Il capitale umano è, naturalmente, l'esito di un processo di ... Le carenze
quantitative e i difetti qualitativi del capitale umano vengono inclusi tra i fattori in
grado.
Il capitale umano nel Mezzogiorno: un approccio di sistema per evitare la trappola di basso sviluppo di Giulio Guarini e Sergio Scicchitano1 Introduzione Tra le debolezze più frequentemente imputate al Mezzogiorno c’è quella relativa alla quantità e alla qualità del suo capitale umano. Come è noto gli economisti utilizzano questo termine per indicare le competenze, capacità e abilità di cui dispongono coloro che, in varie posizioni, contribuiscono alla produzione e alla creazione di ricchezza. Il capitale umano è, naturalmente, l’esito di un processo di apprendimento e formazione che si svolge prevalentemente, ma non esclusivamente, nelle scuole di vario tipo e grado. Le carenze quantitative e i difetti qualitativi del capitale umano vengono inclusi tra i fattori in grado di dare conto della debole performance delle regioni meridionali in termini di crescita economica, soprattutto se misurata come andamento del reddito pro capite. Questo accostamento è pienamente giustificato dalla letteratura economica che, negli ultimi tempi, ha individuato, nel capitale umano un fattore decisivo per la crescita economica e per la costruzione di una politica di sviluppo in grado di autoalimentarsi nel tempo. Di recente un problema specifico, ma sicuramente rilevante per spiegare la qualità del capitale umano, quale quello dell’apprendimento dei giovani studenti delle scuole medie ha costituito oggetto di un intenso dibattito che ha spinto a avanzare critiche molto severe nei confronti del sistema scolastico del Mezzogiorno ed in particolare dei suoi insegnanti. Al di là della fondatezza dei dati forniti, questo dibattito porta a individuare nel lato dell’offerta del capitale umano (essenzialmente le scuole) la causa delle debolezze, trascurando completamente il lato della domanda (cioè la capacità di utilizzare in modo appropriato e con remunerazioni adeguate il capitale umano). Questo lavoro si propone, in primo luogo, di fornire un quadro informativo il più possibile completo della situazione del capitale umano nel Mezzogiorno, prestando attenzione anche alle differenze rilevabile all’interno di questa area. Inoltre, si cercherà – attingendo ai più appropriati contributi teorici ed empirici e con l’ausilio di un modello econometrico – di fornire una spiegazione solida delle ragioni di fondo delle apparenti debolezze del capitale umano nel Mezzogiorno. In particolare si cercherà di verificare se esistono forze sistemiche che conducono a una perversa interazione tra fattori di offerta e fattori di domanda, cioè tra capacità di produrre e capacità di utilizzare capitale umano. Ove tale ipotesi fosse verificata, come suggeriscono i nostri risultati, sarebbe erroneo ricondurre i problemi del capitale umano del Mezzogiorno (e, in particolare, di alcune sue Regioni) soltanto al lato dell’offerta. Occorrerebbe, infatti, riconoscere che siamo in presenza di un equilibrio “basso”, una vera e propria trappola (una low-skills low-quality trap) dalla quale è difficile uscire se non con interventi ben coordinati e capaci di incidere su entrambi i lati: quello della domanda e quello dell’offerta di capitale umano. Il saggio è così articolato: il prossimo paragrafo propone un’analisi statistico-descrittiva della crescita economica e della produttività del lavoro, oltre che dei principali fatti stilizzati quali-quantitativi inerenti la sotto-utilizzazione del capitale umano nel Mezzogiorno. Il paragrafo successivo sulla base dei risultati raggiunti dalla recente letteratura economica internazionale, teorica ed empirica, esamina gli effetti diretti e indiretti del capitale umano sulla crescita di un’economia, soffermandosi in particolare, nella parte finale, sugli effetti degli skills sulla produttività del lavoro. L’ultimo paragrafo presenta un modello econometrico volto a comparare il diverso impatto degli skills tecnicoscientifici sulla produttività del lavoro nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord, nel tentativo di individuare significative diversità riconducibili al contesto istituzionale e alle diversità del sentiero di sviluppo socio-economico. Il paragrafo finale, nel trarre le necessarie conclusioni, si soffermerà sulle implicazioni di politica economica dei risultati raggiunti. 1
Gli autori desiderano ringraziare Marco Biagetti, Maurizio Franzini e Gilberto Seravalli per gli utili commenti a precedenti versioni del lavoro e Norina Salamone per l’utile assistenza nella ricerca di dati e fonti statistiche. Le opinioni qui espresse non impegnano il Dipartimento Politiche di Sviluppo del Ministero dello Sviluppo Economico.
1
1. Capitale umano e crescita nel Mezzogiorno In questo paragrafo vengono presentati alcuni “fatti stilizzati” inerenti la diffusione e l’utilizzo (o meglio sottoutilizzo) del capitale umano nel Mezzogiorno. Le analisi statistico-metodologiche si basano sulla Banca Dati ISTAT-DPS sugli indicatori regionali per la valutazione delle politiche di sviluppo2, che rappresenta una vera miniera di informazioni ancora non utilizzata a sufficienza dagli analisti. Inizialmente verrà presentata una descrizione del sentiero di crescita economica del Mezzogiorno e una disamina dell’andamento della produttività del lavoro, indicatore che rappresenta il canale tramite cui le competenze acquisite dal lavoratore fuori dal mercato del lavoro (istruzione) e durante il periodo di lavoro (formazione professionale) generano crescita economica. Saranno, poi, presi in esame aspetti di offerta e di domanda, valutando così sia la diffusione delle competenze sia il loro utilizzo nel sistema economico meridionale, nella consapevolezza della disomogeneità territoriale che caratterizza il Mezzogiorno. 1.1 Crescita e produttività del lavoro nel Mezzogiorno Negli ultimi anni (2001-2006) i tassi di crescita del PIL pro capite delle regioni meridionali (Tabella1) sono stati di poco superiori a quelli delle regioni centro-settentrionali, con la duplice conseguenza che il divario tra le due aree si è ridotto molto poco e le distanze con l’Unione Europea a 27 sono cresciute.
Tabella 1. Tassi di crescita del PIL pro capite (periodo 2001-2006) 2001
2002
2003
2004
2005
2006
Centro Nord
1,4
-0,1
-0,9
0,1
-0,8
1,2
Mezzogiorno
2,5
0,4
-0,6
0,0
-0,4
1,3
Unione Europea (27)
2,0
1,2
1,3
2,5
1,8
3,0
Fonte dati: Eurostat
I tassi di crescita della produttività del lavoro (Tabella 2), con l’eccezione del 2001, sono stati in Italia sempre inferiori a quelli della media europea e perfino negativi in tre anni (2002, 2003, 2006). Di questo ha risentito negativamente la nostra competitività internazionale e, anche per il suo tramite, la dinamica salariale. Tabelle 2. Tassi di crescita della produttività del lavoro (periodo 2001-2006) Italia Unione Europea (27)
2001
2002
2003
2004
2005
2006
-0,2
-1,3
-1,5
1,1
0,0
-0,2
1,5
1,5
1,0
1,9
1,0
1,4
Fonte dati: Eurostat3.
La banca-dati è consultabile sul sito http://www.istat.it/ambiente/contesto/infoterr/index.html. Il tasso di crescita della produttività del lavoro è calcolato come differenza tra il tasso di crescita del PIL reale ed il tasso di crescita dell’occupazione. 2 3
2
La tabella 3 permette di esaminare il problema più a fondo, in quanto essa confronta, per il periodo 2001-2006, la dinamica della produttività del lavoro del Mezzogiorno con quella del Centro Nord, disaggregandola per macro settori. Tabella 3. Tassi di crescita della produttività del lavoro del Mezzogiorno e del Centro-Nord Variazione 2006 percentuale 2000-2006
2001
2002
2003
2004
2005
-6,7
0,5
5,3
13,7
-0,6
-5,8
5,1
Mezzogiorno Agricoltura, silvicoltura e pesca Industria
-1,0
-0,1
-3,1
-2,4
-0,4
1,5
-5,5
- Industria in senso stretto
-0,7
-0,8
-4,2
-2,6
1,2
0,9
-6,2
- Costruzioni
-0,4
1,2
0,1
-1,3
-3,0
2,3
-1,2
0,5
-1,7
-0,5
0,5
0,7
-0,5
-1,0
-0,1
-1,0
-0,6
0,5
0,6
-0,3
-0,8
Servizi Totale MZ Centro Nord
-1,2
-0,1
-3,6
12,5
2,9
-2,1
7,9
Industria
Agricoltura, silvicoltura e pesca
0,0
-1,3
-1,7
0,2
-0,6
1,1
-2,5
- Industria in senso stretto
0,0
-1,4
-1,9
0,5
0,3
1,3
-1,4 -1,0
- Costruzioni
2,1
-0,1
0,0
-0,5
-2,8
0,4
Servizi
0,2
-0,5
-0,9
0,3
0,4
-0,3
-1,0
Totale CN
0,1
-0,6
-1,1
0,5
0,3
0,1
-0,6
Fonte dati: Rapporto DPS 20074
La tabella 3 conferma un andamento negativo generalizzato, con l’eccezione del settore Agricoltura, silvicoltura e pesca che, peraltro, è di dimensioni limitate. Emerge anche con chiarezza che la variazione complessiva fra il 2000 e il 2006 per tutti i settori del Mezzogiorno è sempre al di sotto di quella del Centro Nord, inclusa l’Agricoltura che al Sud ha una rilevanza maggiore. Aggrava la situazione il fatto che il più ampio differenziale di performance si ha nell’ Industria in cui il tasso di crescita negativo meridionale è il doppio di quello, anch’esso negativo, centro-settentrionale5. Infatti l’Industria è il settore i cui andamenti incidono in modo più significativo sulla crescita dell’intero sistema economico e dove proprio il capitale umano, se ben utilizzato e valorizzato, può offrire un contributo determinante per l’innovazione e lo sviluppo del sistema produttivo 1.2 Il capitale umano nel Mezzogiorno: i fatti stilizzati Per individuare le ragioni di un andamento così deludente della produttività del lavoro nel Mezzogiorno è necessario esaminare in modo sistematico e integrato sia gli aspetti qualitativi e quantitativi del capitale umano presente nelle Regioni meridionali, sia il suo utilizzo da parte del sistema produttivo e istituzionale. La “qualità” degli studenti A distanza di 3 anni dall’ultima rilevazione, nel dicembre 2007 sono stati resi noti i risultati dell’indagine PISA (Programme International Student Assessment) per il 2006, volta a valutare le competenze scolastiche dei quindicenni dei paesi OCSE in tre ambiti: lettura, matematica e scienze. L’indagine, pur non esente da limiti, consente una comparazione qualitativa fra i sistemi scolastici di molti paesi industrializzati.
