica ungherese, tanto da dichiararla lingua musicale del suo Paese. Quest’ultimo passo è il più importante in etnomusicologia: la struttura interna di un canto o di una danza permette di identificare la società da cui proviene praticamente al pari di un costume tradizionale o di una specialità gastronomica, e molti studiosi lo hanno dimostrato. Anche nelle musiche pentatoniche la disposizione e la funzione dei cinque suoni variano secondo la cultura di appartenenza, che, nel tempo, ha elaborato schemi strutturali propri. Molte melodie dei Nativi Americani, ad esempio, iniziano con un ampio intervallo ascendente per poi muoversi discendendo verso un suono finale; canti scozzesi come “Amazing Grace”, invece, fanno gravitare i suoni su due centri identificabili col Do e col Sol discendente; in Sudamerica le musiche hanno spesso un solo perno, rappresentato dal La, ed il caratteristico profilo melodico ad arco. Concludo con esempi nostrani, i più utili per coloro che desiderano intraprendere l’attività musicoterapeutica in Italia: il “giro” melodico più frequente contiene l’intervallo di terza minore e gli schemi Sol-Mi, Mi-Sol, Sol-La-Sol-Mi, Mi-Sol-La-Sol, e i canti terminano generalmente sul Do; ma non mancano esempi in cui il Do è principio e fine: Testi vari

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Toscana

Una volta in possesso di questi schemi, non sarà difficile improvvisare e comporre con le scale pentatoniche. Anche un grande compositore e pedagogo come Carl Orff lo ha fatto, creando quell’importantisima opera didattica che è lo “Schulwerk” e riconoscendo a pieno titolo le nostre radici musicali pentatoniche. Non solo i bambini, ma anche gli adulti, come si è visto, conservano questa sensibilità di cui occorre tener conto sia che si intenda avviare il percorso didattico, sia quello terapeutico.

Il ritmo Il ritmo è una delle componenti musicali che presuppongono l’organizzazione del tempo. Al di là di ogni definizione accademica, che non risulta pienamente soddisfacente in campo etnomusicologico, è meglio guardarsi attorno ed osservare alcune realtà. Situazione 1: le onde del mare si frangono una dopo l’altra sulla costa. Il mare è forse un generatore di ritmi? Situazione 2: anche il sole sorge e tramonta, ma dov’è il ritmo in questo fenomeno, peraltro apparente? Situazione 3: il nostro cuore batte più o meno regolarmente. È forse un produttore di ritmi? Situazione 4: nei monasteri si trascorre molto tempo in meditazione con musica. Per caso, è stato abolito il ritmo? Queste quattro situazioni, prese fra le tante che ho trovato nei libri di musica per spiegare la genesi del ritmo, potrebbero creare confusione e non poche contraddizioni. La musica viene ancora presentata come se qualsiasi fenomeno sonoro che si produce in natura fosse anche un fenomeno musicale. L’etnomusicologia ci insegna, invece, che se il suono non venisse in qualche modo recepito e filtrato dal nostro udito e dalla nostra psiche, in altre parole, se l’uomo non intervenisse in prima persona nell’ascolto e nella produzione sonora, qualunque essa sia, ben difficilmente esisterebbe la musica! La musica c’è perché c’è l’uomo: un cavallo che galoppa non fa musica, ma un essere umano che lo ascolta (e già il semplice ascolto è partecipazione) e lo riproduce, ha non solo “riorganizzato” il suono, ma anche fatto musica. L’intervento umano è la conditio sine qua non perché esista la musica in ogni luogo e in ogni tempo. Ecco perché John Blacking, figura di spicco fra gli etnomusicologi, può definire la musica “suono umanamente organizzato”. E, poiché la musica si veicola nel tempo, anche quest’ultimo viene “umanamente organizzato” in quelle molteplici modalità che ci è comodo definire ritmo. Eccone una: “In principio era il ritmo, dal momento che tutti i gesti e tutti i movimenti in partenza privi di ritmo diventano ritmati con la loro ripetizione. Il ritmo condiziona la continuità necessaria ad ogni azione, alla sua ulteriore trasformazione, alla sua diffusione nelle zone psichiche e spirituali dell’essere. Il ritmo dell’individuo definisce la sua forma.” (Hans Von Bulow, in P. Righini, L’acustica per il musicista, Zanibon, 1970)

