Il problema della ricchezza nel pensiero economico di Giuseppe ...

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JESURUM G., Note sulla teoria del valore nella Ricchezza delle nazioni di Adam. Smith, in Prezzi relativi e distribuzione del reddito, a cura di P. SYLOS LABINI,.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE ________________________________________

FACOLTÀ DI ECONOMIA Corso di Laurea in Economia e Commercio

Tesi di Laurea

IL PROBLEMA DELLA RICCHEZZA NEL PENSIERO ECONOMICO DI GIUSEPPE TONIOLO

Relatore: Chiar.mo Prof. PAOLO PECORARI

ANNO ACCADEMICO 2001/2002

Laureando: ANDREA DE VIDO

4

I NDICE

A BBREVIAZIONI

6

B IBLIOGRAFIA

7

INTRODUZIONE

22

I. P RODUZIONE

E DISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA NEL PENSIERO ECONOMICO DI

METÀ

O TTOCENTO

1. I classici

25

1.1. La divisione del lavoro

25

1.2. Il fattore demografico

30

1.3. La rendita ricardiana

33

1.4. Economia positiva ed economia normativa

38

2. I marginalisti

42

3. Tre maestri

55

II. LA

PRODUZIONE DELLA RICCHEZZA NEL PENSIERO ECONOMICO DI

G IUSEPPE

T ONIOLO 1. I fattori della produzione

70

2. La produzione in atto

80

3. La triplice legge del progresso produttivo e le industrie territoriali

95

4. L’industria agricola

108

4.1. Nell’ordinamento tecnico

109

4.2. Nell’ordinamento professionale

112

4.3. Nell’ordinamento economico-giuridico

114

5. L’industria manifatturiera

122

5.1. Nell’ordinamento tecnico

123

5.2. Nell’ordinamento professionale

125

5.3. Nell’ordinamento economico-giuridico

133

5

III. LA

DISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA NEL PENSIERO ECONOMICO DI

G IUSEPPE

T ONIOLO 1. L’oggetto e i soggetti del processo distributivo

139

2. Salario e interesse

145

3. Rendita e profitto

157

4. Le leggi della distribuzione

166

4.1. Norme

166

4.2. Deviazioni

170

4.3. Rimedi

175

N OTA BIOGRAFICA

180

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3 I NTRODUZIONE Giuseppe Toniolo può essere considerato «il maggiore esponente del pensiero cristiano-sociale tra ’800 e ’900» 1. Dalla fine degli anni ’70 la sua figura è stata oggetto di un processo di riscoperta e valorizzazione, testimoniato da alcuni convegni di studio e dalla pubblicazione di una consistente letteratura specialistica tendente a ricostruirne il pensiero economico, giuridico, storico, teologico, sociale e politico 2. Sulla scia di tale rinnovato interesse, questa tesi vuole indagare un aspetto specifico e, forse, non ancora sufficientemente approfondito dell’opera tonioliana: quello della produzione e della distribuzione della ricchezza. Quando il Toniolo prende a occuparsi della produzione della ricchezza, altri autori ne hanno già trattato. Ecco perché si è ravvisata l’opportunità di inserire nel primo capitolo una breve ed essenziale traccia sul pensiero economico in materia fino a metà Ottocento. Nel primo paragrafo si accenna all’opera degli economisti della scuola classica e, segnatamente, agli apporti di alcuni dei suoi principali esponenti (Smith, Malthus, Ricardo e Mill). Analogo criterio ha guidato la stesura del secondo paragrafo sulla scuola neoclassica, concentrando l’attenzione su Marshall, autore in più occasioni citato dal Toniolo. Il terzo paragrafo vuole chiarire la natura del debito culturale del Toniolo nei confronti dei suoi maestri Angelo Messedaglia, Luigi Luzzatti e Fedele Lampertico. È un debito essenzialmente metodologico, che fa della ricerca scientifica un procedimento volto a conseguire l’unità del sapere, nella consapevolezza che tra le varie discipline intercorrono molteplici legami. I tre maestri gli insegnano inoltre la necessità di verificare la corrispondenza tra i teoremi formulati in maniera astratta e la realtà storica, l’urgenza di considerare l’uomo quale soggetto dei processi economici, la consapevolezza dello stretto legame che unisce etica ed economia. Il secondo capitolo tratta in modo specifico della produzione della ricchezza. Nel primo paragrafo sono analizzati i singoli fattori della produzione (l’uomo, la natura e il capitale) e vengono chiariti quali legami intercorrono tra essi. Contestualmente viene anche riconosciuto che l’azione umana è guidata dal1

P. PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, Roma 1991, p. 9. A tal proposito rimando al bilancio bibliografico contenuto in PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, pp. 167-183. 2

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la «suprema legge edonistica», tendente a ottenere il massimo effetto utile col minimo dispendio di mezzi. Fin da subito emerge che tale principio direttivo non si manifesta mai nella sua dimensione puramente edonistica, bensì è arricchito e guidato dall’etica e condizionato dalle situazioni storiche, frutto dell’interazione tra l’uomo, la società e l’ambiente. Il secondo paragrafo analizza le modalità di esercizio dell’attività produttiva, soffermandosi sulla genesi e sullo sviluppo delle imprese, sul ruolo dell’imprenditore e sulle cause del progresso produttivo (le conoscenze scientifiche applicate all’industria, l’educazione morale e civile dei produttori e l’intervento dello Stato). Secondo il Toniolo, le leggi economiche non sono conoscibili per deduzione, bensì devono essere frutto dell’osservazione dei fatti e dell’indagine storica. Con un simile procedimento egli individua nella storia dei fenomeni costanti che considera leggi del progresso produttivo. In tal senso la divisione del lavoro, l’utilizzo delle macchine e il fatto che l’attività produttiva da individuale tenda a farsi collettiva non si configurano più come leggi universali. Nel terzo paragrafo sono enunciate le norme che attengono al funzionamento dei gruppi di imprese che presentano caratteristiche di omogeneità, ossia le industrie. Sulla base dell’esperienza storica, il Toniolo rinviene tre leggi che ne guidano lo sviluppo: 1) la legge di specificazione, secondo la quale ogni industria tende a differenziarsi dalle altre; 2) la legge di incremento, in base alla quale la potenza produttiva delle industrie segue un trend ascendente; 3) la legge di integrazione, che descrive i rapporti tra le singole industrie. Per meglio analizzare il dispiegarsi delle tre leggi, le industrie vengono distinte in territoriali (paragrafo terzo), agricole (paragrafo quarto) e manifatturiere (paragrafo quinto); si specifica infine come le tre leggi operino nell’ordinamento tecnico, professionale ed economico-giuridico. Il terzo capitolo tratta del processo distributivo della ricchezza prodotta. Nel primo paragrafo sono studiati il reddito oggetto di distribuzione e i requisiti per partecipare al suo riparto, evidenziando, da un lato, la necessità di attribuire una quota parte del reddito totale in base all’apporto dato da ciascuno alla produzione e, dall’altro, l’esigenza di garantire un’equa distribuzione sorretta dall’etica, anche a favore di chi non può partecipare al processo produttivo. Sulla scia del dettato milliano si considera pure la particolare natura delle leggi che governano il processo distributivo, essendo queste ultime dotate di caratteri antropologici estranei a quelle della produzione. Il secondo paragrafo tratta del sa-

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lario e dell’interesse. Tali porzioni del reddito totale sono determinate dall’interazione di una legge normale e di una legge commerciale. La legge normale determina il salario in funzione del costo di produzione, ossia in base alla somma dei sacrifici (passati e attuali) sostenuti dal lavoratore, e l’interesse in base ai sacrifici necessari per formare e mettere a disposizione della produzione un certo capitale. Le risultanze della legge commerciale, invece, dipendono dalle condizioni dei rispettivi mercati e dall’azione delle forze della domanda e dell’offerta. Non vengono tralasciati il ruolo delle organizzazioni sindacali e la questione della libertà di contrattazione contestualmente all’analisi dei sistemi che storicamente si sono alternati: quello della totale riprovazione dell’interesse, quello della limitazione legale del suo importo e quello della piena libertà di contrattazione. Il terzo paragrafo considera la natura della rendita, rinvenendo i suoi elementi costitutivi nell’utilità e nella limitazione del fattore natura. Considera altresì le leggi che regolano il profitto e che fanno di esso un reddito unico, vale a dire non considerato come un insieme di remunerazioni (prestazione di lavoro e impiego di capitale). Infine, il quarto paragrafo studia i nessi tra la legge del progresso economico e la distribuzione, soffermandosi sulle dinamiche che sovrintendono al processo di evoluzione dei salari, degli interessi, delle rendite e dei profitti. Il Toniolo sa che possono verificarsi delle situazioni patologiche le quali investono le norme che governano la distribuzione della ricchezza. Nascono così le crisi sociali che vedono contrapporsi, da un lato, le classi dei capitalisti e dei proprietari terrieri e, dall’altro, quelle dei lavoratori. La causa principale di siffatto stato di cose risiede nel disequilibrio economico tra capitale e lavoro, ma non devono essere dimenticati la sproporzione esistente tra il progresso dell’industria manifatturiera e quello dell’industria agricola, nonché il depauperamento delle condizioni economiche, sociali e politiche del lavoratore. I rimedi alla crisi sociale, al pari delle sue cause scatenanti, sono particolarmente complessi e investono i più disparati ambiti d’indagine, da quello economico a quello religioso. A giudizio del Toniolo, per far fronte a tali fenomeni è necessario introdurre la cooperazione, il patronato industriale e un’adeguata legislazione sociale.

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4 Capitolo I P RODUZIONE E DISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA NEL PENSIERO ECONOMICO DI METÀ

1.

I classici

1.1.

La divisione del lavoro

O TTOCENTO

Nel volume sulla produzione della ricchezza, il Toniolo, considerando le leggi che regolano il progresso produttivo delle imprese e riferendosi in particolare al loro ordinamento interno e alla loro gestione, individua degli «indirizzi» a suo giudizio «costanti nella storia» 3 (vere e proprie leggi del progresso produttivo, appunto) tra i quali rientra la divisione del lavoro 4. L’autore che per primo ha esaminato il problema in termini criticamente adeguati è Adam Smith 5. Nel suo Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) 6, egli af3

TTE, III, p. 172. Sul pensiero del Toniolo in merito alla divisione del lavoro come legge del progresso produttivo, v. infra, cap. II, par. 2. 5 Se è vero che il Toniolo riprende, al tema di divisione del lavoro, concetti già espressi da Smith e gli riconosce il merito di averne «determinato il pregio nel dominio economico» (cfr. TTE, III, pp. 201207), non può certo affermarsi che l’economista italiano condivida le basi della teoria smithiana tanto da indicarne i difetti e, primo fra tutti, quello di disconoscere «l’autorità superiore dell’etica, facendo della morale un prodotto del sentimento umano al pari dell’utile e quindi immedesimandola con questo» (cfr. TTE, I, pp. 283-239; TTE, II, p. 397). Il Toniolo non risparmia certo le critiche al sistema smithiano capace di insinuare, «specialmente nelle classi dominanti», lo «spirito di cupidigia» giungendo a considerare «l’uomo come mezzo della ricchezza e non viceversa», un sistema fautore di «una concorrenza frenata» a scapito dei più deboli, interessato soltanto «alla produzione indefinita della ricchezza […] con pregiudizio dell’equa ripartizione»: in una espressione causa non ultima di una vera e propria «crisi sociale» (TTE, I, p. 242). 6 J. A. SCHUMPETER (Storia dell’analisi economica, I, Torino 1959, p. 227) sostiene che sebbene l’insegnamento di Smith «non contenga nulla di originale, […] nessuno, né prima né dopo Smith, ha mai pensato di accollare un peso simile alla divisione del lavoro» arrivando a definirlo «l’unico fattore del progresso economico». Le indicazioni iniziali di Smith circa l’importanza della divisione del lavoro e l’affermazione dello Schumpeter sopra riportata potrebbero indurre a concludere che il fattore determinante la ricchezza di una nazione sia la stessa divisione del lavoro. A ben vedere, come in seguito specifica lo stesso Smith, la causa della ricchezza è l’accumulazione del capitale. Le due determinanti immediate del progresso della ricchezza sono la produttività del lavoro e la proporzione tra lavori produttivi e improduttivi. Queste ultime sono però dipendenti in ultima istanza dall’accumulazione del capitale. A. SMITH (La ricchezza delle nazioni, a cura di A. BAGIOTTI-T. BAGIOTTI, Torino 2001, p. 388) sostiene, infatti, che «la divisione del lavoro può progredire soltanto in proporzione alla preventiva e graduale accumulazione del capitale». Il saggio di crescita dell’economia dipende pertanto dalla ripartizione del prodotto totale tra beni di consumo e accumulazione di capitale, essendo positivamente correlato con quest’ultima. Lo stesso Smith (ivi, p. 456) continua affermando che «il valore del prodotto annuale della terra e del lavoro di ogni nazione 4

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ferma che «il grandissimo progresso della capacità produttiva del lavoro», nonché «la maggiore abilità, destrezza e avvedutezza con le quali esso» è esercitato sono «effetti della divisione del lavoro» 7 intesa nella sua duplice accezione: da un lato la specializzazione della forza lavoro; dall’altro, la suddivisione in attività produttive e improduttive. Con riferimento al primo significato del termine, l’incremento delle quantità prodotte in conseguenza dell’applicazione della divisione del lavoro è originato soprattutto dall’«aumento della destrezza di ogni singolo operaio». La divisione del lavoro, infatti, «riducendo il compito di ognuno a qualche semplice operazione» e «facendo di questa l’occupazione esclusiva della vita» 8, consente di acquisire una maggiore abilità. In secondo luogo, la divisione del lavoro ha il vantaggio di portare un «risparmio del tempo che comunemente viene perso passando da una specie di lavoro all’altro». Infine, l’incremento delle quantità prodotte è dovuto «all’invenzione di un gran numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro mettendo in grado un uomo di fare il lavoro di molti»9. Smith riconosce alla divisione del lavoro il merito «della grande moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti arti». Essa è alla base di «una società ben governata» e generatrice di «quell’universale opulenza che si estende sino alle classi sociali più basse» 10. La divisione del lavoro è «la conseguenza necessaria […] della propensione a trafficare, barattare e scambiare una cosa con un’altra», tendenza innata nell’uomo che contribuisce alla diffusione del benessere sociale. Smith però rileva come lo scambio sia regolato dall’egoismo umano e come l’uomo, se vuole ottenere una determinata cosa dai suoi simili, debba «indirizzare il loro egoismo a suo favore», ossia dimostrare che «per loro è vantaggioso fare ciò che egli rinon può aumentare che con l’aumento del numero dei suoi lavoratori produttivi […]. È evidente che il numero dei lavoratori produttivi non può mai essere aumentato di molto se non a seguito di un aumento del capitale […]». 7 SMITH, La ricchezza delle nazioni, p. 79. A. CAVALLI-S. TABBONI (La divisione del lavoro, Torino 1981, p.129) osservano che la realtà industriale che Smith ha di fronte è la manifattura «in cui la manodopera, composta ancora prevalentemente da artigiani, viene fisicamente concentrata in un unico luogo» e dove «l’antico mestiere viene suddiviso in una molteplicità di mansioni di minore contenuto professionale». 8 SMITH, La ricchezza delle nazioni, p. 84. 9 Scrive SMITH (La ricchezza delle nazioni, p. 86, nota 17): «due uomini e tre cavalli faranno di più in un giorno con l’aratro che venti uomini senza di esso. Il mugnaio col suo servitore farà di più col mulino ad acqua di una dozzina col molino a braccia». Cfr. SMITH, La ricchezza delle nazioni, pp. 80-81, dove Smith prospetta il noto esempio della fabbricazione degli spilli.

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chiede». In una simile prospettiva l’interesse individuale è innalzato a movente delle azioni umane 11. Propensione allo scambio ed egoismo, fin dai tempi più remoti, si fondono assieme e gettano le basi della divisione del lavoro. Così in una «tribù di cacciatori o di pastori […] qualcuno fa archi e frecce con maggiore rapidità e destrezza degli altri». Questi trova conveniente, invece che andare a cacciare, scambiare le sue frecce «coi suoi compagni per bestiame e cacciagione». Ecco allora che la sua attività principale diventa la produzione di armi. Tale processo avviene all’interno dello stesso gruppo sociale per le più diverse attività e in tale modo l’originario cacciatore si fa «costruttore di case», «conciatore di cuoi e pelli» o «fabbro». La «certezza di poter scambiare» le quantità di lavoro eccedenti «il personale consumo» con «parti del prodotto del lavoro di altri, […] incoraggia tutti ad applicarsi a una occupazione particolare e a coltivare e perfezionare il proprio talento o ingegno per quella particolare specie di attività» 12. Affermare che la divisione del lavoro è determinata dalla propensione allo scambio significa anche postulare che «la misura di questa divisione» è limitata «dall’entità» di tale propensione, ossia dall’«estensione del mercato». Infatti, un mercato ristretto non garantisce la possibilità di «scambiare tutta l’eccedenza del prodotto del proprio lavoro» con porzioni del lavoro altrui, cosicché nessuno è «invogliato a dedicarsi interamente a una occupazione» 13 specifica. Occorre pertanto, nell’interesse generale, adottare misure volte ad allargare il mercato stesso, quali il miglioramento dei trasporti e l’eliminazione delle restrizioni al commercio. La seconda accezione del termine «divisione del lavoro» si riferisce alla distinzione tra lavoratori produttivi e improduttivi. Tale distinzione può essere compresa solo quando si tenga presente che l’obiettivo di Smith è di individuare le cause del progresso economico. In una simile prospettiva egli dimostra che differenti allocazioni della forza lavoro incidono in maniera diversa nel processo di

10

SMITH, La ricchezza delle nazioni, p. 88. La stessa divisione del lavoro risulta pertanto regolata dalla «mano invisibile del mercato» che rende compatibile il perseguimento dell’interesse individuale con il raggiungimento del massimo benessere collettivo. 11 SMITH (La ricchezza delle nazioni, p. 92) conclude che «non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare […]. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità». 12 SMITH, La ricchezza delle nazioni, p. 93. 13 SMITH, La ricchezza delle nazioni, p. 96.

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sviluppo dell’economia 14. Infatti, tanto i lavoratori produttivi quanto quelli improduttivi e coloro che non lavorano vivono con il «prodotto annuale della terra e del lavoro del paese» 15. Considerato che tale prodotto non può essere infinito, quanto maggiore sarà la quota assorbita dai lavoratori improduttivi, tanto minore sarà la parte che potrà essere impiegata nella produzione dell’anno successivo. Secondo Smith, infatti, esistono due tipologie di lavoro: una che «accresce il valore dell’oggetto al quale è destinat[a]» e un’altra che, invece, non possiede tale caratteristica. Così «il lavoro di un operaio generalmente aggiunge al valore dei materiali» quello del «suo mantenimento e del profitto del suo padrone». Allo stesso modo, il lavoro «di un servitore […] non incrementa il valore di nulla» 16. La considerazione del lavoro servile come improduttivo non porta comunque Smith a negare il salario a chi eserciti una simile attività, anzi egli afferma che a costoro va riconosciuto un «compenso tanto quanto quello degli operai». La distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo non è un giudizio di valore, bensì una distinzione analitica fondamentale per lo studio dei mutamenti di lungo periodo del sistema economico. Quanto alle leggi della distribuzione del prodotto totale alle classi sociali, l’impostazione del Toniolo è profondamente diversa da quella da Smith. Per il giovane Toniolo produzione e distribuzione sono intimamente legate, nel senso che «tutti i fattori della produzione partecipano» al riparto del reddito in «ragione del valore della rispettiva cooperazione» 17. Per Smith, e in generale per gli esponenti della scuola classica, il problema distributivo è ricollegato al processo di determinazione dei prezzi di mercato.

14

Cfr. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, I, p. 227. SMITH, La ricchezza delle nazioni, p. 453. 16 SMITH, La ricchezza delle nazioni, p. 451. 17 TTE, IV, p. 111. Per la trattazione dei problemi riguardanti la distribuzione del reddito nel pensiero del Toniolo v. infra, cap. III. 15

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Nella trattazione del prezzo naturale 18 Smith distingue, come parti di esso, il salario, la rendita e il profitto 19. Specularmente la società è divisa in tre classi: 1) i lavoratori cui spetta il salario; 2) i capitalisti ai quali vanno i profitti; 3) i proprietari terrieri che ricevono la rendita. Nel pensiero smithiano «lavoratori, proprietari terrieri e capitalisti sono sì introdotti come partecipanti al processo di distribuzione, ma le quote loro spettanti non sono concepite come redditi derivanti dall’impiego produttivo dei loro fattori» 20. Il dettato di Smith non si configura come un’analisi funzionale, tipica delle teorie economiche moderne che considerano le diverse forme di erogazione del reddito come remunerazioni dei singoli fattori che concorrono alla produzione (idea in parte condivisa dallo stesso To18

Un aspetto fondamentale dell’opera smithiana consiste nella ricerca intorno al modo in cui si determina il valore economico. Significativa è pure la linea di separazione tra «valore d’uso» e «valore di scambio». SMITH (La ricchezza delle nazioni, p. 109) osserva che «la parola valore ha due differenti significati: talvolta esprime l’utilità di qualche particolare oggetto e talaltra il potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce. L’uno può essere detto “valore d’uso”; l’altro “valore di scambio”». In primo luogo, egli afferma che la misura del valore è il «potere di disporre del lavoro». Una simile impostazione permette a Smith di individuare le parti costituenti il cosiddetto prezzo naturale. Esso si compone pertanto di tre elementi e, segnatamente, di salari, rendite e remunerazione dei detentori di capitale. Smith sostiene che «il prezzo effettivo al quale comunemente si vende una merce è detto prezzo di mercato» e può trovarsi «al di sopra o al di sotto o esattamente uguale al suo prezzo naturale». Fiducioso delle capacità regolatrici del mercato, egli afferma che le forze della concorrenza spingono il prezzo di mercato verso il prezzo naturale, postulando così l’esistenza di un punto di equilibrio dove si attua la convergenza dei prezzi naturali e dei prezzi correnti. Una simile impostazione trascina importanti implicazioni circa il ruolo dei governi o dei gruppi di interesse nell’economia. Riconoscere al mercato la capacità di raggiungere l’equilibrio (concorrenza del prezzo naturale con il valore effettivo del prodotto), significa affermare che è contrario all’interesse sociale qualsiasi intervento nell’economia che miri al alterarne il funzionamento. Cfr. A. FAN5 FANI, Storia delle dottrine economiche, Milano 1971 , pp. 402, 410-413; G. JESURUM, Note sulla teoria del valore nella Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, in Prezzi relativi e distribuzione del reddito, a cura di P. SYLOS LABINI, Torino 1973, pp. 38-41. 19 Scrive D. P. O’BRIEN (Gli economisti classici, Bologna 1984, p. 64): «nelle teorie proposte da Smith queste remunerazione non erano pienamente o coerentemente analizzate; ma, in sintesi, il salario era determinato dal rapporto tra la popolazione e il capitale anticipato […], la rendita, sebbene come aggregato fosse un sovrappiù determinato dai prezzi, era una determinante del costo di ciascun bene e il profitto era considerato una specie di interesse, maggiorato per tener conto del rischio e tenuto distinto dal salario di direzione». Egli aggiunge che «la trattazione smithiana delle quote di distribuzione non solo costituì un modello per gli economisti classici, ma conteneva anche spunti sufficienti perché essi potessero sviluppare la teoria della distribuzione in direzioni diverse». A. GRAZIANI (Teoria economica, prezzi e distribuzione, Napoli 19822, p.47) sostiene che «nell’ambito di un’economia di mercato, il problema della distribuzione del reddito coincide largamente con il problema della formazione dei prezzi. Infatti, una volta individuato il meccanismo di formazione dei prezzi, resta individuato il modo in cui si formano non solo il prezzo dei beni ma anche il prezzo delle risorse produttive, e il prezzo di mercato del lavoro (salario), il prezzo di mercato dell’uso della terra (rendita), il prezzo dei capitali liquidi presi a prestito (interesse) e la remunerazione del capitalista imprenditore (profitto)». 20 SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, II, p. 676. FANFANI (Storia delle dottrine economiche, p. 399) sostiene che «prendendo come punto di riferimento il prezzo di tutto il prodotto annuale, si tendette da Smith in poi a considerare rendita, interesse, profitto, salario come fette di una stessa torta in formazione. E le preoccupazioni prevalenti furono due: ora ci si domandò per quali leggi variassero singolarmente e indipendentemente le fette della torta in formazione, ed ora ci si domandò per quale magica virtù l’imprenditore riusciva a distribuire secondo il preventivo la torta ottenuta tra tutti i pretendenti, ricavandone un’abbondante porzione anche per sé».

30

niolo). Esso muove, invece, dal riconoscimento della divisione in classi della società, sulla quale Smith «costruisce le strutture portanti della propria analisi» 21.

1.2.

Il fattore demografico

Quando il Toniolo tratta dell’industria fondiaria, inserisce tra gli elementi che ne determinano il progresso il fattore demografico. La costante «tendenza» «all’incremento dei dissodamenti» trova la propria origine nel «fattore demografico», essendo collegata ai bisogni «alimentari crescenti» 22. L’autore che ha maggiormente considerato gli effetti dell’incremento demografico è Thomas Robert Malthus 23. Nel Saggio sul principio di popolazione 24 questi inserisce «nel sistema una coerente spiegazione delle relazioni tra fenomeni economici e fenomeni demografici» 25. Malthus sostiene che «la popolazione, quando non è arrestata da alcun ostacolo, si raddoppia ad ogni periodo di 25 anni, crescendo così in progressione geometrica». D’altra parte, però, «i mezzi di sussistenza, nelle circostanze più propizie all’umana industria», non possono «crescere che in proporzione aritmetica» 26. Si determina pertanto un conflitto permanente tra le forze della procreazione e la produzione di cibo. L’analisi di Malthus non dischiude certo un roseo futuro al genere umano, imprigionato in una sorta di circolo vizio-

21

W. J. BARBER, Storia del pensiero economico, Milano 199616, p. 38. TTE, III, p. 325. Il Toniolo tratta in modo approfondito della popolazione nell’Introduzione al Trattato di economia sociale (cfr. TTE, I, pp. 413-484). 23 Cfr. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, II, pp. 584-587. 24 Malthus si occupa dei problemi demografici per la prima volta nel 1798 quando pubblica Essay on the Principle of Population as it Affects the future improvement of society (Saggio sul principio di popolazione e sulle sue influenze sul futuro progresso della società). Successivamente sviluppa il suo pamphlet e nel 1803 esce la prima edizione del Saggio che diviene un trattato sistematico. L’opera subisce ulteriori ritocchi nel 1806, nel 1807, nel 1817 e, infine, nel 1826. Cfr. E. ROLL, Storia del pensiero economico, Torino 1977, pp. 190-191. Secondo quanto sostenuto da SCHUMPETER (Storia dell’analisi economica, I, p. 308) il principio malthusiano si trova «pienamente sviluppato» nella «mente di Botero nel 1589: le popolazioni tendono ad aumentare […] nella piena misura resa possibile dalla fecondità umana (la virtus generativa nella traduzione latina); i mezzi di sussistenza, al contrario, e le possibilità di accrescerli (la virtus nutritiva) sono limitati e perciò pongono un limite a quell’aumento». A parere di Schumpeter «Malthus altro non fece che ripeterla [l’intuizione di Botero] adottando però particolari leggi matematiche». In proposito, cfr. O’BRIEN, Gli economisti classici, pp. 90-91. 25 FANFANI, Storia delle dottrine economiche, p. 341. 26 T. R. MALTHUS, Saggio sul principio di popolazione, introduzione di G. PRATO, Torino 1965, pp. 6-8, in corsivo nell’originale. 22

31

so: ogni aumento dei salari reali, infatti, comporta un incremento della popolazione, il che riporta i salari al livello di sussistenza 27. Per avvalorare la tesi espressa col principio di popolazione, Malthus spiega per quali ragioni la produzione agricola non può crescere più rapidamente della popolazione. La «vera base della teoria malthusiana della popolazione» è contenuta in An enquiry into the nature and progress of rent (Ricerca sulla natura e sul progresso della rendita), del 1815, dove si introduce «una teoria della rendita differenziale» (peraltro simile a quella di Ricardo), basata sull’applicazione della «legge dei compensi decrescenti» 28. Tale legge, formulata inizialmente dal Turgot nel 1765 29, prevede che raddoppiando il capitale investito in agricoltura non si ottenga una produzione raddoppiata, ossia, generalizzando, che se l’impiego di un fattore di produzione è aumentato, rimanendo costante quello di tutti gli altri, il tasso d’incremento del prodotto totale è via via minore. Da qui nascono le difficoltà

a

far

fronte

all’aumento

della

popolazione

che

si

traducono

nell’impossibilità di ottenere incrementi significativi della produzione agricola. Quale allora la soluzione? È necessario, secondo Malthus, limitare l’incremento della popolazione con ostacoli preventivi e repressivi 30. I preventivi si riferiscono all’astensione dal matrimonio e costituiscono una sorta di restrizione morale 31. L’ostacolo preventivo è esclusivo dell’uomo e «deriva dalla superio27

Sostiene SCHUMPETER (Storia dell’analisi economica, I, p. 322) che «la più ovvia applicazione analitica del principio della popolazione consiste nella teoria dei salari» e precisamente in «una teoria dei salari fondata sul minimo di esistenza». Non è tuttavia così chiaro che cosa debba intendersi per livello di sussistenza dei salari. Se è vero che esso in prima approssimazione è quel livello di salario fisiologicamente necessario per la semplice sopravvivenza, è altrettanto vero che l’introduzione da parte di Malthus del concetto di freni preventivi all’aumento della popolazione introduce un’accezione psicologica del termine. Il salario di sussistenza pertanto deve raggiungere un livello tale da permettere ad un genitore potenziale di formare una famiglia. Su queste conclusioni sembra non concordare pienamente O’BRIEN, Gli economisti classici, p. 179. 28 ROLL, Storia del pensiero economico, p. 192. Non dobbiamo pensare che il concetto di rendimenti decrescenti utilizzato da Malthus sia uguale a quello che oggi comunemente intendiamo. In particolare Malthus non si riferisce a una situazione statica in cui a variare è solo uno degli input della produzione. Al contrario egli cala la propria analisi in un ambiente dinamico in cui variano anche la popolazione e lo stock di capitale. Inoltre la legge dei rendimenti decrescenti è applicata solo alla produzione agricola, credendo che nella manifattura il problema non si sarebbe posto. 29 Cfr. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, I, pp. 314-316. 30 Non sempre l’aumento della popolazione è stato visto come un problema, anzi si sono avute posizioni favorevoli all’incremento demografico; cfr. in particolare SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, I, pp. 303-305. 31 MALTHUS, Saggio sul principio di popolazione, p. 11. MALTHUS (ivi, p. 11, nota 1) spiega che per restrizione morale deve intendersi quella che «un uomo s’impone in riguardo al matrimonio per un motivo di prudenza». Argomenta O’BRIEN (Gli economisti classici, p. 96) che, «volendo essere obiettivi, si dovrebbe dire che Malthus prest[a] attenzione (nella grande massa di informazioni sulla popolazione di diversi Paesi da lui raccolta) a indizi di restrizione morale quali i tassi di matrimonio e di natalità. Ma troppo spesso, specialmente nelle mani dei successori, l’argomento è degenerato nell’affermazione che se le sussi-

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rità della sua ragione», che lo rende capace di «calcolare le conseguenze lontane» delle proprie azioni. Le considerazioni di Malthus si fondano sulla preoccupante situazione di miseria che egli ha di fronte, soprattutto per le classi meno abbienti. Un attento osservatore si dovrebbe accorgere «della penuria in cui gemono le numerose famiglie», e costatare che «i suoi mezzi di sussistenza, appena sufficienti per lui», non potranno bastare quando «si tratterà di dividerli fra sette od otto individui» 32. Gli ostacoli «repressivi» comprendono «ogni causa derivante da vizio o da malessere» che abbia l’effetto di ridurre la durata della vita umana e si traducono essenzialmente in incrementi del tasso di mortalità. Tra essi rientrano «le malsane occupazioni, […] tutti i pericoli del clima, l’estrema povertà, la cattiva nutrizione dei bambini, l’insalubrità delle città affollate, […] tutto il corredo delle malattie ed epidemie, la guerra, la peste, la fame» 33. La tesi malthusiana incontra però alcune palesi limitazioni, in particolare quando postula che la produzione di cibo non possa crescere più velocemente della popolazione. Sostenere ciò equivale a negare che lo sviluppo delle tecniche agricole garantisca una produzione alimentare sufficiente a sfamare la crescente popolazione. Tale punto di vista è comune a diversi economisti classici che non hanno mai fornito una teoria capace di spiegare «il saggio di sviluppo tecnologico e perciò hanno sempre sottostimato […] l’impatto della tecnologia sul sistema economico» 34. In secondo luogo Malthus non attribuisce la giusta importanza alla relazione tra progresso economico e diminuzione della mortalità. Sembra, infatti, potersi affermare che «l’esplosione demografica di quegli anni sia stata fortemente influenzata da una riduzione del tasso di mortalità» 35 dovuta essenzialmente agli interventi pubblici in materia di sanità e igiene. Infine, i pericoli additati da Malthus sono stati scongiurati anche attraverso il commercio internazionale, che stenze crescono più rapidamente della popolazione, ciò è dovuto alla restrizione morale, mentre in effetti […] può essere dovuto semplicemente al fatto che l’adozione di due progressioni, una aritmetica e una geometrica, non significa che la popolazione debba necessariamente crescere più rapidamente delle sussistenze». 32 MALTHUS, Saggio sul principio di popolazione, p. 10. 33 MALTHUS, Saggio sul principio di popolazione, p. 11. 34 H. LANDRETH-D. C. COLANDER, Storia del pensiero economico, Bologna 1996, p. 168. Cfr. D. V. GLASS, La popolazione mondiale dal 1800 al 1950, in Storia economica Cambridge, VI, La rivoluzione industriale e i suoi sviluppi, a cura di H. J. HABAKKUK-M. POSTAN, Torino 1974, pp. 77-98. 35 BARBER, Storia del pensiero economico, p. 57. Come conferma O’BRIEN (Gli economisti classici, p. 101), tale aspetto, trascurato da Malthus, è preso in considerazione da John Ramsay Mc Culloch secondo il quale «le variazioni del tasso di mortalità» sono «più rilevanti del tasso di natalità o di matrimonio».

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ha permesso l’afflusso di ingenti quantità di derrate alimentari da zone del mondo con un rapporto produzione-popolazione più favorevole 36.

1.3.

La rendita ricardiana

Nel trattare le «leggi del progresso fondiario» 37, il Toniolo affronta la questione della messa a coltura di terre via via meno fertili all’aumentare delle richieste alimentari della popolazione. Egli bolla il problema come una «antica disputa fra gli economisti Ricardo e Carey» 38: la «formula starebbe razionalmente, se l’occupazione terriera seguisse i puri criteri economici». Storicamente, rileva il Toniolo, non è così, poiché tale legge razionale viene «sopraffatta e sempre modificata da due ordini» di ragioni e, segnatamente, dalle motivazioni che determinano l’insediamento delle popolazioni e «dallo stato della tecnica» 39. Invero il problema è ampiamente trattato in Ricardo. Questi osserva che la rendita è «quella parte del prodotto della terra che viene pagata al proprietario per l’uso dei poteri originali e indistruttibili del suolo» 40. La sua teoria della rendita differenziale implica che terre progressivamente meno fertili (o meno favorevolmente situate, perché, ad esempio, lontane dai mercati di sbocco) siano messe a coltura al crescere delle richieste di prodotti alimentari da parte delle popolazioni. 41 Per Ricardo quindi esistono due ragioni che spiegano l’esistenza della

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Nei Paesi in via di sviluppo, tuttavia, le previsioni di Malthus non hanno perso certo la loro validità e per tali aree rappresentano uno dei problemi cruciali da risolvere. 37 TTE, III, p. 325, in maiuscoletto nell’originale. 38 TTE, III, p. 326. Secondo G. TONIOLO (Dei fatti fisici e sociali nei riguardi del metodo induttivo, «Archivio giuridico», 10 (1872), pp. 178-212, ristampato in TTE, II, pp. 219-265, p. 254), i due autori hanno compiuto un solo errore, quello cioè di aver «elevato a principio assoluto generale l’ordine dei fatti del proprio paese»: da un lato Ricardo considera «valevole per tutto il mondo» ciò che è frutto di osservazioni limitate al caso europeo, dall’altro Carey compie la stessa operazione concettuale osservano la realtà americana, ma in un «periodo di civiltà differente». 39 TTE, III, p. 327. Per una trattazione maggiormente approfondita v. infra, cap. II, paragrafo 3. 40 D. RICARDO, Principi di economia politica e dell’imposta, a cura di P. L. PORTA, Torino 1986, p. 222. Tale definizione è ritenuta imprecisa da M. ZENEZINI (Rendita, in Dizionario di economia politica, VI, diretto da G. LUNGHINI, Torino 1983, p. 77), «poiché sembra ammettere la possibilità della rendita su tutte le terre, il che è però negato dalla concezione stessa di rendita differenziale». In realtà (ivi, p. 65) «per quanto la rendita appaia come prezzo per l’uso della terra, la concezione classica ne mostra l’origine in un processo di trasferimento di reddito dai percettori di profitto ai proprietari delle risorse naturali impiegate nella produzione». 41 Scrive RICARDO (Principi di economia politica e dell’imposta, pp. 224-225): «soltanto perché la quantità della terra non è illimitata e la sua qualità non è uniforme, e perché man mano che la popolazione aumenta viene coltivata terra di qualità inferiore o in posizione meno vantaggiosa, che si paga una rendita per il suo uso». La rendita ricardiana, secondo ZENEZINI (Rendita, in Dizionario di economia politica, VI, p.

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rendita: la scarsità di terra fertile 42 e la legge dei rendimenti decrescenti 43. Il fenomeno della messa a coltura delle nuove terre meno fertili conferisce all’importo della rendita un andamento crescente. La trattazione di Ricardo prevede che nella prima fase del processo di formazione della rendita vengano messe a coltura le terre più fertili e meglio situate rispetto ai mercati di vendita. Date le tecniche di produzione, egli ipotizza che tali terre siano in grado di assicurare la produzione agricola necessaria alla sussistenza dei lavoratori (poniamo 0.5 quintali di grano per unità di lavoro). Se vengono impiegate 100 unità di lavoro, il fondo salari risulta pari a 50 (100×0.5). Supponiamo altresì che la produzione totale (date le tecniche colturali e la durata della giornata lavorativa) sia 100. Il saggio di profitto risulta pari al valore della produzione totale meno il fondo salari (100-50=50). In un secondo tempo, quando, a causa dell’aumento della forza lavoro, le richieste di prodotti alimentari aumentano, la produzione attuale non basta a soddisfare le richieste. A causa della scarsità delle terre fertili, devono essere messe a coltura quelle progressivamente meno feraci. Per Ricardo, i salari, come sostenuto dalla maggior parte degli economisti classici, gravitano attorno al livello di sussistenza. Posto un aumento di 100 lavoratori, questi, nella terra meno fertile, non sono in grado di ottenere 100 di prodotto totale, bensì 90 (legge dei rendimenti decrescenti 44). Restando invariato il fondo salari, sono i profitti a diminuire (90-50=40). La disparità tra i vari saggi di profitto spinge la concorrenza tra gli imprenditori a utilizzare le terre migliori. Quando i profitti si uniformano al livello più basso (nel nostro esempio numerico 40), la prima terra presenta

64), «è dunque un fenomeno di prezzo inevitabile a causa delle eterogeneità produttive delle terre e ha il significato di un guadagno differenziale e non già di un rendimento assoluto della terra». 42 RICARDO (Principi di economia politica e dell’imposta, p. 224) sostiene che «non appena insediati in un paese che abbonda di terra ricca e fertile, della quale basti coltivare solo una piccolissima parte per mantenere la popolazione […] non vi è rendita; infatti, nessuno pagherebbe per l’uso della terra dove ce ne fosse un’abbondante quantità non ancora appropriata e perciò a disposizione di chiunque volesse coltivarla». 43 Secondo RICARDO (Principi di economia politica e dell’imposta, p. 227), se «la terra di buona qualità esistesse in quantità molto più abbondante di quanto basta alla produzione di alimenti per una popolazione crescente, o se il capitale potesse essere impiegato indefinitamente sulla terra vecchia senza che ne diminuisca il rendimento, la rendita non potrebbe aumentare; infatti la rendita proviene invariabilmente dall’impiego di una ulteriore quantità di lavoro con un rendimento proporzionalmente minore». 44 Cfr. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, II, p. 713.

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un’eccedenza rispetto ai salari e ai profitti pari a 10. Tale importo costituisce la rendita, come reddito differenziale sulle terre più fertili 45. La rendita appena considerata è definita «estensiva», poiché deriva dall’allargamento del margine di coltivazione dalle terre fertili a quelle con un grado di fertilità inferiore a parità di unità di lavoro impiegate e di mezzi di produzione. Ricardo si occupa anche della «rendita intensiva», che sorge quando la produzione viene incrementata su una stessa terra intensificando l’utilizzo di unità di lavoro e di mezzi di produzione. Il margine intensivo, infatti, illustra l’effetto dell’applicazione di unità successive di capitale e lavoro su un dato appezzamento di terra 46. Al di là dell’analogia formale, va osservato che i due modi di determinazione della rendita sono associati ad altrettante manifestazioni del principio dei rendimenti decrescenti. Nel primo caso (quello della rendita estensiva), la produttività decrescente è causata dal passaggio alla coltivazione di terre progressivamente dotate di tassi di fertilità inferiori; nel secondo caso, invece, essa deriva dalla produttività decrescente degli altri fattori di produzione, e, segnatamente, del lavoro e del capitale. Il concetto di rendita può essere visto, oltre che dal lato delle quantità prodotte, anche da quello dei costi di produzione. Sappiamo, trattando della rendita intensiva, come i rendimenti marginali diminuiscano applicando quantità progressivamente maggiori di lavoro e capitale. Specularmente è possibile affermare che i costi marginali crescono quando viene incrementato l’utilizzo dei suddetti fattori. Il costo marginale, infatti, esprime l’incremento del costo totale corrispondente a un uso più intensivo della terra. In tal modo è possibile determinare la rendita in termini monetari e non fisici 47. Il modello di determinazione della rendita consente a Ricardo di formulare delle importanti considerazioni circa il funzionamento dei mercati. In primo luogo, la concorrenza fra gli agricoltori spinge il prezzo del grano a eguagliare il costo marginale più elevato. Ricardo si accorge che le imprese operano «in condizioni di costo differenti». In un mercato perfettamente concorrenziale «il prezzo [dei prodotti] non può essere minore né è probabile che sia molto maggiore dei

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Cfr. RICARDO, Principi di economia politica e dell’imposta, p. 225-226. Cfr. G. VALASSINA, La teoria della rendita nella storia del pensiero economico, Milano 1976, pp. 54-67. 46 Cfr. LANDRETH-COLANDER, Storia del pensiero economico, p. 183-184. 47 Cfr. LANDRETH-COLANDER, Storia del pensiero economico, p. 185-186.