4 La produttività del lavoro è calcolata come rapporto tra il valore aggiunto ai prezzi base (valori concatenati) e le unità di lavoro totali: si veda Ministero dello Sviluppo Economico, Rapporto Annuale DPS, Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione, Roma 2007a. 5 In particolare nell’industria in senso stretto, dove i tassi sono anche essi entrambi negativi, quello meridionale è pari a poco più del quadruplo di quello del Centro Nord
3
L’Italia, in base ai risultati ottenuti in 806 scuole e per 21.773 studenti, si colloca, come nel 2003, al quart’ultimo posto tra i paesi dell’area OCSE, precedendo Grecia, Turchia e Messico. Questo deludente risultato è, peraltro, l’esito di una situazione fortemente differenziata – definita “gravissima” già nel 20036 - fra le diverse tipologie di scuole e, soprattutto, fra le aree geografiche. La figura 1 mette in evidenza queste ultime: le Regioni settentrionali sono sostanzialmente allineate alla media OCSE (pari a 500) mentre più in basso si collocano le Regioni appartenenti all’area “Sud” (Abruzzo, Molise, Campania, e Puglia) e, soprattutto, all’area “Sud-Isole” (Calabria, Basilicata, Sicilia e Sardegna). Abruzzo, Molise, Campania, e Puglia fanno risaltare, nei 3 ambiti, un distacco medio di più di 40 punti rispetto alla media dei principali paesi industrializzati, mentre la distanza di Calabria, Basilicata, Sicilia e Sardegna è superiore ai 70 punti. Figura 1. Punteggi medi di PISA 2006 per area geografica 540
520 520 506
505
media OCSE= 500
501 500
494 487
486 482
480
scienze lettura
467
matematica 460 448 443
440
440 432 425 417
420
400 Nord-est
Nord-ovest
Centro
Sud
Sud-isole
Fonte: S. Scicchitano, L’istruzione in Italia, in Rapporto sullo Stato Sociale 2008, a cura di R. F. Pizzuti, UTET, 2008.
7
In merito alle possibili cause di questo divario, un recente studio rileva che il grado di disagio economico della famiglia di provenienza ha un forte impatto sugli esiti scolastici dello studente, che si attenua con il passaggio alla scuola secondaria di secondo grado. La famiglia, inoltre, ha una influenza determinante sulla scelta della tipologia di scuola. Le differenziazioni territoriali in termini di competenze acquisite nella scuola primaria sono entrate nell’agenda dei nostri policy-makers. Nelle considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, rese note il 31 maggio 2008, si legge “il livello di apprendimento degli studenti è uno dei campi in cui stabilire un corretto sistema di incentivi e indirizzare le risorse pubbliche”. Inoltre, il Quadro Strategico Nazionale (QSN) 2007-13, che rappresenta il documento di riferimento della prossima politica di sviluppo per le aree sotto-utilizzate del paese basa il proprio “obiettivo di servizio” in tema di istruzione anche sui risultati dell’indagine PISA. Va anche ricordato che, con riferimento alla scuola secondaria, la condizione relativa del sud sembra molto migliore, almeno in base ai voti ottenuti al diploma. Secondo l’ultima analisi effettuata dal Ministero dell’Istruzione fra i diplomati del 2007, le eccellenze (votazioni di 100 e 100 con lode) sono più frequenti al Mezzogiorno: nell’area sud l’8,7% degli studenti ha riportato la votazione massima (lo 0,8 con lode) contro una media dell’area nord pari al 6,2% (0,6 con lode) e dell’intero paese del 7,5%
6 Per un’approfondita disamina dei risultati di PISA 2003si rimanda a S. Scicchitano, Le competenze degli studenti quindicenni: l’indagine PISA 2003, in Rapporto sullo Stato Sociale. Welfare State e crescita economica, a cura di R. F. Pizzuti, 2006, UTET.
7 Cfr. P. Montanaro, I divari territoriali nella preparazione degli studenti italiani: evidenze dalle indagini nazionali e internazionali, Banca d’Italia, Questioni di Economia e finanza, Occasional paper n. 14. 2008.
4
(0,7 con lode). Va, comunque, considerato che questo criterio di valutazione non è omogeneo, come quello del PISA, in quanto risente maggiormente di elementi soggettivi. Diplomati e laureati nel Mezzogiorno Il tasso di scolarizzazione superiore, dato dalla percentuale di popolazione in età compresa fra 20 e 24 anni che ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore, è uno degli indicatori chiave della Strategia di Lisbona, in base alla quale esso dovrebbe raggiungere l’85% entro il 2010. Nel Mezzogiorno tale tasso è ancora lontano dalla media italiana (la differenza è di 5 punti percentuali) e soprattutto dal valore del centro-nord (9 punti) (tabella 4). Ciò è avvenuto malgrado la crescita generalizzata degli ultimi anni che è stata più marcata nell’intero paese (dal 72,3% nel 2004 al 74,8% nel 2006) rispetto al Mezzogiorno (dal 67,7% al 69,5% nel 2006). Tabella 4. Tasso di scolarizzazione superiore per macro-aree. Centro-Nord
2000 70,76
2001 71,84
2002 73,11
2003 74,08
2004 75,83
2005 76,81
2006 78,78
Mezzogiorno
62,55
63,25
65,14
67,08
67,71
68,04
69,48
Italia
67,31
68,20
69,71
71,10
72,33
73,04
74,80
UE-27 76,60 76,60 76,70 76,90 77,10 77,40 77,80 Fonte: elaborazione dalla Banca Dati ISTAT-DPS sugli indicatori regionali per la valutazione delle politiche di sviluppo
Come si vede, nel 2006 il centro-nord è allineato alla media dell’UE-27, se non al di sopra, mentre l’Italia, e soprattutto il Mezzogiorno, è in grave ritardo e la distanza dall’obiettivo fissato rimane superiore al 15%. Fra le singole Regioni (figura 2), la Sardegna nel 2006 aveva il dato peggiore (62,2%), mentre la performance migliore è della Basilicata ove il tasso raggiunge un valore (82,2%) superiore a quello medio delle Regioni del Centro-nord. La stessa figura mette a confronto i valori di tale tasso per Regioni del Mezzogiorno e mostra il percorso da seguire per il raggiungimento dell’obiettivo fissato in sede europea. All’interno del Sud Italia possono essere individuate situazioni molto diverse (figura 2): un primo blocco di Regioni, composto da Basilicata, Molise Abruzzo e Calabria, sembra sostanzialmente in linea con le previsioni europee; un secondo gruppo, formato da Puglia, Sicilia e Campania mostra un sensibile distacco dal Target di Lisbona. In una posizione particolarmente critica rispetto a questo parametro, si trova, infine, la Sardegna. Figura 2. Tasso di scolarizzazione superiore per Regione.
5
85,0
X
Target Lisbona= 85%
80,0
75,0
70,0
Basilicata Abruzzo Molise Calabria Puglia Sicilia Campania Sardegna
65,0
60,0
55,0 2000 2001 2002 2003
2004 2005 2006
2010
Fonte: elaborazione dalla Banca Dati ISTAT-DPS sugli indicatori regionali per la valutazione delle politiche di sviluppo
Inoltre, rispetto agli abbandoni scolastici, il Mezzogiorno, nonostante i sensibili miglioramenti degli ultimi tre anni, presenta ancora un sensibile distacco dalla media nazionale e dal centro-nord. A questo proposito, parlando delle differenze di capitale umano fra il sud e le altre Regioni d’Italia, il Governatore della Banca d’Italia nelle Considerazioni finali di maggio 2007 ha sottolineato che “..il ritardo si amplia se si tiene conto dei più elevati tassi di abbandono scolastico”. Al sud, infatti, (tab.5) nel 2006, 1 giovane su 4 ha abbandonato prematuramente gli studi (la percentuale nell’area “Convergenza”8 è anche più alta e pari al 26,3%), mentre nell’intero paese e al centro-nord il rapporto era, rispettivamente, di 1 su 5 e 1 su 6. Le situazioni più critiche si verificano in Campania (29%), Sicilia (26,1%) Sicilia (28,1%), e Puglia (25,1%), mentre Molise (16,4%), Abruzzo (15%) e Basilicata (14,1%) si collocano al di sotto della media nazionale. Rispetto al recente passato, l’evoluzione è, comunque, positiva: tra il 2004 e il 2007 nel Mezzogiorno il tasso di abbandono è diminuito di quasi 3 punti, e tutte le Regioni, manifestano evidenti progressi. Questo fa ben sperare per il futuro, anche in base alla considerazione che la diminuzione del tasso di abbandono è, con il miglioramento delle competenze dei quindicenni in lettura e matematica rilevate dall’indagine OCSE-PISA, uno degli indicatori dell’obiettivo di servizio “istruzione” della prossima politica di sviluppo per il Mezzogiorno – e, quindi, dovrebbe essere una delle priorità dei policy makers.