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Quest’affermazione ha trovato ampie conferme: col movimento l’individuo mette in azione le proprie energie, ponendosi in relazione sia con lo spazio che col tempo. È proprio la nostra capacità di “sentire” il tempo e lo spazio a renderci ritmici. Se è vero che alcuni movimenti ripetuti, come il battito cardiaco o la respirazione, non dipendono totalmente da noi, è pur vero che costituiscono veri e propri motori, il cui funzionamento influisce positivamente o negativamente sull’intera “macchina” umana, tant’è vero che tutte le pratiche meditative e diverse terapie, compresa la musicoterapia, vanno ad agire su questi due movimenti, preesistenti a qualunque altro. Scoperta l’origine fisiologica del ritmo, possiamo analizzare alcuni schemi di movimenti ripetuti con regolarità nel tempo.

Il senso del 12 Il numero 12 è onnipresente in tante culture, forse perché, a parte alcuni riscontri astronomici, ha molti divisori e nasce dall’unione del pari con il dispari; nella storia della musica occidentale rappresenta perfino la sintesi tra perfetto e imperfetto, tra regolare e irregolare. Il nostro sistema musicale tradizionale fonda sul 12 e i suoi divisori (2, 3, 4 e 6, oltre a se stesso) le sue principali unità di misura del ritmo. Una volta stabilita un’unità di misura, questa rimane costante perché ripetuta identica: la polimetria, infatti, ha avuto poca fortuna nel nostro repertorio, al contrario della polifonia che invece non ha uguali negli altri sistemi musicali. Ma in Africa, continente ritmico per antonomasia, avviene l’opposto: la polimetria è l’anima del brano musicale e il numero 12 coi suoi multipli viene utilizzato come punto di riferimento e di incontro per esecutori che pensano secondo metri diversi. Esempio: 1 A B C D

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2

3

4

x x

5

x x x x

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6

7

8

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10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24

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x

dove ogni casella è una pulsazione contenente il suono o il silenzio. Lo strumentista A pensa in 3 e suona alla seconda pulsazione; B pensa in 4 e suona alla prima e seconda; C pensa in 12, come si può vedere dai due identici disegni ritmici eseguiti; D, che pensa in 13, ha il compito di creare uno sfasamento metrico grazie al quale gli esecutori devono ricominciare molte volte prima di terminare tutti insieme. È un procedimento ben noto agli autori minimalisti, i quali hanno trovato stimoli creativi proprio in musiche come queste. Sarà poi l’esperienza sul campo a fornire all’etnomusicologo l’accentazione interna di ciascuno schema, che contribuisce a rendere ancora più fluida e cangiante l’intera esecuzione.

Dove, quando, perché suonare La musica è presente in ogni luogo e tempo, al punto da permeare qualunque momento della nostra vita. La comunicazione con i suoni è un linguaggio che, al pari di quello verbale, è assai diversificato e trasmette valori condivisi dalle comunità umane. Perciò le finalità della musica sono molte e trasversali fra loro, tuttavia si possono raggruppare in tre categorie: DIRE, FARE, SENTIRE. Significativi e fondamentali sono, a tal proposito, gli studi di Maurizio Della Casa.

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La categoria del dire Le cosiddette “funzioni del dire” sono forse quelle maggiormente presenti e riconoscibili: tutte le informazioni che si possono dare col suono, dai semplici segnali acustici ai più complessi leit-motive, rientrano in questa categoria. Radio e televisioni abbondano di informazioni sonore, ad esempio le sigle delle varie trasmissioni, per non parlare delle colonne sonore nel cinema, che assumono spesso funzione informativa o descrittiva. In ambito etnomusicologico troviamo numerosi esempi di musica per dire: •

campane, tamburi e trombe annunciano e trasmettono a distanza le notizie più diverse: l’arrivo di importanti personalità, l’inizio e la fine di cerimonie, il rientro dal lavoro;



le orchestre che accompagnano la danza o lo spettacolo teatrale descrivono le azioni e i movimenti degli attori e dei danzatori.



le canzoni narrative raccontano le storie del luogo o declinano interi alberi genealogici;



molti generi strumentali e vocali servono a comunicare sentimenti e idee oppure le abilità improvvisative e virtuosistiche degli esecutori.