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costi dell’impresa caratterizzata dal costo più elevato» 48. In secondo luogo, la competizione per ottenere l’uso delle terre migliori assicura a quelle più fertili la presenza di rendita. Infine, nel sistema economico le stesse forze della concorrenza producono saggi di profitto uniformi. Nell’analisi ricardiana, inoltre, la rendita è determinata dal prezzo e non viceversa: gli alti prezzi del grano non sono causati dalle rendite elevate, bensì, al contrario, sono gli alti prezzi che determinano le alte rendite. Infatti, «è il grano prodotto dalla massima quantità di lavoro che regola il prezzo del grano» stesso e la rendita «non costituisce né può costituire minimamente parte componente del suo prezzo»49. Ricardo precisa che la rendita «è un sintomo, mai una causa della ricchezza»50. L’impostazione della teoria della rendita differenziale è particolarmente significativa perché è alla base di alcune indicazioni di politica economica elaborate da Ricardo. In particolare, egli assume una posizione contraria al protezionismo agrario, «argomentando che la concorrenza internazionale […] avrebbe obbligato al ribasso dei prezzi interni del grano». Infatti, la rendita cresce perché si preferisce «sopportare rendimenti decrescenti in patria piuttosto che importare il grano a buon mercato dall’estero» 51. In tal modo, «l’abbassamento del prezzo del grano, reso possibile grazie all’abbattimento dei dazi sul grano straniero, avrebbe attivato un processo […] di trasferimento» 52 dalle rendite ai profitti, consentendo al capitale e al lavoro impiegati nelle terre meno fertili il loro passaggio all’industria e, conseguentemente, incrementando il valore dei profitti e diminuendo quello delle rendite 53. 48

SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, II, p. 824. Precisa infatti RICARDO (Principi di economia politica e dell’imposta, p. 227) che «il valore di tutte le merci, siano esse manufatte, prodotto delle miniere o della terra, non è mai regolato dalla minor quantità di lavoro sufficiente a produrle in circostanze particolarmente favorevoli, godute soltanto da coloro che hanno particolari facilitazioni; ma dalla maggior quantità di lavoro che coloro che non godono di particolari facilitazioni devono necessariamente impiegare per produrle, cioè dal lavoro impiegato nelle circostanze più sfavorevoli». 49 RICARDO, Principi di economia politica e dell’imposta, p. 232. 50 RICARDO, Principi di economia politica e dell’imposta, p. 231. 51 O’BRIEN, Gli economisti classici, p. 195. Ricardo accenna qui alla teoria dei vantaggi comparati. Cfr. O’BRIEN, Gli economisti classici, pp. 262-277; P. TIBERI VIPRAIO, Dal mercantilismo alla globalizzazione. Lo sviluppo industriale trainato dalle esportazioni, Bologna 1999, pp. 80-85. 52 ZENEZINI, Rendita, in Dizionario di economia politica, VI, pp. 80-81. Cfr. O’BRIEN, Gli economisti classici, pp. 70-71. 53 Le indicazioni anti-protezionistiche di Ricardo si inseriscono nell’ambito del movimento che in quegli anni si oppone alle corn law. Come scrive F. ASSANTE (Alle origini della società industriale, in Storia dell’economia mondiale, secc. XVIII-XX, Bologna 1995, p. 83), «la violenta caduta dei prezzi del grano tra il 1812 e il 1814 aveva indotto l’ala conservatrice (i grandi proprietari terrieri) a far votare dal Parlamento una legge protettiva (corn law) in base alla quale se il prezzo scendeva al di sotto di 80 scellini il quarter

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Il declino della fertilità della terra provoca, secondo Ricardo, un costante aumento del prezzo dei prodotti. Se da un lato i salari reali si mantengono pari al livello di sussistenza, la rendita aumenta costantemente e i profitti diminuiscono con altrettanta costanza. Con la teoria della rendita, Ricardo traccia, secondo alcuni autori, «un quadro pessimistico del futuro», dove «l’armonia degli interessi sociali» teorizzata da Smith è minata alla base. In tale sistema gli interessi della classe proprietaria della terra non coincidono più con quelli delle altre classi sociali, anzi sono fondamentalmente opposti a quelli dell’intera collettività. I proprietari terrieri «richiedono un continuo aumento del prezzo dei viveri» 54, mentre i capitalisti e gli operai aspirano a ottenere un costo della vita inferiore. In realtà Ricardo sottovaluta l’apporto dato dall’applicazione della scienza all’agricoltura che permette di compensare abbondantemente il depauperamento dei terreni sfruttati 55. I concetti di rendita e di rendimenti decrescenti vanno però considerati le «fondamenta analitiche della teoria della produttività marginale, che spiega dal lato dell’offerta le forze che determinano i prezzi di tutti i fattori di produzione» 56. Il concetto di rendita differenziale è altresì alla base della teoria della distribuzione di Ricardo elaborata in termini di rendimenti decrescenti. Infatti, l'«impiego di capitale e di lavoro», seguendo la legge dei rendimenti decrescenti, produce «la tendenza ad abbassare il prodotto per [singole] unità». 57 Dalla considerazione che il prodotto totale è la somma dei prodotti marginali della terra, del capitale e del lavoro, Ricardo trae motivo per identificare le quote costituenti la rendita, i profitti e i salari per differenza, con un procedimento che è valso alla sua teoria della distribuzione l’appellativo di teoria residuale. Postulato che i salari reali gravitano attorno al livello di sussistenza 58, profitti 59 e rendite rappre-

scattava il divieto di importazione». Ricardo è uno dei sostenitori dell’abolizione delle Corn law, che non solo avevano ostacolato il libero movimento delle risorse, ma erano state pure causa della compressione dei profitti, fonte primaria dello sviluppo economico. 54 ROLL, Storia del pensiero economico, p. 181-182. 55 Cfr. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, II, p. 711. 56 LANDRETH-COLANDER, Storia del pensiero economico, p. 190. 57 A. K. DASGUPTA, La teoria economica da Smith a Keynes, Bologna 1987, p. 43. 58 Secondo E. SCREPANTI (Distribuzione del reddito, in Dizionario di economia politica, diretto a G. LUNGHINI, VI, Torino 1983, p. 28), Ricardo, appoggiandosi alla legge malthusiana della popolazione, sostiene che «l’offerta di lavoro si adegua nel lungo periodo alla domanda attraverso le variazioni dei tassi di natalità e di mortalità attivate dalle oscillazioni del prezzo di mercato del lavoro. In tal modo il salario tende a coincidere con i consumi necessari». Il livello di sussistenza per Ricardo è, secondo O’BRIEN (Gli economisti classici, p. 180), quel salario che è «in grado di mantenere la popolazione costante». 59 Cfr. O’BRIEN, Gli economisti classici, pp. 188-191.

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sentano il sovrappiù con carattere residuale. Mediante la teoria della rendita differenziale Ricardo spiega la natura e il modo di formazione di tale frazione del reddito, mentre la parte rimanente del sovrappiù costituisce i profitti.

1.4.

Economia positiva ed economia normativa

Nel trattare della distribuzione della ricchezza il Toniolo riconosce alle leggi che sovrintendono al processo distributivo un particolare carattere «antropologico e psicologico» che «influisce sul tutto il magistero loro» e che le differenzia rispetto a quelle della produzione della ricchezza, caratterizzate invece, a suo dire, «dalla maggiore regolarità e costanza delle leggi fisiche» 60. Nell’operare una simile distinzione egli si rifà esplicitamente al contributo dato in tal senso da John Stuart Mill. Sono infatti frequenti i richiami del Toniolo all’opera dell’economista inglese 61. Ad esempio, nell’Introduzione del Trattato egli afferma che nelle leggi distributive «il criterio edonistico od utilitaristico è più che mai avvalorato e dominato dai principi e sentimenti di morale e giustizia (J. S. Mill)» 62. L’analisi di Mill parte, appunto, dalla considerazione della differente natura che hanno le leggi della produzione e le leggi della distribuzione 63. Le une sono considerate immutabili, determinate dalla natura (alla stregua della legge di gravità) e dalla tecnologia, non modificabili dalla volontà dell’uomo o dall’adozione di un particolare assetto istituzionale; le altre sono piuttosto frutto di una conformazione sociale e istituzionale, e pertanto soggette al controllo 60

TTE, IV, p. 112. Se non mancano punti di contatto tra l’opera del Toniolo e le tesi elaborate dal Mill, soprattutto in materia di cooperazione nell’attività di produzione (cfr. TTE, III, p. 209; M. T. PICHETTO, John Stuart Mill, Milano 19964, p. 57), non manca pure una fiera condanna dell’economista italiano nei confronti del collega inglese e di «tutta la scuola della morale utilitarista» circa la negazione della dipendenza «dell’economia dalle dottrine etico-giuridiche» (cfr. TTE, I, p. 76). Un ulteriore aspetto sembra avvicinare l’opera del Toniolo al pensiero milliano: la necessità affermata dal Mill che le conclusioni raggiunte dagli economisti in virtù di modelli deduttivi siano sostenute da fatti registrati dalla realtà, una vera costante, questa, del modus operandi del Toniolo. Lo stesso dicasi delle considerazioni sulla validità astrattiva della figura dell’homo oeconomicus, alla quale, secondo LANDRETH-COLANDER (Storia del pensiero economico, p. 254), «Mill riconosce una sua validità e la capacità di conseguire conclusioni teoretiche di una certa utilità, ma parimenti ritiene che tale astrazione necessiti di essere integrata in un modello più complesso che descriva più compiutamente gli esseri umani e le loro attività di relazione». 62 TTE, II, p. 37. 63 Cfr. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, II, pp. 657-658. 61

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dell’uomo, modificabili attraverso interventi di riforma sociale 64. Affermare ciò equivale a sostenere che, data la tecnologia, considerati i fattori della produzione e conosciuto il loro costo, il prodotto totale ottenibile è determinato in modo univoco. Le regole per la distribuzione del prodotto totale, ossia come esso sia ripartito tra lavoratori, proprietari terrieri, capitalisti e imprenditori, non sono, invece, rigidamente determinate, in quanto espressione della libera volontà umana. È nei Principi di economia politica che Mill illustra chiaramente tale distinzione. Egli osserva che «le leggi e le condizioni della produzione della ricchezza partecipano del carattere delle verità fisiche» e che in esse «non vi è nulla di volontario o di arbitrario». Accenna altresì alla legge dei rendimenti decrescenti, a causa della quale «una quantità doppia di lavoro non produrrà, sulla stessa terra, una quantità doppia di alimenti» 65. Mill è consapevole dei positivi effetti «dei miglioramenti nei metodi di coltivazione», ma per quanto essi siano grandiosi e «per quanto spazio noi possiamo riuscire a conquistarci entro i limiti posti dalla realtà stessa delle cose», tali limiti «devono necessariamente esistere». Non è così per le leggi che governano il processo distributivo, poiché tale questione riguarda le «istituzioni umane». Infatti, una volta ottenuta una data quantità di ricchezza, gli uomini «possono comportarsi di fronte ad essa come vogliono», «mettendola a disposizione di chi vogliono» e «a qualsiasi condizione» 66. La distribuzione della ricchezza «dipende quindi dalle leggi e dalle con64

A giudizio del FANFANI (Storia delle dottrine economiche, p. 400) «è interessante notare che quando Stuart Mill si pone a considerare il problema delle proporzioni fra le varie voci della distribuzione, arriva a concludere che in materia non esiste equilibrio e quindi giustizia. E per salvare la grande fede nelle leggi naturali asserisce che esse non operano in campo distributivo. La distribuzione si verificherebbe sotto l’impero delle leggi positive umane. Quindi in materia la libertà non può più essere invocata. Occorre richiedere l’intervento statale ed immaginarne un piano». Secondo Mill, ciò poteva essere attuato grazie all’introduzione di pesanti limitazioni al trasferimento a titolo ereditario. Scrive J. S. MILL (Principi di economia politica, a cura di B. FONTANA, introduzione di G. BECATTINI, I, Torino 1983, p. 357-363): «la proprietà implica semplicemente il diritto di ciascun individuo, uomo o donna, di disporre delle proprie facoltà, di ciò che può produrre per mezzo di esse, e di quello che può ottenere da esse in un equo mercato. […] Che la proprietà di una persona, […] debba passare innanzitutto ai suoi figli, e in mancanza di questi, ai suoi parenti più prossimi, può essere una sistemazione più o meno opportuna, ma non è affatto una conseguenza del principio della proprietà privata». Egli conclude che tutto ciò che «i genitori debbono ai figli, e che lo Stato deve ai figli di coloro che muoiono senza testamento, è un lascito corrispondente a quello che viene riconosciuto come ragionevole nel caso dei figli illegittimi e dei cadetti […]. L’eccedenza, se esiste, ritengo che debba essere a buon diritto avocata dalla società per usarla a scopi di utilità pubblica». 65 MILL, Principi di economia politica, p. 333. 66 Scrive MILL (Principi di economia politica, p. 334) che «anche quello che l’individuo ha prodotto con il suo lavoro personale, senza alcun aiuto da parte di altri, egli non può tenerselo per sé, senza il permesso della società. Non soltanto la società è in grado di toglierlo, ma anche gli altri individui potrebbero portarglielo via». In uno stato sociale, ossia in «qualunque stato […] che non sia di totale isolamento», ogni

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suetudini della società»: essa è determinata da regole frutto di «opinioni […] e sentimenti della parte dominante della collettività» fortemente eterogenei «col variare dei tempi e dei luoghi» 67. Mill continua affermando che tali opinioni e sentimenti del genere umano sono «conseguenze delle leggi fondamentali della natura» combinate a loro volta «con lo stato esistente della cultura e dell’esperienza», nonché con il grado di sviluppo «delle istituzioni sociali» e con la «formazione intellettuale e morale della collettività» 68. A interessare l’autore inglese non sono tanto le cause delle leggi distributive, «materia d’indagine molto più ampia e complessa dell’economia politica», quanto piuttosto le conseguenze di tali leggi. Peraltro, se è vero che la società «può sottoporre la distribuzione delle ricchezze a qualsiasi regola essa ritenga opportuna», è altrettanto provato che i «risultati pratici» derivanti dall’applicazione di tali leggi devono essere confermati «attraverso l’osservazione e il ragionamento», al pari di «qualsiasi altra verità fisica o mentale» 69. I diversi modi di distribuzione del reddito «adottati in pratica» e «concepiti nella teoria» sono influenzati da «quella istituzione fondamentale» che è la proprietà privata. Mill rileva innanzitutto «che le diverse modalità di distribuzione si differenziano a seconda che viga la proprietà privata dei beni» e la conseguente libertà d’iniziativa o, invece, che la «proprietà dei beni sia pubblica» 70 e i criteri di distribuzione siano stabiliti da regole di carattere collettivo. Di entrambi i sistemi egli considera il «dover essere», ossia la «condizione teorica per poter compiere un corretto confronto» 71, in quanto, da un lato il sistema socialista e comunista fondati sulla proprietà collettiva non esistono nella realtà, dall’altro il sistema della proprietà privata così come si presenta dimostra non pochi elementi che ne ostacolano «l’azione benefica» e che sono fonte di «diseguaglianze e in-

atto che riguarda le «cose prodotte non può che aver luogo con il consenso della società, o meglio di coloro che dispongono della forza produttiva della società stessa». Secondo LANDRETH-COLANDER (Storia del pensiero economico, pp. 257-258), se fosse possibile trasporre «in avanti nel tempo la distinzione operata da Mill tra le leggi della produzione e le leggi della distribuzione, così da renderla nei termini della teoria economica moderna […], si ammetterebbe che vi è solo una vaga connessione tra la produttività marginale dei vari fattori della produzione e la distribuzione personale del reddito»; come dire che la società non è in grado di «modificare le funzioni di produzione, ma di fatto ha la capacità di modellare una distribuzione personale del reddito che risponda ai propri giudizi di valore». 67 MILL, Principi di economia politica, p. 334. 68 Ibidem. 69 MILL, Principi di economia politica, p. 335. 70 A. VILLANI, Gli economisti, la distribuzione, la giustizia. Adam Smith e John Stuart Mill, Milano 1994, p. 282. 71 Ibidem.

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giustizie» 72. Egli giunge implicitamente a concludere che il «sistema basato sulla proprietà privata […] si è espresso in modo molto imperfetto» 73, menomato dell’equità che deve contraddistinguere le leggi governanti il processo distributivo 74. In un’economia basata sulla proprietà privata «la divisione del prodotto è il risultato di due fattori determinanti: la concorrenza e la consuetudine» 75. Mill rimprovera gli economisti di enfatizzare il ruolo del primo fattore, pur riconoscendo che la considerazione della concorrenza come elemento regolatore dei salari, delle rendite e dei profitti può permettere di stabilire dei «principi di grande generalità e di rigore scientifico». Sarebbe tuttavia fonte di un «grosso fraintendimento dell’effettivo andamento delle cose umane» l’attribuire alla concorrenza «questo potere illimitato»76. Un simile atteggiamento è «in parte comprensibile, se si pensa che è soltanto attraverso il principio della concorrenza che l’economia politica ha qualche pretesa al carattere di scienza»77. In particolare, nell’analizzare il salario Mill ripete come a determinarne il livello giochino la loro influenza sia la «concorrenza» sia la «consuetudine» 78. Tuttavia, «nell’attuale stato della società, la concorrenza si deve considerare come il principale elemento regolatore dei salari», mentre la «consuetudine o il ca72

Secondo MILL (Principi di economia politica, p. 336-337) «dobbiamo supporre che ogni uomo e ogni donna adulti abbiano assicurato l’uso e la disponibilità illimitata delle proprie facoltà fisiche e intellettuali; e che i mezzi di produzione, la terra e gli strumenti, siano equamente divisi tra loro, in modo tale che, dal punto di vista delle condizioni esterne, essi si trovino in una condizione di assoluta parità». 73 Cfr. VILLANI, Gli economisti, la distribuzione, la giustizia, pp. 285-286. 74 Mill, come sostiene FANFANI (Storia delle dottrine economiche, p. 356), vuole «la riforma della distribuzione istintiva. […] Solo un atto volontario di riforma riuscirebbe a far sì che il naturalismo conservato nel campo produttivo, perché ivi benefico, non producesse squilibri insanabili nel campo distributivo, ove sarebbe insufficiente». 75 MILL, Principi di economia politica, p. 383. 76 Cfr. MILL, Principi di economia politica, p. 385-390; PICHETTO, John Stuart Mill, pp. 53-68. Come osservano LANDRETH-COLANDER (Storia del pensiero economico, p. 270), «il quarto capitolo del libro II dei Principi di economia politica di Mill, Della concorrenza e della consuetudine, accoglie implicitamente la critica di Jones e mostra come Mill riconosca che la teoria economica astratta deve essere accompagnata da una consapevolezza delle istituzioni che storicamente hanno avuto un ruolo predominante». 77 MILL, Principi di economia politica, p. 383. 78 MILL, Principi di economia politica, p. 507. Scrive VILLANI (Gli economisti, la distribuzione, la giustizia, pp. 302-303): «ove invece della concorrenza viga quella che John Stuart Mill chiama “consuetudine”, questa potrà stabilire ad esempio dei livelli salariali tassativi, predefiniti, oppure dei livelli minimi al di sotto dei quali il livello salariale non può scendere. La competizione, se del caso, si potrà svolgere soltanto al di sopra del livello stabilito in base alla consuetudine». A Mill va dato il merito di aver contribuito a due importanti progressi della teoria economica nella considerazione del salario. Sostiene SCHUMPETER (Storia dell’analisi economica, II, p. 661): «egli sottolineò l’importanza dei prezzi consuetudinari, soprattutto per i paesi di più antica civiltà». Inoltre «sia pure giustificandone l’esistenza soltanto con la tradizione, egli sottolineò il fatto che la concorrenza spesso “non raggiunge il massimo”, nel qual caso bisogna apportare una correzione generale, “esplicita o no”, a tutte le conclusioni cui si è pervenuti nell’ipotesi della concorrenza perfetta». Cfr. MILL, Principi di economia politica, p. 387-390.

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rattere individuale» possono essere visti «soltanto come una circostanza che può portare a delle modificazioni di scarsa entità» 79. Mill sostiene l’opportunità di leggi tendenti a «stabilire un livello minimo» del salario, «lasciando che la concorrenza» regoli le variazioni al di sopra di quel minimo» 80. L’analisi milliana, nello stabilire la possibilità di un intervento pubblico in tema di salario, segue principi «che non sono elaborati, definiti, costruiti in modo analitico», bensì «che si possono pensare come principi intuitivi di equità, giustizia [e] umanità». La considerazione della differente natura delle leggi della distribuzione della ricchezza apre altresì la strada, nel pensiero di Mill, all’intervento statale nell’economia. Non vi sono garanzie che il laissez faire «assicuri che la libera scelta razionale del singolo elevi al massimo grado il bene utilitaristico di tutti». Al pari del Toniolo Mill non vuole «uno stato paternalistico o socialista» 81: l’intervento dell’autorità pubblica non deve diventare una regola, bensì un’alternativa alla quale ricorrere in casi del tutto eccezionali 82.

2.

I marginalisti

Il marginalismo segna in un ventennio (dal 1870 al 1890) un «vero e proprio mutamento di paradigma rispetto all’impostazione classica» 83. Volendo operare un’estrema sintesi, si potrebbe affermare che il pensiero classico si era preoccupato di elaborare una teoria del valore fondata su «fattori di tipo oggettivo». Poco spazio, inoltre, era stato ritagliato allo studio delle «problematiche relative alla formazione dei prezzi nel breve periodo» 84, concentrando gli sforzi sull’analisi di lungo periodo e, segnatamente, su quella relativa ai prezzi naturali. 79

MILL, Principi di economia politica, p. 507. VILLANI, Gli economisti, la distribuzione, la giustizia, p. 306. 81 PICHETTO, John Stuart Mill, p. 54. 82 Cfr. O’BRIEN, Gli economisti classici, pp. 413-423; LANDRETH-COLANDER, Storia del pensiero economico, pp. 261-265. 83 Scrive G. PAVANELLI (Valore, distribuzione, moneta. Un profilo di storia del pensiero economico, Milano 2001, p. 147): «nell’arco di soli 3-4 anni, tra il 1871 e il 1874, uscirono in Paesi diversi (rispettivamente l’Inghilterra, l’Austria e la Svizzera), senza che i rispettivi autori fossero a conoscenza del lavoro degli altri, tre opere che hanno gettato le basi teoriche di questo indirizzo scientifico: la Teoria dell’economia politica di William Stanley Jevons; i Principi di economia politica di Carl Menger; gli Elementi di economia politica pura di Léon Walras». Cfr. DASGUPTA, La teoria economica da Smith a Keynes, pp. 109-114; A. RONCAGLIA-P. SYLOS LABINI, Il pensiero economico, temi e protagonisti, Roma-Bari 1995, pp. 31-42. 84 PAVANELLI, Valore, distribuzione, moneta, p. 148. 80

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Abbiamo altresì visto come l’oggetto centrale dei vari studi degli economisti classici fosse la crescita economica di lungo periodo e, in particolare, la ricerca delle cause, delle leggi e delle forze che la determinano. Gli economisti marginalisti (o neoclassici) invertono la scala delle priorità. Il problema principale diviene lo studio dei principi secondo i quali le risorse (date e scarse) vengono allocate in modo ottimale tra usi alternativi nell’ambito di un sistema di mercato. Se poi i classici si erano impegnati nell’analisi della crescita economica di lungo periodo, gli economisti marginalisti elaborano il concetto di equilibrio, ricercandone le «condizioni di esistenza, unicità e stabilità»85. Inoltre i primi marginalisti fondano i propri studi sul nuovo concetto di utilità, considerata «in senso rigorosamente soggettivo» 86, e in particolare definiscono l’utilità marginale e il principio che ne esprime l’andamento decrescente 87. Il nuovo modo di operare proprio degli economisti marginalisti è peraltro intimamente collegato al quadro storico ed economico che in quegli anni viene a delinearsi. Le economie dei Paesi occidentali, infatti, conoscono «una prosperità senza precedenti», il processo di sviluppo e di espansione economica sembra «essere in grado di autoalimentarsi» e di fronte agli effettivi miglioramenti dei livelli del salario reale «gli ammonimenti di Marx e dei suoi predecessori circa le possibili conseguenze negative dello sviluppo sulla condizione delle classi lavoratrici» 88 si rivelano infondati. Sullo spostamento dell’oggetto dell’analisi influisce anche il clima culturale dell’epoca, caratterizzato da una profonda fede nel progresso che appare come un elemento in grado di eliminare le tensioni sociali, anziché esserne una delle cause. I marginalisti attribuiscono «preminenza all’analisi microeconomica», ossia allo studio dei comportamenti economici delle famiglie e delle imprese. Dal loro punto di vista il sistema economico capitalistico non richiede «l’uso del concetto di classe» (proprio dell’analisi classica) e, conseguentemente, è possibile 85

PAVANELLI, Valore, distribuzione, moneta, p. 149. Scrive PAVANELLI (Valore, distribuzione, moneta, p. 149): «è il caso degli alcolici o delle sigarette che non sono certo “utili” se si considerano le conseguenze di tali sostanze sulla salute, ma che possono esserlo per il singolo consumatore, se questi le giudica tali in base ad una valutazione individuale». 87 Ossia, dosi successive di uno stesso bene determinano nel consumatore incrementi di benessere decrescenti. Argomenta GRAZIANI (Teoria economica, prezzi e distribuzione, p. 116) che «questa utilizzazione del prodotto marginale come principio generale della distribuzione (e il corrispettivo uso del concetto di utilità marginale come principio base per la teoria del valore) valsero ai rappresentanti della scuola neoclassica l’appellativo di economisti marginalisti, con il quale essi, non del tutto propriamente, sono passati alla storia». 88 BARBER, Storia del pensiero economico, p. 151. 86

44

costruire «una teoria del sistema economico senza concepirlo come diviso nelle classi contrapposte dei capitalisti e del proletariato». Nel sistema capitalistico pertanto non s’instaurano «rapporti di sfruttamento» ed esso è concepito come un «sistema

equo» 89.

Oltre

all’equità,

tale

sistema

è

caratterizzato

anche

dall’efficienza, nel senso che realizza la migliore allocazione delle risorse disponibili 90. La non considerazione nel modello teorico delle classi sociali significa anche mettere al centro il comportamento dell’uomo (sia pur interpretandolo schematicamente) e affermare che si aprono «vastissimi margini per le scelte coscienti e per l’iniziativa politica nell’ambito del sistema economico» 91. Uno dei cardini dell’intera teoria marginalista è il problema della distribuzione del reddito. Il primo sforzo operato dai marginalisti è quello di ridurre tutti i redditi a redditi da lavoro. Così i profitti vengono visti come il compenso per l’esercizio di un particolare impegno lavorativo: quello che coordina l’attività d’impresa e ne sopporta il rischio. Del pari l’interesse è sì concepito come la remunerazione del capitale investito, ma tale investimento trova origine nel risparmio, che a sua volta deriva da un reddito prodotto in un periodo precedente mediante il lavoro. Effettuata tale sintesi, i marginalisti tentano di dimostrare come, nell’ambito dei redditi da lavoro, ognuno percepisca «una frazione del reddito nazionale commisurata al contributo» fornito alla produzione. In tal modo, la distribuzione del prodotto sociale dipende dai meriti di ciascuno 92. La considerazione che attraverso il lavoro è possibile accumulare capitale postula la possibilità per il lavoratore salariato di diventare imprenditore. In una simile prospettiva l’imprenditore si configura come un lavoratore che in passato ha risparmiato parte del proprio reddito e successivamente l’ha indirizzata all’utilizzo nell’attività produttiva. Si assiste perciò a un avvicinamento delle figure del salariato e dell’imprenditore, affermando un principio di ampia mobilità tra occupazioni dipendenti e indipendenti. Le due categorie, inoltre, sono acco89

GRAZIANI, Teoria economica, prezzi e distribuzione, p. 117. L’efficienza neoclassica è considerata sia in senso tecnico, dando luogo a un’utilizzazione delle risorse senza sprechi e con costi ridotti al minimo, sia in senso economico, in quanto i beni prodotti soddisfano pienamente le richieste dei consumatori. 91 BARBER, Storia del pensiero economico, p. 154. 92 Scrive GRAZIANI (Teoria economica, prezzi e distribuzione, p. 119): «se ogni fattore produttivo, e quindi anche ogni lavoratore, viene retribuito in relazione alla propria produttività, è chiaro che scompare quella relazione necessaria tra salario e livello di sussistenza, che rappresentava una caratteristica del pensiero classico». 90

45

munate dalle motivazioni del loro agire economico, ossia la ricerca del massimo beneficio conseguibile dall’impiego delle risorse disponibili. A variare sono soltanto gli orizzonti temporali: il lavoratore agisce con prospettive di breve periodo, cercando di massimizzare il proprio benessere attraverso il consumo; l’imprenditore, invece, ha una prospettiva di lungo periodo che lo induce al risparmio e all’accumulazione. Uno degli esponenti del pensiero marginalista citato in più occasioni dal Toniolo è Alfred Marshall 93. Limitando la trattazione all’esame dei problemi della produzione e distribuzione della ricchezza, è opportuno ricordare come la teoria neoclassica in tema di produzione si concentri principalmente su due questioni: da un lato, la ricerca dei modi in cui un produttore combina i singoli fattori produttivi; dall’altro, l’analisi delle modalità di risposta poste in essere dall’imprenditore a seguito di una modificazione delle condizioni del mercato 94. Quanto al primo problema, devono essere presi in considerazione gli ambiti nei quali il produttore può operare delle scelte senza vincoli. Posto che questi ha l’obiettivo di massimizzare i propri guadagni e che qualora prevalgano le condizioni della concorrenza egli non può influire sul livello dei prezzi, l’unico modo per massimizzare i propri profitti è minimizzare i costi. La seconda questione è più complessa e richiede, secondo Marshall, la considerazione dell’«elemento tempo, che è fonte di molte delle maggiori difficoltà nell’economia» 95. Per questo egli distingue: 1) il periodo di mercato, nel quale il produttore non è in grado di 93

Sulla considerazione di Marshall come un autore appartenente alla scuola marginalista insistono P. D. GROENEWEGEN-G. VAGGI (Il pensiero economico dal mercantilismo al monetarismo, Roma 2002, p. 235): «Marshall spesso viene in modo alquanto ingannevole raggruppato con Jevons, Menger e Walras tra i fondatori della rivoluzione marginalista. L’iniziale analisi del prezzo di Marshall riprende quelle di Cournot e Mill, e ignora considerazioni sull’utilità, introdotta solamente nel contesto dell’analisi del surplus del consumatore. […] Per questa ragione Veblen descrisse appropriatamente l’approccio di Marshall come “neoclassico”». Non dobbiamo dimenticare che la scuola neolcassica trovò in Italia autorevoli esponenti, quali Maffeo Pantaleoni (1857-1924) e Vilfredo Pareto (1848-1923). Scrive A. SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, Napoli 1990, p. 158), riferendosi al Trattato di economia sociale del Toniolo, che «il discorso del maestro pisano rimaneva […] ancora iscritto entro la grande esperienza dello storicismo economico tedesco. La nuova corrente dottrinaria del marginalismo non solo non risolveva i vecchi problemi, ma addirittura ricostituiva – nella mente del Toniolo – una sterile separazione tra la teoria e la pratica». Cfr. L. MICHELINI, Marginalismo e socialismo: Maffeo Pantaleoni (1882-1904), Milano 1998, pp. 69-115. 94 Le modificazioni delle condizioni del mercato riguardano in particolare i prezzi. Secondo PAVANELLI (Valore, distribuzione, moneta, p. 211) tra i concetti introdotti da Marshall «troviamo» quello «di elasticità della domanda rispetto al prezzo (libro III, cap. 4) nonché la funzione di domanda marshalliana che, come è noto, esprime i prezzi in funzione delle quantità: p=f (q)» dove p indica il livello dei prezzi e q la quantità prodotta. Egli, «al contrario di Walras, che riteneva che fossero i prezzi a modificarsi (istantaneamente) per riportare il sistema in equilibrio», «fa riferimento alle quantità: ogni operatore, per così dire, aveva in mente prezzi “normali” e in base ad essi aggiustava via via le quantità contrattate sul mercato». 95 A. MARSHALL, Principi di economia, a cura di A. CAMPOLONGO, Torino 1972, p. 198.

46

modificare la propria produzione a seguito, ad esempio, di una variazione del livello dei prezzi; 2) il breve periodo, in cui «l’ammontare dei mezzi di produzione è praticamente fisso, e il loro impiego varia con la domanda» 96; 3) il lungo periodo, nel quale «l’afflusso dei mezzi di produzione si adegua alla domanda dei prodotti di quei mezzi» 97. In particolare nel momento di mercato l’offerta si presenta «totalmente anelastica verso l’alto, dato che l’intervallo di tempo è troppo contenuto perché un incremento di offerta arrivi sul mercato» 98. Detto in altri termini, nel tempo di mercato i prezzi non sono influenzati dai costi di produzione. Nel breve periodo il produttore può adeguare il livello della produzione variando il grado di utilizzazione di un determinato impianto 99. Se è prevedibile un incremento duraturo della domanda, l’imprenditore trova conveniente ampliare la propria capacità produttiva (lungo periodo). In tal modo i costi fissi diventano variabili e possono essere introdotte nuove tecnologie. L’analisi operata da Marshall si basa su intervalli periodali fondati su criteri logici e non come avevano fatto i classici, che si erano riferiti esclusivamente al tempo storico. Lo stesso autore, infatti, definisce il lungo periodo come l’intervallo di tempo in cui «tutti gli investimenti di capitale e di sforzi nel provvedere agli impianti materiali e all’organizzazione di un’impresa e nell’acquisire cognizioni tecniche e capacità specializzate, hanno tempo di adeguarsi ai redditi che si prevede di poter ottenere dagli investimenti stessi»100. Una simile definizione apre le porte alla considerazione che la lunghezza di tale periodo dipende dalle caratteristiche delle singole attività industriali o commerciali prese in considerazione. Così il lungo periodo per un’industria produttrice di acciaio è ben più protratto nel tempo rispetto a quello di un esercizio commerciale al dettaglio.

96

MARSHALL, Principi di economia, p. 519, in corsivo nell’originale. MARSHALL, Principi di economia, p. 523, in corsivo nell’originale. 98 GROENEWEGEN-VAGGI, Il pensiero economico dal mercantilismo al monetarismo, p. 240. 99 Scrive MARSHALL (Principi di economia, p. 522): «riassumiamo quanto riguarda i brevi periodi. L’offerta di capacità e di abilità specializzate, di macchine adatte e di altro capitale materiale, e della idonea organizzazione industriale, non ha tempo di adeguarsi pienamente alla domanda; ma i produttori devono adeguare la loro offerta alla domanda come meglio possono, con i mezzi di produzione di cui già dispongono. Da una parte, se la disponibilità di quei mezzi di produzione è deficiente, non vi è il tempo materiale per aumentarli; e dall’altra parte, se quella disponibilità è eccessiva, una parte di essi deve restare imperfettamente occupata, poiché non vi è tempo affinché quella disponibilità possa essere ridotta di molto dal logorio graduale e dalla conversione di quei mezzi ad altri usi». In tal caso la curva di offerta dell’industria dipende dai costi marginali. Essa presenta un andamento crescente in quanto Marshall suppone che questi ultimi crescano al crescere della produzione. 100 MARSHALL, Principi di economia, p. 523. 97

47

Nel libro IV dei Principi di economia (1890) 101, Marshall studia il ruolo dei fattori della produzione (lavoro, capitale e terra), dando particolare rilievo al tema dell’organizzazione industriale. In tal modo egli affronta la questione della divisione del lavoro, affermando che «la specializzazione spinta all’estremo accresce l’efficienza nei gradi inferiori del lavoro, ma non sempre in quelli più elevati». Quando poi l’azione è «ridotta […] a routine», essa può «essere assunta da una macchina» 102. Come il Toniolo, anche Marshall rileva che «le influenze che le macchine esercitano sulla qualità della vita umana sono in parte buone e in parte cattive». La divisione del lavoro e i miglioramenti delle macchine sono «reciprocamente connessi» 103. Un altro aspetto concernente l’organizzazione industriale è la distribuzione territoriale delle industrie, dipendente da «condizioni fisiche, come la natura del clima e del suolo, l’esistenza di miniere e di cave nelle vicinanze» e dal «patrocinio» della «corte» 104. Numerosi sono i vantaggi della localizzazione delle industrie 105. In primo luogo essi si presentano collegati ai «vantaggi che le persone addette allo stesso mestiere specializzato traggono dalla reciproca vicinanza». Si assiste così a una sorta di condivisione delle conoscenze 106. L’industria localizzata, inoltre, offre un mercato locale del lavoro altamente specializzato, cosicché gli imprenditori possono trovare «un luogo ove» esiste la

101

Sui Principi di economia di Marshall v. U. M EOLI , Lineamenti di storia delle idee economiche, Torino 1978, pp.351-359. 102 MARSHALL, Principi di economia, p. 375. 103 MARSHALL, Principi di economia, p. 377. 104 Scrive MARSHALL (Principi di economia, p. 393): «i ricchi quivi adunati domandano merci di qualità particolarmente fini, e ciò attrae gli operai qualificati da una certa distanza ed educa quelli che son già sul luogo». 105 Nota il PAVANELLI (Valore, distribuzione, moneta, p. 212) che «non meno importante è il concetto di distretto industriale sul quale Marshall si sofferma, nel contesto delle problematiche relative alla localizzazione delle attività produttive, nei Principi di economia politica (libro IV, cap. 10) e in Industry and Trade. Con esso, come è noto, si intende attualmente un’area definita in un ambito territoriale circoscritto, con una particolare vocazione produttiva, per lo più a carattere manifatturiero, e caratterizzata da un numero elevato di imprese di dimensioni medio-piccole, da una propria “cultura” (risultante da tradizioni condivise e da un comune atteggiamento verso il lavoro, il risparmio, l’assunzione di rischi), da una specifica rete organizzativa (associazioni economiche, istituzioni creditizie, scuole professionali)». Si tratta di «un concetto molto attuale, che è stato applicato con successo in questi anni all’analisi di alcune tra le più significative realtà produttive italiane». Cfr. P. TIBERI VIPRAIO, I distretti industriali e l’economia politica, in UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE, Atti del convegno Problemi e prospettive dei distretti industriali in Friuli Venezia Giulia, Udine 11 Aprile 1997, a cura di ID., Udine 1997, pp. 21-34. 106 Secondo MARSHALL (Principi di economia, p. 396) «i misteri dell’industria non sono più tali; è come se stessero nell’aria, e i fanciulli ne apprendono molti inconsapevolmente. Il lavoro buono viene giustamente apprezzato, i meriti delle invenzioni e dei perfezionamenti nelle macchine, nei processi e nell’organizzazione generale dell’impresa sono prontamente discussi; se un uomo formula un’idea nuova, questa viene accolta da altri e coordinata con i loro suggerimenti, dando così origine ad altre idee nuove. E frattanto sorgono nelle vicinanze industrie sussidiarie che provvedono a quella principale strumenti e materiali, ne organizzano i traffici, e conducono in più modi all’economia dei materiali che essa adopera».

48

«probabilità di trovare una buona scelta di operai dotati della capacità speciale» 107 da essi richiesta. Marshall tratta anche della «produzione su larga scala» 108, sottolineando come in un grande stabilimento emergano vantaggi «nell’utilizzazione e nel perfezionamento di macchine specializzate, negli acquisti e nelle vendite, nella capacità specializzata e nella suddivisione del lavoro di direzione aziendale» 109. Inoltre si può verificare, nel lungo periodo, una situazione nella quale, all’ampliarsi delle dimensioni degli impianti, i costi medi di produzione decrescono. È il caso delle cosiddette economie di scala crescenti 110. Tale fenomeno, strettamente connesso all’applicazione delle nuove tecnologie, pone un problema delicato, del quale lo stesso Marshall è ben cosciente. L’esistenza delle economie di scala significa che pochi produttori di grandi dimensioni possono produrre le stesse quantità di molti produttori di piccole dimensioni a costi unitari inferiori. Risulta perciò minata alla base una condizione essenziale del mercato di concorrenza perfetta 111. La considerazione dei fattori della produzione, della loro «crescita quantitativa» e delle loro «variazioni di produttività» portano Marshall a formulare le leggi dei rendimenti 112. Storicamente i «rendimenti decrescenti [sono] associati allo sfruttamento delle terre», mentre, a causa dei miglioramenti organizzativi,

107

MARSHALL, Principi di economia, p. 396. MARSHALL, Principi di economia, p. 404, in maiuscoletto nell’originale. 109 MARSHALL, Principi di economia, p. 405, in corsivo nell’originale. 110 Nella considerazione delle economie di scala crescenti l’analisi di Marshall si differenzia da quella dei classici. Essi avevano previsto una prevalente presenza di economie di scala costanti, ossia avevano ritenuto che le dimensioni delle singole imprese non avessero avuto influenza sul livello dei costi medi. Scrive PAVANELLI (Valore, distribuzione, moneta, p. 212): «anche con riferimento al lato dell’offerta Marshall ha introdotto concetti basilari». In particolare «ricordiamo […] le economie di scala, intese quali “economie derivanti da un aumento della scala di produzione di un qualunque genere di merci”, distinte a loro volta di due categorie: quelle dipendenti dallo “sviluppo generale dell’attività produttiva” (economie esterne) e quelle derivanti dalle “risorse delle singole imprese” e dalla “efficienza della loro amministrazione” (economie interne)». 111 Per PAVANELLI (Valore, distribuzione, moneta, p. 213) «occorre ricordare […] che nei Principi Marshall fa riferimento ad un concetto di free competition che appare distante da quello di perfect competition elaborato dagli economisti nel corso degli anni venti e trenta. Secondo lo studioso di Cambridge, in particolare, la concorrenza andava interpretata non tanto in termini di equilibrio quanto come un “processo”, caratterizzato da una continua lotta tra le imprese che nel corso della stessa progredivano o decadevano; i suoi caratteri distintivi, inoltre, erano in primo luogo l’assenza di barriere all’ingresso ed una ampia diffusione delle informazioni tra gli operatori». 112 MARSHALL (Principi di economia, p. 451) afferma che «la legge dei rendimenti crescenti si può enunciare così: un aumento di lavoro e di capitale dà luogo generalmente ad una migliore organizzazione, la quale accresce l’efficienza dell’opera del lavoro e del capitale». 108

49

all’industria si accompagnano rendimenti crescenti 113. Il prezzo di offerta di un determinato bene corrisponde alla «somma dei costi dei vari fattori» che concorrono a produrlo, tra i quali rientrano «i costi di lavoro umano» e quelli «del capitale nel senso di astinenza dal consumo presente». Marshall rileva che «la natura e la tipologia di queste spese di produzione non sono indipendenti dalla scala dell’output» 114. Per i marginalisti il problema della distribuzione del reddito è legato al processo di formazione dei prezzi dei fattori produttivi. Tali prezzi, in situazione di equilibrio, vengono determinati dall’interazione della domanda e dell’offerta. La teoria neoclassica della distribuzione muove dalla definizione del «contributo di una unità di risorsa produttiva». Esso è inteso come «la differenza fra la quantità di prodotto che si è ottenuta applicando quella unità e la quantità che si sarebbe ottenuta senza di quella, ferme restando le quantità applicate di tutte le altre risorse». In altri termini, il contributo dato da qualsiasi risorsa alla produzione è determinato «dalla [sua] produttività marginale» 115 (teoria marginalista della distribuzione). L’analisi di Marshall parte dalla distinzione dei tre fondamentali fattori produttivi (lavoro, capitale e terra) e si caratterizza per la considerazione di un quarto fattore autonomo, ossia la capacità imprenditoriale. Con riferimento ai salari, Marshall sostiene che «il vero prezzo pagato per il lavoro» spesso differisce «di molto, e in modi che non è facile determinare, da quello pagato nominalmente». A tal scopo, egli introduce il concetto di efficienza. I salari devono essere determinati non «in relazione al tempo speso per guadagnarli», né «alla quantità di prodotto ottenuto», bensì con riferimento «all’applicazione di capacità e di efficienza richieste al lavoratore» 116. Nello schema analitico di Marshall il salario è definito «come la remunerazione della fatica umana: una tale definizione non [è] riferita, a differenza di quella classica, 113

Scrive MARSHALL (Principi di economia, p. 452): «i rendimenti crescenti sono una relazione fra una quantità di sforzo e di sacrificio da un lato, e una quantità di prodotto dall’altro». L’esistenza di tali rendimenti era un’evidenza storica, infatti «il volume della produzione ottenuta con un certo ammontare di lavoro e di capitale in un’industria» era «aumentato forse di un quarto o di un terzo negli ultimi vent’anni». 114 GROENEWEGEN-VAGGI, Il pensiero economico dal mercantilismo al monetarismo, p. 238. 115 GRAZIANI, Teoria economica, prezzi e distribuzione, p. 420, in corsivo nell’originale. Così per risolvere il problema della distribuzione della ricchezza è necessario individuare il prodotto marginale di ogni singola risorsa utilizzata. I marginalisti ricorsero alla formalizzazione matematica utilizzando il concetto di funzione di produzione (continua e derivabile). Data tale funzione di più variabili, il prodotto marginale della risorsa è ottenuto calcolando la derivata parziale della stessa funzione rispetto alla risorsa della quale interessa trovare il contributo marginale. Sugli strumenti matematici utilizzati dai marginalisti v. S. RI3 COSSA, Dizionario di economia, Torino 1998 , pp. 293-294 (Marginalismo). 116 MARSHALL, Principi di economia, p. 729.

50

ai soli pagamenti di salario alla classe operaia» 117, bensì comprende anche quel particolare compenso definito come salario per il lavoro di direzione. Nella dottrina marginalista il salario risulta «uguale alla produttività marginale del lavoro» 118. Accettata tale impostazione, resta «automaticamente escluso ogni spazio economico per le rivendicazioni salariali della classe lavoratrice». Tutto, anche il salario, viene determinato nel momento in cui il sistema economico raggiunge l’equilibrio e ogni azione dei lavoratori volta a migliorare il livello del salario resta priva di giustificazione economica. C’è di più: se i lavoratori riuscissero ad ottenere un salario superiore alla produttività marginale del lavoro, ciò comporterebbe una reazione degli imprenditori volta ad aumentare la produttività stessa. Poiché, nel breve periodo, il modo più diretto per risollevare la produttività è diminuire il numero degli occupati, «lo sbocco delle rivendicazioni sindacali eccessive» non può essere che «quello della disoccupazione diffusa»119. Inoltre, in chiara contrapposizione con le teorie marxiste, la remunerazione del lavoro secondo la sua produttività è argomento sufficiente per eliminare i sospetti di sfruttamento della classe lavoratrice. Manca altresì nella teoria marginalista ogni riferimento al livello di sussistenza del salario, tipico dell’analisi classica. Marshall,

inoltre,

non

condivide

le

leggi

di

Malthus,

che

affermano

l’impossibilità di un miglioramento del livello dei salari a causa della crescita della popolazione. Egli, coerentemente con l’assunto dell’uguaglianza del salario alla produttività marginale, sostiene che i lavoratori possono aumentare le loro retribuzioni a seguito dei miglioramenti nella produttività del lavoro conseguenti all’accrescimento delle loro abilità e del rispetto di se stessi. Con riferimento all’interesse, Marshall distingue quello netto da quello lordo. L’interesse netto è la «ricompensa dell’attesa», in pratica la remunerazione del sacrificio derivante dall’astensione dal consumo attuale in vista di un guadagno

futuro 120. 117

L’interesse

lordo

include,

invece,

altri

elementi,

quali

BARBER, Storia del pensiero economico, p. 165. Per M. DARDI (Il giovane Marshall: accumulazione e mercato, Bologna 1984, p. 180) «quando Marshall insiste che l’eguaglianza fra salario e “prodotto marginale netto” non deve essere intesa come una teoria del salario, vuole proprio dire che quest’uguaglianza non rappresenta per lui una scoperta, ma solo un’ovvia deduzione da un principio noto e generalmente accettato. Se la concorrenza tende a eguagliare i prezzi ai costi al margine di produzione, la retribuzione unitaria di ogni tipo di lavoro risulta tendenzialmente uguale al valore del prodotto marginale al netto delle retribuzioni di tutti gli altri fattori ad esso complementari». Cfr. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, III, pp. 1158-1159. 119 GRAZIANI, Teoria economica, prezzi e distribuzione, p. 427. 120 Argomenta SCHUMPETER (Storia dell’analisi economica, III, p. 1138): «Marshall non ebbe alcuna difficoltà a formulare una spiegazione dell’interesse che tenesse conto dell’astinenza […]. In realtà, 118

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«l’assicurazione contro i rischi sia reali che personali» e un «elemento di guadagno di direzione» 121. In particolare i rischi possono configurarsi come «commerciali», derivando da «fluttuazioni del mercato delle materie greggie e dei prodotti finiti, da mutamenti imprevisti nella moda, da nuove invenzioni, dall’invasione di nuovi potenti rivali», o come «rischi personali»122 inerenti il carattere e le capacità di chi prende a prestito del denaro. Tali elementi implicano che, a differenza dell’interesse netto, quello lordo non tenda «all’uniformità». I fondamenti della teoria marginalista della distribuzione applicati all’interesse conducono ai medesimi risultati dell’analisi del salario. Il tasso di interesse pertanto risulta essere determinato dalla produttività marginale del capitale investito. Esso presenta un «duplice fondamento»: uno «economico», derivando «dal maggior prodotto» che si è «potuto realizzare grazie all’apporto del nuovo capitale investito»; l’altro «sociale, o etico», poiché rappresenta «la remunerazione di un sacrificio» 123. Gli economisti marginalisti hanno inoltre sempre sostenuto come le attività di risparmio e di investimento non siano esclusive dell’imprenditore, bensì frutto di scelte riguardanti l’utilizzazione del reddito che tutti i soggetti economici possono effettuare. La rendita, infine, è collegata al contributo dato alla produzione dalla terra, ma, mentre i classici hanno fatto esclusivamente riferimento ai terreni agricoli, i marginalisti danno rilievo anche al valore delle «aree fabbricabili del suolo urbano» 124. Infatti, Marshall condivide l’asserto generale dei classici secondo il quale le rendite manifestano la tendenza a crescere. Egli però ricollega tale fenomeno alla crescente domanda di edifici ad uso industriale e abitativo. L’applicazione delle nuove tecnologie in agricoltura apre le porte a prospettive di incrementi della produttività tali da prevenire una ridistribuzione del reddito a favore dei proprietari di terreni agricoli. Totalmente nuovo è il concetto di «quasi

egli riuscì a risuscitare la teoria della produttività e a metterla in relazione con l’elemento astinenza. Se il capitale fisico deve dare non solo compensi, ma anche compensi netti, qualcosa deve impedire che esso venga prodotto fino al punto in cui i suoi guadagni non farebbero altro che coprire il suo costo. L’astinenza fornisce il modo – logicamente – di svolgere la funzione di questo qualcosa». 121 Scrive MARSHALL (Principi di economia, p. 776): «gran parte di ciò che il mutuatario considera interesse, non costituisce, dal punto di vista del mutuante, che il guadagno dell’amministrazione di un affare pieno di preoccupazioni». E ancora «l’attività di un monte di prestiti su pegno non implica quasi alcun rischio; ma i prestiti che vi si fanno sono generalmente al saggio del 25 per cento all’anno o più; la maggior parte del quale è in realtà guadagno di amministrazione di un’attività piena di molestie». 122 MARSHALL, Principi di economia, p. 777. 123 GRAZIANI, Teoria economica, prezzi e distribuzione, p. 429. 124 BARBER, Storia del pensiero economico, p. 165.