Tabella 5. Giovani che abbandonano prematuramente gli studi. Anno 2007 maschi femmine Indice generale Abruzzo
18,7
11,1
15,0
Basilicata
18,5
9,3
14,1
8 Come noto, l’UE, sulla base del PIL pro-capite, associa all’“obiettivo convergenza” le Regioni Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Basilicata in phasing-out.
6
Centro-Nord 7,0 6,7
Sicilia
Italia 6,2
6,0
5,0
Campania
Sardegna
4,4
6,1 4,0
4,4
3,0 4,8
5,6
Mezzogiorno
Abruzzo
4,8 5,4 5 5,2
Puglia
Basilicata
Molise
Calabria
Calabria
24,0
18,4
21,3
Campania
29,3
28,7
29,0
Molise
20,5
11,8
16,4
Puglia
28,9
21,2
25,1
Sardegna
27,1
16,4
21,8
Sicilia
29,6
22,6
26,1
Centro-Nord
19,3
12,1
15,8
Mezzogiorno
27,6
22,1
24,9
Italia 22,9 16,4 19,7 Fonte: Banca Dati ISTAT-DPS sugli indicatori regionali per la valutazione delle politiche di sviluppo
La formazione professionale E’ nota la persistente incapacità del nostro paese di fornire agli occupati un soddisfacente livello di training on the job, malgrado le indicazioni al riguardo della teoria della crescita economica9. Il Mezzogiorno, e in particolare l’area “Convergenza”, si caratterizzano per risultati particolarmente negativi. Nel 2007 (figura 3) la percentuali di occupati che hanno svolto attività formative e di istruzione è stata soltanto del 6,2% a livello nazionale; questa percentuale si abbassa al 4,8% nel sud e al 4,6% nell’area “Convergenza”. A livello regionale, la Sicilia (4,4%) e la Campania (4,4%) presentano i valori più bassi. Figura 3. Occupati che partecipano ad attività di formazione o istruzione. Anno 2007.
Fonte: elaborazione dalla Banca Dati ISTAT-DPS sugli indicatori regionali per la valutazione delle politiche di sviluppo
9 Si vedano in proposito S. Redding, Low-skill, low-quality trap: strategic Complementarities between human capital and R&D, in «Economic Journal», vol. 106, D. Acemoglu, Training and innovation in an imperfect labor market, in «Review of Economic Studies», vol. 64(3) (July), pp. 445-64, P. Aghion, P. Howitt, (1998), Endogenous growth theory, Cambridge, MA: MIT Press. S. Scicchitano, Complementarity between Heterogeneous Human Capital and R&D: can Job-Training Avoid Low Development Traps? Presented at Royal Economic Society (RES) annual conference 2007, University of Warwick (UK), S. Scicchitano, On the complementarity between on-the-job training and R&D: a brief overview, in «Economics Bullettin» Vol. 15 no. 2 pp. 1-11, 2007.
7
All’interno dell’UE è oramai diffusa la convinzione che i vari paesi aderenti dovrebbero assicurare livelli minimi di partecipazione alla life-long learning. Lo testimonia anche l’inclusione, nella Strategia di Lisbona, dell’obiettivo del 12,5% nel tasso di coinvolgimento in attività formative e di istruzione degli occupati nella fascia di età fra i 25 e i 64 anni, da raggiungere entro il 2010. La figura 4 mostra che, benché ancora lontana dalla meta, l’Europa nel suo complesso sembra ben incamminata mentre il nostro paese, e il Mezzogiorno in particolare, sembrano essere in difficoltà ad attuare le politiche necessarie per collocarsi sul sentiero giusto. Figura 4. Life-long learning. Adulti occupati nella classe d'età 25-64 anni che partecipano ad attività formative e di istruzione per 100 adulti occupati nella classe di età corrispondente (%). 2000-2003 vecchia serie, 2004-2006 nuova serie. 13
x
Target Lisbona= 12,5%
11
%
9
7 UE-27 Centro-Nord Italia Mezzogiorno
5
3
1 2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2010
Fonte: elaborazione dalla Banca Dati ISTAT-DPS sugli indicatori regionali per la valutazione delle politiche di sviluppo
L’istruzione universitaria Oltre che rispetto all’istruzione secondaria, il distacco fra Mezzogiorno e centro-nord si manifesta anche in relazione ai livelli dell’istruzione universitaria, specificamente in materie scientifiche. La tab. 6 mostra che, nel Mezzogiorno, la percentuale dei laureati in materie tecnico-scientifiche, ancorché in crescita nell’arco dell’ultimo decennio, è sensibilmente inferiore rispetto alla media nazionale. In realtà tra il 1998 e il 2006 il divario è molto cresciuto, passando da 2,7 a 6,4 punti percentuali. A livello regionale, Abruzzo, Campania e Calabria presentano la situazione migliore, mentre in posizione di coda si colloca il Molise. Tabella 6. Laureati in discipline scientifiche e tecnologiche per mille abitanti in età 20-29 anni Abruzzo Molise Campania
1998 3,9 0,3 3,3
1999 4,9 0,4 3,8
2000 6,5 0,6 4,2
2001 5,7 0,7 5,5
2002 6,5 0,6 6,1
2003 6,8 1,1 6,6
2004 7,6 1,4 8,2
2005 8,6 0,7 8,6
2006 10,4 2,3 10,2
8
Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Centro-Nord
2,1 1,2 2,4 3,1 2,2 5,5
2,7 2,1 2,9 3,5 3,2 6,8
2,8 2,0 4,2 3,9 3,9 6,9
3,0 2,4 3,9 4,2 4,9 7,3
3,7 3,1 4,8 4,7 5,4 9,0
3,9 4,1 7,0 5,1 6,2 11,3
4,9 5,2 6,9 6,2 7,3 12,7
6,0 4,5 8,4 6,8 6,7 13,1
6,8 5,9 9,5 7,5 7,0 14,8
Mezzogiorno
2,8
3,3
3,8
4,3
5,0
5,6
6,6
7,3
8,4
Italia 4,4 5,4 5,7 6,2 7,4 9,0 10,2 10,7 12,2 Fonte: elaborazione dalla Banca Dati ISTAT-DPS sugli indicatori regionali per la valutazione delle politiche di sviluppo
Il lato della domanda di capitale umano Dopo avere esaminato il lato dell’offerta di capitale umano nel Mezzogiorno – ove, accanto a problemi in apparenza strutturali e generalizzati, si rilevano alcune tendenze incoraggianti ma diversificate a livello territoriale – concentriamo ora la nostra attenzione, sul versante della domanda, cioè sulla generale capacità del sistema produttivo di occupare lavoratori dotati di elevato capitale umano. Iniziamo, analizzando la quota di addetti all’attività di Ricerca e Sviluppo (R&S) su 1000 abitanti (tab. 7). Al sud questo dato è pari ad appena 1,7 contro un valore, comunque modesto, di 3,7 nel centronord e di 3 a livello nazionale. Dall’inizio del decennio, questo divario non ha accennato a diminuire e ciò ha contribuito a rendere straordinariamente difficile la situazione occupazionale dei giovani altamente qualificati nel Mezzogiorno. Lo scarso utilizzo dei laureati nel nostro paese, e soprattutto nel Mezzogiorno, è confermato dai risultati dall’ultima indagine Excelsior, svolta dall’Unioncamere e dal Ministero del Lavoro, sulle previsioni di assunzione da parte delle imprese italiane. L’indagine mostra che a livello nazionale solo il 9% degli assunti previsti dovrebbe possedere un diploma di laurea; al sud la corrispondente percentuale scende al 5,8%. E’, però, da notare che le imprese meridionali manifestano una predilezione per i laureati in materie scientifiche (il 36,6% dei laureati di cui si prevede l’assunzione, contro il 29,7 per l’intero paese). Le imprese prevedono anche che il 52,5% degli assunti a livello nazionale (il 503% nel Mezzogiorno) avranno il diploma superiore. Ne consegue che, tra gli assunti, il 38,6%, con riferimento all’intero paese, e il 44% nel Mezzogiorno, avranno soltanto la licenza media. Si tratta di dati impressionanti. Tabella 7. Addetti alla R&S per 1000 abitanti 1995 1996 1997 Centro-Nord Mezzogiorno
3,2 1,2
3,2 1,3
3,2 1,3
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
3,3 1,3
3,2 1,3
3,3 1,4
3,4 1,5
3,6 1,6
3,5 1,6
3,5 1,6
3,7 1,7
Italia 2,5 2,5 2,5 2,6 2,5 2,6 2,7 2,9 2,8 2,8 3,0 Fonte: elaborazione dalla Banca Dati ISTAT-DPS sugli indicatori regionali per la valutazione delle politiche di sviluppo
Un quadro coerente con questi dati e ben poco incoraggiante emerge anche dai dati sulla quota di spesa in Ricerca e Sviluppo, che è un indicatore dell’attività di innovazione. Nel 2005 tale quota era pari a circa l’1,1%, di cui metà proveniente dal settore privato e metà dal settore pubblico, in Italia. Nel Mezzogiorno, le imprese private hanno investito soltanto lo 0,24% del PIL, mentre per la P.A e le Università il dato è sostanzialmente in linea con quello nazionale, 0,54%. Tutto ciò ci pone molto lontano dagli obiettivi fissati nella Strategia di Lisbona. A conclusione di questa analisi possiamo affermare che i vari indicatori considerati confermano aspetti della realtà del Mezzogiorno ben noti, ma permettono anche di cogliere alcune dinamiche positive e di apprezzare alcune significative differenze territoriali al suo interno. E’ interessante, soprattutto, sottolineare come i problemi non riguardino soltanto il lato dell’offerta – largamente privilegiato nelle critiche - ma anche quello della domanda. Lo testimoniano, in particolare, la minore utilità di un diploma di laurea al Mezzogiorno, in termini di probabilità di trovar lavoro nel settore privato rispetto al centro-nord, il minore utilizzo relativo di addetti all’attività di R&S e la minore spesa in questa attività sia del settore privato che di quello pubblico. Si delinea, quindi, un quadro complesso per interpretare il quale è opportuno attingere alla migliore letteratura economica in tema di crescita e di capitale umano.