Personalmente, ritengo che le funzioni del dire, così legate all’aspetto squisitamente comunicativo del linguaggio musicale, siano le più antiche elaborate dall’uomo: costituiscono praticamente il prolungamento/potenziamento della voce (evidentemente limitata sulle lunghe distanze), che finisce per sostituirla del tutto quando gli strumenti e le tecniche esecutive varcano un certo livello di complessità.

La categoria del fare Di questa categoria possono far parte tutte le musiche aventi come funzione prevalente quella di indurre a compiere azioni oppure di agire sullo stato d’animo e sul sistema neurovegetativo, regolando e modificando anche in modo significativo le condizioni psicofisiche personali. Tipici esempi di “musica per fare” sono le danze e i canti di lavoro, ai quali si attribuisce funzione “ausiliaria”, cioè di aiuto e di coordinamento mentre si compiono certi movimenti. Quando a muoversi sono molte persone, come avviene ad esempio nelle caserme o in alcuni sport, gli ordini vengono impartiti in modo breve ed incisivo, così da mantenere la concentrazione e la sincronia. È quel che accade anche durante certe esecuzioni musicali africane, quando il capogruppo, utilizzando sillabe nonsense, decide un cambio di ritmo o un’improvvisazione. È da sottolineare il senso di piacere giocoso che permea questi eventi particolari. Si agisce invece nel profondo con la cosiddetta funzione “strumentale”: in questo caso, il suono altera in qualche modo le nostre condizioni psicofisiche, come quando cantiamo la ninna nanna ad un bambino. La possibilità di eccitarci o di rilassarci a suon di musica è conosciuta da tempi remotissimi, tant’è vero che tutte le pratiche meditative, rituali, sciamaniche e terapeutiche (anche la musicoterapia dunque!) ne richiedono l’intervento, talvolta col solo canto, più spesso con gli strumenti e la danza. La relazione interpersonale che naturalmente coinvolge gli individui in tali contesti può estendersi allora anche ad entità invisibili, le divinità appunto, le quali, in segno di gradimento e di benevolenza, elargiscono i doni richiesti: una guarigione, un buon raccolto, ecc.

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La categoria del sentire Come tutti gli altri linguaggi, anche la musica esercita un impatto emotivo sia su chi la esegue che su chi la ascolta. Quel che nel corso della storia ha preso il nome di “affetto” o “sentimento” e che oggi chiameremmo “sensazione cinestesica” è stato ampiamente studiato soprattutto in relazione alle nuove forme musicali proposte dalle avanguardie. Le funzioni della “musica per sentire” sono fondamentalmente due: 1. funzione emotiva propriamente detta (come la colonna sonora di certe soap-opera); 2. funzione aggregativa (come gli inni nazionali, politici, sportivi...). L’azione della musica sullo stato d’animo è conosciuta da sempre: ci sono pervenuti documenti greci e trattati medievali che descrivono le reazioni emotive che ciascun modo melodico può provocare: commozione, tristezza, bellicosità, esaltazione, gioia, tenerezza e così via. Come i predicatori nei loro panegirici o gli oratori durante le arringhe sapevano suscitare nell’uditorio i sentimenti più diversi, dalle lacrime alla rivolta, così anche la musica diviene strumento di influenzamento, se non perfino di manipolazione psicologica, tanto da essere talvolta vietata in pubblico. La musica sacra è un potente esempio di musica per sentire con funzione emotivo-aggregativa: rafforzare il credo e unificare la comunità sono i suoi scopi principali, per raggiungere i quali è indispensabile la partecipazione collettiva totale: il gospel e lo spiritual hanno conservato fino ad oggi la peculiarità di esternare senza inibizioni i sentimenti e le emozioni e tutti sono chiamati ad offrire il loro contributo. Questo coinvolgimento così spontaneo e sempre più raro nella nostra società dove predomina la fruizione passiva del messaggio artistico, è invece ancora rintracciabile in popoli meno all’avanguardia del nostro o che intendono conservare una cultura di minoranza all’interno di un contesto sociale dominante. Significativo a tal proposito è quel che fanno i Nativi nordamericani, che periodicamente si incontrano nei cosiddetti pow-wow, raduni interetnici che, attraverso la riproposizione di antiche tradizioni, rafforzano il senso di nazione, educano le giovani generazioni e riaffermano le loro idee di libertà e di legittima autonomia dagli europei. D’altronde i sentimenti nazionalistici hanno influito, nel bene e nel male, anche sulla musica colta a partire dal Romanticismo. Tutte le ricerche etnomusicologiche, in fondo, soprattutto se condotte nel proprio Paese, assumono quasi subito la funzione aggregativa, cioè di appartenenza ad un determinato popolo. Quando Kodàly e Bartòk effettuavano le loro ricerche, non solo creavano un archivio di musica ungherese, ma componevano anche secondo la lingua musicale ungherese, riaffermando quindi la loro identità nazionale. Uno Stravinskij, un Rimskij-Korsakov, uno Smetana che attingono al patrimonio folklorico della loro terra, trovano le loro radici culturali che hanno precisi confini geografici e nelle quali si identificano pienamente. Diversamente, un Bizet o un Debussy che si lasciano emozionare dalle atmosfere sonore spagnole privilegiano soprattutto la sfera, appunto, dell’emozione e del sentimento.