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rendita», intendendo per essa «il reddito derivante dalle macchine e da altri strumenti di produzione costruiti dall’uomo» 125. Ciascuna macchina può pertanto produrre «un reddito» avente «natura di rendita». Non è possibile a rigore parlare «di interesse prodotto da una macchina» e qualora si utilizzi tale termine deve farsi riferimento «non alla macchina stessa, ma al suo valore monetario» 126. In una tale ridefinizione delle componenti del reddito totale scompare la definizione dei profitti. L’esistenza di profitti puri (ossia di un compenso per gli imprenditori eccedente il salario per il lavoro di direzione e l’interesse sul capitale) è indice o di una situazione di disequilibrio temporaneo o della presenza di un monopolio. Su tale argomento non tutti i marginalisti concordano e le soluzioni trovate si presentano eterogenee. Gli economisti ortodossi negano l’esistenza del profitto, poiché ogni impresa produce a costi medi minimi incassando un prezzo pari al costo medio del prodotto. Nella prospettiva di Marshall non trova però posto «l’idea di una posizione di equilibrio ideale» 127. Ogni impresa infatti è dotata di specifiche curve di costo e a ciascuna corrisponde un determinato costo medio minimo. Anche in equilibrio, quindi, possono esistere dei profitti. Tali profitti trovano giustificazione nel fatto che l’imprenditore svolge un «lavoro qualitativamente diverso» 128 da quello dipendente. Il lavoro dell’imprenditore costituisce pertanto un’attività diversa, un quarto fattore di produzione che come tale va retribuito col profitto. Definito il criterio d’imputazione del reddito, le forze della domanda e dell’offerta determinano le remunerazioni spettanti ai detentori dei vari fattori produttivi. Ciascuno dei mercati (quello del lavoro come quello dei capitali) presenta necessariamente delle caratteristiche proprie. I lavoratori, ad esempio, non sono certo dotati della stessa abilità. Il mercato è però in grado di attribuire a ciascuno quanto spettante, risultando così capace di valutare il diverso contributo 125

MARSHALL, Principi di economia, p. 152. Scrive MARSHALL (Principi di economia, p. 152): «ad esempio se il lavoro compiuto da una macchina che è costata 100 sterline vale 4 sterline nette all’anno, quella macchina frutta una quasi-rendita di 4 sterline, che equivale all’interesse del quattro per cento sul suo costo originario; ma se la macchina vale oggi 80 sterline soltanto, essa rende il cinque per cento sul suo valore attuale». Sostiene SCHUMPETER (Storia dell’analisi economica, III, p. 1149) che «molto più importante comunque fu una delle sue [di Marshall] più felici creazioni, il concetto di quasi-rendita o “reddito di un mezzo di produzione già costruito dall’uomo”, che implica il riconoscimento di due fatti particolarmente importanti: il fatto che ogni prezzo pagato per i servizi dei beni capitali è strettamente analogo al prezzo pagato per i servizi degli agenti naturali; e il fatto che questa analogia vale particolarmente per il breve periodo e diminuisce con l’aumento del periodo di tempo a cui si vuol riferire la proposizione». 127 Cfr. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, III, pp. 1284-1285. 128 GRAZIANI, Teoria economica, prezzi e distribuzione, p. 433. 126

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dato dai singoli lavoratori. Più complessa è la questione della remunerazione dell’interesse. Occorre distinguere il fondo dei capitali già accumulati dal flusso dei nuovi investimenti. Infatti, finché il capitale è «libero», e sia «nota la somma di moneta o di potere generale di acquisto che esso mette a disposizione», l’interesse è immaginabile come un rapporto «rispetto alla somma investita» (il quattro, il cinque o il dieci per cento). Quando invece il capitale libero si trova immobilizzato «in una data cosa», il suo valore monetario può essere determinato solo «capitalizzando il reddito netto» futuro. In tal caso le «cause» 129 che regolano l’interesse sono simili a quelle che determinano la rendita. Così «quello che si considera giustamente come interesse sul capitale “libero” o “fluttuante”, o sui nuovi investimenti di capitale» può essere trattato in modo più opportuno «come una specie di rendita – una quasi-rendita – sui vecchi investimenti di capitale» 130. La scuola classica dell’economia si è caratterizzata per il carattere prettamente anglosassone dei suoi esponenti. La scuola marginalista, invece, pur riconoscendo a Marshall un ruolo centrale nello sviluppo del suo pensiero, ha visto fiorire in diverse nazioni elaborazioni degli stessi temi, anche con risultati in parte diversi. In particolare va menzionato il contributo della scuola neoclassica di Losanna con l’opera di Léon Walras. Autore francese vissuto però per diversi anni in Svizzera, Walras affronta le tematiche proprie della scuola neoclassica, utilizzando una impostazione del tutto diversa rispetto a quella di Marshall. Il suo interesse è fornire, grazie al rigore analitico e alla perfezione formale, una spiegazione dei fenomeni di determinazione del prezzo di equilibrio in regime di concorrenza perfetta. Aspira altresì a dare dignità scientifica all’economia politica esprimendo il funzionamento del sistema economico in termini matematici. Walras, il cui obiettivo è pervenire a una rappresentazione del regime di concorrenza perfetta indicandone tutte le implicazioni, sostiene che molti economisti si sono persuasi con troppa facilità dei vantaggi del laissez faire. Nel suo lavoro Elementi di economia politica pura (1874) egli si chiede come possono «gli economisti dimostrare che i risultati della libera concorrenza» sono «buoni e vantaggiosi senza sapere esattamente» quali siano «questi risultati». Egli sostiene che «il fatto che gli stessi economisti» abbiano «esteso al di là della sua vera portata […] il principio della concorrenza» è un evidente segno della sua mancata dimo129 130

MARSHALL, Principi di economia, p. 565. MARSHALL, Principi di economia, p. 566.

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strazione. Altro aspetto peculiare della sua opera è la ricerca di un procedimento analitico grazie al quale sia possibile arrivare alla determinazione dell’equilibrio in tutti i mercati, ossia l’equilibrio generale. Egli formula così la «legge di realizzazione dei prezzi d’equilibrio» secondo la quale «date due merci, perché ad esse vi sia equilibrio del mercato, o prezzo stazionario dell’una in termini dell’altra, è necessario e sufficiente che la domanda effettiva di ognuna di queste merci sia uguale alla sua offerta effettiva». Qualora tale uguaglianza non si verifichi «per arrivare al prezzo di equilibrio occorrono un aumento del prezzo della merce la cui domanda effettiva è superiore all’offerta effettiva, e una riduzione del prezzo di quella la cui offerta effettiva è superiore alla domanda effettiva»131. Il rapporto di equilibrio tra i prezzi è dunque stabilito dal meccanismo della concorrenza 132. Secondo Walras, dimostrato che la concorrenza perfetta è in grado di «conseguire risultati ottimali», il compito delle autorità governative è di «preservare e garantire al livello giuridico-istituzionale una sostanziale libertà di iniziativa economica» 133. Ciò che in questa sede interessa sottolineare è che l’autore francese sostiene «con tenacia l’esigenza di radicali riforme sociali» aventi l’obiettivo di garantire a «tutti i soggetti pari opportunità» nell’ottica di una riduzione delle «diseguaglianze esistenti» 134. Trattando dei problemi della produzione e distribuzione della ricchezza va ricordato, nell’ambito degli autori che hanno apportato dei perfezionamenti alla teoria neoclassica, il contributo dato dal filone americano, e in particolare da John Bates Clark. Egli accetta l’impostazione della scuola neoclassica in tema di produzione e di distribuzione della ricchezza 135, ma è cosciente che le circostanze 131

L. WALRAS, Elementi di economia politica pura, traduzione di A. BAGIOTTI, introduzione di G. PALOMBA, Torino 1974, p. 186, in corsivo nell’originale. 132 L’analisi vista ora si riferisce a un ipotetico caso in cui sono considerati solo due beni. Il metodo elaborato da Walras è di facile generalizzazione. Nel caso di n beni il numero dei rapporti di cambio che devono essere determinati attraverso il meccanismo della concorrenza è n-1. Cfr. MEOLI, Lineamenti di storia delle idee economiche, p. 336. 133 PAVANELLI, Valore, distribuzione, moneta, p. 196. Cfr. WALRAS, Elementi di economia politica pura, pp. 360-361. 134 Cfr. PAVANELLI, Valore, distribuzione, moneta, pp. 197-198. 135 BARBER (Storia del pensiero economico, p. 191) sostiene che «secondo l’impostazione tipica di questa scuola, […] il produttore che agiva razionalmente avrebbe impiegato ciascuno dei tre fattori della produzione sino al punto in cui il prezzo marginale dell’ultima unità di ognuno di essi era uguale al suo prodotto marginale. Questi criteri della produzione determinavano immediatamente la distribuzione del reddito tra le varie componenti funzionali; e, poiché in condizioni di concorrenza perfetta non si realizzavano profitti eccedenti la norma, la soluzione distributiva risultante dava luogo […] alla allocazione dell’intero valore del prodotto totale».

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del mondo reale sono ben diverse da quelle prospettate teoricamente dal regime di concorrenza perfetta. Il quadro economico si è, infatti, complicato a causa del sorgere delle concentrazioni industriali e delle rivendicazioni dei sindacati. Da un lato la forza contrattuale degli imprenditori può portare questi ultimi a pagare salari inferiori alla produttività marginale del lavoro 136; dall’altro è anche possibile che le pressioni sindacali siano tali da strappare nel breve periodo un salario maggiore del valore della produttività marginale del lavoro. Infine, sempre nell’ambito degli sviluppi internazionali del pensiero neoclassico, vanno ricordati gli apporti della scuola austriaca e, segnatamente, di Eugen von Böhn-Bawerk sui temi dell’interesse e del capitale, nonché della corrente svedese con gli studi compiuti da Knut Wicksell.

3.

Tre maestri

Nella formazione scientifica di Giuseppe Toniolo riveste fondamentale importanza il magistero di Angelo Messedaglia, Luigi Luzzatti e Fedele Lampertico. Il primo è uno dei professori del Toniolo quando nel 1863 si iscrive alla Facoltà politico-legale dell’Università di Padova 137. Riflettendo sul ruolo del Messedaglia, il Toniolo dichiara che è stato lo studioso veronese a introdurlo nei «massimi problemi economici» e a indicargli come «dominarli dal punto di vista 136

Clark giungeva alla definizione neoclassica di sfruttamento. Tale conclusione non deve farci pensare che Clark faccia sua l’accezione marxiana del termine. Lo sfruttamento dei lavoratori non era insito nel sistema capitalistico, era piuttosto una possibilità concreta, ma che poteva avverarsi solo nel caso in cui tale sistema si fosse allontanato dai requisiti della concorrenza perfetta. Cfr. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, III, p. 1125, nota 15. 137 Come ricorda F. VISTALLI (Giuseppe Toniolo, Roma 1954, p. 40) in quell’anno «lo Studio politico giuridico del suo corso risultava così composto per la parte del corpo insegnante: Dott. Antonio Volpi: direttore; Dott. Gianpaolo Tolomei: Prof. Ordinario d’enciclopedia delle Scienze giuridiche-politiche, di Filosofia e di Diritto e Procedura Penale austriaca; Ab. Dott. Giambattista Pertile: Prof. Ordinario di Diritto Canonico; Dott. Giuseppe Antonio Dalluschek: Prof. Ordinario di Diritto Commerciale Cambiario, Marittimo e di Legislazione finanziaria; Dott. Filippo Salomoni: Prof. Ordinario di Procedura Civile, Notariato e stile degli affari: Dott. Luigi Bellavite: Prof. Ordinario di Diritto Civile Austriaco; Dott. Angelo Messedaglia: Prof. Ordinario di Economia Politica, di Scienza della pubblica amministrazione, di Teoria della Statistica e di Statistica generale d’Europa; Dott. Antonio Pertile: Prof. Ordinario di Storia del Diritto e del Diritto feudale; Dott. Antonio Tonzig: Prof. Ordinario di Contabilità di Stato; Dott. Jacopo Silvestri: Prof. Straordinario di Diritto Amministrativo austriaco e della Statistica austriaca». Sul ruolo svolto dagli altri docenti del Toniolo nella sua formazione culturale e, segnatamente, con riferimento agli insegnamenti di Giambattista Pertile, Luigi Bellavite, Giampaolo Tolomei, v. P. PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo. Saggio sulla cultura cattolica tra ’800 e ’900, Bologna 1981, pp. 22-33. Cfr. D. SORRENTINO, Giuseppe Toniolo. Una chiesa nella storia, Cinisello Balsamo 1987, pp.40-50.

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superiore della scienza universale» 138. Per Messedaglia, infatti, le singole scienze interagiscono tra loro e nessuna di esse può considerarsi autosufficiente. In lui confluiscono «profonda preparazione di cognizioni matematiche», un «prezioso corredo di dottrine fisiche e naturali», nonché «tesori di cultura storica» essendo egli ammiratore del Roscher e della sua scuola. Il suo metodo è «sanamente positivo», ma senza la «grossolanità rigida e materiale [della] metodologia positivistica» 139. Nei suoi scritti, «non copiosi ma meditati», traspare una «nota di originalità» nutrita appunto dalla diversità e ricchezza «dei presidi di cui poteva valersi» 140. Una tale «fiducia nella costruttiva interazione di scienze diverse» si rinviene, a giudizio del Toniolo, nella «critica che l’economista veronese porta alla teoria malthusiana della popolazione» 141. Analizzando la teoria di Malthus, il Messedaglia afferma che, una volta considerate esatte le condizioni assunte dall’autore inglese, il principio di popolazione può ritenersi vero. Occorre però verificare la fondatezza dei presupposti di partenza, ossia della costanza e uniformità della forza riproduttiva indipendentemente dai tempi e dai luoghi. Tale verifica può essere operata attraverso il metodo deduttivo (vale a dire seguendo un

procedimento

logico-matematico)

o

tramite

quello

induttivo

(basato

sull’esperienza). Malthus ipotizza l’esistenza di due diverse progressioni: una aritmetica, riguardante la crescita delle sussistenze; l’altra geometrica, riferita alla crescita della popolazione. I metodi menzionati applicati allo studio delle due progressioni rivelano che esse non sono esattamente formulate, perché l’azione stessa della progressione aritmetica sulla progressione geometrica fa sì che quest’ultima si trasformi durante il suo svolgimento in una serie aritmetica 142. La costanza della forza riproduttiva si basa su di un’«astrazione», e tale astrazione a sua volta «ha per base un’ipotesi» 143. Ecco allora che la progressione geometrica «quale espressione della legge naturale […] d’incremento della popolazione» può considerarsi vera «soltanto nell’ipotesi che la forza riproduttiva si mantenga co138

TRF, p. 480. Ibidem. 140 TRF, p. 482. 141 PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo, p. 35. 142 Argomenta, infatti, A. MESSEDAGLIA (Della teoria della popolazione principalmente sotto l’aspetto del metodo. Malthus e dell’equilibrio della popolazione colle sussistenze, Verona 1858, ristampato in A. MESSEDAGLIA, Opere scelte di economia e altri scritti, I, Verona 1920, pp. 311-429. La citazione è a p. 358) che «svolgendo […] le due serie per porre al confronto i termini corrispondenti, l’autore [Malthus] non avrebbe avvertito che dal momento che si considerano unite, cessano d’essere indipendenti, e l’una concorre a modificare i termini dell’altra». 143 MESSEDAGLIA, Opere scelte di economia e altri scritti, I, p. 347. 139

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stante». Tale costanza o uniformità non è «dimostrata in via generale»; essa è semmai un’«ipotesi provvisoria» e non certo una «legge assoluta [e] indeclinabile di

natura» 144.

Del

pari

la

progressione

aritmetica

quale

«espressione

dell’incremento di fatto delle sussistenze» è arbitraria. Nella realtà le sussistenze non seguono nel loro incremento «una progressione aritmetica, né qualsiasi altra progressione numerica a legge costante» 145. Inoltre, secondo Messedaglia Malthus sottovaluta l’elemento demologico. Le tradizioni di un popolo non influiscono forse sul tasso di natalità? E le convinzioni morali o i contesti economici, così come le condizioni riguardanti il clima o le caratteristiche della razza, non fanno sentire la loro influenza in tali questioni? 146 Il Messedaglia pone alla base della sua trattazione da un lato la valutazione teorica e dall’altro la verifica empirica del fatto stesso: l’osservazione diviene così una costante del momento conoscitivo 147. Ogni sapere non può che derivare da un’analisi compiuta sostituendo alla «deduzione», l’«induzione»; ai principi «assunti a priori» o in conformità ad astrazioni riferite a singoli fatti tutt’altro che verificati, «l’analisi imparziale e possibilmente compiuta»; alle «leggi teoretiche […] che presuppongono una semplicità di rapporti che non si verifica nella realtà», le leggi «empiriche dapprima […] parziali, condizionate, mutabili colle circostanze, ma [poi] praticamente vere» 148. Nella prolusione Della scienza nella età nostra, letta a Padova nel 1873 149, il Messedaglia «tratteggia» i caratteri propri dell’età a lui contemporanea, seguendo sempre la sua «duplice vocazione alla universalità e alla sintesi» e dimostrando la capacità di indagare tanto «i più alti culmini delle scienze pure» quanto le «ultime applicazioni dell’arte operativa» 150. «L’indole mentale» del maestro è permeata, così come emerge anche in un’altra prolusione letta a Roma nel 1890 e intitolata Dell’economia politica in relazione con la sociologia, di «universalità» e di «potenza sintetica», e insegna a ricollegare i progressi di ogni scienza 144

MESSEDAGLIA, Opere scelte di economia e altri scritti, I, p. 400. MESSEDAGLIA, Opere scelte di economia e altri scritti, I, p. 355. 146 Cfr. MESSEDAGLIA, Opere scelte di economia e altri scritti, I, pp. 366-369. 147 Infatti il MESSEDAGLIA (Opere scelte di economia e altri scritti, I, p. 351) sostiene, riferendosi alla supposta costanza della forza riproduttiva, che non vi è «che l’esperienza e la discussione razionale dei fatti che possa erudirci su questo punto. Solo per questa via ci è dato conoscere fino a qual termine una certa azione può ammettersi come costante, o quale sia in ogni caso il modo della sua variazione». 148 MESSEDAGLIA, Opere scelte di economia e altri scritti, I, p. 392. 149 A. MESSEDAGLIA, Della scienza nell’età nostra ossia dei caratteri e dell’efficacia dell’odierna cultura scientifica, ristampato in MESSEDAGLIA, Opere scelte di economia e altri scritti, I, pp. 3-35. 150 TRF, pp. 482-483. 145

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«all’unità dello scibile» 151. Il debito culturale del Toniolo nei confronti del Messedaglia riguarda le «metodologie operanti all’interno delle scienze che hanno per oggetto l’uomo, nella più ampia accezione del termine» 152. Il Messedaglia invita i suoi studenti, e pertanto anche il Toniolo, ad attuare «uno scavo critico sul concetto di scienza quale “organismo compiuto”, sulle finalità della cultura, sul primato dell’uomo considerato nella sua “spirituale integrità”, e infine […] sulla necessità di rigettare ogni provincialismo, accedendo alle problematiche più dibattute della cultura europea» 153. Il Toniolo afferma che non deve sorprendere se «giovani e uomini» usciti dalla scuola del Messedaglia e prese «direzioni dottrinali [tra] le più varie e talora opposte», abbiano continuato a «riconoscerlo e riverirlo come maestro». Egli lascia nella storia delle scienze economiche «tracce […] indelebili» e così, conclude il Toniolo, «non vi ha certamente alcuno e men che mai quest’ultimo fra i suoi discepoli, che (pur non accettandone tutti indistintamente i concetti) seguì per più anni amorosamente i suoi corsi, e che ebbe la ventura, anzi l’invidiato onore di supplirne per qualche tempo l’insegnamento all’ateneo di Padova, non vi ha alcuno, ripetiamo, che non senta oggi il dovere di professare pubblicamente all’indimenticabile maestro ammirazione e riconoscenza imperiture» 154. Nella prelezione intitolata Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche, letta il 5 dicembre 1873 155, il Toniolo riconosce il valore della «presenza di uomini illustri» che, «con animo grato e reverente», definisce «maestri, venuti a confortare il discepolo che scioglie il passo nella via da loro luminosamente percorsa». Egli continua rinviando agli «splendidi saggi» da loro realizzati e cita, in particolare, sia la «prolusione del prof. Angelo Messedaglia, 151

TRF, p. 483. PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo, p. 36. A tal proposito trattando della critica alla teoria della popolazione di Malthus, il MESSEDAGLIA (Opere scelte di economia e altri scritti, I, p. 402) scrive: «non si tratta di constatare un principio teoretico, formolato a priori, o desunto da alcune vedute generalissime; bensì di ricercare anzi tutto le leggi reali, di fatto, le leggi empiriche, come si usa dire, alle quali obbedisce la popolazione ne vari stadi del suo incivilimento, fra le varie influenze fisico-morali cui può soggiacere». E ancora (ivi, p. 404) «conviene mutar di metodo; […] elaborare grado grado i fatti, preparare con essi i fondamenti alle teorie; avere, colla fede del bene, anche la pazienza dell’osservazione e la modestia del proprio intelletto». 153 P. PECORARI, Sull’opera economica del giovane Toniolo, in Giuseppe Toniolo tra economia e società, a cura di P. PECORARI, Udine 1990, pp. 19-20. 154 TRF, p. 484. Scrive PECORARI (Giuseppe Toniolo e il socialismo, p. 36): «facciamo pure la debita parte al tono commemorativo dello scritto, ma non andremo lontani dal vero valutando queste parole del Toniolo per ciò che in sostanza esprimono: il riconoscimento della funzione di stimolo, e quasi maieutica, che il magistero del Messedaglia ha esercitato sulla sua formazione». 152

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letta il 23 novembre 1873, nella solenne apertura degli studi del corrente anno accademico», sia la «prelezione al Corso di diritto costituzionale ed allo Studio comparato delle costituzioni dei principali Stati tenutasi nel giorno successivo dal prof. Luigi Luzzatti»156. Anche Dei fatti fisici e dei fatti sociali nei riguardi del metodo induttivo 157 si apre con una citazione ripresa «da una delle pregevolissime pubblicazioni dell’on. Prof. M ESSEDAGLIA , Della teoria della popolazione principalmente sotto l’aspetto del metodo» 158, per definire il metodo induttivo come «quel metodo […] “che non disdegna le sintesi, ma le prepara sicure ed adeguate; che non rifiuta l’impero e la direzione dei principi massimi, […] ma sta in guardia di continuo contro il pericolo di scambiare il subbiettivo per l’obiettivo, i concetti, le fantasie, i desideri, per la realità indipendente ed indeclinabile delle cose”» 159. Sono numerosi i rinvii che, nel medesimo testo, il giovane Toniolo fa alle diverse opere del maestro, rifacendosi ad esse per definire la società «qual complesso di tutte le funzioni spontanee delle umane aggregazioni»160, come pure per non incorrere nella pretesa di «cogliere d’un tratto la legge tutta intera, anche là dove non v’ha che una parziale manifestazione della stessa» o di attribuire carattere di verità a ciò che è «espressione comprensiva di fatti particolari» 161, rivelando ancora una volta la natura spiccatamente metodologica del debito culturale nei confronti del maestro. L’insegnamento del Messedaglia, giova ripeterlo, ha portato il Toniolo alla consapevolezza che le scienze sociali e, segnatamente l’economia, «hanno bisogno di confrontare con i dati della esperienza i teoremi formulati in modo astratto». Tale modo di procedere collima, dal punto di vista metodologico, con quello dello storicismo economico tedesco «nella linea della “vecchia” scuola di Wihlem Roscher, Karl Knies e Bruno Hildebrand» 162. E proprio quello tedesco di 155

G. TONIOLO, Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche, Padova 1874, ristampato in TTE, II, pp. 266-292. 156 TTE, II, p. 267, nota 1. Il Toniolo continua così: «ad ambedue questi illustri uomini, che ebbi l’onore di avere a maestri nelle discipline sociali, mi è grato di protestare i miei sensi di reverenza e gratitudine» (TTE, II, p. 267, nota 1). 157 G. TONIOLO, Dei fatti fisici e dei fatti sociali nei riguardi del metodo induttivo, «Archivio giuridico» 10 (1872), pp. 178-212, ristampato in TTE, II, pp. 219-265. 158 TTE, II, p. 220. 159 TTE, II, p. 219. 160 TTE, II, p. 245. 161 TTE, II, p. 253. 162 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 41. Cfr. I CERVELLI, Lo storicismo economico tedesco dell’Ottocento nei suoi rapporti con la storiografia, in Contributi alla conoscenza del pen-

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Roscher sarà «l’orizzonte privilegiato di riferimento» 163 del Toniolo. Del Roscher il Toniolo riconosce la capacità di aver contribuito «alla analisi e formulazione dello sviluppo concreto» delle leggi «astratte, assolute, universali, figlie del sentimento individuale dell’utile» che «il dogmatismo dottrinale» 164 aveva elaborato. L’opera dello studioso tedesco attesta che egli è il «fondatore della scuola storico-economica», avendo utilizzato dei principi metodologici «nell’elaborazione dell’economia, i quali tutti fanno capo almeno implicitamente al concetto ontologico, che cioè le leggi sociali abbiano un carattere puramente relativo, negando l’esigenza di rapporti generali e costanti». Non mancano però in Roscher le influenze, forse assunte inconsciamente, dello «spirito delle dottrine hegeliane»165, «ancorché senza gli approdi al relativismo e al razionalismo esasperati che vizierebbero l’opera dello Schmoller» 166. Infatti, il proposito del Roscher «appare […] essere quello di ammettere in mezzo alle multiformi vicende storiche delle civiltà un assetto tipico dell’ordine economico». Egli non vuole rifiutare le «leggi economiche più generali e costanti che formano il fondo della scuola classica inglese», quanto piuttosto dimostrare che «la manifestazione concreta di quelle leggi» non è omogenea «in tutte le età storiche e presso i popoli più disparati» 167. Quello di Roscher è un operare senza apriorismi che ritroviamo anche nel Toniolo, perché «la concezione economico-individualistica non ha [in lui] un antagonista per partito preso, ma un perspicuo e obiettivo sceveratore di ciò che in essa è e di ciò che in essa non è accettabile» 168. L’opera del Roscher, proprio per il suo modus operandi, è ben lontana «da quell’istorismo svoltosi sopra di lui […], il quale nega ogni legge eterna e immutabile, fuorché quella del perpetuo divenire». Tale «istorismo» cela «il panteismo filosofico, teoricamente materialista, praticamente immorale»,

del

quale

lo

studioso

tedesco

si

«rammaricava

nell’intimo

dell’animo» 169. In verità lo stesso Toniolo pur non lasciando più «l’alveo dello storicismo» economico finirà per non condividere le estreme conseguenze alle siero di Giuseppe Toniolo, Atti del convegno Economia e società nella crisi dello Stato moderno: il pensiero di Giuseppe Toniolo, 18-19 dicembre 1981, Pisa 1984, pp. 117-138. 163 PECORARI, Sull’opera economica del giovane Toniolo, p. 21. Cfr. PECORARI, Giuseppe Toniolo e socialismo, pp. 38-40. 164 G. TONIOLO, Cenni commemorativi: Guglielmo Roscher, «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie» 5 (1894), pp. 522-525, ristampato in TRF, pp. 454-459. 165 TRF, p. 456. 166 PECORARI, Sull’opera economica del giovane Toniolo, p. 21. 167 TRF, pp. 456-457. 168 F. MARCONCINI, Profilo di Giuseppe Toniolo economista, Milano 1930, p. 60. 169 TRF, p. 458.

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quali, esasperando i «caratteri di relativismo scientifico insiti nelle premesse storicistiche del Roscher, la “giovane” scuola storica giungerà» 170. Sarà proprio la «particolare concezione della scienza, positiva e razionale insieme, ricevuta dal Messedaglia», a far intuire al Toniolo «i pericoli dello storicismo» estremo e che lo guiderà alla ricerca del «recupero dei criteri della certezza scientifica, senza dover cedere alla tentazione del marginalismo»171. Spostando l’angolo visuale dalla formazione, per così dire, economica del Toniolo a quella giuridica, riemerge l’influenza del «programma metodologico» del Messedaglia. Sulle orme del maestro e specularmente al rifiuto del marginalismo che pretende di «escludere dall’analisi economica» qualunque elemento che non sia con essa in stretta attinenza, esiste implicitamente nel Toniolo un «rifiuto del “metodo giuridico”» che vuole «escludere ogni considerazione di carattere politico, storico, sociologico, economico, e, men che mai, etico-religioso, dall’analisi del fenomeno giuridico e statuale» 172. Volendo trovare «le sorgenti più profonde e durature» del pensiero scientifico tonioliano, afferma lo Spicciani, esse andrebbero ricercate in «Angelo Messedaglia prima e in Désiré Mercier poi»: il primo, «economista demografo e statistico», nonché «maestro del giovane Toniolo», il secondo «filosofo della neoscolastica» e «amico degli anni maturi» 173. Fra gli altri maestri del Toniolo, un’attenzione particolare va riservata alla figura di Luigi Luzzatti. «Allievo prediletto del Messedaglia» 174, il Luzzatti, nonostante insegni diritto costituzionale, fa rientrare nelle proprie lezioni i problemi economici. Egli si pone come convinto assertore della necessità di storicizzare l’economia nella prospettiva di una considerazione dei fenomeni economici senza 170

Come ricorda SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 43), «mentre dalla sua cattedra di Berlino, Gustav von Schmoller insegnava che le leggi economiche debbono ritenersi valide soltanto entro un ben determinato quadro istituzionale, finendo con ciò per identificare scienza economica e storia, il suo collega Adolf Wagner era ormai divenuto il teorico del cosiddetto “socialismo di Stato”, e a sua volta proclamava una ben più pericolosa identificazione – anche agli occhi del Toniolo – tra le leggi economiche e quelle positive dello Stato». Appariva (ivi, p. 44) «sulla scena politica lo spettro di quello che significativamente il Toniolo chiamava “panteismo di Stato” o anche “statolatria”». 171 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 175. 172 P. COMANDUCCI, Il diritto nella formazione di Toniolo, in Contributi alla conoscenza del pensiero di Giuseppe Toniolo, Atti del convegno Economia e società nella crisi dello Stato moderno: il pensiero di Giuseppe Toniolo, 18-19 dicembre 1981, Pisa 1984, p. 90. 173 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 175. Sui rapporti del Toniolo con Désiré Mercier v. PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo, pp. 60-70. 174 Sui rapporti tra Luigi Luzzatti e Angelo Messedaglia v. P. PECORARI, Luigi Luzzatti e le origini dello «statalismo» economico nell’età della Destra storica, Padova 1983, pp. 25-46. Cfr. P. PECORARI, Epi-

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astrazioni, bensì in relazione agli elementi temporali e spaziali. La critica a un’economia fondata, da un lato, sulla presunta immutabilità delle leggi economiche e, dall’altro, sulla figura dell’homo oeconomicus, prosegue di pari passo con la «difesa di una economia “storica” capace di avvertire il legame intrinseco tra fenomeni economici e fenomeni sociali», tentando di risolvere lo scontro frontale tra «le durezze del liberismo radicale» e «le teoriche del socialismo marxista»175. Il 27 aprile 1879, in un intervento all’Associazione costituzionale di Bologna, il Luzzatti tiene un discorso nel quale, dopo aver messo a confronto la «dottrina dell’ottimismo economico» e delle armonie portata avanti da Smith e Bastiat e quella del «pessimismo [e] delle contraddizioni economiche» di Proudhon, Marx e Lassalle, a proposito delle «perturbazioni economiche» che nella realtà accadono, paragona il funzionamento del sistema economico a quello degli astri del cielo. Infatti, se «i pianeti obbedissero alle leggi fisiche di una sol forza […] descriverebbero esatte ellissi e i periodici loro movimenti sarebbero perfettamente uguali». Non esisterebbero allora quelle «perturbazioni» che operano «per effetto della vicendevole forza» dei corpi celesti. A dubitare di tale funzionamento necessitato fu per primo Newton; vennero poi Laplace e Lagrange, che, grazie all’uso del calcolo matematico, dimostrarono che le orbite, «nonostante le oscillazioni più o meno estese dei loro elementi variano intorno ad uno stadio medio senza che […] abbia a soffrirne l’armonia dell’insieme». Allo stesso modo, se paragoniamo i pianeti all’«organismo individuale, sociale nazionale e collettivo della umanità», vediamo come si palesino continuamente perturbazioni di carattere economico. Tali perturbazioni, al pari di quello che hanno fatto Laplace e Lagrange in astronomia, devono essere studiate «con attenta analisi» dagli economisti, seguendo il «metodo sperimentale». Nei fenomeni economici non agisce una sola forza, quale a titolo esemplificativo l’interesse individuale, bensì esercitano la loro influenza tutte «le passioni umane che creano le perturbazioni sociali»176. Sulla scia della considerazione circa gli indissolubili nessi che ricollegano le diverse discipline del sapere, il Luzzatti pone il problema dei rapporti tra etica stemologia della conoscenza scientifica e sapere economico nel carteggio Messedaglia-Luzzatti, in corso di stampa. 175 P. PECORARI, Economia e riformismo nell’Italia liberale. Studi su Giuseppe Toniolo e Luigi Luzzatti, Milano 1986, p. 146.

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ed economia. Un’etica, quella del Luzzatti, che, lungi dall’essere considerata «un mero complemento dell’economia», può invece «orientare l’economia» stessa ed essere in grado di guidarne il percorso evolutivo «senza tuttavia dare luogo a un rapporto unidirezionale e monocausale» 177. L’elemento etico rientra così a pieno titolo nei fatti economici tanto che, scrive il Toniolo in una recensione del 1895 al libro di Luzzatti Le odierne controversie economiche nelle loro attinenze con la protezione e col socialismo 178, «gli errori di lor natura etici e religiosi» sono la causa del «disordine sociale» apportatore «di lacrime e sangue ai popoli» 179. In particolare, il Toniolo aggiunge che lo Stato deve trovare «due limiti concreti» nello svolgimento della «sua azione riformatrice», ossia «l’autonomia interiore morale dell’uomo individuo, protetta e consecrata dalla religione» e «la presenza e

l’autorità

della

Chiesa»

considerata

«suprema

custode»

dei

«fini

dell’incivilimento» 180. Dopo aver riportato un passo del volume del Luzzatti «degno di essere testualmente» riferito 181, il Toniolo giudica tale lavoro un «aperto omaggio reso alla virtù salvatrice del cristianesimo», anche se la «vaga contemplazione di un ideale cristiano» non può che essere «appena il principio di una rigenerazione individuale e sociale, non certamente il termine» 182. Tali aspetti sono ribaditi in un’altra recensione del Toniolo, sempre del 1895, al libro del Luzzatti intitolato Saggio sulle dottrine dei precursori religiosi e filosofici dell’odierno fatalismo statistico. La confutazione da parte del Luzzatti dell’asserzione del Buckle, secondo la quale «la sola intelligenza e non già la coscienza morale e la religione» è autrice dell’incivilimento, trova pienamente concorde il Toniolo. In «tanti luoghi di questa monografia» il Luzzatti riesce a rompere «l’incanto del determinismo pessimistico del Buckle» e a illustrare come la «ragione intima, l’essenza e la gloria dell’umano incivilimento» risiedono nel176

L. LUZZATTI, Le perturbazioni economiche, ristampato in L. LUZZATTI, L’ordine sociale, Bologna 1952, pp. 37-40. 177 PECORARI, Economia e riformismo nell’Italia liberale, p. 146. 178 Prolusione di Luigi Luzzatti al corso di Economia Politica nell’Università di Perugia il 26 novembre 1894, ristampata in LUZZATTI, L’ordine sociale, pp. 118-137. 179 G. TONIOLO, Recensione al libro di L. Luzzatti «Le odierne controversie economiche nelle loro attinenze con la protezione e col socialismo», «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 7 (1895), pp. 499-509, ristampato in TTE, II, pp. 439-448. 180 TTE, II, p. 445. 181 LUZZATTI, L’ordine sociale, pp. 136-137. 182 TTE, II, p. 448. Scrive PECORARI (Economia e riformismo nell’Italia liberale, p. 108): «fondamentale rimane comunque la centralità della prospettiva etica per cercare di comprendere le ragioni profonde della crisi epocale e per individuare soluzioni storicamente determinate e adeguate alle “odierne” esigenze della cultura, dell’economia, della politica».

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le «virtù morali» 183. Peraltro «occorre essere avvertiti della “dualità” che caratterizza il rapporto tra scienza e fede», ossia della «correlazione tra il conoscibile della scienza […] e l’inconoscibile, che comincia là dove il metodo scientifico ravvisa la propria inadeguatezza a procedere». Per Luzzatti la scienza svolge comunque «un ruolo insostituibile nel progresso delle conoscenze, senza tuttavia essere un assoluto» 184. Quando, nella seconda metà dell’Ottocento, si assiste a un ripensamento epistemologico sul valore della scienza, il Luzzatti insegna ai suoi studenti che l’economia non può essere considerata una scienza naturalistica e perciò in grado di elaborare leggi assolute e immutabili, bensì che essa è impregnata di relatività e che occorre considerare la dimensione sociale dei problemi economici. Per Luzzatti «l’economia politica è una scienza sperimentale, anzi storicosperimentale», che va «studiata con criterio induttivo». Momenti insostituibili dell’indagine conoscitiva sono l’«osservazione» e l’«esame critico dei concreti fenomeni economici»; come dire che il credere vera la presenza di leggi economiche universali, dal funzionamento necessitato, totalmente sganciate dai contesti storici e geografici e «dalle condizioni socio-politiche di un popolo, è un errore» 185. Il Luzzatti, inoltre, coinvolge il Toniolo nei «problemi dei rapporti fra Stato e società», indicandogli la soluzione «in quella concezione “organica” di matrice tedesca che al Toniolo» appare «vicina alla posizione della filosofia scolastica». È da tali insegnamenti che il Toniolo mutua la tesi per la quale «lo Stato

183

G. TONIOLO, Recensione al libro di L. Luzzatti «Saggio sulle dottrine dei precursori religiosi e filosofici dell’odierno fatalismo statistico», «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 10 (1896), pp. 497-502, ristampato in TTE, II, pp. 457-463. 184 PECORARI, Luigi Luzzatti e le origini dello «statalismo», pp. 121-122. 185 PECORARI, Economia e riformismo nell’Italia liberale, p. 109. PECORARI (Economia e riformismo nell’Italia liberale, p. 133) sostiene che il Luzzatti considera «le teorie del Malthus, del Ricardo e del George» come lo specchio delle «situazioni storiche contingenti; esse non sono “generali e assolute”, e al pessimismo che esprimono si contrappone “l’ottimismo” di quanti inclinano a scorgere nel mondo le “armonie”, non le “disarmonie”: si ripete cioè nell’economia politica un contrasto non dissimile da quello che in fisica divise il Newton dal Leibniz, con la differenza che mentre il Lagrange tentò una composizione, nessun tentativo del genere si intravede nella contesa tra Carey e Malthus». LUZZATTI (L’ordine sociale, p. 42) chiarisce che «vi sono momenti nella società umana i cui fenomeni non denunciano perturbazioni, ma la costanza dell’ordine naturale; al contrario ve ne sono altri in cui la perturbazione si riscontra appunto perché vien meno l’aiuto di energie soccorritrici, quali sono le forze morali e intellettuali».

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moderno» deve tornare a essere «espressione della vita sociale», recuperando «le proprie radici popolari» e ricomponendo «le sue interne strutture gerarchiche» 186. Importante è pure il legame che intercorre tra il Toniolo e Fedele Lampertico, economista e uomo politico. Questi, pur non essendo uno «dei suoi maestri universitari», spinge il Toniolo all’approfondimento, «insieme con la letteratura tedesca», della scienza «economica italiana» 187. Un’attenzione particolare merita l’opera del Lampertico Economia dei popoli e degli Stati e, in particolare, l’Introduzione 188. Essa, come ricorda il Toniolo, ha avuto il merito di «piegare l’economia liberale del nostro paese verso la scuola sociale-politica». Infatti, è il Lampertico a riunire «le varie correnti ancora incerte e sottili degli economisti italiani per convergerle verso la scuola sociale-politica» 189. Nell’Introduzione egli dedica un intero capitolo al tema dei rapporti tra l’economia e la morale: la legge economica è, infatti, «la legge del minimo mezzo 190, in relazione ai beni dell’uomo», ossia alla capacità dei beni di «soddisfarne i bisogni». Il fenomeno economico dunque «presuppone l’uomo» e lo presuppone con «suoi bisogni e […] doveri»; l’uomo, non solo considerato nella sua individualità, bensì nella famiglia, nello Stato, nella Chiesa. L’uomo, però, dal quale «procede e a cui si riconduce tutta l’economia», non segue nel suo agire soltanto la legge economica, né soltanto quelle morali, bensì tutte quelle leggi «che ne governano l’intelligenza, il cuore, le forze». La scienza economica, al pari di qualsiasi altra scienza che consideri l’uomo, non «si trova già dinanzi ad azioni» che sono determinate «dall’unica legge che costituisce l’oggetto della scienza», ma che dipendono «da tutte le leggi cui l’uomo obbedisce». Non si possono comprendere i fenomeni economici se non si tiene conto «di tutto quello che sull’uomo esercita un impero» 191. Ciò non significa postulare nell’economia l’assenza di principi propri, fatto quest’ultimo che minaccerebbe l’indipendenza della scienza economica dalla morale: la prima procede autonoma, ma per comprendere appieno un determinato fenomeno economico è indispensabile considerare anche tutti gli altri elementi che su esso influiscono. 186

SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 175. Cfr. PECORARI, Economia e riformismo nell’Italia liberale, pp. 115-116, 134-140. 187 PECORARI, Sull’opera economica del giovane Toniolo, p. 28. 188 F. LAMPERTICO, Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, Milano 1874. 189 G. TONIOLO, Cenni commemorativi: Fedele Lampertico, «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie» 40 (1906), pp. 633-637, ristampato in TRF, pp. 492-499. 190 Cfr. LAMPERTICO, Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, pp. 1-3.