9
2. Il capitale umano nella recente letteratura economica Oramai da molti anni, il capitale umano è considerato dalla letteratura economica, teorica ed empirica, uno dei fattori più rilevanti per la crescita di un’economia: dalla sua accumulazione (o dalla sua mancata accumulazione) dipendono in modo cruciale le performance di crescita delle economie. In particolare, è stata prospettata la possibilità che per il congiunto operare di fattori collocati dal lato dell’offerta e della domanda di capitale umano, si può determinare una situazione di low-skills lowquality trap che di fatto impedisce lo sviluppo endogeno e duraturo. Questo paragrafo esaminerà brevemente questa letteratura per trarne indicazioni utili alla spiegazione della situazione del Mezzogiorno. 2.1. Capitale umano e teoria della crescita endogena: le low-skills low-quality traps La teoria della crescita endogena, fin dagli inizi, ha sottolineato le potenzialità del capitale umano, sia isolato sia in stretta complementarità con l’attività di R&S, nel determinare il tasso di crescita economica. Semplificando, si possono individuare due approcci: il primo, ispirato dal lavoro di Lucas10, considera il capitale umano “semplicemente (come) un altro fattore nell’analisi della crescita” (Benhabib and Spiegel11), alternativo al progresso tecnologico. Per questo motivo viene data importanza alla sua accumulazione. Il secondo approccio, inaugurato dal lavoro di Nelson e Phelps12 è basato sulla complementarità tra il capitale umano, valutato come stock di conoscenze acquisite con l’istruzione, e le innovazioni tecnologiche, vero motore della crescita economica. In questi modelli l’istruzione è vista soprattutto come fattore essenziale per l’introduzione e la diffusione di innovazioni. Diversamente dai modelli di crescita neoclassica - che teorizzavano la convergenza nei tassi di crescita di sistemi economici caratterizzati da diverse strutture ed istituzioni – i modelli di crescita endogena considerano possibili vari equilibri nei sentieri di crescita. Di notevole interesse sono, in particolare, i modelli che analizzano la persistenza nel tempo delle low-skills low-quality traps, cioè sentieri caratterizzati da bassi tassi di crescita economica e scarsa accumulazione di capitale umano. Altri imputano alle istituzioni scolastiche ed universitarie di non essere in grado di integrare gli individui, ma anzi di effettuarne una selezione fin dalla giovane età13. Anche per il nostro paese non mancano studi che dimostrano la scarsa mobilità intergenerazionale dei tassi di istruzione14. Altri ancora chiamano in causa le imperfezioni sul mercato del credito combinate con l’iniziale distribuzione della ricchezza15. In particolare, Redding16 pone l’accento sulle complementarità esistenti tra istruzione e attività di R&S da parte delle imprese e sulla possibilità di persistenza nel tempo di low skill, low quality traps, con assenza di accumulazione di capitale umano e di attività innovativa da parte delle imprese. Scicchitano17 sostiene poi che, se valgono talune condizioni sul mercato del lavoro, l’eterogeneità del capitale umano e, in particolare, la formazione professionale possono evitare le trappole. Questo si verifica quando i lavoratori, a parità di competenze acquisite all’interno di istituzioni scolastiche e universitarie, hanno la possibilità di accumulare skills anche durante la vita lavorativa tramite il training on-the-job previsto (ed eventualmente co-finanziato) dalle imprese In sostanza tali modelli tendono a sottolineare che gli effetti del capitale umano sulla crescita passano necessariamente per il tramite dell’attività innovativa delle imprese; inoltre, essi evidenziano – ed è questo l’aspetto di maggiore interesse – che il concatenarsi di strategie aziendali poco orientate a R&S e alla formazione professionale con bassi investimenti individuali dei lavoratori in capitale R. E. Lucas, On the mechanism of economic development, in «Journal of Monetary Economics», vol.22, pp. 3-22, 1988. J. Benahbib e M. Spiegel, The role of human capital in economic development: evidence from aggregate cross-country data, in «Journal of Monetary Economics», 34, 143-173, 1994. 12 R. Nelson e S. Phelps, Investment in Humans, Technological Diffusion and Economic Growth, in «American Economic Review», Papers and Proceedings, Vol. 56, pages 69-75, 1966 13 R. Benabou, Equity and efficiency in human capital investment: the local connection, in «Review of Economic Studies», 1996, 63, pp. 237-264. 14 D. Checchi, F. Zollino, Struttura del sistema scolastico e selezione sociale, in a cura di L. Barca e M. Franzini, La cittadinanza difficile. Diritti e Welfare, Firenze, 2001, Il Ponte Editore; M. Franzini-M.Raitano, L’istruzione dei genitori e dei figli. Disuguaglianze che persistono, «Meridiana», 2007, n. 59-60, pp. 253-287. 15 O. Galor, J. Zeira, Income distribution and macroeconomics, in «Review of Economic Studies», 1993, 60, p.35-52. 16 S. Redding, Low-skill, low-quality, cit. p.7. 17 S. Scicchitano, Complementarity between Heterogeneous, cit. p.7. 10 11
10
umano eterogeneo, creano un circolo vizioso che si autoalimenta: gli individui non accumulano capitale umano, il sistema produttivo non innova e i territori non realizzano, nel tempo, tassi di crescita elevati. 2.2 Capitale umano, disuguaglianza e crescita: verifiche empiriche Recentemente, la pubblicazione di data-sets affidabili, come quelli di Summers e Heston18, ha permesso di stimare empiricamente il ruolo del capitale umano nel determinare il tasso di crescita di un’economia. In un certo numero di studi i vari inputs della funzione di produzione vengono scomposti per osservarne l’effetto relativo sui tassi di crescita. Il modello più noto è quello di Mankiw, Romer e Weil19, in cui gli autori riprendono il modello di crescita neoclassico di Solow-Swan, aumentato con il capitale umano e applicato al database di Summers e Heston per il periodo dal 1960-1985. Secondo le stime degli autori riferite ai principali paesi industrializzati un incremento dell’1% nel capitale umano per lavoratore determina un incremento dello 0,28% del prodotto per lavoratore. In relazione al contributo relativo dei fattori nello spiegare il tasso di crescita del prodotto per lavoratore, il capitale umano contribuisce per il 49%, il capitale fisico per il 29% e la Produttività Totale dei Fattori (TFP) per il rimanente 22%. Dunque, il capitale umano sembra essere il fattore che maggiormente “spiega” la crescita economica. Dai primi anni ’90, poi, sono apparsi studi econometrici volti a stimare l’effetto dell’istruzione sul PIL pro-capite o, più frequentemente, sul suo tasso di crescita20. Il modello di riferimento è quello di Barro21, nel quale viene stimata - utilizzando il data-set Summers-Heston, in un campione di 98 paesi, nel periodo 1960-85 - l’influenza della partecipazione scolastica sul tasso di crescita del PIL pro-capite. Il risultato principale è che l’incremento di 1 punto percentuale nell’iscrizione ad una scuola primaria determina un incremento del 2,5% del PIL pro-capite; mentre nel caso di iscrizione ad una scuola secondaria, l’incremento sale al 3%. Nell’interpretare questo risultato, oltre ad altri aspetti, va tenuto presente il periodo al quale lo studio si riferisce. Uno dei lavori più interessanti e noti è quello di Benhabib e Spiegel22, in cui lo stock di capitale umano è studiato nella sua interazione con il progresso tecnologico ed influenza il tasso di crescita, in due modi: perchè influisce direttamente sul progresso tecnologico endogeno e perchè favorisce il catch-up delle tecnologie adottate dai paesi più avanzati. In effetti, il capitale umano oltre ad influenzare direttamente il tasso di crescita ha, su di esso, anche effetti indiretti che si manifestano attraverso il progresso tecnologico, l’investimento in capitale fisico, e s altri fattori, quali la fertilità, l’aspettativa di vita e la mortalità infantile che, pur non avendo natura economica, influenzano il tasso di crescita di un’economia. Con riferimento specifico al ruolo dello stock di capitale umano nel favorire l’adozione di tecnologie innovative provenienti da altri paesi, Benahbib e Spiegel23 giungono alla conclusione che un anno di istruzione in più ha determinato un miglioramento dell’abilità nel catch-up dello 0,11% annuo, nel periodo 1965-1985 (rimanendo costanti i tassi di crescita del capitale fisico e del lavoro e lo stock iniziale del capitale umano). Cameron, Proudman e Redding24 analizzano 14 settori industriali in Gran Bretagna e USA nel periodo 1970-92 stimano che l’incremento nello stock di capitale umano in Gran Bretagna ha consentito la crescita della produttività, grazie alla capacità di adottare le migliori tecnologie provenienti dagli USA. Rimanendo costante il gap tecnologico fra i due paesi, l’incremento di un punto percentuale dei lavoratori impiegati in occupazioni qualificate ha permesso un 18 S. Summers, A. Heston, The Penn World Table (mark 5): an expanded set of International comparisons, «Quarterly Journal of Economics», 1991, 106(2), pp. 327-368. 19 N. Mankiw, D. Romer, D.N. Weil, A contribution to the empirics of economic growth, in «Quarterly Journal of Economics», 1992, 107(2), pp. 407-437. 20 Non mancano lavori che andando contro corrente rispetto al paradigma dominante, dimostrano che, in realtà, tra istruzione e crescita esiste un legame di causalità inverso: si veda ad esempio M. Bils e A. Klenow, Does schooling cause growth?, in «American Economic Review», December, 1992, 90(5), pp.1160-83. 21 R. J. Barro, Economic Growth in a cross section of countries, in «Quarterly Journal of Economics», 1991, 106, pp. 407-443 22 J. Benahbib, M. Spiegel, The role of human capital, cit. 23 Ibid. 24 J. Cameron, C. Proudman and S. Redding (1998), Productivity convergence and internaztional openess, Chapter 6 in Openess and Growth (a cura di) J. Proudman, S. Redding, Bank of England, 1998. London.