L’importanza del contesto Ciò che caratterizza e determina la conservazione della cultura di un popolo è anche il contesto in cui l’evento culturale avviene, mancando il quale l’evento cessa di esistere. Non si calcola quante tradizioni e quante musiche siano scomparse in questo modo: vengono in mente i canti di lavoro e le feste legate al ciclo dell’agricoltura, scomparsi in seguito alla meccanizzazione, all’industrializzazione e alla commercializzazione dei prodotti su larga scala. Ma anche il rimescolamento sociale dovuto alle varie forme di mobilità ha creato comunità nuove che non si riconoscono più nelle tradizioni precedenti. Così, è diventato difficilissimo ascoltare un canto di questua, perché nella maggior parte dei casi questo è legato alla condivisione del cibo in feste durante le quali anche i meno abbienti avevano la possibilità di mangiare a sufficienza.

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A stabilire il contesto concorrono alcuni importantissimi fattori: 1. il luogo in cui l’evento avviene; 2. il tempo in cui si verifica l’evento; 3. i protagonisti dell’evento, indipendentemente dal ruolo che ricoprono; 4. l’oggetto dell’evento; 5. le motivazioni culturali che rendono necessario l’evento; 6. le modalità con cui l’evento si svolge. Più una popolazione è “primitiva” e senza contatti, più la sua cultura è originale e rigidamente codificata; ciò spiega la pressoché assoluta immutabilità delle sue tradizioni, che per questa ragione diventano oggetto di ricerca per storici ed etnologi. Il progresso tecnologico, gli scambi con altre popolazioni e, ahimè, anche eventi storico-politici non sempre positivi determinano trasformazioni progressive che vanno dalla contaminazione culturale all’assimilazione totale di interi popoli. In situazioni del genere, si verificano mutamenti di contesto di differente entità e gradualità, valutando i quali si può stabilire se un certo evento culturale è ancora riconoscibile o se invece è scomparso e se vi è stato o meno un cambiamento, ad esempio, delle funzioni musicali (l’uso della fisarmonica ha certo soppiantato molti strumenti e quindi si trovano sempre meno violinisti o zampognari, ma non ha fatto cambiare fisionomia ai canti e ai balli cui oggi si associa). I mutamenti che avvengono gradualmente fanno parte della naturale evoluzione della società, che sceglie in base a criteri migliorativi della propria qualità della vita. Sono i cambiamenti repentini e magari violenti a bloccare questa evoluzione naturale fino a causare veri e propri genocidi culturali. Nella nostra società governata dai mass media, soprattutto radio e televisione, l’uso della musica è ovviamente elevatissimo e comprende anche quella popolare. Non si tratta certo di recupero del folklore, bensì di un riadattamento del contesto, che porta al cambiamento delle funzioni originali. Lo spot pubblicitario di una nota marca di pasta era accompagnato dalla “pizzica”, cioè dalla musica di una danza pugliese avente funzione terapeutica contro il morso della tarantola. È evidente che, in seguito al cambiamento del contesto (dal rito di guarigione allo spot), cambiano anche le funzioni (la pasta è prodotta in Puglia, il motivo musicale è molto ritmato e adatto quindi a catturare l’attenzione dei consumatori). Gli stessi festival del folklore che si tengono un po’ dappertutto, specialmente in estate, pur meritevoli in alcune delle loro finalità, sono in fin dei conti concerti di musica “popolare”, finalizzati allo spettacolo e all’intrattenimento. Gli esecutori nel migliore dei casi hanno appreso il repertorio in apposite scuole, quindi essi stessi non sono gli attori originali delle tradizioni che propongono: pertanto, è impensabile che siano interpreti fedeli, anche con la massima cura dei particolari e il dichiarato intento di promuovere le culture popolari.