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Nell’opera del Lampertico assume un ruolo centrale l’uomo come soggetto delle leggi economiche. Sovente nei trattati di economia si parla dell’uomo come uno dei fattori della produzione, al pari della natura e del capitale. L’uomo però non è un semplice cooperatore dell’attività produttiva, bensì ne è l’autore e pertanto soggetto di ogni «funzione economica». Si dischiude nel Lampertico la necessità di considerare l’uomo «punto di partenza e […] ultima meta» dell’economia, ponendo l’accento sul carattere spiccatamente antropologico dei fenomeni economici. Egli tuttavia non prende in esame un «essere astratto» o un uomo «medio», bensì «l’uomo così com’è veramente in tutta la varietà delle condizioni sociali e storiche» 192. Il Lampertico sostiene inoltre che l’economia non può avere «un solido fondamento se non nell’osservazione della natura». Egli segue un metodo induttivo-sperimentale, che vuole portare nell’economia quel modo di operare «che fu vera causa di progresso alle scienze fisiche»: esse «vivificano l’osservazione dei fatti coll’induzione» e mediante quest’ultima «arrivano a [una] non temeraria affermazione di vere leggi». In tal modo si evita di incorrere nelle «illusioni dell’idealismo, che per l’idea dimentica i fatti». Lo stesso progresso scientifico è fatto di due condizioni essenziali: «la ragione e l’osservazione». Il Lampertico si fa portavoce della necessità di introdurre nella scienza economica il «metodo che unisce all’osservazione dei fatti l’indagine delle ragioni e delle leggi dei fatti medesimi» 193. Egli insiste sulla necessità di storicizzare l’economia e di trovare una conferma nella realtà alle leggi definite in maniera astratta: «in economia […] non si può prescindere da una esatta e compiuta osservazione dei fatti» e quindi dall’«induzione» 194. È lo stesso Toniolo a ricordare tale aspetto dell’opera del Lampertico il 22 agosto 1914, quando, in occasione dell’inaugurazione del monumento eretto a Vicenza in onore dell’illustre cittadino, è chiamato a contribuire a una pubblicazione sul senatore stesso 195. Il Toniolo ricorda come partendo 191

LAMPERTICO, Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, pp. 121-122. Infatti, rileva LAMPERTICO (Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, p. 139) che «un’economia che parli pure all’uomo, ma solo per via di astrazioni e non già concretamente com’è in corpo e anima, nelle sue condizioni morali, religiose, nazionali, politiche, nelle diversità di stirpe e di età, nella famiglia, nello stato, in tutte quelle relazioni insomma, che sull’economia esercitano tanta influenza, non riesce che a conclusioni vane e fallaci». 193 LAMPERTICO, Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, pp. 38-41. 194 LAMPERTICO, Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, pp. 48-49. 195 G. TONIOLO, Il pensiero filosofico-scientifico di Fedele Lampertico, in Scritti in omaggio a Fedele Lampertico, a cura di S. RUMOR, Vicenza 1924, pp. 75-84, ristampato in TRF, pp. 516-523. Nel citato testo (p. 516) il Toniolo definisce il Lampertico uno dei suoi «più venerati maestri». 192

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«sempre dalla osservazione dei fatti (non senza però la scorta dei sommi principi speculativi)», il Lampertico abbia insegnato a «rinvenire le leggi positive dell’economia per via di induzione», sulla base dell’esperienza storica, delle conoscenze delle «discipline osservative, statistiche, geografiche, etnologiche» e traendo spunti dallo studio «delle scienze fisiche, naturali e specialmente biologiche», il tutto poggiante su solidi richiami alle «nozioni matematiche» 196. Lo studioso vicentino mette in discussione il concetto di legge naturalistica, il cui funzionamento ha carattere necessitato, universale e vincolante 197. Egli sostiene, a titolo esplicativo, che un «confronto colle leggi fisiche» giova a dare una nozione meno contraddittoria delle «leggi naturali economiche» rispetto a quella data da chi «le ammira come essenzialmente armoniche, immutabili, universali». Applicare il funzionamento necessitato delle leggi come vorrebbero alcuni economisti equivale ad aspettare che «il fiume da sé medesimo» distribuisca «le acque ad irrigare i poderi». Se, per il compimento delle stesse leggi fisiche «vano e dannoso» è il «controperarvi, altrettanto utile e necessario è il cooperarvi» 198. Pertanto le soluzioni dei problemi economici vanno ricercate senza apriorismi o dogmatismi di sorta, bensì con un’attenzione particolare ai diversi contesti e alle diverse situazioni. Ecco allora che l’azione dell’uomo trova certamente davanti a sé dei limiti «al di là dei quali» sarebbe «disastrosa e inefficace», ma al tempo stesso entro tali limiti essa «beneficamente manifesta la sua potenza» 199. Un simile modo di operare apre la strada anche all’intervento dello Stato in economia: esso «non è un sovrappiù [o] una superficialità» che si tollera e che «per via di successive eliminazioni» si vorrebbe «ridurre a niente»; ha, invece, «un posto suo proprio» 200. Chi rimproveri alla scienza economica di essere «una scienza crudele (a dismal science)», mossa soltanto da interessi egoistici, non può che apprezzare l’opera del Lampertico tendente a ridare all’economia «il proprio posto elevato 196

TRF, p. 518. Sostiene LAMPERTICO (Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, p. 329) che «l’oggetto dunque della scienza economica si è non già la ricchezza, ma la legge di economia, la legge del minimo mezzo, e questa applicata ai beni. E perciò la legge di economia non è una legge dell’ordine fisico, ma dell’ordine morale: poiché i beni presuppongono bensì la materia e le forze naturali, e l’uomo. La produzione, distribuzione, circolazione, consumazione dei beni non possono quindi rappresentarsi come processi chimici ma bensì come processi organici; trovandosi la loro attività collegata, o più veramente connaturata all’uomo». 198 LAMPERTICO, Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, pp. 290-291. 199 LAMPERTICO, Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, p. 292. 200 Cfr. LAMPERTICO, Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione, pp. 295-300. 197

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nel gruppo delle scienze morali e sociali» (merito peraltro condiviso, secondo il Toniolo, col Luzzatti e col Minghetti) 201. Per Lampertico il fatto economico, prosegue il Toniolo, non è mai disgiunto «dall’etica e dal giure»: egli, infatti, fu tra i primi a considerare in «alto conto» le ripercussioni sugli istituti economici «delle applicazioni concrete dei principi morali» 202. Nel recensire il libro del Lampertico Il credito, il Toniolo riconosce che la «ricchezza di mezzi metodici» di cui dispone l’economista vicentino è uno dei tratti caratteristici del suo lavoro 203. Egli, oltre a possedere una «vastissima cultura», sa dosare le «fonti storiche» e le «risultanze delle scienze fisico-naturali», cosicché è capace, trattando del credito, di sostituire «ad una semplice enunciazione di operazioni», funzioni e istituti senza quel necessario «legame logico», una classificazione «organica, sistematica [e] fondata nella natura e nei fini della vita economica» 204. Come ricorda Pecorari «l’influsso culturale del Lampertico» va inserito in quell’operazione tesa ad «acquisire una sicura metodologia della ricerca scientifica» che il Toniolo compie «tra il ’72 e il ’74»: è in questo periodo che il Toniolo viene aiutato dal Lampertico «con suggerimenti bibliografici e con il prestito di riviste straniere e di libri» 205. Inoltre non deve essere sottovalutato che, attraverso una fitta corrispondenza epistolare col Lampertico, Vito Cusumano, giovane studioso che «si reca a Berlino con una borsa di studio ministeriale», fa entrare in Italia e, segnatamente tra «gli economisti della “scuola lombardo-veneta”» 206, le dottrine del socialismo della cattedra tedesco 207. Fanno parte di tale gruppo di studiosi oltre al Cossa, al Messedaglia, al Lampertico e al Luzzatti, «anche alcuni giovani, tra i quali, per acutezza d’ingegno, si distingue […] Giuseppe Toniolo» 208. Benché giovane il Toniolo matura una posizione propria sulla scuola storica tedesca. Accettandone

201

TRF, p. 519. Ibidem. 203 G. TONIOLO, Recensione del libro di F. Lampertico «Il credito», «Archivio giuridico», 33 (1884), pp. 230-235, ristampato in TTE, V, pp. 455-464 204 TTE, V, pp. 458-462. 205 PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo, p. 33, nota 97. 206 PECORARI, Luigi Luzzatti e le origini dello «statalismo», p. 162. 207 Sul ruolo di Vito Cusumano v. PECORARI, Luigi Luzzatti e le origini dello «statalismo», pp. 139-162. 208 PECORARI, Luigi Luzzatti e le origini dello «statalismo», p. 162. 202

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il metodo induttivo 209, egli riconosce a tale scuola il merito «di aver posto in evidenza» che, «presa […] una qualunque società», le leggi «che si effettuano in essa non hanno il carattere di assoluta universalità», ma sono il risultato della combinazione di «elementi essenziali ad ogni consorzio civile, con altri accidentali» 210, quali le condizioni geografiche, le caratteristiche della stirpe, le diversità delle varie civiltà. Se è vero che «la scuola storica avverte con sufficiente chiarezza la dimensione relativa e mutevole dei fenomeni socio-antropologici» 211, è altrettanto vero che non può essere trascurato nell’analisi «l’assoluto e immutabile della natura umana». Così «i dettami della scuola» storica per configurarsi «veri» e «fecondi» devono essere «accolti con discernimento e temperanza» 212. Una simile dichiarazione lascia trasparire come il Toniolo, lungi dall’assumere acriticamente gli apporti del Cusumano (veicolati peraltro con prudenza dal Lampertico all’interno degli economisti della scuola lombardo-veneta), maturi un proprio modus operandi fatto di «ricostruzione filologica, accertamento delle peculiarità dei fatti […], ampia ricognizione bibliografica, accompagnata da scrupoloso vaglio critico, nel tentativo di assicurare vigore d’impianto e originalità di esiti scientifici al proprio discorso in una prospettiva decisamente europea» 213. Insomma, la ricerca dell’unità del sapere e dei collegamenti che intercorrono tra le varie discipline, l’utilizzo del metodo induttivo e l’osservazione come momento fondamentale del processo conoscitivo, la verifica puntuale della corrispondenza dei teoremi astratti alla realtà in linea con la necessità di storicizzare l’economia e il rifiuto di ogni sorta di apriorismi nell’indagine economica, la centralità dell’uomo come soggetto dei processi economici e lo stretto legame tra l’etica e l’economia, sono tutti aspetti che caratterizzano l’opera tonioliana e allo studio dei quali il Toniolo è introdotto dai suoi maestri.

209

G. TONIOLO, Dei remoti fattori della potenza economica di Firenze nel Medio Evo, Milano 1882, ristampato in TRF, pp. 3-287. 210 TRF, p. 241. 211 PECORARI, Luigi Luzzatti e le origini dello «statalismo», p. 160. 212 TRF, p. 241. 213 PECORARI, Luigi Luzzatti e le origini dello «statalismo», pp. 161-162.

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5 Capitolo II L A PRODUZIONE DELLA RICCHEZZA NEL PENSIERO ECONOMICO DI

1.

G IUSEPPE T ONIOLO

I fattori della produzione

Sembra opportuno iniziare questo secondo capitolo ricordando che il volume La produzione della ricchezza, pubblicato nel 1909 214, è frutto di un lavoro di Giuseppe Toniolo che, nei primi anni del Novecento, si pone l’obiettivo di riordinare le proprie dispense universitarie 215. La stesura del Trattato di economia sociale si inserisce tra i lavori di un Toniolo ormai maturo: «un documento del mio insegnamento universitario» 216, lo definirà l’economista trevigiano. Per prima cosa il Toniolo chiarisce il significato dell’espressione «produzione della ricchezza». Produrre ricchezza «significa effettuare utilità materiali permutabili, cioè suscettibili di essere appropriate e quindi concambiate in società» 217. La produzione della ricchezza indica pertanto «la serie dei procedimenti umani comuni con cui si rende effettiva o si accresce la utilità delle cose materiali»218. Alle forme della produzione, quali l’agricoltura, la manifattura e il commercio, il Toniolo affianca, non senza definire le loro rispettive funzioni, i tre classici fattori della produzione: l'uomo con il suo lavoro; la natura, «ossia il complesso delle sostanze e delle forze del mondo esterno»; il capitale, indicandolo come «un prodotto destinato a coadiuvare la produzione» 219. Tutti questi fattori si ritrovano in ogni produzione, ma il Toniolo ne riconosce la disposizione gerarchica, rilevando come il lavoro sia «il fattore vero e proprio della produzione», come sia l’uomo a tenere sotto la propria autorità gli altri fattori, come questi ul-

214

Dopo la morte del Toniolo furono redatte una seconda edizione (semplice ristampa senza modifiche) nel 1921 e una terza nel 1944, sempre per i tipi della stessa casa editrice. Il testo è ora ristampato dalla prima edizione in TTE, III, pp. 3-535. 215 Secondo quanto scrive SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 85) «nel 1890 il Trattato del Toniolo era sostanzialmente già pronto, almeno per la parte che poi l’autore fece in tempo a pubblicare». 216 Così scrive il Toniolo in una lettera a mons. Francesco Olgiati il 13 luglio 1915 (G. TONIOLO, Lettere, III, raccolte da G. ANICHINI, ordinate e annotate da N. VIAN, Città del Vaticano 1953, p.420). 217 TTE, III, p. 13. 218 Ibidem. 219 TTE, III, p. 14.

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timi siano dei «sussidi» 220 alla produzione. Ecco allora che la produzione diviene «un fatto umano per eccellenza (Lampertico) 221». Nella sua trattazione il Toniolo distingue i produttori in due classi separate: da un lato egli individua i cosiddetti «produttori mediati», segnatamente proprietari e capitalisti, i quali forniscono fattori di produzione senza partecipare all’attività produttiva; dall’altro i «produttori immediati» 222, identificati negli imprenditori che ordinano e dirigono la produzione e negli operai che la eseguono materialmente. «Nell’opera tonioliana le considerazioni economiche si trovano inserite in un più ampio contesto di carattere storico, sociologico, filosofico» 223. Ecco allora che anche in questa prima parte dell’opera sulla produzione della ricchezza non mancano, da parte del Toniolo, i tentativi di classificare i vari tipi di industria, di delinearne lo sviluppo storico con ricorrenti esemplificazioni, di individuare la «loro importanza comparativa» 224, intrecciando a tal proposito ragioni economico-sociali, civili e morali. Il Toniolo prosegue la sua analisi interrogandosi su quale sia «il principio impellente e direttivo» alla base della produzione della ricchezza. Egli certamente riconosce l’importanza dell’«utile individuale», indicando nell’evoluzione dell’attività di produzione l’importanza della «suprema legge edonistica», che, applicata all’attività del produrre, si traduce nel conseguimento «del massimo prodotto col minimo dispendio di mezzi produttivi»225. Subito dopo aggiunge che l’utile, quale movente della produzione, deve essere «rettificato, completato e contenuto dalla legge etica del dovere» 226. L’attività produttiva diventa, allora, un dovere verso Dio, verso noi stessi, verso gli altri. E’ bene tenere presente come in tutta l’opera del Toniolo esista uno stretto collegamento dell’economia con l’etica 227: «si può anzi affermare che la dimensione etica dei problemi è una delle idee guida, forse la più significativa, dell’opera tonioliana» 228. Lo stesso Toniolo 220

TTE, III, p. 15. Ibidem. 222 TTE, III, p. 16. 223 R. MOLESTI, L’economia sociale di Giuseppe Toniolo: il Trattato, in Giuseppe Toniolo tra economia e società, a cura di P. PECORARI, Udine 1990, pp. 91-108. 224 TTE, III, p. 20. 225 TTE, III, p. 22. 226 TTE, III, p. 23. 227 Già nella nota prelezione Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche, letta di fronte ai suoi maestri padovani il 5 dicembre 1873, il Toniolo affronta il ruolo dell’etica nell’economia. Pubblicata nel 1874 è ristampata in TTE, II, pp. 266-292. 228 PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, pp. 11-12. Sul rapporto tra etica ed economia v. A. SEN, Etica ed Economia, Bari 1988, pp. 109-110; I. MUSU, Alle soglie del duemila: tra efficien221

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ricorda come non esista un popolo «che, in qualche misura, in mezzo ai calcoli della produzione utilitarista, non senta l’influenza latente o aperta di questi precetti etici sull’economia» 229. «L’homo oeconomicus non rappresenta tutto l’uomo, né le relazioni intersoggettive possono considerarsi risolte nel canone della concorrenza perfetta» 230. Definito l’interesse individuale il movente della produzione e sottolineato come questo sia «contemperato dall’etica» 231, il Toniolo riconosce l’essenziale funzione del diritto privato e del diritto pubblico attraverso le leggi e l’azione dello Stato. Con riferimento all’attività produttiva, egli individua molteplici responsabilità dello Stato, quali la conservazione «dell’integrità fisica e spirituale dei produttori» grazie a un'adeguata legislazione a tutela dell’incolumità personale, il garantire la «libertà industriale», il mantenimento dell’«ordine giuridico fra i produttori», il promuovere il «progresso della produzione», agevolando «le libere associazioni produttive» 232 e favorendo l’istruzione tecnica. Fin da subito è evidente il riconoscimento all’azione dello Stato di un ruolo insostituibile, affinché la produzione possa essere «normale e matura» 233, affermando che «senza lo Stato la vita economica rimarrebbe incerta, caduca, entomata in difetto» 234. Procedendo nella trattazione, il Toniolo si sofferma sui singoli fattori della produzione (lavoro, natura, capitale) e ne individua i rapporti. Egli definisce il lavoro «l’esercizio delle facoltà umane rivolto direttamente alla produzione della ricchezza» 235. Un’attività, quella lavorativa, che coinvolge tutte le facoltà umane, da quelle «organiche, importando essa un’attività fisica» 236 a quelle intellettuali e morali. Per aversi «lavoro in senso economico» è za economica e giustizia sociale, in Etica ed economia, atti del convegno «L’enciclica “Sollicitudo rei socialis” e i problemi economici del nostro tempo», Udine 4-5 novembre 1988, a cura di P. TIBERI VIPRAIO, Padova 1990; G. BARBIERI, Introduzione al convegno, in Giuseppe Toniolo tra economia e società, p. 1119; J. M. VALARCHÉ, L’insegnamento pontificio a carattere economico nei documenti dei vescovi, in Etica, economia e sviluppo. L’insegnamento dei vescovi dei cinque continenti, a cura di R. BERTHOUZOZ-R. PAPINI-R. SUGRANYES DE FRANCH, Bologna 1994, pp. 203-214; P. PECORARI, Etica ed economia: alcuni aspetti di un problema controverso, in Amicitiae causa. Scritti in memoria di mons. Luigi Pesce, a cura di ID., Treviso 2001, pp. 373-390. 229 TTE, III, p. 25. 230 P. PECORARI, L’economia virtuosa. Orientamenti culturali dei cattolici italiani dall’unità alla seconda Repubblica, Roma 1999, p.14. 231 Ibidem. 232 TTE, III, p. 26. 233 Sul ruolo dello Stato nella concezione tonioliana vedi PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, pp. 152-163 e TTE, I, pp. 309-337. 234 TTE, I, p. 313. 235 TTE, III, p. 27. 236 Ibidem.

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necessario, però, che «quell’esercizio di energie umane» miri alla produzione della ricchezza. Il Toniolo ribadisce come siano le «facoltà spirituali» a guidare il lavoro, affermando che «il progresso del lavoro dipende massimamente dallo sviluppo indefinito dello spirito» 237. L’autore del Trattato individua una triplice funzione del lavoro nella produzione che si concreta nel «concepire e prefiggere l’idea finale», «coordinarvi i mezzi e processi corrispondenti», «eseguire materialmente il prodotto» 238. A tali funzioni si associano due classi di lavoratori e, segnatamente, quella degli imprenditori che coordinano e dirigono il lavoro e quella degli operai che, invece, eseguono materialmente il lavoro stesso. Il Toniolo pone l’accento sul fatto che le due classi di lavoratori sono funzionali all’atto stesso del produrre; esse sono complementari: «guai se il progresso dell’una non procede parallelo a quello dell’altra» 239. L’analisi prosegue con l’individuazione delle cause delle differenti capacità produttive che si riscontrano nelle

diverse

parti

del

mondo.

Accanto

a

considerazioni

riguardanti

l’alimentazione, lo stato igienico, l’istruzione, il ruolo delle istituzioni civili, delle leggi e della politica, un’attenzione particolare è rivolta alle dottrine religiose e filosofiche. Il Toniolo non manca di citare tutte le culture che hanno mortificato il concetto di lavoro, dal «misticismo di Brahma, considerando il lavoro come castigo di una vita destinata a spegnersi nel dolore», allo «spirito delle società pagane di Grecia e Roma», queste ultime spente nell’ozio, dalla religione musulmana al «materialismo cupido» 240 del XIX secolo. Il cristianesimo, invece, «rinnovò a fondo il concetto di lavoro», dichiarandolo un dovere e considerando il lavoratore «fornito di alta dignità» 241, esercitasse egli un lavoro direttivo o manuale. Il Toniolo arriva ad affermare che ogni allontanamento dal cristianesimo si traduce in un depauperamento dell’energia del lavoro. A ben vedere, il cristianesimo medioevale, nel pensiero del Toniolo, mentre da un lato valorizza l’uomo e il suo lavoro, dall’altro colloca «nella coscienza individuale e in quella collettiva il dovere del progresso»242, diventando così uno degli elementi da cui deriva il progresso economico.

237

TTE, III, p. 29. Ibidem. 239 TTE, III, p. 30. 240 TTE, III, pp. 33-35. 241 TTE, III, p. 34. 242 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 144. 238

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Il secondo fattore di produzione è la natura, definita come «il complesso delle materie e delle forze del mondo esterno serventi alla produzione» 243. Essa ha la triplice funzione di fornire lo spazio entro cui l’uomo opera e di mettere a disposizione le materie e le forze necessarie. Il Toniolo si sofferma sul «modo di comportarsi della natura» 244, ossia sul contributo che essa dà alla produzione della ricchezza. La sua è un’analisi dettagliata, quasi ammirata, della grande potenzialità che la natura offre, alla quale si accompagnano numerosi esempi. Il modo della natura di esplicare la propria funzione nella produzione dipende «dagli elementi e proprietà del cosmo» 245. Rispetto alle sostanze, il Toniolo cita «l’immensa varietà» e la «graduazione di utilità» 246, tutte materie presenti in natura e utilizzabili dall’uomo per far progredire la produzione stessa. Rispetto alle forze, la distinzione si ripete, considerando dapprima l’infinita varietà delle forze che la natura mette a disposizione e successivamente il «vario grado di efficacia utile» 247 delle stesse. Esistono forze illimitate, come quelle del clima, che non sono appropriabili e restano così a vantaggio di tutti, e forze limitate, che, invece, sono appropriabili da parte dell’uomo e si differenziano dalle prime, poiché hanno un costo di acquisto. Le forze limitate possono apportare alla produzione «efficacia uniforme» o «efficacia decrescente» 248. Se esse sono trasferibili e accumulabili a piacimento dell’uomo, il loro apporto alla produzione è proporzionale alla loro quantità. Viceversa, trovandoci di fronte a forze non trasferibili o accumulabili a piacere poiché costituenti un tutt’uno con il territorio, il loro contributo alla produzione è decrescente. Questo particolare modo di agire delle forze naturali si ripercuote con effetti propri sulle industrie agricole, consentendo di differenziarle dalle industrie manifatturiere. In primo luogo il riferimento è ai redditi. L’industriale che acquista delle forze naturali trasferibili (carbon fossile), considera tali forze, a causa del loro apporto proporzionale alla produzione, come parte del proprio capitale e, quindi, il loro reddito confluisce indistintamente nel reddito del capitale stesso. L’agricoltore che dalle forze immobilizzate ottiene rendimenti decrescenti mantiene distinti i redditi da capitale dai redditi della natura. Il Toniolo definisce quindi il concetto di rendita, considerando i maggiori 243

TTE, III, p. 40. TTE, III, p. 41. 245 Ibidem. 246 TTE, III, p. 42. 247 TTE, III, p. 43. 244

75

redditi che si ottengono, a parità di impiego di capitale e lavoro, da un terreno a causa della diversa fertilità dello stesso. Esistono inoltre differenze tra il costo dei prodotti agricoli e dei prodotti manifatturieri. Sempre a causa del contributo decrescente dei fattori naturali, il costo dei prodotti agricoli segue una tendenza all’aumento, mentre quello dei prodotti manifatturieri ha la capacità di mantenersi costante. Le differenze tra industrie agricole e industrie manifatturiere si manifestano, altresì, nel corso del loro progresso storico. Le une sono caratterizzate da un processo di sviluppo che consente avanzamenti lenti e contrastati, le altre, in rapida espansione, seguono le potenzialità del lavoro e del capitale. L’autore del Trattato si sofferma sulle varie «circostanze influenti sull’efficacia del fattore natura». Le diversità biologiche degli elementi naturali formano «una serie di unità telluriche ben distinte» 249. All’interno di tali unità territoriali influiscono i vari elementi geografici, quali la «posizione», la «superficie», l’«estensione», l’«altitudine» e il «clima» 250. Di non poco rilievo è la fertilità, di cui, fin dal principio, la terra è dotata e, infine, la flora e la fauna originarie. Tali fattori determinano la possibilità del sorgere delle industrie territoriali, la loro prosperità e la loro efficacia produttiva. Il capitale «è un prodotto destinato a coadiuvare la produzione» 251. Come prodotto è il risultato di una produzione anteriore. A caratterizzare il concetto di capitale è l’intenzione di destinare una parte del prodotto a nuova produzione e la sua caratteristica di essere utilizzato in modo sistematico nella produzione stessa. Il Toniolo individua alcuni caratteri tipici del capitale. Esso è, innanzi tutto, un fattore «artificiale, cioè preparato dall’uomo col concorso della natura» 252; è considerato uno strumento nelle mani dell’uomo e creato per merito dell’uomo, una «condizione estrinseca» 253 che non determina ricchezza in modo intrinseco, ma anzi diviene produttiva solo attraverso le forze umane e della natura. È lo stesso Toniolo a non disconoscere «la legittimità del capitale nella sua genesi», ma a ricordare che esso è un fattore «sussidiario e strumentale» 254. Il Toniolo non nega «la capacità di contribuire alla produzione» del capitale, ma afferma che essa si 248

TTE, III, p. 44. TTE, III, p. 49. 250 TTE, III, p. 50. 251 TTE, III, p. 55. 252 TTE, III, p. 57. 253 TTE, III, p. 58. 254 Ibidem. 249

76

rende concreta solo grazie all’intervento umano e della natura. Egli riconosce l’enorme apporto del capitale all’incremento del reddito, ma dichiara «che il reddito di esso non spetta a chi ne è proprietario per il solo titolo di averlo preparato e di averne il possesso, bensì per il titolo di partecipare al suo impiego nella produzione» 255. La funzione del capitale è triplice. Esso «rende effettive le attitudini o le forze potenziali del lavoro e della natura» 256, pensiamo al ruolo degli attrezzi di un incisore. Il capitale ha altresì una «funzione conservatrice», come quella dei concimi per i terreni che reintegrano gli elementi chimici. Infine, ha una «funzione di incremento»257 in termini di potenza e qualità del lavoro dell’uomo e della produttività del terreno. In base alla natura e destinazione, il capitale è distinto in «capitale immobiliare» e in «capitale mobile» 258. Il primo, investito durevolmente nel territorio, «compone l’assetto artificiale normale della economia produttiva di un Paese». Il secondo mantiene «una esistenza concreta distinta senza immedesimarsi nel territorio» 259. Ha, perciò, la caratteristica di essere utilizzabile senza il vincolo di legami col territorio. Il capitale immobiliare per sua natura ha la funzione di mantenere nel tempo il benessere di una nazione. Il capitale mobile, invece, proprio perché suscettibile di un più vario progresso tecnico, ha la funzione di incrementare la produzione e ne misura, conseguentemente, i progressi. Per quanto riguarda il ruolo del capitale nella produzione, il Toniolo utilizza una distinzione ampiamente accettata, bipartendo il capitale in capitale fisso e circolante. È detto fisso il capitale di uso ripetibile, servente a più cicli produttivi; è detto circolante quello di uso non ripetibile, ma servente, appunto, a un unico ciclo di produzione. Tale distinzione ha notevoli implicazioni. In primo luogo essa interessa la formazione del valore dei prodotti 260, dipendente dalla diversa proporzione di impiego dei due tipi di capitale. Il valore del capitale circolante utilizzato in una produzione, servendo all’unico ciclo produttivo, dovrà rientrare interamente nel valore del prodotto ottenuto. Non così per il capitale fisso, del quale, nel computo del valore del prodotto, dovrà considerarsi solo una frazione del suo valore (interesse). 255

TTE, III, p. 59. Ibidem. 257 TTE, III, p. 60. 258 TTE, III, p. 61. 259 TTE, III, p. 62. 256

77

La stessa distinzione interessa anche «il progresso della economia in generale» 261. Un’economia progredisce quando si verificano un aumento assoluto del capitale circolante e una diminuzione relativa del capitale fisso. In tale situazione un aumento del capitale circolante si traduce in un aumento dei beni prodotti; una diminuzione relativa del capitale fisso si manifesta, invece, nel produrre «una nuova unità di ricchezza con minor impiego di capitale stromentale» 262. Il Toniolo indica i tipi di capitale suddetti, utilizzando il termine «capitali effettivi» per distinguerli dal «capitale monetario che può intitolarsi rappresentativo», rappresentando la moneta, appunto, «tutti i beni economici» 263. La moneta può considerarsi capitale? Per rispondere il Toniolo considera dapprima tutta la massa monetaria mondiale e, successivamente, la quantità di moneta posseduta da un singolo operatore economico. Egli giunge a concludere che la massa monetaria del mondo è certamente capitale avendo le caratteristiche di bene strumentale e la destinazione a fattore di produzione. Esso è «un capitale per eccellenza», precisamente un «capitale fisso la cui produttività (mediata) è espressa dall’addizione di ricchezza sopravvenuta per l’adozione sistematica della moneta» 264. Diverse sono le conclusioni se si considera la massa monetaria in mano ai singoli individui, famiglie e imprese, per le quali la parte di moneta destinata al consumo non può certamente considerarsi capitale, mentre la parte destinata all’acquisto di mezzi di produzione rappresenta «capitali effettivi» 265. Il diverso utilizzo del capitale configura due classi di capitalisti: i capitalisti imprenditori, che impiegano i propri capitali sopportando un rischio economico o partecipando in prima persona alla produzione, e i «capitalisti prestatori» 266, che svolgono la funzione di sovvenzionare la produzione senza condividere i rischi con l’imprenditore. Per i primi il compenso è il profitto, per i secondi l’interesse. Circa le cause influenti sull’efficacia produttiva del capitale, il Toniolo, dopo aver ricordato che il capitale è produttivo grazie all’intervento umano, osserva che esse si rinvengono, in buona parte, nelle capacità, «abilità e virtù

260

Cfr. R. MOLESTI, La teoria del valore nelle dottrine economiche, Milano 1966, pp. 81-91. TTE, III, p. 64. 262 Ibidem. 263 TTE, III, p. 65. 264 TTE, III, p. 66. 265 TTE, III, p. 67. 266 TTE, III, p. 69. 261

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dell’uomo» 267. Non sfuggono alla sua analisi anche cause che egli definisce di «economia industriale privata», quali «l’adattamento tecnico del capitale alla funzione specifica produttiva cui deve essere adibito» 268, la giusta proporzione tra capitale fisso e circolante, la durata e regolarità del ciclo produttivo. Altre cause «possono dirsi di economia industriale sociale» 269, quali la domanda dei consumatori, le condizioni naturali più o meno favorevoli, la proporzione fra «capitale immobiliare e mobile» 270. Analizzando i rapporti che intercorrono tra i fattori della produzione, il Toniolo ribadisce il dominio che il lavoro esercita sugli altri due, natura e capitale 271. Egli definisce il lavoro e la natura «enti primigeni» e il capitale un «fattore derivato» 272. Tutti i fattori sono disposti gerarchicamente sotto il dominio del lavoro. È dal grado di elevazione della potenza produttiva dell’uomo che dipende, perciò, l’efficacia del capitale e della natura. L’analisi circa il comportamento dei tre fattori può essere sintetizzata con tre espressioni: «il lavoro è sempre più dominante» 273, «la natura è sempre più subordinata» 274, «il capitale è sempre più proporzionato» 275. Con riferimento alla prima di queste espressioni il Toniolo ripercorre lo sviluppo storico del fattore lavoro, dalle origini, quando l’uomo era vinto dalla natura, al lavoro che diviene «collettivo» 276; dalla tappa fondamentale che trasforma le popolazioni da nomadi in sedentarie al lavoro degli schiavi; dal grande «fatto storico del sorgere e grandeggiare delle città» 277 al ruolo fondamentale che gioca lo «sviluppo intellettuale del lavoro» 278. È l’uomo, soprattutto con l’«elevazione della sua intelligenza» 279, a dominare la natura, a ricercare le condizioni naturali più favorevoli per sviluppare la produzione, a migliorare le condizioni ostili dell’ambiente, a «plasmare a proprio arbitrio (in certa misura) il 267

Ibidem. TTE, III, p. 70. 269 TTE, III, p. 72. 270 TTE, III, p. 73. 271 Emerge qui l’analogia con quanto sosterrà Giovanni Paolo II nella Laborem exercens (14 settembre 1981) ribadendo il primato del lavoro sul capitale. Cfr. A. MAGLIULO, I grandi documenti della Chiesa cattolica, in P. BARUCCI-A. MAGLIULO, L’insegnamento economico e sociale della Chiesa (18911991). I grandi documenti sociali della Chiesa cattolica, Milano 1996, pp. 136-141. 272 TTE, III, p. 74. 273 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 74. 274 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 79. 275 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 84. 276 TTE, III, p. 76. 277 TTE, III, p. 77. 278 TTE, III, p. 79. 279 Ibidem. 268

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fattore stesso natura» 280, a divenire «non già servo del mondo della natura, ma sovrano» 281. Attraverso il capitale l’uomo migliora la produttività del proprio lavoro e del fattore natura. Il capitale è assunto dal Toniolo quale indice per misurare «gli avanzamenti concreti della ricchezza» 282. Esso è un crogiolo di ragioni che coinvolgono i vari aspetti della vita dell’umanità. Vi si intrecciano ragioni economiche, morali e influenze civili e politiche. Il capitale «progredisce in qualità ed efficacia» 283 di pari passo con i progressi della scienza e della tecnica. Il Toniolo ricorda come le civiltà antiche fossero «consumatrici epicuree della ricchezza». È «l’abnegazione cristiana» 284 che ha favorito la formazione del risparmio in vista di probabili e future necessità, germe, quest’ultimo, del capitale delle

popolazioni

medioevali.

Fondamentale

impulso

all’accumulazione

e

all’impiego del capitale è il «senso del miglioramento indefinito», «da effettuarsi con la propria intraprendenza e colle guarentige dell’ordine pubblico». 285 Il Toniolo riconosce al capitale, frutto del lavoro e delle qualità dell’uomo, non solo il ruolo di potente strumento di produzione, ma di «nuovo oggetto immenso di proprietà che così viene a distinguersi in proprietà immobiliare e mobiliare e mobile» 286. La prima è «preziosa per la sua stabilità e per le sue influenze moralizzatrici», la seconda «per l’attitudine ad essere moltiplicata e ripartita lungo i secoli e fra tutte le classi». L’autore del Trattato conclude che «il pregio sociale di questo fatto è inestimabile» 287. Il Toniolo individua dallo studio dei fattori della produzione tre postulati: 1) «ogni singolo fattore è una causa produttiva complessa la quale consta di più cause elementari»; 2) «tutti i fattori (uomo, natura, capitale) nella loro funzione si integrano vicendevolmente in ordine al fine produttivo»; 3) data la complessità dell’integrazione dei vari fattori «torna impossibile attribuire a ciascuno di essi una quota di produttività effettiva (di utile prodotto) esattamente distinta da quella degli altri». 288

280

TTE, III, p. 83. TTE, III, p. 84. 282 Ibidem. 283 TTE, III, p. 85. 284 Ibidem. 285 TTE, III, p. 86. 286 TTE, III, p. 89. 287 Ibidem. 288 TTE, III, pp. 90-92. 281

80

2.

La produzione in atto

Dopo aver definito quali sono i fattori della produzione e quali le relazioni che tra essi intercorrono, il Toniolo procede all’analisi di quella «speciale costituzione organica» 289 per mezzo della quale la produzione della ricchezza viene esercitata. Essa è formata, a un primo livello, da «organismi elementari» 290, segnatamente le imprese, che trovano la loro origine negli individui che compongono le famiglie o gli altri enti morali e giuridici. A un livello superiore troviamo le industrie, formate da raggruppamenti di imprese. A un livello ancora più elevato troviamo l’intera produzione nazionale e internazionale realizzata dal coordinamento delle varie industrie. L’impresa è, «in senso ampio», una «riunione autonoma di fattori produttivi ordinati ad effettuare una determinata utilità materiale o prodotto (Jannaccone)» 291. Il Toniolo afferma di preferire questa definizione generale, con l’avvertenza che l’impresa si adatta in modo differente alla natura delle diverse attività produttive. L’impresa si compone: 1) di persone, l’imprenditore con i propri collaboratori; 2) di «materiale, ossia un insieme di forze e sostanze di natura» 292; 3) di un «ordinamento» 293, vale a dire un sistema che porti a unità i suddetti elementi col fine della produzione. L’imprenditore costituisce l’impresa acquisendo i necessari elementi materiali e personali, nonché il capitale; ne dirige l’esercizio e ne assume «la rappresentanza e quindi la responsabilità tecnica, economica, giuridica» 294. Elemento caratterizzante l’ufficio dell’imprenditore è il rischio d’impresa; «tolto il rischio l’imprenditore sparisce» 295. L’attività d’impresa comporta, infatti, l’eventualità di guadagni e di perdite, perché a fronte di una «anticipazione certa e presente» si accompagna una «aspettativa incerta e futura» 296 circa i risultati. Tale eventualità è, appunto, definita rischio d’impresa. Il rischio risulta «da due fatti: dispendio

289

TTE, III, p. 93. Ibidem. 291 TTE, III, p. 95. 292 TTE, III, p. 96. 293 TTE, III, p. 97. 294 TTE, III, p. 98. 295 TTE, III, p. 99. Scrive RICOSSA, Dizionario di economia, p. 450 (Rischio): «ormai anche nel linguaggio scientifico la parola rischio ha il senso generico di esposizione al pericolo di conseguenze negative: si ha rischio, insomma, ogni volta che c’è incertezza, sia questa parziale o totale». 296 TTE, III, p. 100. 290

81

anticipato e prodotto differito» 297. Il dispendio della produzione consiste: 1) «in senso tecnico», nella trasformazione tecnica dei mezzi di produzione; 2) in «senso fisio-psicologico», nel consumo di energie materiali, mentali e morali degli agenti della produzione; 3) in «senso economico», nella «privazione temporanea» «di beni materiali e di energie» 298 per conseguire il prodotto. Il «prodotto differito» dovrà permettere, a ciclo produttivo concluso, di reintegrare il valore delle materie utilizzate e di dare remunerazione agli agenti economici per il lavoro svolto. Il Toniolo chiarisce qui il significato di alcuni termini. Il «valore complessivo della produzione» è il «reddito totale» 299. Il reddito netto è «quella addizione in più di valore, la quale sul reddito totale della impresa, dopo ricostituita la ricchezza materiale preesistente, rimane disponibile ai godimenti dei collaboratori come compenso delle loro prestazioni personali produttive» 300. Egli precisa il significato di altre due nozioni: quella di costo e quella di profitto, considerate rispetto alla figura dell’imprenditore. Per quest’ultimo, il costo è rappresentato dai «dispendi materiali e personali» anticipati per la produzione e il profitto è il «valore incerto e variabile» che rappresenta la retribuzione delle funzioni proprie dell’imprenditore 301. Costo e profitto sono una frazione del reddito totale e sono «antitetici» 302, poiché al diminuire dell’uno aumenta l’altro. Nell’impresa capitalistica, l’imprenditore utilizza capitale proprio e altrui e paga «in misura convenzionale (stipendi e interessi) le prestazioni di tutti i suoi cooperatori» 303. In questo caso tutti i compensi personali, escluso quello dell’imprenditore, rientrano tra i costi di produzione. Il profitto si conferma un «concetto relativo»: esso esprime la «rimunerazione aleatoria dell’imprenditore, che gli rimane dopo aver sopperito agli esborsi di valore» 304 anticipati. Il Toniolo affronta anche il problema della genesi e dello sviluppo dell’impresa. Egli afferma che l’impresa nasce dai vari enti presenti nella società, a mano a mano «che le funzioni del produrre si distinguono da quelle del consumare» 305. In primo luogo, l’impresa trova la sua genesi nella famiglia, centro di 297

TTE, III, p. 101. TTE, III, p. 101-102. 299 TTE, III, p. 102. 300 TTE, III, p. 103. 301 TTE, III, p. 104. 302 Ibidem. 303 TTE, III, p. 105. 304 TTE, III, p. 108. 305 Ibidem. 298

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produzione e consumo dal quale gradualmente si stacca per diventare autonoma. La «genesi collettiva dell’impresa» 306 «segue la formazione degli enti giuridici collettivi» 307, ossia di un gruppo che si costituisce con un comune scopo e che progressivamente acquista personalità giuridica, distinguendosi dai singoli individui che la compongono. Infine, le imprese possono trovare origine nella genesi dello Stato. Il Toniolo usa l’espressione «genesi pubblica delle imprese» 308. Esse seguono le vicende dello Stato e sono fortemente condizionate nel loro sviluppo dal suo ruolo in campo economico. La «speciale costituzione organica» grazie alla quale si esplica la produzione si compone, oltre che di imprese, di industrie. «L’industria è un fatto sociale, risultante da varie serie di imprese omogenee in un paese per ciascun ramo di produzione» 309. Ecco, allora, che in un Paese si delineano l’«industria territoriale e agricola», quella «manifatturiera» e quella «commerciale» 310. Infine, «la produzione nazionale» 311 dipende da tutte le imprese e «ramificazioni di industrie, così rispettivamente sviluppate e coordinate entro un certo giro di territorio e popolazione, da comporre un tutto a sé economico-produttivo, rispondente a quello etnico-civile di nazione» 312. Il Toniolo indica il ruolo della politica economica di un Paese come una delle cause dello sviluppo della produzione nazionale, citando «gli ordinamenti di Enrico IV», che permisero la crescita della potenza produttiva della Francia del XVI secolo, «le leggi di Cromwell e di Elisabetta (sec. XVII)», che diedero impulso all’industria manifatturiera e mercantile della Gran Bretagna e lo «Zollverein», che riunì gli interessi della «patria germanica entro un solo confine doganale» 313. Un altro fattore di sviluppo è il ruolo degli imprenditori, dai quali può dipendere la fortuna o la rovina di una nazione. La loro «prudenza e abilità nel mantenere continuata e regolare la produzione», «il loro spirito di innovazione», la loro «onestà commerciale», l’introduzione di «rapporti di giustizia, equità, pa306

In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 111. TTE, III, p. 111. 308 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 112. 309 In corsivo nell’originale: TTE, III, p. 117. 310 Ibidem. 311 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 118. 312 TTE, III, p. 119. 313 TTE, III, p. 119. Sullo Zollverein v. G. LUZZATTO, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, I, L’età contemporanea, Padova 19604, pp. 316-321. 307

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tronato entro ogni impresa verso la classe operaia» possono far progredire indefinitamente una nazione. D’altra «i loro abusi invece possono divenire cagione di scandalo e pervertimento pubblico» 314 e di rovina della nazione intera. L’analisi del Toniolo prosegue con l’indicazione delle cause che portano al progresso della produzione. Abbiamo visto come egli individui il movente della produzione nell’interesse individuale (contemperato da tutte le precisazioni riguardanti il ruolo dell’etica). Nella produzione il fine edonistico si traduce nell’ottenere la massima quantità di prodotto a fronte del minimo utilizzo di fattori produttivi. Il progresso della produzione «si risolve nella adozione di mezzi e modi concreti con cui conseguire in misura crescente» 315 il fine edonistico. «Prima causa del progresso sociale» 316 è la cultura. Fondamentale ruolo nel processo di sviluppo della produzione è giocato, quindi, dalle conoscenze scientifiche

applicate

all’industria 317.

Tali

conoscenze

se

sono

frutto

dell’esperienza formano la «tecnica» 318. Se quest’ultima è «interamente guidata dalle dottrine scientifiche» prende il nome di «tecnologia» 319. Le conoscenze umane diventano una causa di progresso della produzione solo quando «si possegga un complesso sistematico e compiuto di scienze applicate alle industrie» 320. Sono occorsi dapprima studi approfonditi delle «scienze pure, espositrici dei principi delle leggi del cosmo» e, solo successivamente, da queste sono nate le «scienze applicate a scopo di utilità economica» 321. L’industria si trasforma da empirica in scientifica grazie al progresso delle scienze applicate. Il Toniolo sottolinea il grande ruolo svolto dai politecnici, dalle «scuole di applicazione degli ingegneri», dai «musei industriali» 322 e dalle scuole superiori. Egli individua nella scienza applicata all’industria un carattere distintivo della «produzione moderna» 323: «ogni stabilimento di industria diviene di più in più laboratorio chimico» 324 e che «ogni fabbrica manifatturiera è un trionfo della fisica tecnologica»; 314

TTE, III, pp. 120-121. TTE, III, p. 122. 316 Ibidem. 317 Sul problema del ruolo del progresso tecnico v. M. RICOTTILLI, Teoria dello sviluppo economico, Urbino 1993, pp. 173-218. 318 TTE, III, p. 122. 319 TTE, III, p. 123. 320 TTE, III, p. 124. 321 Ibidem. 322 TTE, III, p. 126. 323 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 127. 324 Il Toniolo cita il caso del carbon fossile «primo e massimo combustibile» dal quale l’industria ottiene «gas illuminante», «coke», «catrame, che si raffina in pece, e le acque ammoniacali, base dei conci315

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in pari tempo osserva come «nell’arte navale signoreggino indisputate le matematiche superiori», come «nella recente agricoltura nazionale si d[iano] convegno tutte le scienze» e come anche «l’amministrazione economica delle imprese» sia «legata ad una serie di discipline scientifiche» 325. Egli giunge ad affermare che la trasformazione dell’industria da empirica in scientifica, «nel riguardo dell’assetto materiale e dei processi tecnico-economici», è il «più grande rivolgimento che conosca il mondo» 326, tanto più se si considera il breve lasso di tempo occorso alle scienze applicate per divenire protagoniste del progresso produttivo. Il Toniolo è cosciente di trovarsi di fronte a un cambiamento di assoluto rilievo. L’applicazione della scienza alla tecnica non è altro che l’ultimo tratto di un

cammino

di

«secolare

nell’incivilimento cristiano»

327

evoluzione

della

economia

produttiva

. Egli indica tre momenti fondamentali di questo

percorso. Il primo passo è rappresentato «dal fatto sociale umano» 328 che ha portato l’emancipazione e l’educazione delle classi produttrici, l’abolizione della servitù e la formazione dei ceti industriali e delle corporazioni. Esso è seguito da un «fatto sociale cosmico»: le grandi scoperte geografiche 329. L’ultimo momento storico coincide, appunto, con l’applicazione delle invenzioni scientifiche all’industria. Egli conclude fiducioso affermando che «non si retrocederà forse mai più»330. Allo stesso tempo il Toniolo è anche cosciente del fatto che l’«odierna trasformazione tecnico-scientifica» va guidata «a fini di civiltà». «Ogni singolo progresso scientifico industriale […] attribuisce alle imprese carattere di più in più sociale». Così se da un’unica fabbrica dipende il salario di migliaia di operai e gli acquisti di centinaia di consumatori essa «diventa un organismo d’importanza sociale la cui prosperità o fallimento tocca la generalità» 331. mi artificiali», «paraffina», «benzina, solvente e astergente efficacissimo», «e tutta la scala cromatica dei colori di anilina, e ancora essenze odorose per le profumerie, nonché preparati anestetici d’uso farmaceutico (Messedaglia)». TTE, III, p. 128. 325 TTE, III, pp. 128-130. 326 TTE, III, p. 131. 327 TTE, III, p. 133. 328 Ibidem. 329 M. CHISHOLM, Geografia dello sviluppo economico, Bologna 1984, pp. 68-76. SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 179-180) sostiene che «sebbene fondamentalmente il Toniolo avesse una concezione provvidenzialistica della storia […], non per questo sottovalutò l’importanza dei fatti accidentali. Egli intravide il peso degli elementi cosmici, le influenze cioè del mondo fisico, e sentì che alcune situazioni “eccezionali”, pur legate a fatti umani coscienti, ebbero conseguenze impreviste e imprevedibili (come – ad esempio – le scoperte geografiche del XVI secolo, la riforma luterana, e la tecnologia scientifica del XIX secolo». 330 TTE, III, p. 134. 331 Ibidem.