11
incremento della TFP dello 0,08%. Inoltre essi valutano che fra il 1970 ed il 1992 il gap della TFP fra i due paesi si è ridotto del 18,4%: il 10,1% di questo processo di convergenza è stato determinato dall’incremento nei livelli di capitale umano25. Un altro filone di lavori analizza i legami esistenti fra la disuguaglianza nei livelli di istruzione ed il tasso di crescita. Castellò e Doménech26, utilizzando dati relativi a 108 paesi, dal 1960 al 1999, trovano che la disuguaglianza nei livelli di istruzione ha effetti significativi sul tasso di crescita, in quanto essa influenzerebbe negativamente i tassi di investimento, sia in capitale fisico, che in capitale umano. Gli autori sottolineano altresì che, benché nel periodo considerato la disuguaglianza nei livelli di istruzione tra paesi si sia ridotta, le differenze sono ancora sensibili. Dal canto loro, Deininger e Squire27 rilevano che la disuguaglianza nei livelli di istruzione influisce negativamente sul tasso di crescita del reddito, attraverso la sua forte correlazione con la disuguaglianza nella ricchezza. Rati28, Londoňo29,e Checchi30, trovano, inoltre, una relazione ad U-rovesciata anche fra il tasso di istruzione e la disuguaglianza del reddito: partendo da livelli bassi di istruzione la disuguaglianza nei redditi prima aumenta e poi diminuisce. Il punto di inversione si avrebbe in corrispondenza di 6,8 anni medi di istruzione, secondo i primi due studi e 6,5 anni secondo il lavoro di Checchi. 2.3 La produttività del lavoro come canale fra skills e crescita Il canale principale attraverso cui il capitale umano influisce positivamente sulla crescita è, però, la produttività del lavoro. In questo paragrafo ci soffermeremo su questo aspetto, anche allo scopo di delineare uno schema in base al quale interpretare, nei paragrafi successivi, la situazione italiana e, più specificamente, quella del Mezzogiorno. Si possono distinguere due tipi di conoscenza31. La conoscenza codificata è prodotta e trasmessa attraverso canali formali; ad esempio un’invenzione in campo scientifico può essere prodotta in laboratorio, trasmessa tramite acquisizione di brevetto. La conoscenza tacita invece è prodotta e trasmessa in via informale; ad esempio l’invenzione di processo di un lavoratore è generata durante il suo specifico lavoro e trasmessa ai suoi colleghi attraverso dimostrazioni pratiche. La conoscenza codificata può essere suddivisa, a sua volta, in due tipologie: il know what che indica l’informazione codificata di fatti rilevanti della realtà di ogni genere, ed il know why che riguarda una conoscenza approfondita e scientifica dei fondamenti dei fenomeni analizzati. Dal canto suo, la conoscenza tacita è composta dal know how, ossia il sapere come agire, le conoscenze e competenze pratiche, ed il know who, cioè l’informazione su chi può risolvere i problemi specifici per poter minimizzare il costo dell’acquisizione di nuova conoscenza.32 Infine, possiamo classificare gli skills in formali ed informali per identificare diversi modi di accumulazione del capitale umano. Gli skills formali generati dalla Sono state considerate anche altre variabili, non economiche, ma che hanno importanti riflessi sul tasso di crescita. Generalmente un più alto capitale umano è associato con una minore fertilità, con una più alta aspettativa di vita e una minore mortalità infantile. Un interessante e finora poco noto filone di studi rileva che l’incremento dei livelli di istruzione è generalmente associato con una diminuzione dell’attività criminale: si veda L. Locher e E. Moretti, The Effect of Education on Crime: Evidence from Prison Inmates, Arrests, and Self-Reports, in «American Economic Review», 2004, vol. 94(1), pp. 155-189, e P Buonanno e L. Leonida Education and crime: evidence from Italian regions, in «Applied Economics Letters», 2006, vol. 13(11), pp 709-71. 26 A. Castellò e H. Domunech,, Human capital inequality and economic growth: some new evidence, in Economic Journal»«, 478, pp. 187-200, 2002. 27 K. Deininger e L. Squire, New ways of looking at old issues: inequality and growth, in «Journal of Development Economics», 57, pp. 259-287, 1998. 28 R. Rati, Educational expansion and schooling inequality: international evidence and some implications, in «Review of Economics and Statistics», pp. 266-273, 1990. 29 J.L. Londono, Inequality and poverty in Latin America during the last four decades. Washington: World Bank Latin American and Caribbean Studies, 1996. 30 D. Checchi, Inequality in incomes and access to education. A cross-country analysis (1960-95)”, in «Labour 17(2), pp. 153201, 2003 31 Cfr. B. Johnson, B. Lundvall, The Learning Economy, «Journal of Industry Studies», I, 2, 1994, pp. 23-42. 32Continuando a specificare meglio la relazione tra conoscenza e produttività del lavoro, dopo aver sintetizzato i differenti modi di produzione e trasmissione della conoscenza e i diversi oggetti generali di quest’ultima, si possono identificare alcune importanti attività tecnologiche e scientifiche che sono direttamente collegate con la crescita della produttività del lavoro. Esse sono: istruzione superiore e formazione professionale, attività routinarie ad elevato contenuto scientifico e tecnologico (raccolta dati, studi di fattibilità,..), attività innovative industriali (acquisizione di tecnologia incorporata in macchinari, servizi di consulenza, progettazione industriale,..), infine attività di ricerca e sviluppo. Cfr. G. Sirilli, Ricerca&Sviluppo, Il Mulino, Bologna 2005. 25
12
formazione formale si possono classificare in generali e specifici-tecnici; i primi derivano dall’istruzione di base e dal training generale, mentre quelli specifici possono derivare dall’istruzione tecnico-scientifica (scuole professionali, facoltà tecnico-scientifiche) e dal training specifico. Gli skills informali possono essere generati dal learning by doing o dal training informale nell’ambito del lavoro33. Figura 5. Classificazione degli skills Skills
I nfo rm ali
Train ing
Le ar nin g by do ing
Ge ner al tr ain ing
F or mali
Gen erali
Is tr uzio ne di base
S pecifici
T rainin g
Lau reati
Istr uzio ne tecn icos cientif ica
Diplom ati
Tra skills e produttività vi è una relazione causale bidirezionale; per questo definiamo l’effetto degli skills sulla produttività come effetto skills e l’effetto dei processi innovativi sugli skills, che incrementano la produttività, come effetto innovazione. Gli skills hanno un effetto positivo sulla produttività del lavoro principalmente attraverso due effetti: il primo è l’effetto allocazione, per il quale un maggior grado di istruzione/formazione permette una più efficiente combinazione ed utilizzazione dei differenti fattori produttivi; il secondo è l’effetto apprendimento secondo cui un più elevato livello di skills rende il lavoratore più capace di apprendere nuove informazioni e di far fruttare meglio la propria esperienza, grazie anche all’acquisizione di un valido metodo di apprendimento34. Infine, esiste un effetto spillover relativo alle esternalità che si generano nell’accumulazione di skills proprio perché per sua natura la conoscenza ha rendimenti non solo privati ma anche sociali.35 Anche incrementi della produttività, dovuti a cambiamenti innovativi, di tipo tecnologico e/o organizzativo, possono influire sullo sviluppo e l’accumulazione degli skills attraverso fondamentalmente tre canali, fortemente integrati. Il primo effetto può essere definito effetto tecnologia per cui un significativo progresso nelle nuove tecnologie in particolare nelle Information and Cfr. S. Lall, The technological structure and performance of developing country manufactured exports, 1985-98, «Oxford Development Studies», 28,3, 2000 pp. 337-369 e H. Tan, G. Batra, Enterprise Training in Developing Countries, World Bank, Washington D.C 1996. Possiamo quindi distinguere tra un formal training effettuato attraverso corsi di formazione, e un informal training offerto da colleghi o supervisori. Inoltre il training può essere offerto dalla medesima impresa (internal training) oppure offerto da un’impresa esterna (external training); secondo alcuni studi empirici33 la natura del training, dipenderà tra l’altro da quanto siano particolari le conoscenze necessarie per il lavoro: l’impresa preferirà affidarsi ad una società esterna per il training tanto più sono standardizzate le tecnologie usate. I due tipi di skills sono legati: una buona istruzione è una condizione importante per un soddisfacente training a livello di impresa così come per un buon passaggio da una conoscenza generale ad una specifica (che è quella che incide direttamente sulla produttività). Le diverse classificazioni della conoscenza, delle attività industriali innovative, degli skills,sono ovviamente tra loro complementari e sono funzionali ad una maggiore capacità di cogliere i differenti aspetti relativi agli skills. 