I canti Il canto è forse la maniera più complessa di usare la voce. Si può comunicare attraverso un’infinita gamma di codici vocali, ognuno dei quali possiede, in modo più o meno marcato, una componente d’intonazione. Per questo motivo non è sempre facile stabilire il confine tra voce che parla e voce che canta: è infatti un problema culturale a cui ogni popolo dà una propria risposta. Senza scendere in dettagli strutturali troppo complessi, esaminiamo ora le tipologie di musica vocale più rappresentative del folklore internazionale.

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1. Il canto narrativo è comune praticamente a tutti i popoli: può raccontare storie e leggende, descrivere e commentare fatti di cronaca, celebrare gli antenati di una famiglia importante. 2. La ninna nanna è altrettanto comune: non solo con la musica, ma anche col testo si cerca di tranquillizzare il bambino mediante immagini di calma e di sicurezza tratte dal mondo della natura. In certi casi, anche nel repertorio italiano, la ninna nanna è l’occasione per la donna di cantare la sua fatica quotidiana di moglie e di madre. 3. Conte, filastrocche e giochi cantati fanno parte della prima autoeducazione: in contesti ancora privi dell’istruzione minima e della tecnologia avanzata, con questo repertorio si tramandano apprendimenti funzionali alla vita quotidiana: socializzazione, rapporti causa-effetto, schemi motori, tecniche di caccia e di lavoro, numerazione sono solo alcuni esempi. 4. Il canto enumerativo e iterativo si può trovare sia in ambiente infantile che adulto ed è caratterizzato dalla progressione numerica o dalla ripetizione di elementi sempre più numerosi: stimola la memorizzazione, l’acquisizione del concetto di numero e la correttezza di pronuncia. 5. Il canto di questua è ugualmente assai diffuso: lo esegue sia il mendicante mentre chiede l’elemosina (e a tal proposito sono peculiari alcuni strumenti musicali), sia la “brigata” di persone che gira di casa in casa in segno di buon augurio, come ancora avviene in occasione di un matrimonio, del Natale, dell’Epifania, del Calendimaggio e in onore di alcuni Santi. 6. Il canto sacro, ivi compreso quello legato a riti apotropaici e a superstizioni, ha un’infinità di generi ed aspetti che meriterebbe più di una trattazione a parte: ogni religione ha il suo repertorio, che deriva dal proprio modo di concepire la relazione tra uomo e Dio, e comprende sia la dimensione terrena (si pensi alle cerimonie di iniziazione), sia quella spirituale. 7. Il canto di lavoro (non importa se agricolo o artigianale, la caccia o la pesca o le tradizionali occupazioni delle donne) accompagna da sempre ed ovunque la fatica fisica, specialmente se a compierla sono più persone, in quanto si rende necessario sincronizzare i movimenti e unire gli sforzi in segno di solidarietà verso la comunità intera. 8. Il lamento funebre è un altro grande pilastro del canto popolare: eseguito dai parenti del defunto o da persone ingaggiate in occasione di veglie funebri e funerali, conta una quantità di “specializzazioni” a seconda dell’età, del sesso o della condizione sociale dell’estinto. 9. Il canto sociale e politico è un’acquisizione delle società industrializzate: nelle sue varie forme, contribuisce a rinforzare il senso di appartenenza ad una determinata categoria sociale e a rivendicare, se necessario, i propri diritti in seno alla società di appartenenza. 10. La canzone amorosa, che a sua volta comprende rispetti, dispetti, stornelli, serenate, ecc, evidenzia il tema dominante della vita umana: il rapporto fra i sessi. Serena o contrastata, lirica o burlesca, la relazione uomo-donna è il motore della vita. Questi canti hanno ispirato più di un capolavoro della musica classica: ad esempio, la trama di “Tosca” ha delle affinità con la storia di Cecilia, l’eroina toscana che sacrifica la sua virtù per la libertà dell’uomo che ama. L’elenco termina qui, anche se si potrebbero aggiungere altre voci... Si ribadisce solamente che lo snodarsi della nostra vita nel tempo fa sì che anche per il canto si seguono i cicli delle stagioni e le tappe dell’età. Funzioni e contesti riguardanti luoghi, persone ed eventi particolari possono dar luogo a speciali ritualizzazioni, a privilegiare questo o quel genere vocale, a preferire il canto collettivo a quello individuale, e così via.