85

L’«educazione morale-civile dei produttori» è la «seconda causa del progresso produttivo, intendendosi per essa il perfezionamento della coscienza etica, regolatrice dei rapporti industriali in società» 332. Il Toniolo dubita che l’interesse individuale sia l’unica causa del progresso produttivo. Se tale progresso è guidato senza le «ragioni del dovere e di alte finalità sociali» si può ben presumere che non potrà mantenersi «continuato e regolare» 333. È necessario perciò che a ogni progresso della scienza applicata alla produzione si accompagni «una proporzionata elevazione di moralità nelle classi produttrici» 334. Le conoscenze tecniche sono un semplice strumento il cui effetto può configurarsi come «bene» o «male», secondo l’uso che se ne fa. Già nella famosa prelezione del 1873 il Toniolo prende le distanze dalle dottrine economiche che avevano presupposto l’armonia spontanea dell’interesse privato col pubblico. Egli afferma che «l’arbitrio individuale deve trovare crescenti freni nel sentimento di giustizia sociale degli imprenditori» 335. Il Toniolo ha di fronte a sé non solo gli enormi vantaggi del progresso scientifico industriale, ma anche gli inevitabili problemi di transizione e adattamento che tale processo comporta. È vero che in pochi anni si sono verificati enormi progressi nel campo produttivo e che l’introduzione di nuove tecnologie ha fatto crescere la produttività media delle varie industrie, diffondendo nell’aria una «fede nel progresso umano» 336. Altrettanto vero è però che non mancano elementi di «instabilità e malessere» 337. Perciò «ogni avanzamento materiale cela il germe della propria distruzione» se a questo non si accompagna «un progresso più che proporzionale della morale dei popoli e delle analoghe istituzioni civili» 338.

332

TTE, III, p. 135. TTE, III, p. 136. 334 TTE, III, p. 137. 335 Ibidem. 336 P. BARUCCI, Introduzione, in Contributi alla conoscenza del pensiero economico di Giuseppe Toniolo, Atti del convegno Economia e società nella crisi dello Stato moderno: il pensiero di Giuseppe Toniolo, Pisa 18-19 dicembre 1981, Pisa 1984, pp. 5-30. 337 Ibidem. 338 TTE, III, p. 139. Scrive BARBER (Storia del pensiero economico, p. 109): «se i risultati della prima ondata di industrializzazione dovevano essere valutati in termini dell’aumento della produzione complessiva del volume degli scambi internazionali e dell’accumulazione di capitali investiti a fini produttivi, essi non potevano non essere giudicati in modo affatto positivo». Ma tali aspetti rappresentavano solo una faccia della medaglia. Dall’altra parte c’era la considerazione che «queste pur impressionanti trasformazioni avevano in realtà apportato ben pochi benefici concreti alla gran massa delle popolazioni». Infatti «la nuova classe operaia» viveva «ammassata negli squallidi bassifondi urbani» e «anche i più elementari provvedimenti di carattere sanitario erano assolutamente sproporzionati all’entità delle masse lavoratrici urbane, la cui salute si trovava esposta […] a terribili e diffusi pericoli come tifo e colera». Cfr. E. J. HOBSBAWN, Le 333

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Il ruolo dello Stato si configura come la terza causa del progresso industriale. Esso si esplica con leggi che garantiscano e «applichino alla produzione i tre grandi istituti della libertà, associazione, proprietà» e con leggi di «politica industriale» 339. La libertà a cui il Toniolo si riferisce non è la libertà personale che si traduce nel «riconoscimento della autonomia e dignità umana» 340. Essa riguarda, invece, la «facoltà di scelta» della «professione o industria», «dei metodi tecnici» nel suo esercizio, «dei relativi contratti, scambi, compensi» 341, della sede e dislocazione dell’attività. La trattazione prosegue con «alcuni cenni illustrativi» 342 del ruolo della libertà «nell’economia comunale», in quella «nazionale dell’evo moderno» e «nell’economia liberale» 343. Furono i «collegi delle arti (corporazioni)» 344 a garantire, in Europa, e soprattutto in Italia, la tutela della libertà considerandola «il migliore sussidio del lavoro» 345. Il Toniolo cita il caso dei comuni italiani, il regime corporativo francese, le corporazioni tedesche del XIV e XV secolo e le «corporazioni operaie di mestiere» 346 dell’Inghilterra. Dal XV secolo si assiste a una «generale e progressiva contrazione di questi rapporti di libertà» 347 fino alla metà del XVIII secolo. Questo periodo è da lui chiamato dell’«economia nazionale dell’evo moderno» per le restrizioni applicate dagli Stati, i quali, supremi tutori dell’interesse economico della nazione, prevaricarono la stessa disciplina delle corporazioni con proprie leggi e con una propria politica industriale. Questa situazione era il frutto dell’«incentramento del potere regio in più vasti stati territoriali» e del «sistema del mercantilismo» 348. La facoltà di fondare ed esercitare un’industria era divenuta una concessione del principe che ne disciplinava l’esercizio in nome dell’interesse economico generale. In questo modo dal XVI secolo «l’interesse della produzione nazionale» divenne «il cardine della politica interna ed estera per tre secoli» 349. I risultati furono chiari: «nelle nazioni latine, rivoluzioni borghesi 1789-1848, Roma-Bari 1991, pp. 279-289; ASSANTE, Alle origini della società industriale, in Storia dell’economia mondiale, pp. 80-82. 339 TTE, III, p. 145. 340 Ibidem. 341 TTE, III, p. 146. 342 Ibidem. 343 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, pp. 146,151,160. 344 TTE, III, p. 146. 345 TTE, III, p. 147. 346 TTE, III, p. 150. 347 TTE, III, p. 151. 348 Ibidem. 349 TTE, III, p. 159.

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dalla Spagna di Carlo V alla Francia di Luigi XIV» venne meno la libertà di iniziativa privata; in Germania le disposizioni imperiali ritardarono fino al XIX secolo la «formazione di una vitale produzione» 350. Intorno alla metà del XVIII secolo si produsse una reazione «contro lo Stato, il regime corporativo e i privilegi industriali» in nome della «libertà del lavoro» 351. Si andava affermando l’«economia liberale» e prendeva corpo il «laissez faire, laissez passer» che cancellava «ogni intervento positivo dei pubblici poteri». Bastavano «il diritto comune, la libertà individuale e l’azione dello Stato puramente custode della giustizia fra tutti i cittadini» 352. Per la prima volta si assicurò uno sviluppo dell’attività economica «sciolto da ogni speciale norma disciplinatrice dettata dall’interesse generale» 353. Così avvenne in Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Ungheria, Belgio, Olanda e Piemonte. Il Toniolo ammette che un tale slancio nella produzione non si era mai registrato nella storia, ma non dimentica i comportamenti dei «ceti capitalisti speculatori» che si erano configurati come una sorta di «preponderanza di fatto», spesso «iniqua e crudele» 354. «Nell’economia contemporanea» 355 emerge il bisogno «di restaurare la funzione disciplinatrice e promotrice dello Stato». Il Toniolo propone due linee di intervento: una tendente a occuparsi della distribuzione della ricchezza con una «politica e legislazione sociale», l’altra che si occupi della produzione con una «legislazione e politica propriamente industriale». 356 Con il sussidio della scienza industriale, dell’educazione dei produttori e dell’intervento dello Stato «si svolgono le leggi normali del progresso produttivo» 357, che consistono nel conseguimento di quel fine edonistico applicato alla produzione già più volte menzionato. Tutto ciò si attua mediante una «legge generale di coordinazione» 358, che si diffonde con altre leggi, applicate alle singole imprese «nei loro elementi compositivi e nel loro ordinamento», successivamente ai «vari rami di industria» e, infine, alla «produzione generale».

350

TTE, III, p. 160. TTE, III, p. 166. 352 TTE, III, p. 161. 353 TTE, III, p. 163. 354 Ibidem. 355 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 164. 356 TTE, III, p. 164. 357 TTE, III, p. 166. 358 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 166. 351

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Se consideriamo le singole imprese nei loro elementi compositivi «vale la legge delle proporzioni definite qualitative» 359. Essa si attua mediante la scelta e l’applicazione di «quelle specie di lavoro, di capitale, di forze e materie naturali, che offrono il più alto grado di efficacia utile, rispondente alla natura dell’impresa» 360. Vale, poi, la «legge delle proporzioni definite quantitative»361, che precisa le quantità di fattori da impiegare affinché l’utile della produzione progredisca. In terzo luogo, il Toniolo enuncia la «legge delle definite proporzioni reciproche o armoniche» 362, risultante dalla combinazione delle due leggi precedenti e da quella di «integrazione» dei fattori produttivi, in base alla quale i vari fattori si completano vicendevolmente. Dalle suddette leggi consegue che: 1) esiste una relazione tra la produzione effettuata e le proporzioni quantitative e qualitative dei fattori impiegati; 2) esiste una quantità minima di impiego dei fattori al di sotto della quale non è possibile ottenere nessuna produzione; 3) esiste, altresì, una quantità al di sopra della quale ulteriori incrementi di qualità o quantità dei fattori non portano beneficio alla produzione. In questo intervallo «si dispiega il progresso possibile» della produzione. Sempre all’interno di tale intervallo esiste un punto dove l’efficacia produttiva è massima. Avvicinandosi a tale punto «l’efficacia produttiva sarà crescente» 363 per poi decrescere una volta superatolo. Affrontate le leggi del progresso produttivo delle imprese nei loro elementi compositivi, il Toniolo dedica ampia attenzione alle leggi del progresso produttivo delle imprese nel loro ordinamento e nella loro gestione. Egli individua tre «indirizzi» che indica come «costanti nella storia» 364 e che possono, perciò, configurarsi come leggi del progresso produttivo. Esse sono così enunciate: 1) «nell’ordinamento tecnico la produzione da manuale diviene artificiale» 365; 2) «nell’ordinamento personale la produzione riunita nella stessa persona tende a

359

TTE, III, p. 167. Ibidem. 361 TTE; III, p. 168. 362 Ibidem. 363 TTE, III, p. 169. M. GRILLO-F. SILVA, Impresa, concorrenza e organizzazione. Lezioni di economia e politica industriale, Roma 19996, pp. 108-109. 364 TTE, III, p. 172. 365 TTE, III, p. 173. 360

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dividersi fra molte» 366, da cui la divisione del lavoro; 3) «nell’ordinamento giuridico la produzione da individuale tende a farsi collettiva» 367. La prima legge descrive «la tendenza del lavoro umano di avvalorarsi di fattori (di natura e capitale) sempre più elaborati dall’arte umana»368. Essa riguarda massimamente l’utilizzo, da parte dell’uomo, di sempre migliori strumenti nelle operazioni di produzione. Il Toniolo si riallaccia all’importanza del passaggio storico, precedentemente studiato, nel quale la tecnica da empirica diviene scientifica. Egli definisce e classifica la «suppellettile strumentale» 369. Essa è l’insieme degli strumenti che coadiuvano il lavoro umano rendendolo più produttivo e si distingue in due categorie: da un lato, gli strumenti «propriamente detti o utensili» 370, i quali si configurano come un sussidio al lavoro manuale umano; dall’altro, le macchine che, invece, compiono una serie di operazioni, sostituendosi, in tutto o in parte, all’uomo. La sua analisi individua vantaggi e critiche all’applicazione delle macchine nella produzione. I vantaggi possono essere «scientificamente numerati (Messedaglia)» 371. In primo luogo le macchine aumentano la potenza produttiva e danno alla produzione un carattere di «continuità» 372 nel tempo. Esse accrescono la «perfezione del prodotto» 373 garantendo «regolarità, omogeneità, uniformità» 374 al lavoro e riducono le spese di produzione, giacché il valore di un capitale fisico (quali sono le macchine) trapassa nel valore del prodotto solo per una parte che rappresenta l’interesse e l’ammortamento. Esistono condizioni e limiti di applicazione: alcuni tecnici, dipendenti dal grado di avanzamento della tecnologia, dalle qualità dei materiali utilizzati, dalla natura dell’impresa esercitata; altri di ordine economico, quali la disponibilità di capitale e l’estensione del mercato. È evidente come i risultati ottenuti applicando le macchine alla produzione siano impressionanti. Scrive il Toniolo: «fu calcolato che per fare a mano tutto il filato di cotone, che l’Inghilterra oggi prepara in un anno colle sue selfacting au-

366

TTE, III, p. 196. TTE, III, p. 209. 368 TTE, III, p. 173. 369 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 174. 370 TTE, III, p. 175. 371 TTE, III, p. 176. 372 TTE, III, p. 179. 373 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 179. 374 TTE, III, p. 179. 367

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tomatiche, occorrerebbero più di 90 milioni di lavoratori, quanta è la popolazione dell’impero germanico, della Francia e Belgio»375. Accanto a questi enormi vantaggi, il Toniolo enumera gli inconvenienti che possono derivare dall’utilizzo delle macchine, sottolineando, peraltro, come essi siano talvolta «esagerati e spesso mal interpretati» 376. Le macchine sarebbero accusate di creare disoccupazione di massa con effetti deleteri sulle condizioni del proletariato. Il loro utilizzo annullerebbe «l’iniziativa meritoria personale»377 e acuirebbe i contrasti tra imprenditori e operai. Il Toniolo riconosce come queste critiche non siano del tutto infondate. Egli, tuttavia, intende precisare alcuni termini della questione. E’ vero che l’utilizzo delle macchine nella produzione crea, nell’immediato, un certo numero di disoccupati. Bisogna però distinguere gli «effetti generali sui consumatori» dagli «effetti particolari»378 sugli operai. Con riguardo agli «effetti generali», egli afferma che l’utilizzo delle macchine amplia il numero dei prodotti disponibili e riduce il prezzo degli stessi, traducendosi in un beneficio per tutti. Gli «effetti particolari», invece, si distinguono in definitivi e transitori. I primi si traducono addirittura in maggiore occupazione («legge di compenso» 379) e quindi in maggior benessere per la classe lavoratrice. L’utilizzo delle macchine, infatti, amplia la quantità dei prodotti disponibili e ne abbassa il prezzo. Tutto questo si traduce in un’espansione della domanda che ha l’effetto di far nascere nuove industrie e, conseguentemente, creare nuovi posti di lavoro. Vi è di più: la domanda di «braccia operaie» 380 cresce in seguito alla nascita di industrie costruttrici di macchine che andranno impiegate in successive produzioni 381. Esistono, altresì, «effetti transitori» che si traducono in «innegabili» 382 danni ai lavoratori. La «legge del

375

TTE, III, p. 181. TTE, III, p. 185. 377 Ibidem. 378 TTE, III, p. 187. 379 TTE, III, p. 190. 380 TTE, III, p. 189. 381 Il Toniolo non manca di avvalorare queste affermazioni con numerosi esempi. Scrive ad esempio: «in Inghilterra, quando G. Watt nel 1769 chiese il brevetto di invenzione della macchina a vapore (poco di poi applicata alle macchine esecutrici) contavansi meno di 8.000 persone occupate nella filatura e tessitura a mano del cotone le quali guadagnavano da 3-4 milioni di franchi di salari. Oggi l’industria del cotone (filatura e tessitura) occupa più di 500.000 operai e con le industrie connesse (p.e. tele stampate, ecc.) 800.000, i cui salari si computano da 700-800 milioni di franchi; e la classe che vive sul cotonificio è oggi di 2.500.000 persone» (TTE, III, p. 188). 382 TTE, III, p. 190. 376

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compenso», ammette il Toniolo, «si effettua con un processo storico lento» 383 e in tale intervallo gli operai disoccupati non possono che trovarsi in condizioni disagiate. La creazione di nuove imprese a seguito dell’espansione della domanda necessita di nuovi capitali. Il processo di moltiplicazione del numero delle imprese potrebbe non verificarsi qualora i detentori di capitale fossero impegnati a dirottare i maggiori guadagni verso godimenti personali. Inoltre, nel caso in cui sorgessero nuove imprese, ma di altra specie rispetto a quelle dove erano impiegati gli attuali disoccupati, esse porterebbero ben poco giovamento a operai che difettano di «tirocinio e di abitudini speciali» 384. Il Toniolo non concorda con la tesi che fa delle macchine la causa di depauperamento fisico e spirituale del lavoratore. Anzi, i moderni stabilimenti si caratterizzano, a suo dire, per il «crescere in essi di una classe operaia colta» 385. Egli nega, infine, l’esistenza di un nesso di causalità tra crisi industriali e introduzione delle macchine nel processo produttivo. Gli effetti negativi dell’uso delle macchine nella produzione sono, per il Toniolo, «transitori e correggibili» 386. Egli richiama l’attenzione sul ruolo dello Stato e responsabilizza «industriali, corporazioni, governo» a intervenire sulle condizioni della «riserva di disoccupati» con sussidi, con la creazione di uffici di collocamento, con agevolazioni all’istituzione di nuovi tirocini, con l’aiuto all’emigrazione. Si deve impedire che il progresso «sia disviato dai fini di civiltà»387. Le macchine devono sollevare l’uomo dalle maggiori fatiche e permettergli di concedersi più tempo «per la vita dello spirito» 388. La

seconda

legge

ha

per

oggetto

la

divisione

del

lavoro 389.

«Nell’ordinamento personale la produzione riunita nella stessa persona tende a dividersi fra molte». Per divisione del lavoro si intende quell’ordinamento produttivo nel quale «i collaboratori […] attendono in modo abituale» soltanto «ad alcuni uffici produttivi»390. Essa, nell’economia sociale, si rinviene nei grandi rami di produzione, quali quello agricolo, manifatturiero e commerciale. Nell’economia privata il Toniolo distingue: 1) una divisione del lavoro «professionale» in ordine ai prodotti effettuati; 2) una divisione del lavoro «funzionale» 383

Ibidem. TTE, III, p. 191. 385 TTE, III, p. 192. 386 TTE, III, p. 194. 387 TTE, III, p. 195. 388 Ibidem. 389 RICOSSA, Dizionario di economia, p. 146 (Divisione del lavoro). 384

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in base alle mansioni ricoperte dal personale nella produzione all’interno dell’impresa; 3) una divisione del lavoro «tecnica» 391, che distingue le singole operazioni materiali componenti il processo di produzione di un prodotto. L’applicazione della divisione del lavoro si configura come una «legge del progresso produttivo» 392. Notevoli sono i vantaggi della divisione del lavoro nelle singole imprese. Essi si manifestano con un migliore sfruttamento delle capacità personali di ciascuno e con un accrescimento delle stesse. L’operaio, infatti, rimane costantemente impiegato in una speciale operazione nella quale acquista straordinarie abilità. Si verifica un «risparmio di tempo, di materia prima, di stromenti» 393. Con la divisione del lavoro si evita un «lungo e dispendioso tirocinio, si ottiene un minor spreco di materie prime a causa dell’imperizia» e si utilizza una minore quantità di capitale strumentale. Si ottiene perciò una produzione «più copiosa, più perfetta, meno dispendiosa» 394. La divisione del lavoro incontra dei limiti che possono essere «relativi» o «assoluti» 395. I primi riguardano: 1) gli aspetti «tecnici», dato che, la divisione del lavoro «si arresta dove non è possibile l’esercizio simultaneo continuato delle operazioni» 396; 2) gli aspetti «umano-storici», concernenti principalmente la diversa predisposizione al lavoro dei vari popoli e le differenti capacità che uomini e donne dimostrano nell’attività lavorativa; 3) gli aspetti «economici», importando la divisione del lavoro la necessità di avere un elevato fondo salari e grandi edifici, nonché la presenza di un mercato in grado di assorbire le maggiori quantità prodotte. I «limiti assoluti» riguardano: 1) «l’unità economica» dell’impresa, che potrebbe essere minata da un’eccessiva divisione professionale; 2) l’«unità tecnica» che segna il limite oltre il quale ulteriori divisioni di un atto semplice avrebbero effetti negativi; 3) l’«unità umana»397 secondo la quale è necessario che l’operaio eserciti una, seppur minima, varietà di mansioni per non mortificare il suo ingegno e nutrire «l’amore del lavoro».

390

TTE, III, p. 196. TTE, III, p. 198. 392 TTE, III, p. 199. 393 TTE, III, p. 203. 394 TTE, III, p. 205. 395 TTE, III, pp. 207-208. 396 TTE, III, p. 207. 397 TTE, III, p. 208. 391

93

La terza legge tratta, infine, della «associazione». «Nell’ordinamento giuridico la produzione da individuale tende a farsi collettiva» 398. L’associazione ha il suo fondamento nel bisogno di «integrare la propria deficienza, colle forze altrui» 399. Le società di produzione 400 evidenziano diversi stadi di maturazione. Dapprima esse si configurano come un semplice insieme di forze o mezzi senza particolari vincoli. Successivamente si trasformano in unioni con vincoli reciproci per il compimento di singole operazioni e, da ultimo, in unioni «con mutui legami economico-giuridici» 401 per condividere perdite e profitti dell’impresa. Da questo passaggio nasce l’impresa sociale o collettiva. Quest’ultima può configurarsi come: 1) un insieme di «proprietari di forze e sostanze di natura», quali a titolo d’esempio i «possidenti di un vasto bacino che si associano per un’impresa di bonifica»; 2) un insieme di capitalisti; 3) un insieme di lavoratori riuniti in cooperativa di braccianti; 4) infine, come una «impresa collettiva mista»402, formata da proprietari, capitalisti e operai. Numerosi sono i vantaggi che l’associazione esprime se applicata alla produzione. La possibilità di unire le varie forze produttive dà certamente risultati superiori a quelli che otterrebbero le stesse forze considerate singolarmente. Inoltre, alcune imprese produttive di particolare rilevanza non sarebbero affrontabili dai singoli a causa del grande sforzo richiesto per portarle a termine 403. Da ultimo l’associazione «assicura alle imprese e alle loro funzioni economiche continuità nello spazio e nel tempo» 404: nello spazio, perché con l’associazione si ottiene l’indispensabile coordinamento delle varie attività; nel tempo, perché la loro esistenza è svincolata da quella degli uomini che le hanno fondate e che le compongono, restando a «beneficio della produzione nazionale». Dall’associazione non derivano soltanto vantaggi di ordine economico, ma anche «etico-civili» 405. L’associazione, scrive il Toniolo, «avvince gli uomini con 398

TTE, III, p. 209. TTE, III, p. 210. 400 Nella sua trattazione, il Toniolo distingue l’associazione «economico-produttiva» dalle «associazioni morali-superiori» (famiglia, Stata, Chiesa), da quelle «civili» (le classi sociali, la nazione, le corporazioni) e da quelle «economiche che mirano ad attuare tutti i fini della ricchezza fra cui la produzione». Quando le società economiche mirano a «produrre e acquistare» profitto, possono definirsi «lucrative o società di produzione». E’ di queste ultime che il Toniolo si occupa in queste pagine (TTE, III, pp. 210-211). 401 TTE, III, p. 212. 402 Ibidem. 403 Il Toniolo cita l’apertura del canale di Suez e le enormi cifre spese per la costruzione delle ferrovie nel mondo. 404 TTE, III, p. 214. 405 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 215. 399

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rapporti di interesse materiale, che ribadiscono quelli del dovere, del diritto e della fratellanza» 406. Da queste considerazioni deriva che il movente della nascita delle società produttive non si riduce a un semplice calcolo economico, ma si integra di «condizioni etico-civili» 407, quali il rispetto dell’onestà e della giustizia nei rapporti, il riconoscimento della libertà di associazione, la presenza del sentimento di «carità sociale» e di «spirito di abnegazione […] in ordine ai fini superiori» 408. Da tutti questi aspetti dipende la «legge di sviluppo storico» 409 delle società produttive. Il Toniolo avverte la necessità di ricondurre le associazioni «sotto l’impero dell’etica e del diritto» 410. Nel XIX secolo, infatti, le società produttive, spinte ad agire soltanto dall’interesse egoistico, si sono tradotte in «frodi», «speculazioni», «trust» e «calcolati fallimenti» 411. All’etica egli chiede di definire «nuove forme di doveri reciproci» e di appoggiare la nascita di «istituti associativi» che abbiano a cuore la sorte dei più deboli; alle leggi chiede più severe e particolari discipline che impongano di gestire le associazioni produttive in favore del «bene generale» 412. Dalle leggi delle proporzioni qualitative e quantitative e da quelle dell’ordinamento tecnico, personale e giuridico derivano i mezzi per ottenere il progresso della produzione. Il Toniolo avverte, però, come sia indispensabile la considerazione di altri due elementi, quali «il tempo» e «il luogo» 413. Egli osserva come le leggi sopra esposte abbiano consentito non solo di ottenere prodotti migliori in quantità maggiori, ma anche di ridurre la lunghezza del ciclo produttivo. Sostiene pure che, in parte, gli «incrementi della ricchezza odierna» sono frutto della «crescente rapidità delle operazioni produttive» 414. Di fondamentale importanza è l’ubicazione dell’impresa. Solo nell’età contemporanea e specialmente in Europa dal 1850, sottolinea il Toniolo, i «calcoli dell’utile economico» 415 regola406

TTE, III, p. 215. TTE, III, p. 216. 408 Ibidem. 409 In corsivo nell’originale: TTE, III, p. 216. In queste pagine il Toniolo ripercorre lo sviluppo storico dell’associazione nella produzione, individuandone nel medio evo «l’età per eccellenza». Egli ricorda come, poi, le associazioni dal XVI al XVIII secolo si siano trasformate in «strumento esclusivo dei più potenti, colle compagnie privilegiate» nelle industrie e nei traffici (TTE, III, pp. 217-219). 410 TTE, III, p. 219. 411 Ibidem. 412 TTE, III, p. 220. 413 TTE, III, p. 223. 414 Ibidem. 415 TTE, III, p. 225. 407

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no la scelta del luogo di un insediamento produttivo. Tale scelta certamente non dipende dal libero arbitrio dell’imprenditore. Nelle «industrie territoriali»416 (miniere, industria agricola) la libertà di scelta dell’insediamento è minima. Nelle «imprese industriali» 417 i criteri di scelta sono più complessi e tengono conto della vicinanza ai luoghi di consumo, delle eventuali spese di trasporto, del costo della manodopera e del costo del terreno dove insediare l’impresa stessa.

3.

La triplice legge del progresso produttivo e le industrie territoriali

Dopo aver analizzato le «leggi di economia privata della produzione», che riguardano le singole imprese nei loro fattori «compositivi» e nell’ordinamento interno, il Toniolo procede alla definizione delle «leggi normali di progresso» delle «industrie nella economia sociale». Le imprese si raggruppano, infatti, in «distinti rami di industria» che presentano caratteri di omogeneità. Tre sono le leggi individuate: 1) «legge di specificazione», secondo la quale ogni industria tende a differenziarsi dalle altre assumendo caratteri propri; 2) «legge di graduale incremento», in base alla quale la potenza produttiva di ogni industria tende a crescere; 3) «legge di integrazione», grazie alla quale «tutte queste varietà di specie e di grado tendono a completarsi a vicenda» 418. Per analizzare come si dispiegano le «leggi normali di progresso», il Toniolo procede a una suddivisione delle industrie per «grandi rami di produzione» 419, distinguendo le «industrie territoriali», quelle «agricole e manifatturiere» e quelle «commerciali». 420 Le «industrie originarie territoriali» 421 «mirano ad apprendere i prodotti utili e ad occupare il sistema stesso delle materie e forze produttrici del territorio» 422. Ne sono esempi la caccia, la pesca, la pastorizia, l’industria mineraria, forestale e 416

TTE, III, p. 226. Ibidem. 418 TTE, III, p. 229. 419 TTE, III, p. 230. 420 TTE, III, pp. 230-231. Lo studio delle prime due tipologie di industrie è contenuto sul volume La produzione della ricchezza. Delle industrie commerciali, scrive il Toniolo, «si dirà al tema della circolazione della ricchezza» (TTE, III, p. 231). Il volume La circolazione della ricchezza, però, non fu completato dal Toniolo a causa del sopraggiungere della morte il 7 ottobre 1918. Uscì un’edizione postuma a cura di J. MAZZEI per i tipi della Libreria editrice fiorentina nel 1921 e ora ristampata in TTE, V, pp. 3-405. 421 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 231. 422 TTE, III, p. 231. 417

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di dissodamento territoriale. Inizialmente l’uomo acquisisce i prodotti che la natura spontaneamente fornisce («industria di apprensione») e solo in un secondo momento fa proprio il fattore naturale per sfruttarlo («industrie di occupazione»). Tale processo vede prevalere l’azione umana sulle forze di natura. Così, «la pastorizia diviene allevamento razionale zootecnico» e il «dissodamento della vergine superficie» si trasforma in «arte scientifica di ammendamento dei terreni»423. L’analisi prosegue con l’individuazione dei caratteri fondamentali delle «industrie di apprensione» 424, ossia della caccia, della pesca e della pastorizia. Con la caccia, in particolare, l’uomo fa propri animali «non soggetti immediatamente al dominio umano» 425. Essa risponde ai bisogni alimentari, fornisce vestiario e strumenti grazie al successivo utilizzo delle pelli, delle ossa e delle corna. L’autore del Trattato ripercorre lo sviluppo storico di tale attività, giungendo a concludere che essa, «nel progresso della civiltà», è destinata «quasi a sparire» 426. La pesca è l’industria di apprensione «consorella della caccia» 427. Il suo progresso è «tardivo» 428. In tempi recenti questa attività si distingue in pesca di acqua dolce e marina, in «litoranea e d’alto mare». 429 È soprattutto la pesca marittima a ricoprire un ruolo di rilievo nell’ambito dell’economia nazionale 430. Ad essa si ricollega l’industria della «preparazione del pesce», che trasforma materie facilmente deperibili, in prodotti trasportabili e utilizzabili a lungo termine. La pastorizia, infine, si configura come l’industria che ha per oggetto la «presa di possesso, custodia e usufruimento di specie animali» in zone geografiche che consentano la «moltiplicazione» e la «sussistenza» 431 di greggi e mandrie. Tale industria è «nomade per eccellenza» 432, essendo l’animale, e non il terreno sul quale temporaneamente si trova, l’oggetto del suo operare. La «legge di 423

TTE, III, p. 232. TTE, III, p. 233. 425 Ibidem. 426 TTE, III, p. 235. 427 TTE, III, p. 237. 428 TTE, III, p. 238. 429 In corsivo nell’originale: TTE, III, p. 238. 430 Scrive il Toniolo: «oggi pure la grandezza e i redditi di essa sono titolo cospicuo del bilancio economico di molte nazioni. Il Regno Unito (Inghilterra, Scozia, Irlanda) conta 107.000 persone addette alla pesca, con un valore di prodotti di 225 milioni di franchi (1900-4); superato ormai dagli Stati Uniti con 232.000 persone e 275 milioni di franchi (1901-4); e la Norvegia, lo stato peschereccio per eccellenza, sopra una esigua popolazione (2.240.000 ab.) vanta (1903) 109.000 pescatori, e raccoglie 40 milioni di franchi di pesce (Statesman’s book, 1906), cioè un terzo più dell’Italia intera (Levi-Morenos)» (TTE, III, p. 239). 431 TTE, III, p. 243. 424

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incremento» 433 segna il passaggio dal bestiame di piccola taglia (pecore e capre) al bestiame di grosse dimensioni (bovini e cavalli). La «legge di specificazione» 434 distingue l’allevamento del bestiame a scopi alimentari, da quello esercitato per ottenere animali da lavoro. Nei Paesi ad agricoltura progredita la pastorizia si integra con l’agricoltura. Emanate nel XIX secolo le «leggi proibitive del vago pascolo», «l’arte pastorale» diventa allevamento grazie al diffondersi dell’uso della stalla, a un’alimentazione garantita da «prati artificiali e irrigui» 435 e a un’accurata selezione zootecnica delle razze. Il Toniolo analizza quindi i caratteri delle «industrie occupatorie propriamente dette» 436. Dall’«arte di apprendere o acquisire i prodotti naturali», si passa, infatti, «all’occupazione del territorio» attraverso «le industrie minerale, forestale» e «fondiaria» 437. L’industria mineraria ha per oggetto l’acquisizione delle sostanze minerali del suolo e del sottosuolo. Essa si sviluppa «tardivamente» a causa di una serie di «caratteri complessi e originali» 438 che la contraddistinguono. Fondamentale importanza rivestono la presenza e la distribuzione geografica delle materie prime, nonché l’ampiezza della loro domanda. Opera, in primo luogo, la «legge di differenziazione» che distingue le cave, nelle quali l’estrazione del minerale avviene all’aperto, dalle miniere, «ove le sostanze si rinvengono nel sottosuolo»439. L’estrazione dalle cave riguarda, principalmente, i materiali utilizzati per costruzioni edilizie e stradali e quelli serventi «all’industria dei laterizi», «della porcellana» e delle «sabbie vetraie». Nelle pagine del Trattato il Toniolo ripercorre lo sviluppo storico dell’industria mineraria e afferma che solo dal XVIII secolo, grazie al capitalismo olandese, anglosassone e francese, essa raggiunse un grado di «poderoso sviluppo»440. Le cause di un tale incremento sono da rinvenire nell’aumentata

richiesta

di

ferro

e

carbone

conseguente

all’espansione

dell’industria meccanica e chimica, come pure nelle «progredite cognizioni geo-

432

TTE, III, p. 244. TTE, III, p. 245. 434 Ibidem. 435 TTE, III, p. 249. 436 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 250. 437 TTE, III, p. 250. 438 TTE, III, p. 252. 439 TTE, III, p. 253. 440 TTE, III, p. 261. 433

98

grafiche» 441 e tecniche, che permisero di esplorare e valutare la qualità e la distribuzione dei bacini minerari mondiali. L’importanza dell’industria mineraria è, per il Toniolo, inestimabile. Egli si chiede che valore avrebbero le «invenzioni meccaniche e chimiche» senza «l’immane contributo non solo del ferro e del carbone, ma del rame, zinco, piombo, mercurio, manganese, del salgemma, dello zolfo e di tutti i combustibili fossili». «L’arte mineraria è l’Atlante che sostenta il mondo industriale moderno» 442. Il Toniolo delinea i caratteri principali di questa industria. Essa è «industria territoriale per eccellenza» 443 a causa del suo oggetto, non potendo nascere e svilupparsi in mancanza di un giacimento. Ha, inoltre, «carattere di produzione di monopolio», non essendo il suo prodotto aumentabile ad arbitrio dell’uomo, ma condizionato dalle quantità e qualità dei minerali presenti in natura. È una «produzione di privilegio» 444, essendo possibile incrementare l’estrazione del prodotto solo affrontando costi crescenti e sempre sotto il vincolo delle disponibilità naturali. Altro carattere distintivo dell’industria mineraria è l’elevata aleatorietà del suo reddito che si compone di «plusvalori monopolistici, di rendita» e «di profitti», «tutti compromessi dalle irregolarità delle vene minerarie» 445, dalle forti oscillazioni nel valore di alcuni prodotti e dall’impossibilità di riconvertire il capitale impiegato nella miniera in altri tipi di produzione 446. Di fronte a questi «quotidiani pericoli», solo i «capitali sociali associati» 447 possono affrontare un così elevato grado di aleatorietà del reddito. Riguardo all’industria mineraria, il Toniolo individua due compiti della legislazione: da un lato essa deve essere tesa a definire il soggetto cui spetta la proprietà della miniera e dall’altro deve disciplinarne l’esercizio. Quanto al primo aspetto, egli individua nella storia «tre tipi giuridici fondamentali»: 1) in un primo caso la miniera si configura come «proprietà autonoma» 448, distinta dalla proprietà della superficie; 2) in un secondo caso, invece, la proprietà mineraria di consolida con la proprietà superficiale; 3) infine, la miniera può configurarsi co441

Ibidem. TTE, III, p. 263. 443 TTE, III, p. 264. 444 In corsivo nell’originale: TTE, III, p. 265. 445 TTE, III, p. 267. 446 «Studi e rapporti ufficiali sul massimo distretto minerario d’Inghilterra, la Cornovaglia, dal 1880-1890, provano che solo 12 miniere (di stagno) dettero dividendi meravigliosi, la metà pareggiarono le spese, le altre chiusero» (TTE, III, p. 268). 447 TTE, III, p. 268. 442

99

me proprietà pubblica dello Stato. Con dovizia di particolari, il Toniolo ripercorre lo sviluppo storico dei principi giuridici volti a definire la proprietà della miniera: dal principio medioevale secondo il quale la miniera era «oggetto di un’alta sovranità dello Stato» che ne disponeva a fini di pubblica utilità 449 alle «nazionalizzazioni […] attuate dagli Stati australiani con le leggi del 1894-96». 450 L’industria forestale ha per fine la fornitura delle «materie legnose»451 messe a disposizione dalla natura. Successivamente si trasforma in coltivazione di «sostanze arboree» 452. Tale passaggio, che dalla semplice raccolta del legno trasforma l’industria forestale in dominatrice del bosco, è più lento rispetto a quello delle altre industrie occupatorie. La foresta segue i «caratteristici momenti storici dell’occupazione»: da res nullius, a disposizione di tutti, diviene «proprietà particolare» di «enti sociali pubblici» (villaggi, Stato, nobiltà, Chiesa); infine, nei secoli XVIII e XIX, «senza cessare di essere patrimonio di Stato», diviene «oggetto di libera acquisizione privata» 453. L’utilizzo del legno è in stretta relazione «coll’aumento delle popolazioni e della loro civiltà» 454. Esso è, in primo luogo, «oggetto di consumo» 455, servendo a usi domestici ed essendo materiale per costruzioni e arredamento. È anche «mezzo di produzione economica», dal quale si ricavano strumenti, «apparecchi industriali», «veicoli di trasporto» e «navi» 456. Rispetto alla foresta, il Toniolo individua una «legge storico sociale», secondo la quale il bosco subisce dapprima un «processo di distruzione», seguito da uno di «conservazione e incremento». 457 La fase di distruzione è, in parte, causata da elementi naturali, ma soprattutto è propria di epoche caratterizzate da un rapido sviluppo delle industrie che richiedono materie legnose. Di fronte a lauti guadagni, inoltre, non solo è utilizzato il «prodotto annuale», ma la «foresta stessa nella sua massa» 458. Per il Toniolo è «l’evo moderno» a rappresentare il «periodo

448

TTE, III, p. 269. TTE, III, p. 273. 450 TTE, III, p. 281. 451 TTE, III, p. 283. 452 Ibidem. 453 TTE, III, p. 284. 454 TTE, III, p. 285. 455 Ibidem. 456 TTE, III, p. 286. 457 Ibidem. 458 TTE, III, p. 288. 449

100

delle grandi devastazioni»459 delle foreste 460. Egli sostiene che le cause del disboscamento sono prima ideali e poi economiche. Dal XVIII secolo la rivolta contro le «istituzioni dell’ancien régime» aveva inevitabilmente travolto anche il «sistema forestale» 461, che per tradizione era stato legato ai privilegi della nobiltà e del clero. Da tale situazione erano derivate leggi forestali che avevano introdotto la libera commerciabilità del bosco. A queste ragioni il Toniolo aggiunge cause di carattere prettamente economico. Egli ricorda come i progressi in campo agricolo abbiano inevitabilmente allargato «il margine dei terreni coltivati» 462 e come si sia verificato un andamento ascendente nel consumo di legname per uso domestico e civile. Lo sviluppo delle ferrovie condizionò «le sorti delle foreste», assorbendo ingenti quantità di legname per la costruzione di «traversine» e di «carrozze» 463. A tutto ciò si aggiunse anche il «disboscamento vandalico di speculatori improvvisati o di improvvidi proprietari». 464 L’opera di «conservazione ed incremento del bosco» 465 è di recente attuazione e si svolge, sotto la guida della «scienza forestale» 466 con un triplice obiettivo: 1) conservare il bosco nella sua estensione, riconoscendolo come un «capitale che non deve essere diminuito»; 2) ottenere nell’«esercizio forestale» 467 il «massimo prodotto (lordo) legnoso» per meglio rispondere ai bisogni sociali; 3) perseguire il «rimboschimento» 468 per ampliare l’area dedicata alla foresta. Il Toniolo indica, inoltre, quali devono essere gli interventi del «diritto» e della «politica forestale». In particolare, questi devono: 1) proibire la distruzione e il «taglio generale dei boschi»; 2) introdurre il taglio periodico degli alberi in foreste dove la crescita della vegetazione sia controllata; 3) disciplinare la «servitù» e gli «usi pubblici di pascolo e legnatico»; 4) definire la «proprietà boschiva» che, in considerazione dell’interesse sociale, deve essere «mantenuta o ricostituita nelle mani di enti morali giuridici», segnatamente fondazioni o corporazioni, o in quel-

459

TTE, III, p. 289. Scrive il Toniolo: «Mirabeau nel 1750 calcolava che le foreste coprissero ancora (forse esagerando) 17 milioni di ettari in Francia. Un secolo dopo nel 1860 erano quasi ridotte a 8 milioni e ben peggio in altri Stati (Helferich)» (TTE, III, p. 289). 461 TTE, III, p. 290. 462 TTE, III, p. 291. 463 TTE, III, p. 292. 464 Ibidem. 465 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 293. 466 TTE, III, p. 293. 467 TTE, III, p. 294. 468 Ibidem. 460

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le di comuni, di provincie e dello Stato andando a costituire «un patrimonio inalienabile della nazione» 469. L’«industria fondiaria» 470 adatta il suolo alla coltivazione. Essa rappresenta la terza tipologia di industria «occupatoria», configurandosi spesso come autonoma rispetto a quella coltivatrice. Le industrie fondiaria e coltivatrice «compongono l’industria rurale» 471. La prima è, perciò, studiata dal Toniolo come una «forma di costituzione dell’industria rurale» 472. Quest’ultima, infatti, ha per oggetto l’«occupazione e preparazione» del terreno alla coltivazione e la produzione «di enti organici vegetali» 473. Da tali funzioni prendono corpo i due rami di essa: da un lato l’industria fondiaria e dall’altro l’industria «coltivatrice», distinta in «praticoltura» e «agricoltura». 474 L’industria fondiaria si occupa del processo di «dissodamento» 475 della terra e della «piantagione». Tali processi hanno origini antichissime e un ciclo storico di sviluppo molto rapido. Il progresso dell’industria fondiaria è influenzato da fattori «tecnici, sociali» e «giuridici» 476. Primaria importanza spetta certamente alla «tecnica» 477. Il primo passo è l’uso della zappa, grazie alla quale si dissodano piccole porzioni di terreno per un’agricoltura domestica. Un secondo stadio di sviluppo è rappresentato dall’introduzione dell’aratro che, accoppiato all’uso di animali domestici, permette un dissodamento «disteso e continuato»478. La terza tappa è rappresentata dall’«arte della piantagione» 479, grazie alla quale l’uomo introduce e moltiplica le specie vegetali. Anche se non sempre «tale successione distinta di momenti tecnico-fondiari» si svolge, può delinearsi, secondo il Toniolo, una «legge di intensificazione» 480, secondo la quale il terreno diviene sempre più «un prodotto dell’arte umana» 481. Un secondo ordine di fattori influenti nel processo di sviluppo dell’industria fondiaria è costituito da aspetti che il Toniolo definisce «socia469

TTE, III, p. 295. In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 296. 471 TTE, III, p. 298. 472 Ibidem. 473 TTE, III, p. 299. 474 Ibidem. 475 In corsivo nell’originale: TTE, III, p. 302. 476 TTE, III, p. 304. 477 Ibidem. 478 TTE, III, p. 305. 479 Ibidem. 480 TTE, III, p. 306. 481 TTE, III, p. 307. 470

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li»482. Al periodo della zappa corrisponde una società «ugualitaria» poggiante su «associazioni familiari e collettive» 483. Con l’introduzione dell’aratro viene ad accentuarsi la distinzione tra classi possidenti e classi lavoratrici. Il terzo periodo, quello delle piantagioni, segna il risveglio del popolo che, «con proprie iniziative», si prepara a costituire una «classe rurale organica», al suo interno distinta in «classe possidente» e «classe lavoratrice» 484. Ne deriva che i progressi dell’industria fondiaria seguono le vicende «economiche, civili» e «morali» di queste due classi sociali, risultando condizionati dalle loro «reciproche relazioni»485. Scrive il Toniolo: «guai se la classe dispositrice del terreno neglige od opprime quella che suda sul solco, o questa abbandona la zolla», o se «l’egoismo soffoca il senso degli interessi generali connessi in alto grado colla produttività della terra; questa inselvatichisce o dilaga il terreno incolto» 486. Fondamentale affinché l’azione delle classi rurali produca i propri benèfici effetti è la nascita di «vincoli stabili colla terra». Il Toniolo pone di nuovo attenzione a quel «grande fatto sociale» della trasformazione dei popoli da nomadi in sedentari, indicandolo come un momento storico decisivo nell’«incivilimento» 487. Un ulteriore ordine di fattori caratterizzanti il processo di sviluppo dell’industria fondiaria è costituito da quelli che il Toniolo indica come «giuridici» 488. Nel definirli, egli suddivide la sua analisi a seconda che tali fattori si riferiscano all’appropriazione del suolo o ai rapporti dei coltivatori con i proprietari. Con riguardo all’appropriazione, il Toniolo individua un processo storico che ha come punto di partenza l’uso collettivo di beni comuni e come momento finale la nascita della «proprietà particolare» 489. Quest’ultima favorisce non solo nuovi dissodamenti, ma anche un utilizzo intensivo dei terreni già occupati grazie alle continue migliorie, frutto di «lavoro» e di «capitale», che l’uomo, per processo «naturale» 490, apporta. Non sempre, però, la proprietà terriera «ha origine econo482