34 L’ effetto allocazione può essere scomposto in effetto accumulazione, ossia l’introduzione di una nuova macchina sarà tanto più efficace in termini di produttività del lavoro quanto più gli utilizzatori avranno accumulato competenze e professionalità adeguate, e in effetto assimilazione, afferente alla capacità dei lavoratori di adattare il processo produttivo alla nuova macchina sia in termini di riorganizzazione dei ruoli e delle procedure sia in termini di traduzione della conoscenze tacite insite nelle nuove macchine in informazioni codificabili e facilmente trasmettibili. Cfr. R. Nelson, S. Phelps, Investment in Humans, cit. p. 14; L.Boggio e G. Seravalli, Lo sviluppo Economico: Fatti, Teorie, Politiche, Il Mulino, Bologna 2003. 35 A tal riguardo si possono considerare due effetti. Il primo è l’effetto spillover micro secondo cui l’alta qualificazione di un lavoratore incide positivamente anche sulla produttività dei suoi colleghi impegnati nella medesima attività o più in generale all’interno dell’impresa una significativa quota di lavoratori qualificati può condizionare positivamente l’efficienza di tutti i lavoratori. Il secondo è l’effetto spillover macro secondo cui un’impresa può trarre beneficio se intesse relazioni formali e/o informali con imprese che utilizzano lavoratori con elevati skills rilevanti. Tali relazioni possono essere intersettoriali o intrasettoriali e sono molte favorite anche da una vicinanza territoriale. 33
13
Communications Technologies (ICT) tende ad accrescere la domanda, da parte del sistema produttivo, di lavoratori altamente qualificati; infatti le nuove tecnologie tendono ad essere complementari rispetto ai lavoratori qualificati e succedanee rispetto ai lavoratori non qualificati.36 Il secondo effetto è l’effetto Babbage37 secondo cui l’interazione della divisione del lavoro con il grado di meccanizzazione conduce a due importanti fenomeni, l’uno relativo alla sostituzione tra lavoratori e macchine, l’altro concernente la sostituzione tra lavoro qualificato e non qualificato.38 Il terzo effetto è l’effetto organizzazione dovuto al fatto che, grazie soprattutto alla rivoluzione informatica, all’interno delle imprese l’approccio organizzativo maggiormente seguito è il learning organization secondo cui l’organizzazione è concepita per una strategia volta ad ottimizzare l’utilizzo e la diffusione della conoscenza e dell’informazione39 Siamo partiti sottolineando come la relazione tra skills e produttività sia biunivoca, in effetti per affrontare nel modo migliore il tema del ruolo dell’innovazione è opportuno considerare un “sistema di innovazione” in cui gli aspetti organizzativi, tecnologici e relativi alle risorse umane interagiscono in modo virtuoso e dinamico.40 Come si è detto, allo schema così delineato faremo riferimento nell’analisi empirica che condurremo tra breve. Prima di procedere è, però, utile una breve sintesi di alcuni punti importanti. 2.4 Alcuni idee utili La letteratura che abbiamo esaminato non ha ancora raggiunto conclusioni definitive, essa ha, tuttavia, prodotto alcune interessanti idee generali, che possono essere così riassunte: - esistono differenti sentieri di crescita per i territori, dovuti agli effetti di complementarità fra il capitale umano eterogeneo e l’attività di R&S delle imprese. In particolare, sono possibili low-skills low-quality trap, situazioni cioè di scarsa crescita economica dovute alla contemporanea assenza di competenze da parte dei lavoratori e investimenti in R&S da parte delle imprese, generando un circolo vizioso. Opportuni mix di politica economica sono in grado di modificare il sentiero di crescita dei territori e spezzare il circolo regressivo; - il capitale umano, pur nella diversità degli approcci usati dagli economisti e degli effetti da valutare caso per caso, è senz’altro determinante per il tasso di crescita dei territori. L’idea più diffusa è quella introdotta da Barro41, secondo cui l’incremento dei livelli di istruzione ha un impatto positivo sul tasso di crescita del PIL pro-capite. Anche le stime successive hanno evidenziato che l’aumento dell’1% dell’istruzione è associato, generalmente, con un incremento del tasso di crescita compreso fra l’1 ed il 3%42;
Cfr. C. Goldin, L. Katz The origins of technology-skill complementarity, «Quarterly Journal of Economics», 113, 1998, pp.693732. 37 Cfr. M. Corsi, Division of Labour, Technical Change and Economic Growth, Avebury, Aldershot 1991. 38 Le macchine posso svolgere un’attività routinaria svolta in precedenza da uno o più lavoratori non specializzati, ma l’utilizzo ed il controllo di impianti automatici devono essere affidati a personale dipendente con un certo grado di competenze tecniche e tale sostituzione può avvenire o con l’avvicendamento tra diversi lavoratori oppure con un aggiornamento formativo dei lavoratori già presenti. 39 A tal fine, questa nuova modalità organizzativa si caratterizza principalmente per tre aspetti: una deverticalizzazione organizzativa per cui si ha una maggiore partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali; un incremento dei lavori di gruppo che implicano capacità relazionali e comunicative; infine un rafforzamento della flessibilità in termini di mansioni e ruoli con l’effetto di massimizzare la capacità di cambiamento e apprendimento. Tutto ciò evidentemente comporta skills sempre più elevati e competitivi. Cfr. G. Dosi, D. Levinthal, L. Marengo, Bridging contested terrain: linking incentive-based and learning perspectives on organizational evolution, «Industrial and Corporate Change», 12, 2003, pp.413-436. 40 Cfr. R. Nelson (a cura di), National Innovation Systems: A Comparative Analysis, Oxford University Press, Oxford 1993. 41 R. J. Barro, Economic Growth, cit., p.16. 42 Nonostante questa idea generale, altre relazioni vanno chiarite. L’evidenza empirica ha generalmente dimostrato che l’istruzione è correlata con i tassi di crescita del reddito e non con i livelli. Inoltre è stato evidenziato che, non tanto la crescita del capitale umano, quanto il livello dello stesso è associato in maniera significativa con il tasso di crescita di un’economia. Da più parti si è sottolineato, poi, che l’istruzione manifesta i suoi effetti sulla crescita anche indirettamente, influenzando altre variabili direttamente associate alla crescita, come il capitale fisico ed il progresso tecnologico tra le variabili economiche, e l’aspettativa di vita, il tasso di fertilità e di mortalità infantile e l’attività delinquenziale, tra quelle che non interessano direttamente un economista. L’uniformità dei risultati non è di certo facilitata dalle frequenti difficoltà di comparazione dei modelli, dovute all’utilizzo di esogene, endogene e campioni differenti. 36
14
-
-
la disuguaglianza nei livelli di istruzione ha, generalmente, un effetto negativo sulla crescita. Perciò, per facilitare la crescita di un’economia è necessario agire non solo sui livelli dell’istruzione, ma anche sulla distribuzione degli stessi. Scrivono Castellò e Doménech43: «La disuguaglianze nell’istruzione è non soltanto un problema sociale ma anche economico, poichè i paesi con una distribuzione più egualitaria dell’istruzione crescono in media più rapidamente di quelli che presentano una maggiore disuguaglianza». Quest’affermazione è per noi di grande interesse, alla luce delle sensibili differenze, ricordate in precedenza, sia nei livelli che nei tassi di crescita del capitale umano, fra Mezzogiorno e centro-nord oltre che tra le aree all’interno del Mezzogiorno. Il capitale umano ha effetti sulla crescita quando “si traduce” in una maggiore produttività del lavoro e affinché ciò avvenga sono necessarie determinate condizioni organizzative nelle imprese; più esplicitamente, le imprese dovrebbero adottare strategie che consentono ai lavoratori di utilizzare le skills acquisite oltre che di rendere più conveniente la loro acquisizione. Questo spiega perché sono essenziali politiche pubbliche che sollecitino comportamenti coerenti da parte di imprese e lavoratori e favoriscano lo sfruttamento delle complementarità ora ricordate.