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A.M.I.CO. ossia METTIAMO ORDINE TRA GLI STRUMENTI MUSICALI

Tali e tanti sono gli strumenti musicali conosciuti che sono stati ideati più sistemi di classificazione: c’è chi li ordina in base al volume sonoro, chi in base al timbro, chi in base alla finalità d’uso… Qui in Occidente la classificazione avviene secondo le diverse modalità di produzione del suono. Gli strumenti risultano così raggruppati in quattro principali famiglie: gli Aerofoni, i Membranofoni, gli Idiofoni e i Cordofoni, che a loro volta comprendono vari sottogruppi. Ecco i principali: AEROFONI mono e policalami a becco, a tacca, ad ancia semplice e doppia, a bocchino, a sacco, a mantice, a sferzamento d’aria. MEMBRANOFONI a suono determinato o indeterminato, monopelli, bipelli, a percussione, a frizione. IDIOFONI a suono determinato o indeterminato, a percussione, a concussione, a frizione, a pizzico, a scuotimento. CORDOFONI a pizzico, a plettro, a frizione, a percussione. Il curioso acrostico A.M.I.CO., parola bella e importante per fare musica insieme, ci può essere d’aiuto per ricordarli un po’ tutti. Ciascun sottogruppo è poi ulteriormente suddiviso in base alle caratteristiche peculiari di ogni strumento, quali forma, tecniche di costruzione, utilizzo di accessori, eccetera. Ciò verrà evidenziato scheda per scheda, in modo da presentare questa piccola collezione non solo come una raccolta di strumenti musicali, ma come un vero e proprio libro aperto sull’arte, gli usi, la storia di molti popoli. Questo dovrebbe contribuire ad una migliore conoscenza reciproca e alla scoperta dei valori comuni, più di quanto le azioni di politica internazionale e annessi trattati di pace e cooperazione hanno finora saputo fare.

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AEROFONI M I CO Qui sono raccolte le schede di quegli strumenti musicali che suonano in virtù delle vibrazioni dell’aria, sia libera che all’interno di contenitori aperti oppure chiusi e messa in movimento dallo sferzamento, dal soffio, dalle labbra o dalle ance.

ROMBO Classificazione: aerofono a sferzamento d’aria. Materiali di costruzione: legno e corda. Provenienza: Nuova Guinea.