In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 307. TTE, III, p. 307. 484 TTE, III, p. 308. 485 Ibidem. 486 TTE, III, p. 309. 487 Ibidem. 488 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 310. 489 TTE, III, p. 310. Si pensi a titolo d’esempio alla soppressione, nel XVIII, del sistema inglese dell’open field. Con il movimento dell’enclosure, infatti, si attuò la chiusura dei campi aperti e delle terre comuni, previamente divise e appoderate. Cfr. F. DOVRING, La trasformazione dell’agricoltura europea, in Storia economica Cambridge, VI/2, La rivoluzione industriale e i suoi sviluppi, a cura di H.J. HABAKKUKM. POSTAN, Torino 1974, pp. 679-685. 490 TTE, III, p. 311. 483

103

mica

dal

lavoro»;

specie

«nell’età

pagana»

il

terreno

era

distribuito

«dall’autorità» ai ceti «civili o politico-militari» 491. Il Toniolo sostiene che la proprietà terriera «derivante dal lavoro» è stimolo a nuove migliorie e a nuovi dissodamenti, mentre quella di «origine autoritaria», «spesso arbitraria e violenta» 492, è meno incline a sviluppare un processo migliorativo. Solo se la grande proprietà si «accoppia» con la coscienza del grande valore sociale della terra e con sentimenti di solidarietà fra classi può evitarsi quella tendenza a frenare i miglioramenti terrieri. È il caso delle «proprietà ecclesiastiche, specie monastiche», che furono precursori delle lavorazioni di terreni incolti «del suolo europeo»493. Riguardo ai rapporti tra coltivatori e proprietari, il Toniolo afferma che l’impegno dei primi «ad accrescere la potenza produttiva del suolo»494 è in relazione con la tipologia di rapporti giuridici intercorrenti tra le due classi sociali menzionate. L’opera di dissodamento risulta «stazionaria o intermittente» se frutto di lavoro servile, mentre diventa più energica se è il risultato di un lavoro libero. Un ruolo decisivo è svolto dai «contratti agrari» 495. L’autore del Trattato sostiene che un rapporto tra lavoratore e proprietario capace di garantire il diritto del primo a partecipare ai miglioramenti della produttività del terreno è un elemento in grado di favorire le migliorie fondiarie. «All’avarizia del proprietario» si deve sostituire la «tenuità del canone combinato colla durata del contratto (enfiteusi)», la possibilità di trattenere «una quota parte del prodotto in natura (mezzadria)» o la garanzia per il colono di ottenere «una indennità per le migliorie introdotte (fitto)». Egli avverte il grande pericolo che si corre se viene tolta al lavoratore della terra «ogni stabile cointeressenza con essa» 496. Il Toniolo affronta il tema della «residenza campagnola» 497. Egli afferma che la residenza delle classi rurali «sulla terra coltivata o posseduta» 498 è un ulteriore stimolo ai miglioramenti fondiari. L’insediamento dei lavoratori «presenta a

491

TTE, III, p. 312. TTE, III, p. 313. 493 TTE, III, p. 314. 494 TTE, III, p. 315. 495 Ibidem. Sui contratti agrari, vedi PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, pp. 113492

119. 496

TTE, III, p. 316. In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 316. 498 TTE, III, p. 316. 497

104

lungo andare due forme tipiche principali» 499. Una prima tipologia, definita «sistema delle case agglomerate» 500, si caratterizza per la presenza di un «punto comune», dove risiedono i lavoratori di diverse aziende. Tale sistema è funzionale agli «originari dissodamenti e alle vaste bonifiche», per le quali occorre un gran numero di lavoratori. Un secondo sistema è quello delle «case sparse» 501, in cui su ciascun podere di proprietà è eretta una singola dimora. Quest’ultimo sistema meglio si presta alle «successive, più insistenti e minute migliorie terriere» 502. La fondazione delle città accanto alla campagna rappresenta una tappa fondamentale nel processo di sviluppo dell’industria fondiaria. Le classi industriali e mercantili prima o poi riversano la propria «ricchezza mobile nella terra circostante» 503 in cerca di un impiego sicuro. Ha inizio, così, un processo di suddivisione del latifondo e incremento delle migliorie terriere. Tale momento è «solenne»: l’industria fondiaria si trasforma in «capitalistica» e i dissodamenti, prima frutto di «bisogni immediati della vita», divengono ora «regolati» e stimolati «dai profitti del capitale impiegato» 504. Un incremento della ricchezza nelle città si traduce nella maggior parte dei casi in un progresso dell’industria fondiaria. Non mancarono «deviazioni egoistiche e colpevoli» come quelle della «borghesia capitalistica nelle terre inglesi dal sec. XVIII in poi», che per diverso tempo relegarono la campagna a svolgere la funzione di «pascoli pecorini» per fornire «lane alle manifatture cittadine» 505. Casi come questo rappresentano comunque delle eccezioni e, a dimostrarlo, è il grande sviluppo dell’industria fondiaria europea coinciso col «prosperare delle città». In questa forma di «industria occupatoria», la funzione dello Stato si esplica con la «politica fondiaria» 506. Essa da un lato deve avere lo scopo di disciplinare il «regime dei contratti agrari» e quello della proprietà; dall’altro deve farsi promotrice di «operazioni tecnico-economiche» dirette «alla trasformazione del territorio» 507. 499

TTE, III, p. 317. Ibidem. 501 TTE, III, p. 318. 502 TTE, III, p. 319. 503 Ibidem. 504 TTE, III, p. 320. 505 TTE, III, p. 321. 506 TTE, III, p. 324. 507 TTE, III, pp. 324-325. 500

105

L’autore

del

Trattato

individua

un’ulteriore

legge

di

progresso

dell’industria fondiaria, con l’avvertenza che tale legge vale «sotto le condizioni e nei limiti» posti dalla natura, dall’uomo e dall’ordine «sociale giuridico» 508. La costante «tendenza» «all’incremento dei dissodamenti» trova la propria origine nel «fattore demografico» 509, essendo collegata ai bisogni «alimentari crescenti»510. A mano a mano che le richieste alimentari aumentano, «non dovranno i dissodamenti iniziarsi e poi trasferirsi su terreni di più in più feraci, salvo ad estendersi ai meno fertili dopo di avere quelli esauriti?»511. La risposta sarebbe affermativa se il dissodamento e l’utilizzo delle terre seguissero «puri criteri economici» 512. La storia però dimostra che così non è. A incidere sulla scelta delle terre sono spesso «l’insediamento delle popolazioni e lo stato della tecnica»513. Sulla scelta dell’insediamento pesano «non già i terreni buoni e cattivi per l’agricoltura», quanto, piuttosto, le condizioni di salubrità del luogo e le esigenze di difesa. In un momento storico successivo non importa tanto la «produttività potenziale» 514 della terra, quanto l’attitudine della stessa a essere coltivata con gli strumenti che in quel preciso momento si possiedono. Lo spostamento del margine di coltivazione segue, secondo il Toniolo, precise modalità. La coltivazione si estende «superiormente negli elevati monti» per mezzo del lavoro umano e della «tecnica manuale» 515. Il margine inferiore, invece, si sposta nelle basse pianure «per virtù dei capitali copiosi e della tecnica scientifica stromentale» 516. La porzione di terra coltivata varia, perciò, in relazione alle crescenti necessità di consumo, modificando il margine superiore o inferiore.

508

TTE, III, p. 325. È Malthus a occuparsi delle conseguenze dell’incremento demografico. Nel Saggio sul principio di popolazione e sulle sue conseguenze sul futuro progresso della società egli espone la teoria secondo la quale la popolazione della terra cresce con una progressione geometrica, mentre i mezzi di sussistenza seguono una progressione aritmetica. Scrive MALTHUS (Saggio sul principio di popolazione, pp. 6-8): «si può dunque con tutta franchezza asserire che la popolazione, quando non è arrestata da alcun ostacolo, si raddoppia ad ogni periodo di 25 anni, crescendo così in progressione geometrica». Inoltre, «noi possiamo dire che, considerando lo stato presente della terra, i mezzi di sussistenza, nelle circostanze più propizie all’umana industria, non potrebbero crescere che in proporzione aritmetica». 510 TTE, III, p. 325. 511 Questione, questa, che il Toniolo indica come una «antica disputa fra gli economisti Ricardo e Carey» (TTE, III, p. 326). 512 TTE, III, p. 326. 513 TTE, III, p. 327. 514 Ibidem. 515 TTE, III, p. 328. 516 Ibidem. 509

106

Il Toniolo rileva come, in una «economia progredita», il processo di sviluppo dell’industria fondiaria possa retrocedere o addirittura «essere arrestato» prima della messa a coltura di tutto il terreno disponibile, a causa della «concorrenza mercantile» 517. Egli ricorda come dal «1872 per la concorrenza granaria fra Europa e America» le nazioni europee furono inondate di «cereali a prezzi avviliti»518. Gli effetti in Gran Bretagna non si fecero attendere 519. «Si esaltò dapprima la febbre di ardite e dispendiose migliorie del suolo» nella speranza di compensare la riduzione di prezzo con l’aumento della quantità prodotta. Dal 1881 al 1889 si verificò «la massima depressione dei prezzi» con una diminuzione della «rendita del 28%». Nel «1895 il valore della proprietà» si era ridotto del 46%. Il limite superiore di coltivazione dei terreni era arretrato e «buona parte delle terre arative» era ritornata «a pascolo». Il profitto dei «fittanzieri» risultava dimezzato e i «volghi

campagnoli»

si

erano

«inurbati»

o

avevano

scelto

la

strada

dell’emigrazione. Si verificò una vera «crisi fondiaria», che nascondeva un forte contrasto fra lo «sterminato continente americano» e il «ristretto territorio europeo» 520. Nella civiltà cristiana il Toniolo individua, rispetto al processo di sviluppo dell’industria fondiaria, «tre periodi storici alternati da soste e regressi» 521. Il «periodo iniziale» va dalla nascita dei regni barbarici fino all’impero di Carlo Magno. Successivamente all’«esaurimento agricolo fondiario figlio dell’anarchia dei successori dei Carolingi» e toccato il massimo della «depressione» intorno al 1000, l’opera di dissodamento riprese da Gregorio VII e dall’Italia, per espandersi in tutta Europa e durare «ben quattro secoli»522. L’età delle scoperte geografiche fu per l’industria fondiaria disastrosa. A causa delle «avventure transoceani517

TTE, III, p. 330. Ibidem. 519 Sostiene P. BAIROCH (Agricoltura e rivoluzione industriale (1700-1914), in Storia economica d’Europa, diretta da C. M. CIPOLLA, III, Torino 1980, p. 433) che «l’Inghilterra cominciò a fare effettivamente ricorso al commercio estero soltanto verso il 1850. Nel periodo 1811-30 il grano importato rappresentava soltanto il 3% del consumo del Regno Unito; questa percentuale nel periodo 1831-51 salì al 13%, al 30% nel periodo 1851-1860, raggiungendo il 79% nel periodo 1891-95». 520 TTE, III, p. 331. Secondo BAIROCH (Agricoltura e rivoluzione industriale (1700-1914), p. 434) «il fatto che certi Paesi abbiano fatto ricorso alle importazioni di generi alimentari in una fase avanzata dello sviluppo è inoltre connesso con gli insediamenti avvenuti in certe aree extra-europee (soprattutto gli Stati Uniti) di una popolazione che aveva raggiunto in agricoltura un elevato livello tecnico e questo sviluppo, insieme alla disponibilità di immense distese di terra fertile, rese possibile la produzione di cereali a basso costo. Fu così che nel periodo 1866-75, secondo i nostri calcoli, la differenza tra i costi di produzione negli Stati Uniti e in Francia era del 53% circa; nel periodo 1876-85 questo scarto salì al 56%, raggiungendo poi nel periodo 1886-95 il 78%». 521 TTE, III, p. 333. 518

107

che» e delle «guerre civili e religiose (dal sec. XV al XVII) 523», le campagne furono abbandonate. Solo dal XVIII secolo si iniziano a vedere i segni di una ripresa. «L’industria fondiaria intensiva» 524 impegna, infatti, le proprie forze su due fronti: da un lato essa mira a incrementare la quantità dei terreni messi a coltura e dall’altro

introduce

nuove

migliorie

su

quelli

già

coltivati.

Quanto

all’ampliamento dell’area coltivata, il Toniolo segnala «il riscatto» di terre «soggette alle invasioni del mare» 525 attraverso la costruzione di dighe, il prosciugamento di «laghi o stagni palustri» e la sistemazione «del letto e dei corsi» 526 dei fiumi. Le migliorie dei terreni già coltivati riguardano gli «allivellamenti della superficie» in favore della «praticoltura», gli «ammendamenti» del suolo attraverso «scoli e fognature» e l’introduzione di sistemi di irrigazione. A tale attività partecipano «proprietari, coltivatori, capitalisti, corporazioni» e «lo Stato», accomunati dalla volontà di portare a termine «opere di duratura benemerenza sociale» 527. Da ultimo, il Toniolo affronta la questione delle «leggi fondiarie» 528. Esse devono: 1) definire la «proprietà delle acque pubbliche e private» 529, nonché disciplinarne l’uso; 2) promuovere la nascita di «consorzi di scolo, di irrigazione» e di «bonifica» 530; 3) introdurre «sistemi di credito fondiario» e «provvidenze finanziarie di Stato relative alle migliorie terriere». 531

522

TTE, III, p. 334. Ibidem. 524 TTE, III, p. 337. 525 Ibidem. 526 TTE, III, p. 338. 527 A testimoniare il grande progresso dell’industria fondiaria bastano alcuni dati citati dallo stesso Toniolo: nel Regno Unito «in soli 25 anni, dal 1850-76, il capitale rappresentato dalle sole migliorie salì da 10 a 20 miliardi di fr. (Caird, in Masè-Dari) e questo che già dal 1857 al 77 avea speso 415 milioni per i canali irrigui dell’India, inscrisse testè (1901) un sussidio annuo di 62 milioni di franchi sul bilancio indiano (Gigliolo). Del resto, per dire dell’importanza ed effetti di tali opere, il solo canale Cavour (in Piemonte) costò all’Italia non meno di 60 milioni. Il drenaggio talora aumenta il reddito del 30%; e fra due poderi contigui in Ispagna, quello irriguo eleva sull’altro il valor del fondo da 300 a 4000 lire (Rocher)» (TTE, III, p. 340-341). Cfr. DOVRING, La trasformazione dell’agricoltura europea, in Storia economica Cambridge, VI/2, La rivoluzione industriale e i suoi sviluppi, a cura di HABAKKUK-POSTAN, pp. 679-685. 528 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 341. 529 TTE, III, p. 341. 530 TTE, III, p. 342. 531 Ibidem. 523

108

4.

L’industria agricola

All’industria fondiaria, dedita alla preparazione del terreno per la coltivazione, succede, anche da un punto di vista cronologico, «l’industria coltivatrice o agricola propriamente detta» 532, che si occupa della «generazione di prodotti vegetali» 533 dal suolo. Nell’industria agricola, conserva valenza il principio edonistico e per questo l’uomo cerca di ottenere il massimo effetto utile col minimo dispendio di forze produttive. Al pari degli altri tipi, anche l’industria coltivatrice nel suo svolgersi segue la «triplice legge» di «specificazione, d’incremento e di integrazione» 534. Il principio edonistico e le tre leggi ricordate devono essere integrati da quegli aspetti riguardanti l’oggetto speciale dell’industria agricola. Si può affermare che «qualsiasi legge economica non si manifesta mai in concreto nella sua pura dimensione edonistica» e il suo dispiegarsi risulta sempre condizionato «dalle situazioni storiche a loro volta determinate dall’ambiente, dall’uomo e dalla società» 535. Le suddette leggi sono subordinate a quella «per cui l’arte coltivatrice da empirica tende a divenire scientifica». Il processo appena enunciato risulta essere «più lento e difficile» 536 rispetto a quello delle altre industrie. Ciò, in considerazione del fatto che, nell’esercizio dell’attività agricola, si fondano diverse conoscenze e, segnatamente, quelle riguardanti la fisica, la chimica, la «fisiologia» animale e vegetale, la «meteorologia» e «l’idraulica» 537. Va detto inoltre, che tradizionalmente si sono legati all’agricoltura ingenti «interessi civili» e «tenaci vincoli giuridici» in grado di intralciare il passaggio dell’attività coltivatrice da empirica in scientifica. D’altro canto essa può considerarsi, per il suo carattere di attività rivolta al soddisfacimento dei bisogni umani essenziali e per essere stata 532

TTE, III, p. 343. Sappiamo come il Toniolo consideri l’industria fondiaria e l’industria agricola propriamente detta facenti parte di quella rurale. La prima è studiata come legge di costituzione dell’industria rurale, mentre la seconda come sua legge di esercizio. Tale impostazione è stata ribadita anche nella relazione Della convenienza di tenere distinta la trattazione dell’industria fondiaria dall’industria agricola propriamente detta, letta dal Toniolo all’adunanza del 4 aprile 1909 della R. Accademia dei Georgiofili, ora ristampata in TTE, IV, pp. 296-324. 533 TTE, III, p. 343. 534 Ibidem. 535 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 91. 536 TTE, III, p. 344. 537 Ibidem.

109

nei secoli buona palestra del «braccio e [del]la mente dei popoli», l’industria più ricca di «esperienza», formatasi «con pratiche empiriche altamente illuminate» 538. Il XVIII secolo segna in Europa il «risorgimento dell’industria agricola»539, grazie anche al ruolo svolto dagli economisti fisiocratici 540. A richiamare l’attenzione degli studi di «economia sociale alla terra contribuirono» 541: 1) «lo sviluppo della storia giuridica della proprietà fondiaria» 542 e quello della «storia civile ed economica» 543; 2) le «inchieste rurali», aperte in Italia, Francia e Germania in seguito alla crisi agraria; 3) la «legislazione agraria promessa dal socialismo riformatore e dalla scuola sociale politica» 544. Il Toniolo suddivide l’analisi delle tre leggi individuandone i tratti caratteristici rispetto all’ordinamento tecnico, professionale ed economico-giuridico.

4.1.

Nell’ordinamento tecnico

Nell’industria agricola, l’ordinamento tecnico «riguarda la scelta degli oggetti da mettersi in coltivazione» 545. Rispetto a questa scelta opera la legge di specificazione. Nel suo dispiegarsi, gli elementi che maggiormente incidono sono l’«altitudine» e il «clima» 546. Deriva, per esperienze empiriche, che un tipo di coltura può dare un «utile massimo relativo» soltanto nella «propria sede altime538

TTE, III, p. 345. TTE, III, p. 346. 540 Scrive RICOSSA, Dizionario di economia, p. 209 (Fisiocrazia): la fisiocrazia è una dottrina «eminentemente francese del XVIII» e «occupa un posto importante nella storia del pensiero economico, venendo dopo il mercantilismo, in ordine di tempo, e prima della cosiddetta scuola classica britannica». I fisiocrati credevano che «l’economia fosse retta da un ordine naturale» e vedevano nell’agricoltura «l’unica fonte della ricchezza umana». Un’agricoltura «florida doveva essere libera». «Con un linguaggio moderno si può dire che la fisiocrazia riconosce un unico genere di reddito, la rendita dei proprietari dei beni naturali, e nega gli altri generi di reddito, il profitto dei capitalisti e il salario dei lavoratori». Cfr. C.E. STALEY, A History of Economic thought: from Aristotele to Arrow, Cambridge 1989, pp. 31-38; sul Taleau économique v. L. PASINETTI, Lezioni di teoria della produzione, Bologna 19812, pp. 7-10. 541 «Donde una rifioritura di studi di economia sociale agricola o nei trattati generali o in monografie speciali (Marshall, Pierson, Loria, Valenti, v.der Goltz, Meitzen, Masse, Shaw, Seebohm, Pressensé, Dubois, Flour de Saint Genis, G. Bianchi, Bertagnoli, A. Mortara)» (TTE, III, p. 349). Cfr. A. LORIA, Corso di economia politica, Torino 1964, pp. 240-261. 542 Il Toniolo cita i lavori di «Maurer, Grimm, Hartmann, Dareste de la Chavanne, Laboulaye, Garsonnet, Schupfer, Calisse, [e] Lattes» (TTE, III, p. 349). 543 Citando i contributi di «Sternegg, Lamprecht, Ashley, Roscher, Cunningham, Taine, [e] Janssen» (TTE, III, p. 349). 544 TTE, III, p. 349. 545 TTE, III, p. 350. 546 Ibidem. 539

110

trica» 547. Al suo interno, le colture si specificano ulteriormente in ragione delle qualità fisiche e chimiche dei terreni. Conseguentemente a tali aspetti «si palesa» una «legge di successione storica» 548 delle colture: essa ha inizio dalla contemporanea presenza di coltivazioni erbacee e granarie, e prosegue con la moltiplicazione delle varietà dei cereali e delle «piante arboree fruttifere». Trovata risposta ai bisogni alimentari, sopraggiungono le «colture industriali e coloniali» 549, costituite dalle materie prime per l’industria manifatturiera (lino, canapa, cotone) e dai «prodotti alimentari di complemento» (canna da zucchero, the, tabacco). Infine, un’ulteriore specificazione avviene per «zone di mercato» 550 con l’obiettivo di assicurare un pronto smercio dei prodotti sostenendo spese di trasporto inferiori. L’ultimo caso di specificazione tende, però, a perdere importanza a seguito dell’«agevolezza e mite prezzo dei trasporti moderni» 551. La specificazione altimetrica e climatica compone delle aree geografiche, all’interno delle quali una coltura particolare trova l’ambiente ideale per svilupparsi 552. Dato che la specificazione per zone di mercato perde rilevanza, il massimo fattore di specificazione è costituito dalle «zone fisico-chimiche» 553. Un importante ruolo è svolto dalla «scienza», che sempre più scopre nuove specie vegetali adatte alle varie caratteristiche dei singoli terreni. La legge d’incremento opera trasformando l’agricoltura da estensiva in intensiva. È estensiva la coltura ottenuta con esigui «dispendi» di lavoro e capitale su una vasta area di terreno; è intensiva quando la produzione si ricava impiegando ingenti dosi di lavoro e capitale su di un terreno ristretto. Tale trasformazione è una «applicazione della legge edonistica» 554 tendente a ottenere il massimo risultato con differenti impieghi del fattore natura rispetto agli altri due. Da siffatte premesse «discendono le forme e tappe del progresso agricolo»555. La prima tappa è rappresentata dall’agricoltura estensiva, che può presentarsi sotto tre diverse forme. L’una, definita «coltura transitoria», opera di popo547

TTE, III, p. 351. Scrive il Toniolo: «riuscirebbe il grano sugli altissimi pascoli delle Alpi? […] Regnerebbe la vite nelle pianure uliginose affogate dall’acqua?» (TTE, III, p. 350-351). 548 TTE, III, p. 352. 549 TTE, III, p. 353. 550 Ibidem. 551 TTE, III, p. 354. 552 Se ne occuparono «agronomi, naturalisti ed economisti classici, Thaer, Ricardo, von Thünen, Liebig» (TTE, III, p. 354). 553 TTE, III, p. 355. 554 Ibidem. 555 TTE, III, p. 356.

111

lazioni nomadi che sfruttano temporaneamente e collettivamente un terreno, è tipica dei popoli germanici fino al «dominio romano». L’altra, definita «coltura intermittente», è presente nei «Paesi nuovi coloniali» 556 e nelle regioni americane, dove vaste aree di terreno, sovente acquistate per «pochi dollari», sono messe a coltura o lasciate a pascolo secondo le previsioni sull’andamento dei prezzi. Infine, nella terza forma detta «coltura continua di latifondo» 557, poche famiglie proprietarie di grandi appezzamenti di terreno «ritraggono esuberanti redditi» dalla locazione «a tenue canone», con l’intermediazione di «affittanzieri speculatori e sfruttatori

delle

miserabili

contadinanze»558.

La

ragione

economica

dell’agricoltura estensiva, risiede nell’abbondanza di terreno «libero o di scarso valore». La legge edonistica, pertanto, impone l’utilizzo della massima superficie possibile combinata a un esiguo impiego di capitale e lavoro. Il «passaggio alla coltura intensiva» 559 è favorito dall’insediamento «definitivo di un popolo in un territorio proprio» 560. La «legge di incremento intensivo […] segna questi stadi». Rispetto ai metodi di coltivazione, si passa dai riposi periodici per ricostituire la fertilità del terreno ai riposi «parziali alterni» col sistema detto «del maggese», fino ad arrivare alla «coltivazione continua», sopperendo al degradare della fertilità con «mezzi di ricostituzione artificiale» 561. Con riferimento ai «mezzi di coltivazione, si succedono due momenti». In un primo, vige «l’intensificazione di lavoro empirico» coadiuvato dall’utilizzo di strumenti manuali, da «forze animali» e da «concimi naturali» 562. Successivamente prevale l’«intensificazione di capitale» 563 e il lavoro diviene «scientifico in ogni specie di esercizio agricolo» 564. Caratterizzano il secondo momento: 1) gli «avvicendamenti (rotazione)» di varie coltura sullo stesso terreno, guidati non dall’esperienza, ma dalla scienza, che indica piante e concimi adatti; 2) l’uso di una «suppellettile strumentale» 565 perfezionata applicando alle macchine la forza del vapore e dell’elettricità e selezionando le razze animali adatte al lavoro; 3)

556

Ibidem. TTE, III, p. 357. 558 Ibidem 559 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 358. 560 TTE, III, p. 358. 561 TTE, III, p. 359. 562 Ibidem. 563 TTE, III, p. 360. 564 Ibidem. 565 TTE, III, p. 361. 557

112

l’utilizzo di «concimi artificiali» 566 preparati dall’industria chimica. È l’epoca del high farming inglese i cui risultati sono sorprendenti 567. La legge di incremento incontra limiti e condizioni di applicabilità. Sono indispensabili disponibilità di capitale, l’aiuto di una scienza progredita e la presenza di un mercato in grado di assorbire le maggiori produzioni. Con la «legge di integrazione», infine, tutte le forme di «specificazione» dell’attività agricola «si completano a vicenda» 568. Tale legge vale, in primo luogo, per gli «specifici oggetti dell’arte agraria»569. Così, la «praticoltura», grazie ai fertili ed estesi prati, fornisce all’agricoltura un maggior numero di animali da lavoro, più «estese braccia umane» e abbondanti concimi naturali. La stessa «coltura promiscua» è un esempio di applicazione della «legge di integrazione». Il coltivare diverse varietà di prodotti su uno stesso podere («p.e. grano, olive, uva, oltre ai prodotti accessori»), garantisce un reddito medio annuale costante, al riparo dalle inevitabili oscillazioni dei prezzi dei prodotti agricoli 570. Avviene, infine, un’integrazione dell’attività agricola con le «industrie territoriali affini»571, quali la caccia, la pesca e «l’arte forestale» 572.

4.2.

Nell’ordinamento professionale

L’ordinamento professionale riguarda l’«assetto dell’impresa agricola, rispetto alle persone che esercitano la professione di agricoltori» 573. Operano anche qui le leggi di specificazione, incremento e integrazione.

566

Ibidem. «Con tali mezzi di esercizio agrario potente e saggio, insieme alle operazioni fondiarie di bonifiche, ammendamenti, drenaggi ecc., essi poterono conseguire un prodotto di 35 ett. di frumento elettissimo per ogni ettaro», «con la stabulazione triplicare la tosatura del vello flessuoso delle loro pecore. Essi con incroci di razze animali… formarono il cavallo per i campi, dal petto quadro e dalle zampe poderose, emulo del bove nella trazione dell’aratro e dei carri; e dal bue dal lavoro cogli stinchi alti e muscolosi distinsero il bove da macello, dalle carni adipose e succolente » (TTE, III, p. 362). 568 TTE, III, p. 363. 569 Ibidem. 570 Al contrario, «la coltura troppo specializzata od esclusiva, per gli infortuni subitanei climatici e mercantili, che possono colpire l’unico prodotto, diviene occasione di sofferenze e di ruina ai coltivatori, come fu degli irlandesi nel 1846 per la malattia delle patate, dei produttori granari d’Inghilterra del 1874-86 per la concorrenza americana, dei vignaioli francesi della Provenza per la crisi del commercio del vino nel 1907» (TTE, III, p. 364). 571 TTE, III, p. 364. 572 TTE, III, p. 365. 573 Ibidem. 567

113

La legge di specificazione è individuata analizzando il processo di sviluppo dell’industria agricola. Il punto di partenza è l’«impresa agraria domestica», nella quale i membri della famiglia sono addetti alla produzione. Successivamente l’azienda acquista autonomia dall’istituto familiare e si delineano le figure dell’imprenditore e dei lavoratori. Infine le funzioni all’interno dell’impresa si distinguono maggiormente, sviluppando i rami commerciale, amministrativo, contabile e direttivo. La legge di incremento spinge l’azienda agricola a espandersi. Compaiono così, le «piccole, medie [e] grandi imprese» 574. La tendenza ad ampliare le proprie dimensioni «non si riferisce immediatamente ai mezzi di esercizio (braccia e capitali)», ma, piuttosto, «all’ampiezza del terreno» coltivato, cui quei «mezzi devono poi proporzionarsi» 575. Il Toniolo individua diverse ragioni che spiegano un simile processo. Le grandi dimensioni permettono di utilizzare al meglio le conoscenze suggerite dalla scienza riguardo alle colture, alle quantità di lavoro e agli strumenti; consentono una migliore individuazione delle funzioni aziendali e permettono, conseguentemente, di associare a ciascuna il personale competente; consentono, infine, di contenere le spese generali e di vendere i prodotti in modo più rapido e proficuo. La legge di incremento trova dei limiti. Superata una certa dimensione, gli effetti positivi spariscono, degradandosi la legge delle proporzioni definite. A condizionare la grandezza delle imprese concorrono in primo luogo le specie delle colture. All’orticoltura si associano piccole dimensioni. Diversamente, per la coltivazione del grano sono necessarie estensioni di terreno più grandi. Un secondo aspetto da tenere in considerazione è la «grandezza relativa [del] mercato»576. Le imprese, infatti, si dimensionano in modo proporzionale alla sua ampiezza: se è piccolo, domineranno le piccole imprese e la vendita locale, ma se, a titolo d’esempio, ha dimensione nazionale, esso costituirà uno stimolo alla crescita dell’azienda stessa. La classificazione in piccole, medie e grandi imprese risulta di difficile attuazione se come metro di giudizio si assume solo l’estensione dell’area coltivata. Al contrario, il Toniolo, prende in considerazione anche altri elementi. Può

574

TTE, III, p. 367. Ibidem. 576 TTE, III, p. 369. 575

114

dirsi piccola, l’impresa nella quale l’imprenditore e la sua famiglia riassumono nelle loro mansioni le funzioni di «compravendita», quella della gestione «tecnica» e del «lavoro manuale». Nell’impresa di medie dimensioni, l’imprenditore ha nelle proprie mani «la gestione commerciale e la direzione tecnica della coltivazione»,

non

«la

lavorazione

materiale» 577.

Nella

«grande

impresa»

all’imprenditore sono riservate solo le funzioni commerciali e amministrative interne, mentre la direzione tecnica e il lavoro manuale sono gestiti dal personale. A ciascun tipo d’impresa, si associano distinte funzioni all’interno «dell’economia sociale» 578. La piccola impresa «esalta l’intensità e tenacia del lavoro manuale». All’estremo la grande impresa si caratterizza per la funzione innovatrice nel processo di sviluppo. La media impresa «raffigura il centro vitale della classe agricola» e in essa si fondono «virtù conservatrici e di progresso»579. Oltre un «massimo di grandezza la legge di incremento areario» trova un limite nella «legge di intensificazione» 580. È più opportuno rinunziare a coltivare male una superficie troppo estesa, per adoperare una maggiore «intensità di lavoro e capitale» 581 su un appezzamento di ridotte dimensioni. Solo con la reciproca integrazione di piccole, medie e grandi imprese può essere raggiunto il «massimo progresso agrario» 582 (legge di integrazione).

4.3.

Nell’ordinamento economico-giuridico

L’intervento del diritto è, per il Toniolo, «necessario» «in ogni relazione umana» 583. Nell’ordinamento «economico-giuridico» delle industrie agricole tale intervento diviene un fattore di «ulteriore specificazione, incremento [e] integrazione» 584.

577

Ibidem. TTE, III, p. 370. 579 TTE, III, p. 371. 580 Ibidem. 581 TTE, III, p. 372. 582 Ibidem. Infatti, «se tutta una regione fosse uniformemente partita in piccoli poderi, coll’abitudinarismo del contadino non sarebbe impedito ogni progresso per la classe intera?» (TTE, III, p. 372). 583 TTE, III, p. 373. 584 Ibidem. 578

115

Secondo la «legge di specificazione», l’impresa agricola assume distinte «forme o specie costitutive» 585. In primo luogo, il Toniolo considera la «proprietà coltivatrice», ossia l’istituto nel quale il proprietario è al tempo stesso anche coltivatore. La legge di specificazione porta a distinguere perciò la «piccola, media» e «grande proprietà coltivatrice» 586. Quanto alla piccola proprietà coltivatrice, si può affermare che in essa il «proprietario coltivatore», con l’aiuto della famiglia, è anche un «lavoratore manuale» 587 della terra di sua proprietà e il consumo dei prodotti ottenuti risulta essere prettamente domestico. Essa trova la sua sede naturale dove il terreno, limitato o sterile, non riesce a dare sostentamento contemporaneamente alle classi dei proprietari e dei lavoratori. Dove, però, la natura lo consente, «attua nel massimo grado la coltura intensiva». La piccola proprietà coltivatrice ha, per il Toniolo, un alto valore morale e civile fatto di onestà e di «virtù familiari e patriottiche», che la rendono «un elemento d’ordine sociale» 588. Esistono, però, delle condizioni che devono essere rispettate. Il podere deve essere sufficientemente ampio al fine di tenere «occupata costantemente la famiglia». È del pari necessaria la presenza di un seppur esiguo capitale. Infine, occorrono «virtù economiche, morali» e «sociali» 589, che si concretano nello spirito di «solidarietà fra conterranei» e nella robustezza delle famiglie 590. La grande e media proprietà coltivatrice è la somma della figura dei grandi e medi imprenditori e quella dei grandi e medi proprietari terrieri. I vantaggi della sua «funzione economica» si concretano a patto che siano rispettate alcune condizioni. Primariamente, i terreni su cui tale attività si esercita devono essere «particolarmente adatti alle conquiste fondiarie» 591, ossia essere di recente dissodamento o bonifica o essere dotati di un sistema di irrigazione. Inoltre, «i grandi e medi proprietari coltivatori» devono essere dotati di «copioso capitale, di scienza, di esperienza, di abitudini agrarie» e devono risiedere stabilmente in seno alla loro proprietà per garantire personalmente una gestione tecnica e amministrativa corretta. In tal modo essi ritraggono a proprio beneficio «profitto» e 585

TTE, III, p. 374. TTE, III, p. 375. 587 Ibidem. 588 TTE, III, p. 377. 589 TTE, III, p. 378. 590 Scrive il Toniolo: «e in Italia, in luogo della solidarietà, spesso l’egoismo e il litigio logorano e divorano i minuti patrimoni dei nostri alpigiani» (TTE, III, p. 379). 586

116

«rendita» 592 della azienda agraria. I grandi proprietari, sorretti dai loro elevati redditi, possono per primi tentare nuovi e «aleatori sperimenti scientifici» 593 a vantaggio della società intera. I medi proprietari, desiderosi di «conservare e accrescere» i propri redditi diventano l’esempio di una «gestione novatrice e insieme parsimoniosa» 594. «Gli uni e gli altri» svolgono così una «funzione sociale» attiva nell’ambito del progresso agrario, essendo i primi «precursori del progresso» e i secondi «il lievito che fermenta e solleva» il contadiname 595. La legge di specificazione opera attraverso le diverse «forme contrattuali d’impresa agraria» 596, che derivano dal «costituirsi di due classi distinte» di proprietari e coltivatori e dall’instaurarsi fra loro di differenti obbligazioni. «Nella storia» si riscontrano tre tipi principali: «l’enfiteusi, la colonia parziaria [e] il fitto»597. L’enfiteusi 598 è una forma economico-giuridica di esercizio dell’attività agricola nella «quale il coltivatore assume a lungo termine o in perpetuo la coltivazione di un terreno, verso pagamento di un canone fisso e inalterabile al proprietario» 599. L’enfiteuta ha il triplice obbligo di «risiedere sul terreno» 600, di migliorarlo e di adempiere l’obbligazione del pagamento del canone. L’enfiteusi è una forma d’impresa particolarmente adatta a «iniziare le trasformazioni fondiarie e la coltura estensiva» 601. I suoi vantaggi si concretano: 1) nella creazione di «un ceto di coloni-proprietari autonomi», che si aggiunge a quello dei padroni originari del suolo; 2) nel favorire il radicamento «al suolo» dei coltivatori, con benefici effetti agrari e sociali; 3) nel ricollegare «i proprietari lavoratori ai proprietari signorili», evitando i pericoli insiti nella frammentazione della pro-

591

TTE, III, p. 385. TTE, III, p. 386. 593 Ibidem. 594 TTE, III, p. 387. 595 Scrive il Toniolo: «…ma il padrone, che con villa e fattoria soggiorna in mezzo a loro [i contadini], non ha interesse opprimendoli, di annidiarsi la serpe in seno, bensì di prepararsi intelligenti e affezionati cooperatori» (TTE, III, p. 387). 596 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 389. 597 TTE, III, p. 389. 598 Cfr. G. GIORGETTI, Contadini e proprietari nell’Italia moderna. Rapporti di produzione agrari dal secolo XVI a oggi, Torino 1974, pp. 97-103; R. ALESSI, Enfiteusi, in Enciclopedia giuridica, XII, Roma 1989, pp. 1-10 (paginazione per voce). 599 TTE, III, p. 391. GIORGETTI (Contadini e proprietari nell’Italia moderna, p. 97) distingue «enfiteusi improprie» con canone commisurato ai frutti del bosco, e enfiteusi propriamente dette caratterizzate da un «canone modico […], largamente diffuse nel medioevo». 600 TTE, III, p. 392. 601 TTE, III, p. 391. 592

117

prietà e permettendo agli ultimi l’esercizio delle «vocazioni tradizionali politiche» o «diplomatiche» 602. Il Toniolo non manca di indicare i modi con cui effettuare un «ripristino odierno» 603 dell’enfiteusi. In primo luogo, nelle regioni o Stati in cui sono presenti latifondi incolti, auspica che «si introduca l’enfiteusi obbligatoria», affidando porzioni di terreno di media grandezza a famiglie di «coltivatori manuali»604. Secondariamente, egli propone che per un lungo periodo («per esempio 50 anni») il canone debba rimanere inalterato e sia prevista la sospensione della facoltà di affrancazione 605. Decorso il termine, si deve rientrare in un «regime di libera contrattazione», garantendo un indennizzo all’enfiteuta per le migliorie apportate. La «colonia parziaria» 606 è il «sistema di impresa agricola» col quale il proprietario conferisce un fondo e il «prodotto in natura» ricavato sul medesimo col lavoro del coltivatore è diviso tra i due. Nel suo «tipo normale storico», essa ha carattere di società: il proprietario apporta la terra («capitale mobile e fondiario») e il coltivatore il lavoro. La colonia parziaria presenta notevoli vantaggi. Essi sono, prima di tutto, economici, stimolando la coltura intensiva, le «migliorie permanenti del suolo» e consentendo al lavoratore di partecipare ai redditi derivanti dal «profitto dal capitale fondiario» e della «rendita di speciale fertilità del terreno» 607. Non mancano vantaggi sociali, dal momento che solo la colonia parziaria favorisce la nascita di grossi nuclei familiari, l’educazione all’ordine e alla disciplina sotto «l’autorità del padre» 608 e il radicamento del coltivatore alla terra. La mezzadria 609, in particolare, rappresenta una forma d’impresa «fra capitalisti e lavoratori consociati», 602

Ibidem. In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 394. 604 TTE, III, p. 394. 605 L’affrancazione è un istituto proprio dell’enfiteusi. Per effetto dell’esercizio di tale potere, l’enfiteuta diventa proprietario del fondo mediante il pagamento di una somma di denaro. Attualmente la somma richiesta è pari a quindici volte il canone annuo, come disposto dalle leggi 22 luglio 1966 n° 607 e 18 dicembre 1970, n° 1138. Infatti, secondo GIORGETTI (Contadini e proprietari nell’Italia moderna, pp. 102-103) la crisi del rapporto di enfiteusi «strettamente legata con la trasformazione capitalistica» delle campagne italiane, «fu definitivamente sancita quando fu consentita per legge l’affrancazione ad arbitrio dell’enfiteuta». «Ciò escludeva ormai completamente la convenienza dell’enfiteusi per i proprietari». 606 TTE, III, p. 395. 607 TTE, III, p. 398. 608 TTE, III, p. 399. 603

118

che attribuisce al lavoro «la più alta funzione sociale che ricordi la storia». Essa è esempio di «lavoro illuminato ed onesto, sorretto e vigilato dal capitale» 610. Bastano, però, «lievi deviazioni economiche o deficienze psicologiche» 611 a comprometterne la validità 612. Resta che, se ben condotta, tutti ne rivendicano il «pregio nell’economia odierna» 613 e gli attacchi del socialismo a tale istituto sembrano «antiscientifici e antidemocratici per eccellenza» 614. Infine, l’ultima forma contrattuale d’impresa agraria citata dal Toniolo è il «fitto» 615. Con esso il coltivatore esercita l’attività agricola sostenendo il rischio d’impresa, su un fondo concesso dal proprietario contro il pagamento di un canone annuo 616. Cambia la figura del coltivatore che diviene «impresario speculatore». La sua «diffusione storica» 617 segna tre tappe distinte: 1) dal XIII secolo il fitto trova origine nella volontà dei proprietari terrieri di integrare il reddito procurato dal «fondo servile, già decadente»; 2) «dal 1500 in Germania e più nel 1600 (Inghilterra)» si accompagna allo «sfruttamento delle classi inferiori» 618; 3) dal XIX secolo riacquista importanza grazie ai progressi della scienza e all’impiego di capitale. Il fitto, mentre è garanzia di un reddito sicuro e al riparo da oscillazioni a favore dei proprietari terrieri, stimola «il fittanziere» 619 a adoperarsi per trarre il maggior prodotto possibile dal fondo. Il Toniolo distingue due tipologie: 609

Cfr. GIORGETTI, Contadini e proprietari nell’Italia moderna, pp. 33-47; G. P. CIGARINI, Mezzadria, in Enciclopedia giuridica, XX, Roma 1990, pp. 1-10 (paginazione per voce); MILL, Principi di economia politica, I, pp. 457-475. 610 TTE, III, p. 400. 611 Ibidem. 612 Così «quando al rispetto delle oneste tradizioni e consuetudini (grande tutela degli interessi comuni) si sostituiscono i frequenti sfratti, o al posto della fiducia il sospetto d’infedeltà e peggio gli odi di classe, può meravigliarsi che la colonia parziaria venga a decadere, come seguì già in passato e oggi sotto l’influenza della crisi sociale che si avanza?» (TTE, III, p. 401). 613 Il Toniolo cita i lavori di «Minghetti, Jacini, Caruso» e di «Gasparin, Garidel, Rieffel, Mayer» (TTE, III, p. 401). 614 TTE, III, p. 401. Sul rapporto del Toniolo con il socialismo v. PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo, pp. 175-246; ID., Sullo «spirito borghese» e del «capitalismo» in Giuseppe Toniolo e Werner Sombart, «Economia e storia», XXIX (1982), ristampato in ID., Economia e riformismo nell’Italia liberale, p. 49-68. 615 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 401. Cfr. A. CIANI, Affitto di fondi rustici, in Enciclopedia giuridica, I, Roma 1988, pp. 1-28 (paginazione per voce). 616 Per GIORGETTI (Contadini e proprietari nell’Italia moderna, p. 72) «nell’affitto contadino il fondo è dotato di edifici poderali, anche se non mancano esempi di affitto in fondi nudi, estranei a qualsiasi processo di appoderamento o di intensificazione della coltura». 617 TTE, III, p. 402. 618 Ibidem. 619 TTE, III, p. 403.