3. Skills e produttività del lavoro nel Mezzogiorno: evidenza empirica ed econometrica Questo paragrafo ha lo scopo di offrire alcune stime empiriche degli effetti delle varie componenti delle competenze sulla produttività del lavoro, confrontando il Mezzogiorno con il resto del nostro Paese, in modo da cogliere alcune peculiarità del sistema produttivo meridionale in rapporto alla sua capacità di valorizzare il capitale umano. In primo luogo, è stata eseguita (tabella 8) un’analisi di correlazione per le 20 regioni italiane (raggruppate come centro-nord e Mezzogiorno) tra il tasso di crescita della produttività del lavoro ed il tasso di crescita delle variabili collegate agli skills presentate in precedenza: scolarizzazione superiore (mh); numero di laureati in discipline scientifiche e tecnologiche per mille abitanti in età 20-29 anni (lt); aumento degli occupati che partecipano ad attività formative e di istruzione, ossia adulti occupati che partecipano ad attività formative e di istruzione per 100 adulti occupati nella medesima classe di età (Life-long learning, lf). Tabella 8. Coefficienti di correlazione tra tassi di crescita della produttività del lavoro nell’economia e tassi di crescita degli skills, in Italia, nel Centro Nord e nel Mezzogiorno (periodo 1998-2003).
mh lf lt Osservazioni
IT
CN
M
0,24
0,12 0,20 0,33 60
0,33 0,27 0,03 40
0,21 0,23 100
Elaborazioni su dati ISTAT
Pur con i limiti derivanti dalla scarsità delle osservazioni, si può affermare che siamo di fronte a due sistemi economici fortemente differenziati dal punto di vista della valorizzazione ed utilizzo degli skills nel sistema produttivo. Come si vede, la variabile skills più significativamente correlata con il tasso di crescita della produttività del lavoro è il tasso di crescita dei laureati in materie tecnicoscientifiche (variabile lt) nel Centro Nord e il tasso di crescita del grado di scolarizzazione secondaria nel Mezzogiorno. Inoltre coefficiente di correlazione per la variabile lt è pari al 33 per cento nel Centro Nord e soltanto al 3 per cento nel Mezzogiorno. Dunque, la dipendenza della produzione da conoscenze elevate sembra essere nettamente maggiore nel Centro Nord. La situazione del Mezzogiorno è probabilmente connessa al fenomeno della “fuga dei cervelli” che porta molti giovani, laureatisi nelle regioni meridionali (e quindi inclusi nella variabile lt), a trasferirsi in cerca di un’occupazione che sia in grado di soddisfare le aspettative retributive e di valorizzare le 43
A. Castellò e H. Domunech,, Human capital inequality, cit., p.17.
15
professionalità acquisite. D’altro canto, in queste condizioni si può facilmente innescare un circolo vizioso tra carenza di laureati in materie tecnico-scientifiche e incapacità del sistema produttivo di promuovere una strategia competitiva basata su un’occupazione high skilled. Concentriamoci ora sul settore manifatturiero, prendendo in esame una variabile rappresentativa dell’incidenza della conoscenza tecnologica sui processi produttivi ossia il tasso di crescita degli occupati nell’intera economia impiegati in attività tecnico-scientifiche (h). Considerando l’intera economia si intende cogliere non soltanto l’effetto diretto degli skills dei lavoratori del settore manifatturiero ma anche quello indiretto (di spillover), sempre sul settore manifatturiero, degli skills di lavoratori occupati in altri settori. Il database per tale variabile è quello delle statistiche regionali dell’Eurostat44 . Tabella 4. Coefficienti di correlazione tra tassi di crescita della produttività del lavoro nella manifattura e tassi di crescita degli occupati nell’intera economia impiegati in attività tecnico-scientifiche (h). Italia, Centro Nord e Mezzogiorno, 1996-200345
IT h Osservazioni
CN 0,26 156
MZ
0,35 92
0,21 64
Elaborazioni su dati EUROSTAT
Sempre tenendo conto dei limiti di un’analisi basata su poche osservazioni, la tabella 4 mostra come la capacità innovativa delle regioni meridionali nel settore manifatturiero, rappresentata da un circolo dinamico virtuoso tra produttività del lavoro e lavoratori che svolgono attività di tipo tecnico scientifico, è molto inferiore rispetto al Centro Nord. Ciò sembra confermare le conclusioni raggiunte in precedenza, commentando la tabella 3. Per arricchire l’analisi consideriamo la distribuzione territoriale degli occupati in attività tecnicoscientifiche come quota della popolazione, con riferimento all’intera economia. Tabella 5. Occupati nell’intera economia impiegati in attività tecnico-scientifiche (percentuale rispetto alla popolazione), per aree geografiche (anni 1994 e 2006).
Aree Nord Ovest Centro Nord Est Italia Abruzzo Sardegna Basilicata Molise
1994 11,6 11,8 10,9 10,6 10,3 8,6 8 9
2006 18,8 17,7 17,5 15,9 14,9 13,1 12,8 12,7
Aree Isole Calabria Sicilia Sud Campania Puglia Coefficiente di Correlazione
1994 8,9 9,9 9,1 9 8,8 8,6
2006 12,2 12 11,9 11,6 11,2 10,6
0,89
Fonte: Eurostat.
Dalla tabella 5 emergono tre elementi importanti. Innanzitutto anche per questa variabile il Mezzogiorno si trova in una situazione di ritardo rispetto al Centro-Nord. Inoltre, tale situazione non è migliorata nel corso degli anni. Infatti, le due serie relative al 1994 e al 2006, sono altamente correlate (all’ 89 per cento): la graduatoria resta sostanzialmente invariata nel tempo. In questo quadro grave e statico, un dato positivo è il miglioramento significativo della Sardegna che nel periodo 1994-2006 incrementa di circa il 50 per cento la quota di popolazione che svolge attività lavorative tecnico-scientifiche, superando in graduatoria diverse regioni meridionali. A conclusione della nostra analisi empirica, e a sostanziale conferma di quanto fin qui affermato, presentiamo i risultati preliminari46 di un modello econometrico per il settore manifatturiero, in cui si stima una funzione di produttività à la Sylos Labini, dove oltre all’effetto skills attribuibile alla 44 Vedi il sito www.eurostat.eu.int (regional science and technology statistics) e Human Resources in Science and Technologies – Stocks Eurostat Metadata. 45 Per il Trentino Alto Adige il periodo di riferimento è 1998-2003. 46G. Guarini, S. Scicchitano, Southern Italy innovation system, saggio non pubblicato, 2008.
16
variabile h, il tasso di crescita della produttività del lavoro dipende da altri due effetti47. Il primo è l’effetto Kaldor-Smith, rappresentato dal tasso di crescita del reddito, secondo cui nel breve periodo l’allargamento del mercato stimola una razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro oltre che economie di scala statiche e dinamiche con significativi guadagni in termini di efficienza. Il secondo è l’effetto Ricardo, rappresentato dal tasso di crescita del costo relativo del lavoro (rapporto tra salari e prezzi delle macchine), secondo cui l’imprenditore di fronte ad un aumento del costo del lavoro relativamente a quello delle macchine reagisce investendo in nuovi macchinari che, nel medio periodo, generano un miglioramento delle performance produttive. In riferimento allo schema di analisi delineato in precedenza, le conoscenze tacite e le attività innovative industriali sono in parte catturate dall’effetto Smith, tramite le economie di scala dinamiche, e dall’effetto Ricardo tramite la nuova tecnologia incorporata all’interno delle nuove macchine acquistate, mentre l’effetto skills riguarda le conoscenze codificate e le attività di istruzioneformazione. In generale, il modello evidenzia che per tutte le regioni italiane risultano significativi sia l’effetto Smith, sia l’effetto Ricardo, ma il vero risultato interessante riguarda l’oggetto di questo studio ossia l’effetto degli skills sulla produttività, in particolare, nel Mezzogiorno. Le stime econometriche (tramite l’impiego delle dummies), presentano un sistema produttivo italiano diviso in due: nel Centro Nord l’effetto skills è significativo e positivo, mentre nel Mezzogiorno esso non è significativo. Ciò conferma quanto affermato in precedenza: l’apporto degli skills nel sistema produttivo ha un ruolo reale ed importante solamente nel Centro Nord.
4. Affrontare le “trappole”: politiche economiche per il Mezzogiorno. La nostra analisi della domanda e offerta di capitale umano, dell’evoluzione della sua qualità e quantità, porta alla conclusione che le deboli prospettive di sviluppo endogeno e duraturo del Mezzogiorno sono da imputare alla perversa interazione di fenomeni operanti sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta, che configura una vera e propria trappola. Questa trappola si concretizza in un insieme di comportamenti di lavoratori e imprese che si giustificano e rinforzano gli uni con gli altri: i lavoratori anticipando le strategie aziendali, non investono a sufficienza sul capitale umano, consapevoli di non poter valorizzare appieno le proprie skills nel mercato del lavoro, anche in considerazione dell’alto costo-opportunità della scelta di investire nell’istruzione. Le imprese, non investono in attività di ricerca e sviluppo e in formazione professionale, ritenendo tali investimenti oltremodo aleatori e poco remunerativi. Questa forma di “miopia” contribuisce a abbassare il tasso di crescita della produttività del lavoro e a limitare la possibilità di creare posti di lavoro adeguati, per mansioni e retribuzione, a lavoratori con elevato capitale umano. La presenza di una “trappola” di questo tipo emerge con sufficiente chiarezza dai dati considerati e si applica all’intero Mezzogiorno. Ciò, naturalmente, non significa negare che vi siano aree caratterizzate da positive specificità all’interno delle regioni meridionali. Ma, con riferimento specifico al problema del capitale umano, ciò che fatica a emergere, anche rispetto a territori sub-regionali, è un insieme sufficientemente robusto di condizioni tali da escludere che in tali territori la “trappola” sia mordente. Le diversità locali, anche quando siano significative, non sembrano, in questo ambito, concretizzarsi in visibili differenze rispetto al meccanismo di creazione e utilizzazione del capitale umano, colte dai dati più significativi. Tutto ciò suggerisce la necessità di un intervento di sistema e ben articolato che non può limitarsi a operare su singoli aspetti del problema o anche su un solo lato, normalmente individuato nell’offerta. Il fatto che si sia in presenza di una “trappola” significa in particolare che occorre agire simultaneamente su domanda e offerta, sia perché miglioramenti effettivi dal lato dell’offerta avrebbero effetti assai deboli in assenza di contestuali mutamenti dal lato della domanda, sia perché Per la descrizione approfondita delle basi teoriche del modello in cui si sottolineano le profonde differenze rispetto all’approccio mainstream della Total Factor Productivity, si veda P. Sylos Labini Torniamo ai classici. Produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico, Laterza, Roma-Bari 2004 e M. Corsi, G. Guarini, La fonction de productivité de Sylos Labini: aspects théoriques et empiriques, in «Revue d’économie industrielle», 118, 1997, pp.55-78. Per un’analisi econometrica più completa, all’interno dello stesso approccio si veda G. Guarini, Labour productivity and technological capability: an econometric analysis on the Italian regions, in via di pubblicazione nel volume a cura di Neri Salvadori et al., Geography, Structural Change and Economic Development: Theory and Empirics, Edward Elgar, Cheltenham 2008.