“Fa fischiare l’aria!”. Così si dice di persona dalle mani molto pesanti… In realtà l’espressione è iperbolica: quanta forza è necessaria per mettere in vibrazione un mezzo come l’aria, senza doverla imprigionare in tubi e cavità? Ma, adoperando strumenti semplicissimi, fin dalla preistoria questo è possibile. L’uomo ha vissuto, e tuttora vive, in spazi aperti e talvolta grandissimi, nei quali è importante far sentire a distanza la propria presenza. Perciò ha inventato oggetti in grado di amplificare non solo la voce, ma anche il movimento. Archeologi e antropologi hanno trovato ogni sorta di manufatto con tali caratteristiche: nel caso di quelli che, per l’appunto, fanno fischiare l’aria, è stata creata una categoria apposita di aerofoni, detti “a scia” o “a sferzamento” d’aria, mentre il nome che li accomuna tutti è “rombo”, dal greco “ ̀ρημβω̃ ” (rhembō), voce onomatopeica che significa girare e, con significato traslato, fischiare. I popoli dell’Oceania sono quelli che, attualmente, ne fanno l’uso più costante; era tuttavia comunissimo in tutte le civiltà, dai Greci ai Nativi Americani, dall’Africa all’Asia. Caratteristica imprescindibile del Rombo è l’aerodinamicità; quindi, forma appiattita e allungata: tavolette di legno lavorate oppure ossa, cui viene legata una cordicella da reggere saldamente in mano o da assicurare a un bastoncino. La maggior parte dei rombi è ellittica, come quello in figura, ma altri sono quadrangolari e presentano dentellature che fanno aumentare l’attrito con l’aria. Al Rombo si deve imprimere un doppio movimento rotatorio: uno sul proprio asse e uno su quello di chi lo suona, che di solito lo fa girare al di sopra della testa. Si viene così a creare una perturbazione che fa vibrare l’aria circostante in modo da ottenere le frequenze minime udibili dall’orecchio umano. Ed effettivamente il suono del Rombo è cupo e sferzante, come una lunga r. Ai nostri più lontani antenati non deve essere sfuggito il carattere particolarmente evocativo di questo suono, dal momento che, per molte culture, il Rombo ancora oggi è uno strumento cerimoniale, legato al culto dei morti. A noi invece non dovrebbe sfuggire il valore didattico di un simile strumento: i primi studi (e non solo i primi…) sull’attrito e sui movimenti periodici, unitamente all’analogia col moto terrestre di rotazione e rivoluzione, potrebbero avvalersi di un sussidio veramente prezioso e divertente da costruire e utilizzare. Basta disporre di spazi sufficientemente ampi, aperti o chiusi.

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FLAUTI GLOBULARI Qualunque cavità si presta a soffiarci dentro, dalla bottiglia al guscio. Le proprietà sonore di questi oggetti sono note fin dalla preistoria e tanto basta affinché si sia tramandata una quantità di strumenti musicali di forma arrotondata e dotati di imboccatura, che suonano al semplice soffio. Naturalmente, e analogamente ai flauti a corpo cilindrico, col tempo si è trovato il modo di forarli opportunamente per produrre più note: operazione facile se il nostro strumento è ricavato da un frutto, ma ben più difficile se è fatto di terracotta! Attualmente, ai flauti senza fori (che pertanto emettono un unico suono) se ne affiancano altri provvisti anche di otto/dieci fori; le loro dimensioni possono variare notevolmente, così da formare intere famiglie in grado di suonare in quasi tutti i registri strumentali. Tutti i flauti globulari hanno un timbro particolare, caldo e dolce, ricco di fascino. Se poi sono di terracotta, materiale ottimo per i risuonatori (si vedano le schede della Darbouka e dell’Udu), questo carattere è ulteriormente esaltato. A dispetto della fragilità che obbliga a maneggiarli con la massima cura, la loro voce è potente e facilmente distinguibile all’interno di un gruppo orchestrale.

Flauto globulare privo di fori, Ungheria

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OCARINA Classificazione: aerofono a bocca; gruppo dei flauti globulari. Materiale di costruzione: terracotta. Provenienza: da Oriente a Occidente. Il modello italiano è prodotto a Budrio (BO).