119

«l’affitto colonico e quello capitalistico» 620. Nel primo, l’attività agricola persegue il fine della sussistenza della famiglia del coltivatore. Nel secondo, il «coltivatore-capitalista» inizia l’attività per «ritrarre un reddito dall’impiego di propri capitali» 621. In tal caso «il fittanziere» si configura come un «vero impresariospeculatore», il quale si riserva la direzione «tecnico-economica» 622 dell’impresa, delegando ai salariati il lavoro manuale. L’istituto dell’affitto capitalistico trova le condizioni per un suo sviluppo soltanto in «un’economia scientifica e ricca»623 e dove la fertilità del terreno è tale da poter garantire un reddito a più classi sociali. I suoi vantaggi sono strettamente collegati alla durata del contratto che, necessariamente, deve essere a «lungo termine (18, 36, 50 anni)» per indurre il fittanziere a impiegare i propri capitali in «migliorie del fondo altrui» 624. Sulla durata del contratto si fronteggiano posizioni diverse: quella del proprietario, che vorrebbe abbreviarla per rivedere periodicamente l’importo del canone al rialzo, e quella del fittanziere che preferirebbe un contratto a lungo termine per «godere intero l’incremento di prodotto» e l’eventuale aumento dei prezzi. Il Toniolo propone che, nei contratti «lunga durata (p.e. a 50 anni)», si stabiliscano dei periodi entro i quali rinnovare il contratto e la misura dell’aumento del canone 625, garantendo al fittanziere la facoltà «alla scadenza d’ogni periodo di ritirarsi»626. L’affitto capitalistico trascina con sé il problema del «salariato». Il fittanziere, non potendosi sottrarre al pagamento del canone e dall’impiego dei grossi capitali indispensabili a ritrarre «grandi profitti», tende a ridurre al minimo la «spesa di mano d’opera» 627. Egli, pertanto, incrementa l’utilizzo delle macchine e assume i pochi lavoratori indispensabili come «salariati avventizi», risparmiando «sul fondo dei salari» 628. Partendo dalla considerazione che la richiesta di un certo numero di lavoratori stagionali, proprio per la specificità dell’attività agricola, 620

Ibidem. Cfr. GIORGETTI, Contadini e proprietari nell’Italia moderna, pp. 345-378. TTE, III, p. 405. 622 TTE, III, p. 406. 623 Ibidem. 624 TTE, III, p. 407. 625 Ad esempio «di 1/5 ogni dieci anni» (TTE, III, p. 408). 626 TTE, III, p. 408. 627 TTE, III, p. 409. 628 Ibidem. Scrive il Toniolo: «si formò così col sistema del fitto in grande, dal sec. XVIII nella Gran Bretagna e poi generalmente in Europa nel sec. XIX, un proletariato agricolo senza legame alla terra, il quale, arruolati in bande vaganti sotto un capoccia (“gang-system”) uomini, donne, fanciulli, va offrendo spesso al prezzo della fame, le braccia dall’una all’altra azienda, per ingrossare poi le città industriali e le turbe migranti, sicché la popolazione rurale in Inghilterra è ridotta al 25%, e in Iscozia al 17% del totale, diminuendo colà e dovunque sempre più» (TTE, III, p. 409). 621

120

è un fatto intrinseco a essa, il Toniolo propone che i proprietari attribuiscano ai contadini, «del cui lavoro» intendono «giovarsi in momenti di eccezionale attività agraria», una piccola porzione di terra «da coltivarsi per conto proprio» 629, con l’impegno da parte di questi a prestare la loro opera nell’azienda del proprietario terriero quando ne sorga la necessità. Un altro rimedio agli effetti negativi derivanti dalla massiccia presenza di un salariato avventizio è costituito dall’«affitto collettivo», col quale alla figura del grande «affittanziere speculatore» si sostituisce una «società di contadini»630. Questi ultimi possono a loro volta ripartirsi il terreno in poderi minori («sistema diviso»), oppure esercitare l’attività agricola attraverso una società di braccianti («sistema unito») 631. Rispetto alle varie forme giuridiche che l’attività agricola assume, opera anche la «legge d’incremento» 632, secondo la quale «il diritto positivo», inteso come «consuetudini, leggi e provvidenze di Stato», con la sua funzione ordinatrice dei rapporti economici, accresce «sempre più la potenza produttiva»633 dell’impresa agricola. L’«azione giuridico-politica» dello Stato in favore dell’agricoltura si rende concreta attraverso vari interventi. Primariamente grazie all’introduzione nei codici civili di norme riguardanti «i contratti agrari, le indennità per migliorie, le servitù in genere e quella d’acquedotto in ispecie» e attribuendo a tali norme un carattere «suppletivo (in mancanza di accordi fra le parti)» o «dispositivo, per ragioni d’ordine pubblico»634; in secondo luogo, grazie all’emanazione di leggi di politica agraria riguardanti «la disciplina» dell’attività agricola in vista

629

TTE, III, p. 411. TTE, III, p. 412. 631 Ibidem. «Sono ispiratori e propagatori della prima forma i sacerdoti Sturzo (in Sicilia), Portaluppi (in Lombardia) fin dal 1890-91 e ora Cottafavi (in Emilia), dietro concetti di redenzione morale e sociale. Spuntò invece la seconda nelle leghe di resistenza, con ispirazione socialista, dopo gli scioperi del 1901» (TTE, III, p. 412.). Sulla figura di Luigi Sturzo v. G. DE ROSA, Luigi Sturzo, in PTD, pp. 615-624; E. VERCESI, Le origini del movimento cattolico in Italia, 1870-1922, Milano 1981, pp.165-176. Su Ambrogio Portaluppi v. A. ROBBIATI, Portaluppi Ambrogio, in PTD, pp. 516-518; Cfr. A. FAPPANI, Miglioli Guido, in PTD, pp. 379-384. 632 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 413. 633 TTE, III, p. 414. 634 TTE, III, p. 415. 630

121

dell’«utile generale» 635; infine, attraverso la «legislazione sociale agraria» in favore dell’instaurarsi di migliori «rapporti fra le classi sociali» 636. Il Toniolo si sofferma sull’analisi delle «riforme agrarie [e] sociali nella Gran Bretagna» 637, affermando come «nessuno Stato» pareggi per «sapienza riformatrice quella britannica, in ispecie a sollievo dell’Irlanda» 638. Dal 1860 l’obiettivo della legislazione agraria è duplice: «regolare più equamente i rapporti fra proprietari e fittaioli, e trasformare questi ultimi in piccoli proprietari coltivatori» 639. In merito al primo obiettivo, egli ricorda «l’atto del 1860» che riconosceva al coltivatore, il diritto a percepire un’indennità per le migliorie apportate; quello del 1870 che garantiva al fittavolo di conservare il «possesso della terra», fintanto che avesse continuato a onorare al pagamento del canone, e di cedere tale diritto sia ad altro coltivatore, «sia al proprietario verso compenso»; l’atto del 1881 che conferiva all’autorità il compito di fissare un «equo canone» immodificabile per un periodo di «15 anni» 640. Quanto all’obiettivo di radicare i fittavoli alla terra trasformandoli in piccoli proprietari, il Toniolo cita le «celebri leggi» per «l’acquisto della terra (purchase

of

land)

di

lord

Ashbourne

(1885-87-97)»,

che

concedevano

un’anticipazione dell’«integrale prezzo di acquisto». Tali leggi costituirono, inoltre, uno speciale ufficio che aveva la facoltà di «riunire i piccoli poderi in una sola tenuta» e di «comprare dai grandi proprietari terre incolte» per «ripartirle migliorate» 641 ai coltivatori. Gli atti del 1887, del 1890 e del 1894 (Allotments acts) si occuparono anche della situazione dei salariati, in favore dei quali il comune poteva «comprare (in qualche caso espropriare) e prendere in affitto terreni» 642 da concedersi in lavorazione a questi ultimi. Nel 1906 fu istituito «un ministero locale di agricoltu-

635

TTE, III, p. 416. Cfr. E. CORBINO, Annali dell’economia italiana (1891-1900), 4, Milano 1982,

pp. 76-78. 636

Ibidem. In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 417. 638 TTE, III, p. 417. 639 Ibidem. 640 TTE, III, p. 418. 641 TTE, III, p. 419. 642 TTE, III, p. 422. 637

122

ra» con compiti di «vigilanza agronomica», ma che si fregiò del merito di aver «istituiti 200 laboratori scientifici e 50 scuole d’arti e mestieri» 643. Secondo la «legge di integrazione» 644, le varie forme giuridiche d’impresa («proprietà coltivatrice, enfiteusi, colonia parziaria, fitto e forme analoghe»), si «completano a vicenda», «coesistendo» 645 in ogni età. Esse sono figure giuridiche «tipiche e costanti» nella storia, perché strettamente collegate «allo stato del suolo, alla graduazione delle classi sociali e alle varie esigenze edonistiche della produzione agraria» 646. Dall’analisi delle leggi di esercizio dell’industria rurale, il Toniolo trae alcune conclusioni: 1) gli ordinamenti «tecnico, professionale e giuridico» sono tra loro intimamente collegati: «ogni innovazione tecnica» 647 ha l’effetto di modificare l’assetto professionale, e tale modifica si ripercuote successivamente nell’ordinamento giuridico; 2) il progresso dell’industria rurale è il risultato «coordinato» delle industrie «fondiaria ed agricola»648 propriamente detta; 3) più del capitale o della «fertilità naturale», «vale l’uomo»649. Esiste, infine, «un misterioso ma storico legame fra le vicende dell’arte agraria e quelle dell’incivilimento»: dalla terra inizia e nella terra finisce «la ricostruzione di una nazione» nei momenti critici «della sua storia» 650.

5.

L’industria manifatturiera

Le «industrie manifattrici», attraverso «processi fisico-chimici modificano nella sostanza e nella forma i prodotti apprestati dalle industrie territoriali ed agricole (Emminghaus)» 651. Nel loro processo di sviluppo, crogiolo di fattori della produzione (natura, lavoro e capitale), di forme di costituzione delle industrie

643

TTE, III, p. 420. In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 433. 645 TTE, III, p. 433. 646 Ibidem. Scrive il Toniolo: «perciò più sana e robusta è la costituzione fondiaria e più produttiva la agricoltura di quella nazione, in cui quei tipi giuridici di imprese meglio si equilibrano» (TTE, III, p. 434). 647 TTE, III, p. 435. 648 Ibidem. 649 «Bisogna persuadersi (fu scritto) che il più efficace di tutti i concimi è il cervello umano, dal quello del più umile zappatore a quello trasformatore dell’ingegnere agrario (Giglioli)» (TTE, III, p. 436). 650 TTE, III, p. 437. 651 TTE, III, p. 438. 644

123

(«imprese, divisione del lavoro, associazioni») e di altri rilevanti aspetti («la scienza, l’educazione delle classi produttrici, la legislazione»), seguono la triplice legge di «specificazione, di incremento, [e] di integrazione» 652. A differenza delle industrie territoriali e agricole, il loro progresso procede in modo più indipendente rispetto alle «influenze dirette e indirette» 653 dell’ambiente. Le tre leggi si riscontrano uniformi in tutti i rami dell’industria manifatturiera. Esse hanno carattere di universalità: mentre le leggi in agricoltura si riferiscono alle singole zone geografiche e climatiche, quelle manifatturiere trovano validità sia nell’«opificio inglese», che in quelli «d’Italia, dell’India o del Giappone», procedendo «più semplici, più rapide, [e] più grandiose» 654.

5.1.

Nell’ordinamento tecnico

«L’ordinamento

tecnico» 655,

nell’ambito

del

processo

di

sviluppo

dell’industria manifatturiera, «si specifica, si incrementa, [e] si integra» in maniera

dipendente

dai

progressi

della

tecnologia 656.

La

trasformazione

dell’«industria manifattrice» dallo «stato empirico a quello scientifico» è segnata da tre tappe fondamentali: 1) la prima, chiamata di «anticipazione», avviene fra il 1760 e il 1790 in Gran Bretagna; 2) la seconda, definita di «diffusione», interessa gli Stati europei e americani dal 1830 al 1870; 3) infine, un terzo momento di «estensione e intensificazione universale» vede coinvolti Paesi quali la Spagna, la Russia e il Giappone, e copre il periodo compreso tra la «guerra francoprussiana» 657 e gli inizi del XX secolo. Nelle industrie manifatturiere si verifica una «triplice specializzazione»: 1) in base alle materie lavorate («alimentari, fibre tessili, sostanze minerarie non

652

Ibidem. TTE, III, p. 439. 654 Ibidem. 655 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 440. 656 Scrive il Toniolo: «ciò bensì non senza differenti gradi di difficoltà nelle applicazioni a singole industrie od operazioni, cosicché p. e. la filatura automatica a vapore, che per il cotone si compiè (dal primo telaio a navetta volante di J. Kay nel 1730) in Inghilterra nel 1825, per la lana invece ritardò e non trionfò che dal 1870 in poi, e di rispondenza la tessitura meccanico-automatica (inv. Cartwright, 1787) nel cotone si diffuse generalmente fra il 1835-75, e invece per la lana soltanto fra il 1860-90 (Schmoller)» (TTE, III, p. 440-441). 657 TTE, III, p. 441. 653

124

metalliche, minerali metallici» 658), le diverse imprese si specificano, componendo svariati gruppi di industrie; 2) analogamente, secondo i «mezzi tecnici» utilizzati, si distinguono imprese manuali e meccaniche; 3) infine, vige una «terza e crescente specificazione», secondo la quale le imprese si differenziano l’una dall’altra, riservandosi l’esercizio di «singoli processi» o operazioni tecniche. 659 Secondo la legge di incremento gli «ordinamenti tecnico-scientifici» diventano «più estesi e potenti» 660. Qui risiede la ragione per cui il divario fra industrie manuali e meccaniche tende ad assottigliarsi. La tecnologia ha, infatti, sviluppato una serie di piccole «macchine utensili», il cui uso interessa anche le «arti più o meno meccaniche» 661. Un buon indicatore del grado di diffusione degli strumenti tecnici è la quota di capitale fisso a essi riservata. Ebbene, anche in «opifici di mediocre proporzione», spesso essa rappresenta la porzione più grande del capitale stesso. Il campo di applicazione in cui la legge di incremento ha fornito i migliori risultati è quello delle forze usate nelle industrie. Scrive il Toniolo: «mentre nell’economia degli Stati civili si calcolano impiegati oggi verso 50 milioni di cavalli vapore (di cui nei trasporti la metà e l’altra metà fra industrie minerarie e manifattrici), sappiasi che a questa cifra si pervenne (1900), quadruplicando quella del 1865, che era di 12 milioni (Schmoller)» 662. La «ruota a schiaffo» riusciva a utilizzare solo il 20% della forza potenziale della caduta d’acqua, mentre la turbina moderna riesce a ritrarne il «50-80%». Non mancano, inoltre, vantaggi per quanto riguarda il costo delle forze stesse: «quello del cavallo idroelettrico che oggi si aggira fra i 140 e 850 lire» fra breve non dovrebbe superare «di molto le 100 lire» 663. I diversi processi tecnici si integrano vicendevolmente. A dimostrarlo è la nascita di nuove industrie, a seguito della scoperta di alcune materie prime come il caucciù del Brasile e del Congo, la iuta e il cocco nell’industria tessile, «l’invenzione dei colori di anilina» nell’industria della tintoria. 658

TTE, III, p. 442. Il Toniolo sostiene che «la massima specializzazione è data dalle arti tessili, e in tutto il mondo civile nel cotone e nella lana, numerosissime imprese non si adibiscono che alla filatura, altre alla sola tessitura, altre alla stamperia; e nella lana alcune anzi si limitano alla scardassatura, altre alla pettinatura, altre alle lane cucirine» (TTE, III, p. 443). 660 TTE, III, p. 444. 661 TTE, III, p. 445. 662 Ibidem. 663 TTE, III, p. 446. 659

125

L’immenso progresso tecnologico si traduce in una produzione maggiore, di superiore qualità e ottenuta sostenendo costi inferiori.

5.2.

Nell’ordinamento professionale

I progressi della tecnologia incidono anche sull’ordinamento professionale delle industrie manifattrici. La formazione delle «speciali classi manifatturiere» e l’ampiezza del mercato configurano un particolare processo di sviluppo, il cui punto di partenza resta comunque l’«industria familiare o domestica» 664. Essa è la «matrice di tutte le imprese» che divengono tali solo quando «producono per conto altrui» 665, separando così le funzioni di produzione e di consumo. Rispetto all’ordinamento professionale, la «legge di specificazione» 666 distingue «tre forme tipiche di successiva prevalenza storica», ossia «il mestiere, la manifattura, [e] la fabbrica» 667. «Il mestiere» 668 è la «forma di esercizio industriale» in cui «l’imprenditore è anche lavoratore manuale, primo fra i suoi ausiliari». Questi produce su «commissione del consumatore o per il mercato locale». Alla nascita di tale forma tipica si accompagna «la genesi di uno speciale ceto industriale» 669. Il mestiere è il lavoro «autonomo» per eccellenza. Sopravvissuto «nelle decadute città romane» e rifiorito nei borghi medioevali, esso è caratterizzato: 1) dall’utilizzo di «una tecnica empirica elevata», ma pur sempre manuale; 2) dalla formazione di un «ceto di maestri» molto abili, ai quali si affiancano apprendisti e collaboratori; 3) da una «funzione commerciale» legata al consumo della clientela locale; 4) dalla presenza di «collegi dell’arti» con lo scopo di «assicurare la continuità, l’onestà, la dignità dell’arte, combinate cogli equi compensi e col pubblico bene» 670. 664

TTE, III, p. 447. TTE, III, p. 448. 666 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 448. 667 Tale argomento è trattato in «studi recenti d’alto valore». Il Toniolo cita diversi autori quali «Liesse, Ashley, Brentano, Fagniez, Levasseur, Lampertico, Graziani» (TTE, III, p. 448). 668 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 449. 669 TTE, III, p. 449. 670 Argomenta il Toniolo: «ne risultò un ciclo storico a sé, in cui il sistema economico del mestiere e dell’artigianato libero e fiorente divenne radice e forza della democrazia civile». Il Toniolo si rifà agli studi di «Roscher, Bücher, Doren, Davidsohn, Sieveking» (TTE, III, p. 451). Egli, in più occasioni, cita esponenti della cosiddetta scuola storica dell’economia (scuola di origine prevalentemente tedesca). Secondo una distinzione ampiamente condivisa, proposta anche da RICOSSA, Dizionario di economia, p. 512 (Storicismo economico), possiamo distinguere «la “vecchia” scuola storica di B. Hildebrand (1812-1878), W. Ro665

126

Anche dopo l’avvento della produzione industriale, il mestiere conserva un proprio ruolo nell’ambito della produzione. Si pensi alla figura del calzolaio, del sarto, del tappezziere o all’importanza delle abilità personali nelle industrie artistiche. L’artigiano, in epoca di pieno sviluppo industriale, si riserva le funzioni di «adattamento finale al consumo», di «affinamento e abbellimento», di produzione «a scopo artistico»671. Il «sistema di manifattura» è composto da «un insieme di imprese industriali autonome e disperse» a servizio di «un capitalista speculatore» 672, che si riserva la funzione commerciale per lo smercio dei prodotti in un ampio mercato. La nascita dell’arte manifatturiera, fin dal XIII secolo, è una prerogativa dei comuni italiani, mentre solo dal XVI secolo, «col formarsi dei grandi mercati nazionali»673, essa si sviluppa anche in Europa. Il sistema della manifattura presenta numerosi vantaggi. Esso «combina le molteplicità» dei centri di produzione, con l’unicità «delle speculazioni mercantili» 674. Rispetto all’industria, la manifattura conserva alcuni tratti tipici del mestiere. Essa, infatti, consente all’artigiano di sfruttare appieno le proprie «abilità tecniche personali», di esercitare la propria attività «nelle case o nelle piccole officine» e di essere coadiuvato nel lavoro dall’impegno della famiglia. D’altro canto, il «mercante» non è costretto a tenere immobilizzati ingenti capitali nell’attività produttiva e può decidere di «restringere» o addirittura «sospendere le commissioni agli artigiani» in base all’andamento del mercato. In questo modo, riducendo le spese di mano d’opera e

scher (1817-1894) e K. Knies (1821-1898), dalla “nuova” scuola storica di G. Schmoller (1838-1917)». Essi dimostrarono uno «spiccato dissenso per il razionalismo deduttivo», presente sia «nella scuola classica, sia in quella neoclassica o marginalista». Cfr. U. MEOLI, Lineamenti di storia delle idee economiche, Torino 1978, pp. 293-294; A. SPICCIANI, Giuseppe Toniolo, un economista storico, in Contributi alla conoscenza del pensiero di Giuseppe Toniolo, pp. 167-182; A. CARDINI, Gustav Schmoller e l’Italia: la cultura e l’opera degli economisti funzionari (1874-1891), in Gustav Schmoller e il suo tempo: la nascita delle scienze sociale in Germania e in Italia, a cura di P. SCHIERA-F. TENBRUCK, Bologna-Berlin 1988, pp. 127-151; R. FAUCCI, Esiste un caso Schmoller? (con notizie sulla Scuola storica in Italia), in Gustav Schmoller oggi: lo sviluppo delle scienze sociali in Germania e Italia, a cura di M. BOCK-H. HOMANN-P. SCHIERA, BolognaBerlin 1989, pp. 63-88; E. ZAGARI, Storia dell’economia politica, dai marginalisti alla nuova macroeconomia classica, Torino 1998, pp. 74-92; sull’influenza nella formazione del giovane Toniolo dell’opera roscheriana e del kathedersozialismus, vedi P. PECORARI, Il solidarismo possibile, Torino 1995, pp. 2-8; per gli influssi dell’opera tonioliana in Sombart v. PECORARI, Economia e riformismo nell’Italia liberale, pp. 49-67. 671 TTE, III, p. 452. 672 TTE, III, p. 453. 673 Ibidem. 674 TTE, III, p. 454.

127

richiedendo quantità inferiori di capitale, l’impresa manifatturiera riesce a confrontarsi sul mercato anche con i grandi «stabilimenti meccanici» 675. Non mancano certo degenerazioni di tale sistema, spesso causate da comportamenti di artigiani disonesti e sui quali l’attività di controllo da parte del mercante, a causa della loro dispersione sul territorio, è difficile. Parimenti, gli abusi possono essere perpetrati dal mercante stesso, «sovrano e qualche volta despota (Weber)» 676, sulla classe artigiana. Egli ha beneficio a trasformarla in semplice salariato, magari da abbandonare dopo aver trovato chi, «nella concorrenza della fame», accetta un salario più basso. La fabbrica è una forma d’impresa nella quale la figura dell’industriale e del mercante si sommano nella persona dell’imprenditore. Questi, «sotto la propria immediata direzione e responsabilità», riunisce «in uno stesso edificio» i lavoratori dell’impresa per realizzare «la produzione destinata al commercio generale» 677. «Storicamente»,

il

sistema

di

fabbrica

si

sviluppa

in

seguito

all’allargamento dei mercati 678, che porta a richiedere prodotti «uniformi in forti masse» 679. Avviene, poi che gli artigiani, per far fronte alle richieste dei mercanti, utilizzano lavoratori salariati, giungendo a trovare conveniente la concentrazione di questi ultimi in un unico stabilimento. Infine, è la tecnica, con

675 676

TTE, III, p. 455. TTE, III, p. 456. Cfr. M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze 19902,

pp. 37-76. 677

TTE, III, p. 457. All’allargamento dei mercati contribuì la riduzione dei costi di trasporto. La tabella sottostante indica l’incidenza percentuale dei prezzi di trasporto sui costi di produzione considerando il solo tragitto terrestre. 1830 1850 1880 1910 Ferro grezzo 89-94% 68-74% 31-35% 18-20% Manufatti in ferro 24-30% 19-23% 8-12% 5-7% Filati di cotone 9-13% 7-10% 3-4% 2-3% Articoli di cotone 6-9% 5-7% 2-3% 1-2% Se consideriamo anche il tragitto marittimo, otteniamo le seguenti percentuali. 1830 1850 1880 1910 Ferro grezzo 94-100% 27-31% Manufatti in ferro 32-38% 27-31% 16-20% 8-10% Filati di cotone 10-13% 2-3% Articoli di cotone 8-10% 9-7% 4-5% 2% Fonte: i dati, desunti da P. BAIROCH (Le politiche commerciali in Europa dal 1815 al 1914, in Storia economica Cambridge, VIII/1, Le economie industriali, a cura di P. MATHIAS-S. POLLARD, Torino 1992, p. 60), sono stati da me elaborati. 679 Ibidem. 678

128

«l’invenzione di meccanismi complessi» 680, a richiedere ampi spazi e un discreto numero di lavoratori riuniti. L’avvento della fabbrica «si prepara remotamente», secondo il Toniolo, nel XIV secolo a Firenze 681. Più «nettamente», il suo processo storico si delinea in Inghilterra, dove, «ai primi del sec. XVI», «Jack de Newbury (John Winchcombe)», aveva riunito «in casa sua ben cento telai» 682. È nel XIX secolo che il sistema di fabbrica diviene la «forma caratteristica delle imprese industriali» 683. Un simile sistema necessita, però, di un «ceto di illuminati imprenditori capitalisti» e di «un esercito di operai disciplinati»684. Rispetto alla manifattura, la fabbrica consente: 1) l’adozione di metodi produttivi razionali, grazie alla divisione del lavoro e all’uso delle macchine; 2) un risparmio delle spese in ragione della minore dispersione territoriale delle unità produttive; 3) l’introduzione di una «amministrazione commerciale» in grado di commisurare il costo ai variabili prezzi del mercato; 4) un più pronto adattamento ai cambiamenti tecnologici. L’introduzione del sistema di fabbrica si deve «al vantaggio del duplice concentramento industriale e commerciale» 685 nella figura dell’imprenditore. La «legge di incremento»686, detta anche «legge di potenziamento», determina un aumento della «potenza produttiva» dell’impresa. Dalla sua applicazione al regime della fabbrica derivano diversi vantaggi. In primo luogo, avviene una riduzione delle spese d’impianto 687, delle spese generali d’esercizio 688 e delle spese specifiche 689. Nella fabbrica, inoltre, sono maggiori le possibilità di «introdurre una tecnica poderosa e perfezionata» 690. Scrive il Toniolo: «soltanto un in680

TTE, III, p. 458. Cfr. D. S. LANDES, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Torino 1978, pp. 5-6. 681 In questa città, ricorda il Toniolo, «i grandi mercanti dell’arte della lana (“lanifices”) davano fra il 1336-38 lavoro a 30.000 persone» (TTE, III, p. 458.). 682 TTE, III, p. 459. Cfr. P. DEANE, La rivoluzione industriale in Inghilterra, in Storia economica d’Europa, IV, diretta da C. M. CIPOLLA, Torino 1980, pp. 122-123. 683 LANDES, Prometeo liberato, pp. 55-58. 684 Ibidem. 685 TTE, III, p. 462. 686 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 462. 687 «La spesa del macchinario (motori e stromenti esecutivi) di una filatura decresce col crescere dei fusi» e «un edificio di 400 mq. Risparmia le muraglie intermedie rispetto a 4 edifizi da 100 ciascuno» (TTE, III, p. 463). 688 «In una fabbrica un personale di direzione, amministrazione, vigilanza, vale egualmente per conchiudere grossi o piccoli negozi, per conteggiare grandi e piccoli numeri, per vigilare l’ingresso e l’uscita di 1000 o 2000 operai» (TTE, III, p. 464). 689 «Una potente macchina a vapore consuma relativamente meno carbone che una debole; […] una piccola macchina da 1 cavallo vapore costa all’ora 40 centesimi e sopra 2 o 300 cavalli vapore, 5 centesimi (Allard, Gide)» (TTE, III, p. 464). 690 TTE, III, p. 464.

129

gente stabilimento cotoniero può coordinare in un recinto vantaggiosamente filatura, tessitura, stamperia, che altrimenti importano il ricorso a fabbriche distanti e forse avversarie» 691. Solo nelle grandi dimensioni si realizza una «estesa, razionale e proficua» divisione del lavoro; sono le grandi imprese ad avere «occasioni e mezzi di molteplici cernite, di ripetuti esperimenti» 692 e di gratificanti remunerazioni. In esse si formano e si educano veri e propri «specialisti d’alto valore professionale» 693, all’elevazione dei quali segue anche quella delle grandi imprese e della nazione intera. A giovarsi delle grandi dimensioni sono anche gli acquisti e le vendite. I primi possono così essere effettuati a prezzi più vantaggiosi e da ogni parte del mondo. Le vendite di «prodotti già anticipatamente accumulati nei magazzini» possono altresì avvenire con pochi e grossi contratti, «prevedendo e dominando la domanda» 694. La legge d’incremento della potenza produttiva «è legge generale» 695 della storia e a dimostrarlo, bastano alcuni esempi. «Gli stabilimenti metallurgici e meccanici della compagnia del Creuzot (presso Parigi) coprono lo spazio di 10 kmq, legati da ferrovie interne». Le «fabbriche di birra in Inghilterra raccolgono la bevanda in botti che sono sale da ballo e vi si danzò» e gli «ordinari molini a vapore» macinano, ogni giorno, grano per migliaia di persone, da quello «di Saint-Maur nei sobborghi parigini (per 60-80.000 persone) a quello di Minneapolis (Nord America)». Le «fabbriche di vetrerie e specchi della ditta Saint-Cobain sono sparse in Francia, Italia, Russia» e la «Krupp raccoglie nella sua fabbrica d’armi ad Essen ben 30.000 operai» 696. «Nel suo ingrandirsi», la fabbrica incontra due tipologie di limiti dimensionali. Gli uni «assoluti»697 e riferiti alla capacità produttiva dell’uomo, gli altri «relativi» 698, che rendono, in quel preciso momento storico, conveniente l’espansione o la contrazione delle imprese.

691

TTE, III, p. 465. TTE, III, p. 466. 693 Tale «educazione è illustrata da Webb, Marshall, Schulze-Gäwernitz, Graziani» (TTE, III, p. 692

466). 694

TTE, III, p. 467. TTE, III, p. 468. 696 TTE, III, pp. 469-470. 697 Tali limiti si verificano quando «la complicanza al centro diviene eccessiva, la vigilanza alla periferia insufficiente, la dispersione delle forze e dei residui ruinosa» (TTE, III, p. 472). 698 Così, «in ogni momento storico vi ha un grado di espansione delle imprese, che risponde al massimo utile conseguibile in quelle condizioni di fatto, giusta la legge delle proporzioni quantitative definite» (TTE, III, p. 472). 695

130

Il sistema di fabbrica presenta anche degli inconvenienti. Esso concentra in un solo edificio uomini, donne e bambini, «sacrificando le piccole officine autonome» e il lavoro «presso il focolare» 699. Alla democrazia, nelle imprese si sostituisce «l’oligarchia». Al suo interno, la fabbrica accentua «l’influenza deprimente della divisione del lavoro e delle macchine» e finisce con «avvilire il valore stesso individuale dei lavoratori» 700. In essa il lavoro è contrassegnato da «disordini igienici, morali [e] sociali» 701. I citati inconvenienti «ammettono correttivi e compensi» 702. È vero che il sistema di fabbrica ha l’effetto di disgregare la «saldezza economica ed etica delle famiglie operose». L’unità morale della stessa è «profondamente scossa» dalla dispersione dei suoi membri in diverse industrie, ma «bisogna sopperirvi con energie di più alta derivazione etico-religiosa» 703. Inoltre, se da un lato è vero che alla divisione del lavoro e all’uso delle macchine si accompagnano dei disagi, dall’altro, con tali sistemi, il tirocinio è più proficuo e le abilità medie dell’operaio crescono assieme al salario. Bisogna poi ricordare che il divario fra imprenditore e operai tende a farsi meno profondo e si possono rinsaldare ancora di più i rapporti, prevedendo sistemi di partecipazione degli operai ai profitti dell’impresa e di partecipazione al capitale della fabbrica, acquisendo lo status di soci; possono costituirsi, e già esistono esempi in tal senso, consigli eletti dalle maestranze, chiamati a discutere con l’imprenditore delle questioni a loro più vicine, quali la misura della retribuzione, la stesura e applicazione del regolamento di fabbrica e la «gestione di alcune istituzioni comuni» 704. Se è vero che nella fabbrica «l’addensarsi di moltitudini immiserite ed oppresse» favorisce malsane abitudini e la diffusione di «idee sovversive» 705, è altrettanto vero che non mancano illuminati comportamenti di imprenditori volti a sanare definitivamente tali inconvenienti. I grandi stabilimenti si compongono di ambienti aerati, puliti e dotati di sistemi di sicurezza. «Dalla seconda metà del sec. XIX in Europa ed Ame-

699

TTE, III, p. 473. Ibidem. 701 Scrive il Toniolo: «ciò suggeriva all’economista liberale inglese (J.S. Mill) la fiera condanna: tutto anche il comunismo val meglio di simile organizzazione sociale» (TTE, III, p. 476). 702 TTE, III, p. 476. 703 TTE, III, p. 477. 704 Il Toniolo dimostra di condividere l’idea dell’istituzione dei consigli elettivi, definendoli «esempi meritevoli di più estese imitazioni» (TTE, III, p. 479). 705 TTE, III, p. 481. 700

131

rica» 706 si sono moltiplicati bagni, ospedali a domicilio, convitti e dormitori, asili infantili e scuole. Non va dimenticato l’apporto dato dalle «leggi industriali» 707, volte a prevenire e reprimere i più svariati disordini all’interno degli stabilimenti. Si può concludere che «gli svantaggi della fabbrica» «non pareggiano i vantaggi economici», i quali si traducono in «preziosi vantaggi sociali» 708. La presenza di aspetti negativi, insiti nel sistema di fabbrica, impegna il legislatore e gli imprenditori a promuovere «iniziative di più elevata giustizia ed equità» 709. Il Toniolo

ribadisce

che

a

ogni

progresso

materiale

deve

accompagnarsi

«un’elevazione di responsabilità sociale e dei conseguenti doveri morali» 710. La «legge di integrazione» 711 porta a «giudicare l’importanza comparativa» che, nell’ambito del processo di sviluppo, è riservata alla grande e piccola impresa 712. Dall’analisi dei loro rapporti emerge come il mestiere, la manifattura e la fabbrica non siano destinati a scomparire, anzi, ognuno mantiene «un campo proprio in cui si insedia e opera» 713 (legge di integrazione). La proporzione tra i diversi tipi di piccola e grande industria varia, invece, secondo i periodi storici considerati. Nel passaggio da un momento storico a un altro, «i piccoli si trovano sacrificati», fino a quando la produzione non raggiunge il nuovo equilibrio. Nel lungo periodo, la fabbrica aiuta la «rinascita ed espansione» 714 della manifattura. Scrive il Toniolo: «col progresso delle grandi cuoierie non si moltiplicano i calzolai? Colle tipografie editrici i rilegatori di libri?»715. Inoltre, il «benessere diffuso» che genera la fabbrica non fa la fortuna delle «arti voluttuarie» 716,

706

TTE, III, p. 482. Ibidem. Il Toniolo risente dell’influsso della scuola lombardo-veneta. Come ricorda PECORARI (Luigi Luzzatti e le origini dello «statalismo», p. 162) «il gruppo, che ha i suoi uomini di punta in Cossa, Messedaglia, Lampertico e soprattutto Luzzatti, raccoglie attorno a sé alcuni giovani, tra i quali, per acutezza d’ingegno, si distingue, come si è visto, Giuseppe Toniolo». Cfr. F. BOF, Economia e società nei riformisti «lombardo-veneti» (1875-79), in Amicitiae causa, pp. 326-360. 708 TTE, III, p. 484. 709 Ibidem. 710 TTE, III, p. 485. 711 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 485. 712 A questo punto è necessario un chiarimento terminologico. Nell’ambito dell’analisi che segue, il Toniolo intende per grandi imprese il sistema di fabbrica, mentre nelle piccole imprese comprende il mestiere e la manifattura. 713 TTE, III, p. 487. 714 TTE, III, p. 488. 715 TTE, III, p. 489. 716 «Crescono così e si perfezionano le industrie che hanno carattere di servizi personali, quelle di barbiere, parrucchiere, di lavanderia, di stireria, di abbigliamento e di moda; i cuochi, i pasticceri e confetturieri; sorgono imprese per impianti elettrici o a gas, per riscaldamento; ed arti decorative e ornamentali per le case» (TTE, III, p. 490). 707

132

«dell’arte estetica» 717 e delle industrie artistiche? Sembra potersi affermare che l’avvento dell’industria non causa la scomparsa dei mestieri e della manifattura, e quest’affermazione è dimostrata dalle statistiche industriali 718. Ciò vale però al termine del periodo di «spostamento delle piccole industrie dall’uno all’altro oggetto» 719 di produzione. Esiste un «terreno promiscuo», in cui le grandi e piccole imprese si confrontano. Qui la «lotta è tuttora pericolosa e fiera» e si «palesa principalmente in due modi»720. Da un lato la manifattura perde la propria identità, trasformando gli artigiani in semplici salariati. D’altra parte, il mestiere con una «produzione affine a quella della grande impresa» 721 perde i clienti abituali, che s’indirizzano verso la produzione industriale. Dalla reciproca interferenza si determina la proporzione definitiva fra piccole e grandi industrie. Per risollevare il mestiere e la manifattura, il Toniolo propone una serie di interventi. Primariamente va rafforzato l’uso di «piccoli motori» (a gas, a vapore o elettrici) in grado di rifornire di energia a basso costo «ogni bottega» 722. È indispensabile elevare «l’istruzione tecnica» della classe artigiana con scuole professionali e attraverso la cura del tirocinio. Non bisogna dimenticare che l’artigiano è un «lavoratore-capitalista» 723, bisognoso, attraverso il credito, di capitale; a questo scopo servono le «banche popolari di tutta Europa». Mentre il mestiere deve rimanere individuale, gli acquisti di materie e le vendite del «prodotto esuberante» devono farsi «collettivamente all’ingrosso» 724, grazie a società cooperative. Gli «organi» 725 deputati a contribuire alla rinascita dell’impresa artigiana sono «gli individui, la società, [e] lo Stato». È indispensabile la «cooperazione degli individui». L’artigiano deve «convincersi di essere egli stesso il fabbro del717

«Ripulla così democraticamente un’arte secondaria commerciale, cioè accessibile alle borse dei più, coi quadri di genere, colle incisioni, litografie, fotografie di ogni specie, sculture in legno, immagini e statuine da chiese, da parete, da tavolo» (TTE, III, p. 490). 718 In Germania «le imprese gigantesche da oltre 1000 operai dal 1882 al 1895 sono più che raddoppiate, raggiungendo esse in quest’ultimo anno nell’apogeo dello slancio industriale tedesco il numero di 253 (che poi non è straordinario); ma sebbene questo moto fosse a vario grado seguito dalle grandi e medie, tuttavia le piccole imprese fino a 5 operai rappresentavano ancora il 92,6% del totale degli esercizi germanici, come l’85% in quelli francesi» (TTE, III, p. 492). 719 TTE, III, p. 493. 720 Ibidem. 721 TTE, III, p. 494. 722 Il Toniolo cita l’introduzione dei motori «municipalizzati, come fu studiato specialmente in Belgio» (TTE, III, p. 495). 723 TTE, III, p. 496. 724 Ibidem. 725 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 497.

133

le proprie sorti» 726. Tra essi deve rinascere un «sentimento di solidarietà di classe», capace di frenare la «concorrenza mutua disastrosa» 727. Le varie classi sociali devono impegnarsi in questo processo di rinascita attraverso «giornali, conferenze, inchieste, esposizioni e premi» a favore dell’industria artigiana. Lo Stato, infine, assieme alle regioni, alle provincie e ai comuni, deve sopperire alle debolezze intrinseche delle piccole industrie con appropriate «provvidenze di legge e di politica economica» 728. La piccola industria è «esercizio di autonomia personale» e «scuola di popoli liberi» 729. Solo la piccola industria può risolvere il problema del lavoro femminile 730, trattenendo «le madri presso la culla e il focolare, come collaboratrici del marito». Infine, una «robusta organizzazione della piccola industria» 731 è germe dell’indispensabile nascita di nuovi ceti industriali.

5.3.

Nell’ordinamento economico-giuridico

L’azione «giuridico-politica» dello Stato ha coinvolto anche l’industria manifatturiera con «prescrizioni e provvidenze» rivolte a: 1) «riconoscere e tutelare» le diverse forme d’impresa; 2) «disciplinarne l’esercizio nell’interesse privato e sociale»; 3) incrementarne la «potenza produttiva» 732. Nato dalle «consuetudini giuridiche», tale complesso di norme si è sviluppato in modo autonomo, e 726

TTE, III, p. 497. TTE, III, p. 498. 728 Ibidem. Cfr. TTE, I, pp. 309-337. L’intervento dello Stato è riconosciuto dal Toniolo come indispensabile: «l’ordine sociale affidato alla spontanea attuazione degli uomini sotto l’autorità della legge razionale-divina, per la corrotta natura degli uomini non rimarrebbe sempre e integralmente rispettato, senza il concorso di leggi positive, cioè proclamate da una autorità umana e munite di sanzione esterna coercitiva» (TTE, I, p. 309). PECORARI (Toniolo, un economista per la democrazia, p. 163) sostiene che «le tesi qui esposte dal Toniolo rappresentano un significativo sviluppo in materia di «supplettività» e di «sussidiarietà», anche tenendo conto del carattere estensivo che entrambi i concetti hanno poi assunto nell’ambito della «cultura cattolica», non solo per ciò che attiene ai problemi per così dire endogeni dello Stato, nel campo – poniamo – dell’educazione, della scuola, dell’assistenza, ecc., ma pure per ciò che si riferisce alla collaborazione economica internazionale». Cfr. PECORARI, Luigi Luzzatti e le origini dello «statalismo», pp. 219220. 729 TTE, III, p. 500. 730 Cfr. C. TONIN, Il contributo del Toniolo alla questione femminile, in Economia capitalistica, economia umana? Giuseppe Toniolo: uno studioso a servizio dell’uomo, Atti del Convegno per il XXX anniversario del decreto sull’eroicità delle virtù di G. Toniolo, Cison di Valmarino (TV), 10 novembre 2001, Roma 2002, pp. 121-130. Per l’atteggiamento del Toniolo nei confronti del «femminismo cattolico» si tenga presente la bibliografia citata da PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, p. 182. 731 TTE, III, p. 501. Il Toniolo richiama autori come A. Wagner e L. Brentano. Secondo MEOLI (Lineamenti di storia delle idee economiche, p. 235) tali studiosi affrontarono alla fine del XIX secolo «il problema del tipo di sviluppo economico» della Germania. 727

134

talora antitetico, rispetto agli ordinamenti agrari, configurando una «legislazione e politica industriale» 733 in grado di abbracciare i molteplici rami dell’industria manifatturiera. La facoltà di costituire ed esercitare un’attività industriale è il frutto di un processo storico le cui tappe sono costituite da tre «caratteristici ordinamenti»: il regime corporativo, quello delle concessioni governative e quello della libertà industriale. Nell’antichità classica, la mancanza di libertà industriale aveva impedito la nascita e lo sviluppo delle imprese manifatturiere. Solo «nell’età cristiana», grazie al «regime industriale corporativo»734, le arti manifatturiere si svilupparono fino a raggiungere il culmine nel medioevo e, segnatamente, nei secoli dal XIII al XV. Si affermò il diritto «alla libertà di lavoro», figlio del concetto di «autonomia morale dell’uomo» 735. I «collegi dell’arti» divennero la culla di una legislazione industriale che, tradotta in leggi scritte, sanciva il diritto alla libera iniziativa, subordinata comunque agli interessi generali. Da questo momento si moltiplicarono le imprese individuali di piccoli artigiani, sovente «all’ombra del castello, attorno al monastero, nelle antiche e poi nuove città», le imprese private «sociali», quali le «potenti compagnie di Genova, Milano [e] Firenze» 736 e assunsero personalità giuridica anche le «persone collettive» 737, specialmente gli ordini religiosi. Il pullulare di iniziative rimase sotto l’autorità degli statuti corporativi che, nei primi secoli del medioevo, imponevano il rispetto di «condizioni morali» per poter appartenere alla classe artigiana. La libertà di iniziativa privata, prima ancora di entrare nelle regole delle corporazioni, ebbe origine dalla concezione cristiana del lavoro, figlio della «personalità morale dell’uomo» 738, accettato come un dovere ed esercitato come una funzione affidata da Dio in vista del bene morale e materiale della società intera 739. Le corporazioni si configurarono non 732

Ibidem. TTE, III, p. 502. 734 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 503. 735 TTE, III, p. 504. 736 TTE, III, p. 505. 737 TTE, III, p. 506. 738 TTE, III, p. 509. 739 Uno dei «fondamentali ispiratori o modelli» del pensiero maturo del Toniolo è Victor Brants. Titolare della cattedra di economia politica all’Università cattolica di Lovanio, il Brants si interessa ai problemi della storia economica medioevale e moderna. Secondo quanto scrive SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 47), l’autore belga, nel suo manuale di economia politica del medioevo, sostiene che «man mano che la ricchezza andava accumulandosi, crescevano anche le occasioni patologiche di guadagno, con il rischio – a parere del Brants – che tutto si perdesse. Ma la legislazione canonica e la incidenza che nella vita medioevale ebbe la religione, fecero sì che i primi germi della nostra economia sviluppata non 733

135

come fonti dispensatrici di un tale diritto, bensì «organo giuridico» per il suo riconoscimento. Per fondare un mestiere non era indispensabile appartenere a esse e, dove lo fosse stato, «sotto condizioni comuni», tutti potevano esserne ammessi 740. Dal XV al XVIII secolo avvenne una contrazione delle libertà personali e, conseguentemente, industriali. Si affermò un «regime» di «concessioni governative» 741, allo sviluppo del quale contribuirono varie ragioni. «Lo spirito pagano del rinascimento e l’individualismo della riforma» 742 avevano sostituito, alla libertà e solidarietà cristiana, l’egoismo. Le grandi corporazioni o arti maggiori, divenendo influenti nel governo delle città, avevano escluso i piccoli artigiani. Le «monarchie assolute e accentratrici» dimostrarono interesse ad avvalorare tale situazione, schiacciando la classe operaia e legando a sé la nascente «borghesia capitalistica» 743. Prevalse negli statuti il sistema delle «corporazioni chiuse e privilegiate», che attuava una «esclusione coercitiva» 744 dal diritto di lavorare e vendere liberamente. Le grandi manifatture ottennero dai sovrani e dai parlamenti di «emanciparsi dai limiti corporativi» e, per alcuni prodotti, la costituzione di monopoli di fabbricazione e vendita. Dal XVI secolo i governi procedettero in tutta Europa alla stesura di una «codificazione industriale» volta a distinguere le industrie «non corporate dei mercanti capitalisti», da quelle «incorporate» degli artigiani, con l’intento di assoggettare le ultime alle grandi manifatture. Gli stessi governi predisposero «regolamenti generali» 745, tesi a disciplinare l’esercizio dell’attività produttiva nazionale in favore del «decoro» e della «potenza» dello Stato di fronte ai Paesi esteri. In stridente contrasto con la libertà industriale medioevale, si era imposto il principio che il costituire ed esercitare un’attività d’impresa dovesse essere subordinato a una concessione statale.

fossero soffocati sul nascere». In una sorta di idealizzazione del medioevo il Toniolo accoglie in pieno la tesi del professore di Lovanio considerandola come una «constatazione positiva della validità scientifica dei principi etici del neotomismo». 740 Il tema delle corporazioni medioevali è toccato dal Toniolo in altri due scritti e, segnatamente, in La statistica nella repubblica fiorentina (1894) e nel Saggio sulla politica industriale e mercantile nella repubblica fiorentina (1897). In essi, come sostiene SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 80), «il sistema fiorentino “della manifattura”» è contrapposto «al moderno sistema “di fabbrica”», sottolineando soprattutto «la grande importanza del diffuso possesso degli strumenti di lavoro, senza peraltro sottacere l’incipiente presenza anche di un vero e proprio salariato pagato a tempo fisso». 741 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 510. 742 TTE, III, p. 510. Cfr. PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, pp. 37-38. 743 TTE, III, p. 511. 744 Ibidem. 745 TTE, III, p. 512.