47
17
l’efficacia delle diverse politiche dirette a modificare l’offerta dipende anche, per i motivi già indicati, dalle prospettive di cambiamento positivo della domanda. Tutto ciò rende assai probabile che interventi non coordinati e parziali avrebbero effetti praticamente invisibili, come è accaduto sostanzialmente finora. In questa prospettiva consideriamo un insieme di interventi potenzialmente in grado di invertire la rotta e rendere il circolo da vizioso virtuoso. 1. Un approccio di policy di sistema che agisca, in modo integrato e coerente, su tutti gli ingranaggi del sistema nella consapevolezza che se anche uno solo di essi non dovesse funzionare a dovere, il Mezzogiorno non sarebbe in grado di fuoriuscire dalla low-skill low-quality trap. 2. Politiche che agiscano direttamente sulla qualità e quantità dell’istruzione scolastica e universitaria e che siano in grado di assicurare una sufficiente mobilità intergenerazionale dei titoli di studio. 3. Politiche per la formazione professionale, che consentano di meglio adattare al mercato del lavoro le skills acquisite con l’istruzione, con indubbi effetti benefici sulla produttività del lavoro. 4. Politiche industriali che favoriscano la spesa in R&D delle imprese, incentivando così da una parte l’introduzione e la diffusione di innovazioni tecnologiche e dall’altra l’assunzione di personale altamente qualificato e addetto all’attività di R&D: ciò permetterà di “trasformare” in produttività le skills acquisite dai lavoratori. Noi riteniamo che, in considerazione dei gravi deficit accumulati negli anni dalle nostre Regioni del sud sull’utilizzo del capitale umano altamente qualificato, questo non sia stato e fatichi ancora a divenire una priorità dei policy makers che, operando sui temi del Mezzogiorno, non riescono a invertire la rotta di questa area e più in generale di un paese come l’Italia in cui miopia politica e insufficiente capacity building impediscono di adottare politiche di medio-lungo periodo con un approccio di sistema. È altresì opinione di chi scrive che il capitale umano, specie quello di eccellenza, debba essere considerato il seme e il frutto dello sviluppo di un’area sotto-utilizzata come il Mezzogiorno, il punto di partenza e di arrivo di una politica di sviluppo di ampio respiro che miri al recupero di competitività dell’area, coordinando e rendendo coerenti gli interventi sul lato della domanda e dell’offerta. Sotto questo profilo costituisce elemento di speranza la politica regionale di sviluppo delineata per il nostro paese, e in particolare per il Mezzogiorno, all’interno del QSN per il periodo 2007-13. Sembra, infatti, che si intenda realizzare un approccio di sistema, caratterizzato dalla concentrazione dell’azione sulla produzione di beni pubblici, al fine di migliorare la competitività dei territori ed evitare la sotto-utilizzazione delle risorse locali. Viene altresì sottolineata l’importanza della dimensione territoriale e si individua nella natura delle conoscenze la chiave per un’efficiente strategia di politica economica. Nello specifico, è chiarito che «…si vanno delineando gli elementi di uno schema concettuale a sostegno di una strategia di intervento pubblico articolata in tre direzioni: la produzione di servizi pubblici locali e di rete..; un’azione di promozione della ricerca, dell’innovazione e del capitale umano..; la garanzia di condizioni di concorrenza ed efficacia dei mercati dei servizi e dei capitali che favorisca l’entrata e la rapida crescita di nuove imprese innovative».48 In conclusione, la trappola di basso sviluppo del Mezzogiorno deriva dalla sotto-utilizzazione delle proprie risorse, prime fra tutte quelle umane, fattore produttivo decisamente abbondante e pienamente disponibile. Affinché il Sud riesca a invertire il senso di marcia e creare un processo virtuoso di sviluppo endogeno e duraturo nel tempo è necessario che si verifichino due condizioni: a) che le politiche per il Mezzogiorno riemergano fra i temi centrali della politica economica nazionale, dalla cui agenda sembrano di fatto scomparse49 b) che si adotti un approccio sistemico, che da un lato, con adeguate politiche per l’istruzione scolastica e universitaria agisca sulla quantità e sulla qualità del capitale umano esistente nell’area e dall’altro, operando sul sistema produttivo ne eviti la sotto-utilizzazione. Solo così si potrà evitare il protrarsi della low-skills low-quality trap in cui il Mezzogiorno da troppo tempo è ormai intrappolato. Appendice
48 Ministero dello Sviluppo Economico, Quadro Strategico Nazionale 2007-13, Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione, Roma, 2007, pp.49-50. 49 Sull’attuale silenzio della politica in merito al Mezzogiorno e in particolare ai suoi sistemi dell’istruzione, si vedano C. Donzelli, Il sud non è un battaglia persa, in «Il Corriere della Sera», 19 settembre 2008 e D. Cersosimo, Il male del sud è il silenzio della politica, in «Il Manifesto», 21 settembre 2008.
18
L’equazione da stimare è la seguente:
(1) prod it = α + βyit + γcit −4 + δhit + dcn + λdhcn + ε it + μi + τ t dove prodit è il tasso di crescita della produttività media del lavoro, α è la costante. Inoltre le variabili dipendenti economiche sono così definite: yit è il tasso di crescita del valore aggiunto a prezzi base50 (prezzi base del 1995) e cit-4 è la differenza tra il tasso di crescita del reddito da lavoro dipendente medio e il tasso di crescita del deflatore dei macchinari, ossia investimenti fissi per branca produttrice quali macchine, attrezzature, mezzi di trasporto e altri prodotti. Infine la variabile hit è il tasso di crescita dei lavoratori impiegati in attività tecnico-scientifiche, dcn è la dummy intercetta del Centro Nord e dhcn è la dummy interaction term del Centro Nord. I parametri β , γ , δ , λ rappresentano in ordine l’effetto Smith totale, l’effetto Ricardo totale, l’effetto skills delle regioni meridionali e la differenza tra l’effetto skills delle regioni settentrionali e quello delle regioni meridionali. Il periodo di riferimento è 1999-2003. Infine ε it è l’errore white noise, μi rappresenta l’effetto individuale che può essere deterministico (modello Fixed Effect) oppure stocastico (modello Random Effect) e τ t rappresenta l’effetto deterministico del tempo. La tabella 6 riporta i risultati dei tre modelli stimati che sono: Pooled Ordinary Least Square (OLS) dove stocastico, Fixed Effect (FE) dove
μi ≠ 0
μi = 0 ,
Random Effect (RE) dove
μi ≠ 0
è
è stocastico. Dalla diagnosi econometrica, il modello scelto è
quello Random Effect, le endogeneità delle variabili y e h non sono statisticamente significative tali da inficiare le stime e quindi non appaiono rilevanti i possibili effetti di simultaneità51. Infine anche gli shocks annuali sono non significativi ossia τ t = 0 . La tabella 7 riporta alcuni dei più importanti risultati della diagnosi econometrica.
Tabella 6. Modelli econometrici stimati: Pooled Ordinary Least Square, Random Effect, Fixed Effect (RE)° y
0,475*** (0,000)
c_4
h
(FE)
(OLS)
0,507*** (0,000)
0,475*** (0,000)
0,182
0,178
0,182
(0,052)
(0,093)
(0,056)
-0,0167
-0,0461
-0,0167
(0,823)
(0,588)
(0,824)
-0,00119
0
-0,00119
(0,864)
…
(0,864)
dhcn
0,225*
0,265*
0,225*
(0,016)
(0,015)
cons
-0,00982
Dcn
N R
2
-0,0105**
(0,018) -0,00982
(0,067)
(0,007)
(0,071)
80
80
80
0,562
0,544
0,483
F (chi2) (0,0000) 0,0000 0,0000 RE: Random Effect; FE: Fixed Effect; OLS: Ordinary Least Squares; p-values in parentesi; Al netto SIFIM: Servizi di intermediazione finanziaria indirettamente misurati. 51 Nei lavori empirici in cui si stima l’effetto Kaldor-Smith si sottolinea sempre l’importanza di verificare la non significatività statistica dell’endogeneità della variabile del tasso di crescita del valore aggiunto sul tasso di crescita della produttività del lavoro o di utilizzare tecniche ad ho per eliminarla allo scopo di ottenere stime non distorte. Per un approfondimento di tale questione si veda G. Guarini, Labour productivity and technological capability cit., p. 23. 50
19
° è il modello significativo scelto * p