Il termine Ocarina è usato in senso lato per indicare qualsiasi flauto globulare, che anche qui in Italia ha una larghissima diffusione sotto forma di fischietti a forma soprattutto di animale. Ovunque ci sia una fornace per la lavorazione della ceramica, si possono trovare anche questi oggetti sonori; e il nostro Paese, capitale mondiale della ceramica, non poteva non dare i natali a colui che ha fatto del fischietto in terracotta uno strumento versatile e piacevolissimo da ascoltare, un’eccellenza italiana conosciuta in tutto il mondo. Ufficialmente, l’Ocarina, che vuol dire “piccola oca”, nacque a Budrio nel 1853 ad opera del ceramista diciassettenne Giuseppe Donati, il quale ebbe l’idea di forare i fischietti, in modo che potessero suonare una melodia. A tale scopo, dovette apportare qualche modifica nella forma e nelle dimensioni del nuovo strumento, che in breve giunse ad assumere l’aspetto allungato e rigonfio che ricorda quello di un’oca priva della testa, da cui il nome Ocarina. Naturalmente, in tempi in cui la Legge Bacchelli e la tutela del diritto d’autore erano ancora di là da venire, Donati, nonostante la fama acquisita, morì povero e la sua invenzione rischiò più volte l’oblio allorché qualche fornace chiudeva per mancanza di eredi. In compenso, fabbriche di ocarine sono sorte in varie parti del mondo, rendendosi talvolta protagoniste di ulteriori innovazioni costruttive. Oggi, infatti, la produzione di Ocarine è fiorente soprattutto grazie alle crescenti richieste del mercato estero. Data la perfezione tecnica raggiunta, sarebbe quindi auspicabile una maggior diffusione dell’insegnamento dell’Ocarina anche sul nostro territorio, al pari della fisarmonica o del flauto dolce. Infatti, questo strumento, dopo il periodo delle trascrizioni, ha iniziato ad avere una letteratura musicale propria, alimentata dagli ensemble ocarinistici da concerto. È interessante, a tal proposito, notare ancora una volta l’analogia con la fisarmonica, che conserva il repertorio popolare e intanto continua ad evolversi in ambito colto. Non possedendone le dimensioni, l’ocarina fin dal suo apparire viene costruita in differenti taglie, così da suonare in ogni tonalità e nell’estensione di varie ottave grazie ai dieci fori di cui è provvista.

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PROPOSTE OPERATIVE

La musica occidentale è piena di esempi, di citazioni e perfino di intere opere ispirate a un più o meno marcato esotismo. Sicuramente questo è indice di curiosità e voglia di conoscenza: abbiamo visto infatti quanto un solo strumento possa unire decine di popoli. I linguaggi musicali, però, sono molto diversi a causa della differente concezione di melodia, di ritmo, di forma presente in ogni cultura. Perché la musica diventi davvero un linguaggio universale, bisogna conoscerne i molteplici codici comunicativi, che comprendono sia i parametri sopra ricordati, sia l’utilizzo degli strumenti. In questa sezione ci sono proposte operative di vario genere, adatte per l’insegnamento, per far musica insieme, per divertirsi trascorrendo un po’ di tempo con uno strumento musicale in mano. Costruire un oggetto sonoro o leggere e suonare una partitura in stile etnico vuol dire mettersi in relazione con altre persone, condividendone idee e valori; vuol dire anche formare e conoscere la propria a l’altrui personalità, il che rende il materiale che segue utile anche in musicoterapia. Alcune di queste proposte sono veri e propri giochi; e il gioco, si sa, è metafora della vita!

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SCHEDA OPERATIVA 1: MASTICARE IL RITMO Abbiamo visto come bastano poche sillabe onomatopeiche per apprendere velocemente sequenze ritmiche anche complesse. È un sistema usato dappertutto, specialmente su batteria e percussioni, e divenuto cardine di alcune didattiche musicali, Kodàly e Orff in primis. Scegliendo e combinando tre sillabe per altrettanti timbri, possono venir fuori giochi interessanti, sia vocali che strumentali. Un suono cupo e basso, ad esempio, potrebbe fare DUM; uno più chiaro e secco, BA; uno acuto e sottile, CI. Ecco una possibile sequenza ritmica: Dum bàdum dum ba, dum bàdum dùmba cìcci, Dum bàdum dum ba, dum bàdum dùmba cidumdùm. Non è difficile cogliere la diversa qualità timbrica delle tre sillabe, che tra l’altro si prestano a un valido esercizio di pronuncia. Il gioco si fa più divertente se vengono affidate: •

a tre esecutori, indicati rispettivamente in nero, rosso e azzurro: Dum bàdum dum ba, dum bàdum dùmba cìcci Dum bàdum dum ba, dum bàdum dùmba cidumdùm.



oppure ad un esecutore che esegue altrettanti gesti – suono con piedi, mani e dita



e successivamente a tre strumenti che richiamino tali onomatopee, ognuno suonato da una persona. Leggiamo la partitura “Questione di parole”:

Questione di parole Musica di Barbara Filippi

A questo punto, mettiamoci in bocca altre “poesie ritmiche” e ripetiamo il percorso 150