136

Ben si comprende allora «l’entusiastica reazione» della Francia alla proclamazione della libertà industriale da parte del ministro Turgot con l’editto del 1776, che sanciva «il diritto di lavoro come la prima, più sacra e imprescrittibile proprietà data da Dio all’uomo» 746. Essa aveva significato abolizione di ogni specie di privilegio (agosto 1789) e dei «regolamenti sulle industrie e le stesse corporazioni» 747. I governi liberali francesi continuarono a percorrere questa strada 748, così come l’Italia e la Gran Bretagna, mentre per Austria e Prussia il cammino si dimostrò più lento e contrastato 749. La libertà industriale ritornò a essere un diritto personale. Essa, congiunta alla responsabilità dei propri atti, diventò «lo stimolo della concorrenza» 750, aumentò l’ingegno, l’intraprendenza, la perfezione dei prodotti e contribuì all’espansione delle vendite a vantaggio degli industriali e del pubblico. Infine, educò, insieme col diritto, «anche la coscienza del dovere individuale e sociale», imprimendo all’attività industriale dignità e carattere di una «missione civile»751. I pregi della libertà si concretano solo quando viga il «rispetto pratico dei precetti dell’etica individuale e sociale» e sia rispettata l’«effettiva azione della concorrenza» 752. Tali aspetti non furono sufficientemente presi in considerazione in Francia, dove la libertà fu ispirata da «fini individualistici, all’infuori di ogni riguardo

di

morale,

diritto

e

interesse

sociale

e

pubblico»753.

Trionfò

«l’individualismo idealista» della fisiocrazia francese e quello «avaramente utilitarista degli inglesi» 754. La sfrenata concorrenza aveva crudelmente sacrificato i diritti dei più deboli e la soppressione delle corporazioni, era stata la causa della nascente lotta di classe fra capitalisti e operai. Nella seconda metà del XIX secolo, al periodo «caotico e anarchico della libertà illimitata nelle industrie», suc-

746

TTE, III, p. 513. TTE, III, p. 514. Cfr. FANFANI, Storia delle dottrine economiche, p. 318. 748 Cfr. C. FOHLEN, La rivoluzione industriale in Francia, in Storia economica d’Europa, IV, diretta da C. M. CIPOLLA, Torino 1980, p. 10. 749 Austria e Prussia proclamarono il riconoscimento della libertà industriale, rispettivamente, solo nel 1859 e nel 1869, (TTE, III, p. 514). 750 TTE, III, p. 514. 751 TTE, III, p. 515. 752 TTE, III, p. 516. 753 Ibidem. 754 TTE, III, p. 517. Il Toniolo fa un esplicito riferimento alla Scuola di Manchester. Per RICOSSA, Dizionario di economia, p. 272 (Laissez-faire), il manchesterismo «è un movimento liberista», nato nel 1883 dall’opposizione alle leggi protezionistiche sul grano della Gran Bretagna. «Fra gli esponenti più attivi si ricordano R. Cobden e J. Bright». 747

137

cesse quello «di una libertà legalmente disciplinata» 755. Riconosciuta la libertà di fondere ed esercitare l’attività industriale, tutte le nazioni riservarono allo Stato, per fini di pubblica utilità, l’esercizio di alcuni tipi di imprese. A questo seguirono delle disposizioni speciali e generali per l’esercizio dell’attività. Quelle speciali furono dettate per le industrie che necessitavano di particolari discipline, perché insalubri, pericolose o esercitate dallo Stato e dai comuni. Le leggi generali erano riferite, invece, a tre oggetti distinti: 1) «l’ammissione del personale» 756; 2) «la protezione individuale degli operai» sancendo «l’inviolabilità di essi, nei rispetti fisici, intellettuali e morali» 757; 3) «le modalità nelle prestazioni dei lavoratori» 758. Il Toniolo rileva come il contratto di lavoro, «diretto a disciplinare il massimo rapporto giuridico» fra capitalisti e operai, abbia trovato «fino ad oggi una soluzione imperfetta e pressoché nulla» 759. Il problema fondamentale è definire il valore del lavoro e, conseguentemente, la sua retribuzione. I principi liberisti hanno

relegato

il

salario

a

una

«assegnazione

unilaterale»

da

parte

dell’imprenditore, all’infuori di «ogni mutua discussione di offerta e domanda preventiva» 760. Purtroppo però, egli rileva che «mentre i fatti precipitano», le leggi procedono «ancora timide e lente» 761. In riferimento alla «politica industriale» 762, nel «regime più recente liberale», lo Stato «educa e sostiene» l’industria manifatturiera ricoprendo un ruolo di promozione e integrazione dell’attività privata. Tale azione si concreta nella di755

Ibidem. L’assunzione del personale deve sottostare e regole precise: «altre riguardano le qualità soggettive del lavoratore, p.e. respingendo persone pregiudicate moralmente e penalmente, sopra di che le leggi dovrebbero essere più severe. Altre l’età ed il sesso; e come dalla proibizione di assumere a lavoro gli adolescenti prima di una certa età…, così l’esclusione delle donne da altre industrie repugnanti al loro organismo e onestà, quali per esempio gli esercizi minerari e metallurgici» (TTE, III, p. 520). 757 «Di qui le prescrizioni riguardanti l’architettura e meccanica industriale, areazione, stabilità, ecc., o i pericoli di caldaie a vapore, di trasmissioni elettriche. Altre la igiene, e quindi precauzioni e cure profilattiche contro le così dette «malattie professionali» degli operai…La inviolabilità dei diritti intellettuali si drizza per ora a impedire che il lavoro di fabbrica allontani i fanciulli dall’istruzione elementare, ma occorrerebbe estenderla alla esclusione dagli stabilimenti di propagande empie ed anarchiche» (TTE, III, p. 521). 758 «Per consuetudine e utilità pratica, ma spesso in Germania, Svizzera, Belgio anco per legge, ogni industriale deve annunziare in un proprio regolamento di fabbrica, dietro quali modalità intende esercitare il lavoro nel proprio stabilimento. E tali: la durata del lavoro giornaliero, […] la forma del salario, cioè il modo con cui è calcolato, […] ancora la sorveglianza del lavoro (capisala o contremaîtres), il controllo del prodotto, le infrazioni disciplinari, le sanzioni (multe, licenziamenti) e i reclami in appello» (TTE, III, pp. 521-522). 759 TTE, III, p. 523. 760 Ibidem. 761 TTE, III, p. 524. 762 In maiuscoletto nell’originale: TTE, III, p. 525. 756

138

vulgazione dei risultati di inchieste e statistiche, nella costituzione di «consigli speciali delle industrie» per l’analisi dei progressi tecnici ed economici, e dell’«ufficio centrale del lavoro» 763, con il compito di preparare la legislazione sociale e vigilare sulla sua applicazione. Lo Stato, inoltre, assume la qualità di promotore dell’istruzione tecnica grazie all’istituzione di «scuole industriali superiori (politecnici, accademie di ingegneria)», di scuole medie e inferiori volte a preparare «intelligenti cooperatori» e attraverso la creazione di «esposizioni nazionali e internazionali» e di «grandi musei industriali» 764; si fa promotore di un «indiretto soccorso» alle industrie con l’emanazione di leggi speciali sui diritti di brevetto e con controlli mirati a contrastare «adulterazioni e sofisticazioni» 765 dei prodotti. Un’ultima «influenza generale» sull’industria nazionale è rappresentata dalla «politica commerciale internazionale», i cui effetti variano secondo il grado di libertà di circolazione dei prodotti. Si assiste perciò alla rinascita, dopo il «liberalismo anarchico», di una legislazione e politica industriale che, pur riconoscendo la libertà di iniziativa privata, ha l’obiettivo di disciplinarla in favore dell’interesse «individuale e collettivo»766. Il Toniolo riconosce il merito di tali leggi, ma conclude affermando che «si impone con solenni esperienze il monito che le supreme ragioni spirituali nella vita dei popoli sono condizione ineluttabile al progresso normale della produzione, anzi agli stessi trionfi dell’industria moderna» 767.

763

TTE, III, p. 525. TTE, III, p. 526. 765 TTE, III, p. 527. 766 Ibidem. 767 TTE, III, p. 529. 764

139

6 Capitolo III L A DISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA NEL PENSIERO ECONOMICO DI

1.

G IUSEPPE T ONIOLO

L’oggetto e i soggetti del processo distributivo

Sembra opportuno iniziare il presente capitolo, ricordando che, nelle intenzioni del Toniolo, il Trattato di economia sociale, doveva essere composto da quattro volumi: l’Introduzione 768, La produzione della ricchezza 769, La circolazione 770 e la Ripartizione e consumo della ricchezza. Furono iniziati, ultimati e pubblicati dallo stesso Toniolo soltanto i primi due volumi, il terzo uscì dopo la sua morte, mentre l’ultimo non fu mai scritto. Argomenta lo Spicciani: «nella vasta e poderosa opera scientifica di Giuseppe Toniolo, si possono distinguere – per comodità di studio – tre periodi specifici, pur nella sostanziale continuità del suo pensiero» 771. Nel primo periodo 772, il Toniolo si occupa di «definire la sua posizione scientifica entro l’agitato mondo degli economisti italiani di allora» 773 e si applica, in particolare, allo studio della distribuzione del reddito. Dello stesso periodo è il volume Sulla distribuzione della ricchezza 774, che raccoglie le lezioni tenute dal Toniolo quando era docente di economia politica all’Università di Padova. «La distribuzione della ricchezza» 775 si occupa dello «studio delle leggi na-

768

L’Introduzione ebbe una prima edizione nel 1907 e una seconda, riveduta e ampliata, nel 1915, entrambe per i tipi della Libreria editrice fiorentina. Tale volume è ora ristampato in TTE, I, pp. 15-484, (prima parte dell’Introduzione desunta dalla seconda edizione, pp.1-282) e in TTE, II, pp. 1-215 (seconda parte corrispondente alle pp. 283-410, sempre dell’edizione del 1915. 769 La pubblicazione de La Produzione risale al 1909 a cura della Libreria editrice fiorentina. Dopo la morte del Toniolo furono redatte una seconda edizione (semplice ristampa senza modifiche) nel 1921 e una terza nel 1944, sempre per i tipi della stessa casa editrice. Il testo è ora ristampato dalla prima edizione in TTE, III, pp. 3-535. 770 La circolazione della ricchezza non fu completata dal Toniolo a causa del sopraggiungere della morte il 7 ottobre 1918. Uscì un’edizione postuma, a cura di JACOPO MAZZEI (Firenze 1921) che riprodusse le bozze, peraltro non tutte rivedute dall’autore, e alcuni appunti dell’anno accademico 1911-12 del corso professato dal Toniolo all’Università di Pisa. Tale edizione è ora ristampata in TTE, V, pp. 3-405. 771 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 63. 772 Esso secondo SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 64) «va dalla libera docenza del 1872 al suo arrivo a Pisa come straordinario di economia politica nel febbraio del 1879». 773 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 64. 774 G. TONIOLO, Sulla distribuzione della ricchezza. Lezioni, Verona-Padova 1878, ristampato in TTE, IV, pp. 103-213. 775 Intesa «come parte della scienza della economia sociale» (TTE, IV, p. 105).

140

turali economiche», in base alle quali la «ricchezza prodotta viene a ripartirsi fra coloro» che hanno contribuito a formarla 776. Il Toniolo distingue anche la cosiddetta «ricchezza gratuita», che, «non essendo il risultato di una sistematica attività umana» 777, non interessa le leggi della produzione e, tantomeno, quelle della distribuzione. La produzione e il consumo si configurano pertanto come eventi contemporaneamente presenti nell’economia sociale, e l’uno è il riflesso dell’altro: si distribuisce «la parte di ricchezza di mano in mano prodotta e destinata al consumo» 778. A tale scopo basta ricordare che ogni nuova produzione deriva necessariamente dall’impiego di una determinata quantità di ricchezza precedentemente prodotta. L’anticipazione di ricchezza riguarda: 1) i «prodotti primi», che vanno a formare direttamente quelli nuovi; 2) i «prodotti ausiliari che ne coadiuvano la elaborazione» 779; 3) gli strumenti tecnici, che, gradualmente, si logorano. Le ricchezze anticipate compongono il capitale, che deve considerarsi in modo distinto dai risultati ottenuti attraverso il processo produttivo. Esso deve essere interamente ripristinato per servire a nuova produzione; viceversa, sarebbe minata alla base la stessa «potenza produttiva della società» 780. Precisato ciò, va detto che «oggetto del processo distributivo» 781 è il reddito netto, inteso come l’«addizione di ricchezza» ottenuta alla «fine di ogni ciclo produttivo» che rimane disponibile per il soddisfacimento dei bisogni umani, senza depauperamento della «potenza produttiva cui la società è pervenuta»782. La sua «ampiezza media generale» è, nel lungo periodo, «il risultato e l’espressione della grandezza, dell’efficacia e dell’indirizzo della produzione», 776

Cfr. RICOSSA, Dizionario di economia, pp. 442-447 (Ricchezza); SCREPANTI, Distribuzione del reddito, in Dizionario di economia politica, VI, pp. 11-60; S. LOMBARDINI, Il metodo della scienza economica: passato e futuro, Torino 1983, pp. 51-66. 777 TTE, IV, p. 105. 778 Ibidem. 779 TTE, IV, p. 106. 780 Ibidem. Il Toniolo riprende l’impostazione della teoria classica. Per SCREPANTI (Distribuzione del reddito, p. 10) «la teoria della distribuzione si occupa della determinazione e della spiegazione del modo in cui il reddito netto viene ripartito tra le classi sociali in relazione alle circostanze che consentono la riproduzione e l’accumulazione del capitale». Cfr. S. LOMBARDINI, Economia politica, Torino 1992, pp. 529538. 781 PECORARI, Il solidarismo possibile, p. 11. 782 TTE, IV, p. 107. Il concetto risulta ancora più chiaro dopo un esempio: «se si fissino due momenti nel tempo a distanza l’uno dall’altro quanto corrisponda ad un ciclo naturale di produzione» - inteso come la serie di operazioni necessarie a realizzare e mettere a disposizione del consumatore un qualsiasi prodotto - «e dalla totalità del prodotto verificatosi nel secondo di què momenti (reddito lordo) si sottragga la quantità di ricchezza che esisteva già nel primo di essi e fu consumata pel fine proprio ed esclusivo della

141

rapportati all’«estensione, intensità e qualità»783 del consumo. Se nell’economia privata, il concetto di reddito netto ha carattere relativo 784, «nell’economia sociale», esso ha valenza assoluta, costituendo «il fondo dei compensi di tutti i produttori» e rappresentando la «somma dei redditi netti di tutte le economie private» 785. La prima considerazione da farsi riguarda la natura del reddito netto. Dato che esso costituisce il «fondo dei compensi di tutti i produttori», la sua «ampiezza»786 determina, di conseguenza, la misura dei redditi attribuiti alle varie classi sociali. In secondo luogo, il reddito netto si distribuisce solo fra coloro che hanno partecipato all’attività produttiva. Nel suo dispiegarsi tale attività necessita di lavoro, dell’apporto della «natura esterna» e del capitale. Il prodotto netto così ottenuto, si distribuisce ai detentori dei suddetti fattori e, rispettivamente, alle tre classi sociali dei lavoratori, dei «proprietari degli agenti territoriali» 787 e dei capitalisti. La frazione del reddito percepita da ciascuna classe assume, in senso ampio, la denominazione di «retribuzione, rimunerazione o profitto». Considerato il caso dell’esercizio di un’impresa, il reddito netto corrisposto al lavoratore, «in misura fissa per tutto il tempo in cui continua il contratto», «prende il nome di salario», quello dovuto al capitalista, interesse, quello attribuito «al proprietario degli agenti territoriali rendita». Infine, la parte che residua e spettante all’imprenditore è detta «profitto in senso stretto» 788. Le prime tre tipologie di reddito sono definite «semplici», giacché ciascuna rappresenta il compenso di un solo fattore di produzione. Il profitto, invece, rappresenta l’archetipo dei cosiddetti redditi «complessi»789, formati, appunto, da più redditi semplici.

nuova produzione, il residuo misura il reddito netto della produzione durante quel periodo intermedio» (TTE, IV, p. 106). 783 TTE, IV, p. 107. 784 «Per l’imprenditore, p.e., il salario da lui corrisposto ai propri operai rappresenta il lordo, per gli operai il netto». Vale a dire che, da un punto di vista individuale, il singolo considera come «prodotto netto» solo la parte che, dello stesso, gli compete (TTE, IV, p. 108). Cfr. L. COSSA, Saggi di economia politica, Milano 1878, p. 171. 785 TTE, IV, p. 108. 786 Ibidem. 787 TTE, IV, p. 109. 788 Ibidem. 789 Cfr. E. NAZZANI, Del Profitto: saggio, Milano 1877, pp. 1-47. Scrive il NAZZANI (Del Profitto. Saggio, pp. 22-23): «ed è così che J. St. Mill, Cherbuliez ed altri analizzando il profitto, vi trovano la rimunerazione del lavoro, la retribuzione dell’astinenza, il compenso per il rischio».

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«Titolo giuridico» per partecipare al riparto del reddito netto, è aver contribuito alla produzione ed «essere perciò comproprietario del prodotto»790 ottenuto. Le leggi della distribuzione sono strettamente collegate a quelle della produzione: appartiene «a ciascheduno ciò che è risultato dell’opera propria». «La legge generale della distribuzione economica» può esprimersi come segue: «tutti i fattori della produzione partecipano al reddito di essa a ragione del valore della rispettiva cooperazione» 791. È da rilevare che la distribuzione del reddito avviene solo tra i soggetti che hanno contribuito alla produzione attraverso l’apporto di uno o più fattori. Quando invece «il riparto avviene» anche a favore di chi non ha concorso alla produzione, «il fenomeno non appartiene all’ordine dell’economia distributiva». Lo studio dei «redditi della beneficenza» e di «quelli dello Stato» è oggetto rispettivamente «dell’etica e della scienza delle finanze». Inoltre, «se per taluni aspetti rientrano nell’economia sociale» 792, essi sono riferiti al consumo della ricchezza e non alla sua distribuzione. Scrive Pecorari: «si osserverà che due non ancora composte esigenze affiorano qui nel giovane Toniolo: da un lato la compensazione del merito, il dare a ciascuno quanto gli è dovuto; dall’altro lato le ragioni dell’equità come risposta etica ad un bisogno» 793. Rispetto alle altre leggi economiche, quelle distributive presentano un carattere «antropologico e psicologico», conseguente alla determinazione del valore delle prestazioni degli uomini, detentori dei fattori della produzione. Esse si legano a giudizi di «utilità comparativa» delle prestazioni, di per sé difficili e influenzati dai «sentimenti di indole differente che si intrecciano nell’uomo» 794. Il loro procedimento di valutazione necessita pertanto: 1) di un «alto grado di intelligenza» che permetta di individuare il valore delle diverse prestazioni; 2) del riconoscimento della «libertà piena» nell’ambito della «concorrenza degli interessi dei vari collaboratori»; 3) di un profondo senso di equità e carità individuale e civile; 4) dell’intervento dell’ordinamento giuridico 795. 790

TTE, IV, p. 110. TTE, IV, p. 111. 792 TTE, IV, pp. 110-111, nota 1. 793 PECORARI, Il solidarismo possibile, p. 11. 794 TTE, IV, p. 112. 795 Secondo PECORARI (Il solidarismo possibile, p. 11), il Toniolo cita il Minghetti, «pensando probabilmente sia al suo tentativo di armonizzare scienza economica, diritto e morale, sia alla tesi che lo sviluppo economico deve accompagnarsi al graduale miglioramento delle condizioni di vita dei ceti più bisognosi». L’intervento dello Stato in tema di produzione, di «gestione dei pubblici interessi» e di distribuzione è giustificato laddove manchi l’opera della «società civile». La necessità che, allo sviluppo economico si associ anche un’elevazione morale e materiale delle classi meno abbienti, sarà più volte ribadita dallo stesso 791

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Gli effetti del fenomeno della distribuzione si propagano nella società civile lungo tre direzioni. La prima si riferisce all’«ordine economico». «L’entità dei consumi», infatti, è strettamente legata alla grandezza della quota ripartita, sul reddito netto comune, tra i soggetti che concorrono alla produzione. Ne deriva che il problema della distribuzione si lega «intimamente» al «fine stesso della ricchezza», ossia al soddisfacimento dei bisogni umani. In secondo luogo, la distribuzione della ricchezza interessa l’«ordine politico» 796, perché i «momenti critici della progressiva partecipazione al potere elettorale delle classi inferiori» 797 si accompagnano alla loro «elevazione economica» 798. Infine, nell’«ordine sociale», l’equa distribuzione dei beni contribuisce all’«ordinato progresso» della società. Al contrario, un’ingiusta ripartizione della ricchezza mina alla base l’organismo sociale. Da una siffatta situazione, nascono le contestazioni dei «principi» e degli «istituti fondamentali della società», nonché le proposte di «distruzione o di rimaneggiamento dell’ordine naturale». Scoppia la «crisi o questione sociale», risultato di un rapporto anomalo tra l’economia distributiva e la «rimanente vita sociale» 799. Il Toniolo degli anni Settanta si trova ad affrontare il problema distributivo «in relazione ai margini del concorso individuale e di partecipazione al progresso economico», ponendo in rilievo la «quaestio del rapporto tra efficienza ed equità» 800, accettando «il principio che la maggiore equità del sistema si lega alla maggiore efficienza» 801. In un altro lavoro giovanile, la nota prelezione del 1873 802, affiorano alcuni accenni del medesimo argomento. In essa è «adombrata l’esigenza di una ri-

Toniolo, anche nel volume dedicato alla produzione della ricchezza, pubblicato diversi anni dopo (1909) nel Trattato di economia sociale. 796 TTE, IV, p. 113. 797 TTE, IV, p. 113. 798 PECORARI, Il solidarismo possibile, p. 12. Scrive il Toniolo: «è un processo spiccatissimo in Inghilterra, illustrato ormai da ogni cultore di scienze politiche» (TTE, IV, p. 114), riferendosi al volume di H. T. BUCKLE, History of Civilization in England, I-II, London 1857-1861. 799 TTE, IV, p. 114. 800 PECORARI, Il solidarismo possibile, p. 25. Come ricorda PECORARI (Il solidarismo possibile, p. 25, nota 125) la questione del rapporto tra efficienza ed equità «è ancor oggi ben lungi dall’essere risolta, essendo assai differenziate, e anzi talora divergenti, le posizioni degli studiosi, economisti e non». Oltre ai volumi citati da PECORARI (Il solidarismo possibile, p. 25, nota 125), segnalo: G. GABURRO-G. CRESSOTTI, Un approccio personalistico all’economia politica fondato sull’etica sociale cristiana, in Etica ed economia, pensatori cattolici del XX secolo, a cura di G. GABURRO, Roma 1993, pp. 219-221; S. ZAMAGNI, Economia ed etica, saggi sul fondamento etico del discorso economico, Roma 1994, pp. 59-78. 801 PECORARI, Il solidarismo possibile, p. 26. 802 Ristampato in TTE, II, pp. 266-292.

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forma dell’economia in chiave di umanesimo antropologico-cristiano» 803. Ha scritto Pecorari: la prelezione è un «testo chiave in cui trovano un primo significativo abbozzo i capisaldi della teorica, non solo economica, da lui [il Toniolo] in seguito sviluppata e approfondita in quasi cinquant’anni di lavoro scientifico» 804. Nella prelezione egli afferma come non esista «fenomeno economico il quale non venga in qualche misura» condizionato da «opinioni e sentimenti», da «pregiudizi e passioni», presenti nell’«intelletto» e nel «cuore umano» 805. Specialmente nel ramo dell’economia che tratta della «distribuzione e consumo dei beni», tali fattori quasi predominano sul sentimento «istintivo» dell’interesse personale 806. «La ripartizione della ricchezza» non può essere studiata prescindendo dalla «storia dei progressi dello spirito umano o altrimenti della civiltà» 807. Abbiamo visto come il Toniolo non riesca a iniziare il volume sulla Ripartizione e consumo della ricchezza. Nel Trattato non mancano, comunque, riferimenti al problema distributivo. In particolare, nel volume sulla produzione 808, egli definisce la distribuzione della ricchezza un fenomeno «derivato» 809, che s’interpone tra le azioni del produrre e del consumare e avverte come, storicamente, le leggi distributive abbiano risentito delle influenze della gerarchia e delle tipologie dei consumi 810. Nell’Introduzione il Toniolo afferma che le vicende degli istituti economici sono collegate «alla storia delle religioni». Nelle leggi distributive, il principio edonistico è più che mai «avvalorato e dominato dai principi e sentimenti di morale e giustizia (J.S. Mill)» 811. L’«ordinamento distributivo» nel lungo periodo plasma la struttura stessa dell’economia 812. Il «risultato definitivo» dell’influenza della religione nell’economia «colpisce la distribuzione dei beni, e si risolve nel-

803

PECORARI, Sull’opera economica del giovane Toniolo, p. 31. PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, p. 16. 805 TTE, II, p. 282. 806 Ibidem. 807 TTE, II, p. 283. 808 TONIOLO, La produzione della ricchezza, ristampato in TTE, III. 809 TTE, III, p. 7. 810 Scrive il Toniolo: «quanto p. e. il grandeggiare di una classe di imprenditori capitalisti nelle recenti grandi industrie, il mutamento dei consumi generali, ossia nel tenore di vita nelle varie classi, non influì sui salari e sui loro problemi?» (TTE, III, p. 7). 811 TTE, II, p. 37. 812 «Oggi stesso il riparto dei beni non è il problema massimo dell’economia contemporanea? E chi è oggi fra gli stessi socialisti che non ne faccia questione di moralità e di giustizia, in nome o in odio della religione?» (TTE, II, p. 38). 804

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la sostituzione ad un regime oligarchico, di un ordine distributivo progressivamente popolare» 813.

2.

Salario e interesse

Il salario è «parte del valore del reddito netto» che spetta al lavoratore per aver «contribuito» con la propria opera alla «produzione esercitata a rischio e profitto altrui» 814. Dal salario nominale, che esprime la quantità di moneta spettante al lavoratore, si distingue il salario reale, che misura la quantità di prodotti acquistabili con il salario monetario. Il salario nominale e reale si equivalgono, rispetto a un «raffronto economico comparativo di varie classi di operai», qualora siano percepiti in «uno stesso luogo e tempo» 815 e il valore dei prodotti di consumo e quello della moneta rimanga inalterato. Misurando il valore del lavoro, il salario si compone di due elementi: 1) l’«utilità» del lavoro rispetto ai fini produttivi; 2) le «limitazioni del lavoro stesso», riguardanti le difficoltà di «mettere a disposizione della produzione l’utilità suddetta» 816. Le variazioni del suo importo sono determinate da «cause intrinseche» e da «cause estrinseche». Le une, riferendosi alla natura del lavoro, prendono il nome di «legge normale del salario»; le altre, inerenti ai rapporti commerciali di domanda e offerta di lavoro, configurano la «legge commerciale del salario». Ancora: se consideriamo i caratteri tipici del lavoro nelle singole specie d’industria, otterremo «tante leggi speciali del salario»; se, invece, consideriamo le stesse leggi rispetto a tutte le industrie di una nazione, avremo la «legge generale» 817. La legge «generale normale» determina il salario in funzione del costo di produzione del lavoro, sicché la remunerazione dei prestatori d’opera si «commi813

TTE, II, p. 47. TTE, IV, p. 115. Cfr. RICOSSA, Dizionario di economia, pp. 461-466 (Salario); F. CAMPANELLA, Salario, in Dizionario di economia politica, diretto da G. LUNGHINI, XI, Torino 1986, pp. 180-288. Il Toniolo affronta il tema del salario anche in altro testo, sempre del 1878, dal titolo Il salario. Saggio di una esposizione sistematica delle sue leggi, «Giornale degli economisti», VII, (1870), pp. 261-280 e 343-364, e VIII, pp. 267-289, ora ristampato di TTE, IV, pp. 214-292; v. PECORARI, Il solidarismo possibile, pp. 1825. 815 Ibidem. 816 TTE, IV, p. 116. 814

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sura alla somma dei sacrifici» sostenuti dal lavoratore per acquisire un tale grado di potenza produttiva. I suddetti sacrifici possono essere «passati (o preparatori)», sostenuti dal lavoratore per la sua formazione (tirocinio), o «attuali», riguardanti lo svolgimento presente dell’attività lavorativa. L’applicazione della norma «generale normale» trova, in concreto, diversi ostacoli, causati dalla difficoltà di attribuire un valore economico all’opera umana. Nella pratica sopperisce, l’applicazione della legge per la quale il salario si rapporta ai consumi «abituali della classe lavoratrice» 818. Essa determina il salario commisurandolo a «quella somma di ricchezza» che, appagando i bisogni abituali della classe lavoratrice, «è sufficiente a determinare la volontà» di mettere la propria opera a servizio altrui. I bisogni che tale somma deve soddisfare sono individuali e sociali. I primi riguardano «la vita fisica dell’individuo» e, segnatamente, «il vitto, il vestito, [e] gli alloggi». Essi sono fortemente influenzati dal clima e dal territorio, e possono definirsi «d’ordine inferiore» 819. Rientrano nella categoria dei consumi individuali anche quelli «d’ordine superiore» 820, precisamente: 1) i consumi materiali «accessori», riferiti al «comodo, al bello, all’ordine, al decoro»; 2) le spese per l’istruzione e l’educazione, sostenute maggiormente dai genitori per i figli; 3) il costo dei «riposi alternati», sostenuto per dar modo di ritemprare le forze fisiche e adempiere i bisogni e doveri spirituali; 4) i risparmi di «previdenza», imposti dall’imprevedibilità della vita, che potrebbe causare sospensioni dell’attività lavorativa e inabilità permanente al suo esercizio, e dall’obbligata cessazione del lavoro «durante il periodo improduttivo della senilità» 821. Quanto all’ultimo aspetto, è da rilevare che «la relativa mercede è fatta derivare non tanto dai risparmi compiuti sul proprio salario nel periodo di lavoro produttivo (salario differito)», ma dai redditi degli altri soggetti membri

817

Ibidem. TTE, IV, p. 118. 819 «L’alta mercede degli operai nei paesi settentrionali d’Europa a paragone dei meridionali, è determinata dalla necessità nei climi freddi di una dieta fortemente riparatrice a differenza dei climi caldi ove bastano pochi cibi vegetali. Argomentasi altrettanto pel vestito, l’alloggio e simili» (TTE, IV, p. 118). 820 Scrive PECORARI (Il solidarismo possibile, p. 18 e note 84-85), trattando della tematica del salario, che il giovane Toniolo classifica «i diversi tipi di consumi (di ordine «inferiore» e «superiore»), seguendo specialmente gli studi di Hermann e Lampertico»: B. W. HERMANN, Staatwirthschaftliche Untersuchungen, München 1832; LAMPERTICO, Economia dei popoli e degli Stati. Introduzione. Come scrive LAMPERTICO (Economia dei popoli e degli stati, Introduzione, p. 146): «vi hanno bisogni assoluti, ai quali se non si provvede deperisce e perisce la vita stessa dell’uomo, fisica, intellettiva, morale, e bisogni relativi, subordinati cioè ai primi» che potremmo identificare come «volontari, liberi, di comodo o di piacere» . 821 TTE, IV, p. 120. 818

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della famiglia «mentre lavorano e sono quindi economicamente attivi (trasferimento di redditi altrui)» 822. Sono consumi sociali quelli delle famiglie. Nell’ambito del processo distributivo, l’unità economica di riferimento è la famiglia, non più l’individuo. La tesi del Toniolo si riassume ricordando che «la mercede, per la natura stessa delle cose, deve (in via ordinaria) constare di quanto è necessario non solo al mantenimento del singolo operaio, ma ancora alla di lui riproduzione, affinché si rinnovi e perenni il fattore lavoro (uomo); in altre parole occorre che la mercede si ragguagli alle spese di mantenimento di una famiglia» 823. Il «salario normale» è perciò determinato in relazione alle «quantità e qualità» dei consumi passati, risultato delle «abitudini generali» e di quelle della classe lavoratrice, «relativamente costanti» 824 all’interno di una nazione in un determinato periodo storico. Il salario, conseguentemente, si modifica quando variano le suddette abitudini, contrassegnando un nuovo periodo storico o stadio della civiltà. Si instaura un meccanismo per il quale se il valore dei prodotti aumenta, la retribuzione delle classi lavoratrici, dopo un transitorio periodo di «sofferenze», si innalza, «a patto che frattanto non si contraggano definitivamente le abitudini stesse» 825 (fatto «facile» da verificarsi, quanto altrettanto «pericoloso»). Si delineano due limiti che il salario non può oltrepassare: un limite superiore, determinato dal «grado di efficacia del lavoro», non essendo l’imprenditore disposto a pagare per il lavoro più «dell’effetto utile di questo», e un limite inferiore, rappresentato dai consumi «indispensabili al sostentamento della vita fisica» 826. È legge nella storia che il salario normale relativo si avvicini al limite inferiore, piuttosto che a quello superiore. Accanto alla «legge normale», opera quella «commerciale o corrente del salario» 827, legata a fattori estrinseci e, segnatamente, al mercato del lavoro. Il salario «varia in ragione diretta della domanda e inversa dell’offerta del lavoro» nazionale. La domanda esprime la richiesta di manodopera da parte degli imprenditori; l’offerta è «l’espressione del bisogno dei lavoratori di trovare [un] impie-

822

PECORARI, Il solidarismo possibile, p. 20. TTE, IV, p. 271. 824 TTE, IV, p. 120. 825 TTE, IV, p. 121. 826 TTE, IV, p. 122. 827 Ibidem. 823

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go» 828. Domanda e offerta sono influenzate dai rispettivi bisogni delle due classi sociali, considerati «socialmente e individualmente» 829. La prima è in relazione alle esigenze della produzione generale e, in particolare, alla somma del capitale investito, alla natura dell’attività esercitata, che può richiedere varie proporzioni di capitale e lavoro, nonché all’ordinamento tecnico, a seconda che la produzione sia esercitata manualmente o in modo meccanico, o la coltura sia intensiva o estensiva. L’offerta è condizionata dalla «quantità complessiva della popolazione lavoratrice» disposta a mettere la propria opera a servizio di un imprenditore. Essa massimamente dipende dal «movimento intrinseco o riproduttivo»830 della classe operaia (nascite, matrimoni, morti) e dal «movimento estrinseco o dislocativo»831 (immigrazione ed emigrazione). A parità di «quantità di bisogno sociale», decide sul salario anche il bisogno individuale dei singoli produttori. L’imprenditore che impiega il capitale per ottenere il massimo profitto possibile dimostra una domanda di lavoro fortemente variabile, secondo lo «spirito di speculazione, le abitudini di una vita agiata, l’avidità di lauti guadagni». Viceversa, l’operaio ha un bisogno pressoché «assoluto ed invariante» di offrire lavoro, al fine di garantire la sussistenza propria e della famiglia. Così, il bisogno sociale «determina la estensione della domanda e dell’offerta, il bisogno individuale ne definisce la intensità» 832. Non è possibile «assegnare teoricamente limiti alle oscillazioni del salario corrente», ma si osserva come, in una nazione, i due limiti (superiore e inferiore) non siano molto distanti. Le variazioni del salario entro tali limiti si presentano 828

TTE, IV, p. 123. Ibidem. Infatti, come argomenta G. RICCA-SALERNO (La teoria del salario nella storia delle dottrine e dei fatti economici, Palermo 1900, pp. 38-39) «l’offerta di lavoro è in sostanza offerta di un prodotto futuro e domanda di ricchezza presente; e viceversa la domanda di lavoro è domanda di un prodotto futuro ed offerta di ricchezza presente. L’una e l’altra sono sintomi, espressioni diverse dello stesso valore comparativo, che determina lo scambio fra lavoratori e capitalisti, e quindi la quantità differenziale di lavoro fra la ricchezza anticipata e quella prodotta». L’interazione tra domanda e offerta crea situazioni favorevoli «agli uni, ora agli altri, secondo le condizioni in cui deve effettuarsi lo scambio e gli stadi diversi della evoluzione economica». 830 TTE, IV, p. 123. 831 TTE, IV, p. 124. 832 Il Toniolo descrive il processo storico degli aggiustamenti del salario: «così, p.e. rispetto all’estensione della domanda ed offerta l’introduzione nelle industrie del sistema meccanico, specialmente se quella sia generale e improvvisa, diminuisce (ceteris paribus) il bisogno di braccia a paragone del precedente sistema manuale, e quindi per un primo periodo il salario, per deficiente domanda, degrada e gli operai sono posti in sofferenza. Ulteriormente il basso prezzo dei prodotti, conseguente al nuovo ordinamento industriale, espandendo il consumo generale, provoca la fondazione di nuove imprese e con ciò la ridestata domanda di braccia risolleva il salario» (TTE, IV, p. 125). 829

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assai lente nel tempo, in considerazione della natura degli elementi che le provocano. In particolare, un aumento di offerta necessita di un incremento della popolazione. Una maggiore domanda di lavoro da parte degli imprenditori comporta un’addizione di capitale «complessivo nel paese». Inoltre domanda e offerta non sono fenomeni indipendenti, ma intimamente legati: «ogni elevazione della domanda accrescendo il salario provoca un’ulteriore offerta di lavoro» 833. Dall’intrecciarsi dei vari aspetti analizzati, la «legge generale complessiva» del salario prevede che, a parità di efficacia produttiva del lavoro, il salario si modifichi «in ragione diretta della domanda ed inversa dell’offerta» 834, commisurandosi al costo di produzione del fattore lavoro o, in via subordinata, al criterio dei «consumi abituali dei lavoratori» propri di una nazione in un preciso periodo storico. Attraverso meccanismi regolatori, tende costantemente a formarsi un equilibrio fra domanda e offerta di lavoro. Il Toniolo rileva come siano i consumi abituali della classe operaia a fare da «regolo definitivo e intrinseco del salario» 835. La legge generale del salario fin qui esaminata si riferisce a tutte le industrie presenti in una nazione. Con riferimento ai singoli gruppi di esse (industria agricola o manifatturiera) o alle «minori suddivisioni professionali» 836, il Toniolo nota come la «media speciale» del salario sia superiore o inferiore alla «media generale», e ciò per diverse ragioni. In primo luogo influisce la natura specifica delle singole industrie, che importa un diverso grado di intervento degli elementi determinanti il livello della mercede. Egli si riferisce, a titolo d’esempio, sia ai minori o maggiori dispendi anticipati per l’istruzione o il tirocinio, sia a quelli attuali, riferiti all’esercizio di uno specifico lavoro, che si traducono in sforzi «organici, di attività mentale o energia morale» 837. In secondo luogo, ha influenza sulla determinazione del livello salariale dei singoli gruppi d’industrie il diverso «rapporto esistente» fra «domanda e offerta» 838 di lavoro. Così, nelle industrie che richiedono abilità e conoscenze elevate, la domanda di lavoro eccede l’offerta e gli operai ricevono un salario maggiore; viceversa, nelle industrie do833

TTE, IV, p. 127. Ibidem. 835 TTE, IV, p. 129. 836 Sulla diversificazione dei salari secondo le classi dei lavoratori v. RICCA-SALERNO, La teoria del salario nella storia delle dottrine e dei fatti economici, pp. 142-193. 837 TTE, IV, p. 130. 838 Ibidem. 834

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ve sono sufficienti normali conoscenze, l'offerta è maggiore della domanda e, conseguentemente, il salario è ritoccato al ribasso. Le leggi «generale» e «speciale» del salario presuppongono il rispetto di due ordini di condizioni: le une, interiori, che riguardano «la rettitudine del giudizio e il senso di equità delle parti contraenti»; le altre, esteriori, che si concretano nel riconoscimento della «libertà» 839. Quanto al primo ordine di cause, il giudizio al quale il Toniolo si riferisce riguarda la valutazione dell’apporto dato alla produzione dai vari fattori, mentre «l’equità» si concreta nell’osservanza «delle leggi di giustizia nella attribuzione dei compensi» 840. Tali cause incontrano ostacoli e limiti in svariate circostanze, dagli «interessi di classe», inclini a sopravvalutare l’importanza economica di alcuni a scapito di altri, ai «pregiudizi pubblici», che alterano la serena «estimazione» 841 del valore di alcune tipologie di lavoro. Le cause «esteriori» si legano al riconoscimento della libertà degli operai di discutere e definire le condizioni contrattuali, nonché la possibilità di competere «fra essi nell’offerta di lavoro» 842. La «libertà giuridica», ossia la mancanza di limiti fissati da una legge positiva, è figlia delle vicende storiche del diritto e delle consuetudini giuridiche: dalle «prescrizioni statutarie» 843 delle corporazioni, si è passati alla piena libertà che trionfa contemporaneamente allo sviluppo delle grandi imprese industriali. In un sistema caratterizzato dalla piena libertà legale, non possono, in ogni caso, mancare limiti volti ad impedire abusi perpetrati dalle due classi contraenti 844. Scrive il Toniolo: «l’operaio non può durare a lungo sotto la pressura di urgenti necessità della vita», e ancora, «non può parlarsi di vera libertà morale sotto la servitù dei bisogni essenziali» 845. Il Toniolo affronta poi la questione del ruolo delle «associazioni operaie» 846 nella definizione del livello salariale. Egli inizia col definire il concetto 839

TTE, IV, p. 130. TTE, IV, p. 131. 841 TTE, IV, p. 132. 842 Ibidem. 843 TTE, IV, p. 133. 844 Cfr. A. SPICCIANI, Per un diritto italiano del lavoro. Il pensiero e l’opera di Giuseppe Toniolo, Pisa 1997, pp. 27-31. In tale discussione si inserisce in modo particolare il ruolo dello Stato nella soluzione dei problemi sociali. Scrive SPICCIANI (Per un diritto italiano del lavoro, p. 27) che «per il Toniolo lo Stato doveva garantire la tutela giuridica speciale anche ai rapporti di lavoro». 845 Ibidem. 846 Cfr. PECORARI, Economia e riformismo nell’Italia liberale, pp. 29-47. Scrive PECORARI (Economia e riformismo nell’Italia liberale, p. 36): «mutuazioni europee, tradizione veneta e primato dell’etica non sono in Toniolo mai disgiunti, e anzi dal loro intreccio prende vigore la sua prospettiva sindacale, che 840

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di «coalizione» 847. In «senso ampio», esso definisce l’insieme di molti operai, uniti per far valere le proprie rivendicazioni di fronte agli imprenditori; in «senso stretto», configura lo sciopero dei lavoratori, attuato per vedere soddisfatte le proprie richieste. Riconosciuto il diritto degli operai a far valere collettivamente i propri interessi, purché ciò avvenga senza violazione dell’ordine pubblico, resta da chiedersi quale sia il «grado di efficacia economica» 848 delle coalizioni e degli scioperi. L’esperienza porta ad affermare che l’azione collettiva degli operai, riguardo al salario, «può tornare profittevole». Nella definizione delle condizioni contrattuali, infatti, viene a perdere peso la naturale inferiorità degli operai di fronte all’imprenditore; all’atto del rinnovo del contratto l’azione collettiva favorisce l’elevazione del salario; in casi particolari essa può promuovere il trasferimento della forza lavoro in eccesso in altre regioni o industrie; infine, attribuisce maggiore dignità al ceto dei lavoratori. Il compito delle associazioni di operai e degli scioperi è perciò quello di «agevolare l’adempimento della legge naturale del salario», e non quello di «sconvolgerne l’azione» 849. La bontà di tali istituti è legata alla «legittimità degli intendimenti», alla «opportunità delle occasioni» e alla «temperanza» 850 nei modi. Così, «ogni elevazione del salario» che abbia l’effetto di ridurre al minimo i profitti dell’imprenditore, allontana l’impiego dei capitali e nel breve periodo la mercede diminuisce. I frequenti scioperi, impedendo il regolare svolgimento dell’attività produttiva e acuendo, conseguentemente, il rischio d’impresa, si traducono in minori retribuzioni, perché l’imprenditore trattiene per sé una maggiore porzione del reddito, in ragione dell’aumentata aleatorietà del suo compenso; essi «accrescono la precarietà dei rapporti» 851 fra datori di lavoro e operai e, nel lungo periodo, bloccano il processo di sviluppo delle industrie 852. Le conseguenze negative degli scioperi «attuati improvvisamente

poggia su alcuni capisaldi così schematizzabili: il lavoro è causa efficiente primaria di ogni prodotto, mentre il capitale è causa efficiente secondaria, strumentale, non viceversa. […]. Il primato dell’etica importa il primato dell’uomo nella globalità dei suoi valori. L’uomo è persona, non passivo esecutore di qualsivoglia sistema che lo subordini alla macchina o lo trasformi in “oggetto”. Il “giusto salario”, principio che si riconduce al dettato scolastico riaffermato da Leone XIII nella Rerum novarum (15 maggio 1891), va preteso e difeso». 847 TTE, IV, p. 135. 848 TTE, IV, p. 136. 849 TTE, IV, p. 137. 850 TTE, IV, p. 138. 851 Ibidem. 852 Scrive il Toniolo: «Il flagello degli scioperi persistenti rese impossibile in Inghilterra la industria mineraria in certi bacini carboniferi di più dispendiosa escavazione. Talune imprese di filatura scozzesi, costrette per le stesse ragioni a chiudersi definitivamente, si riaprirono in America. Le perdite per sciupa-

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senza la gravità di straordinarie cagioni» sono sopportate anche da altri gruppi di operai che non hanno interesse a scioperare 853 e si configurano come un ingiusto pregiudizio degli incolpevoli. È indispensabile l’introduzione di rimedi che tendano a disciplinare il contratto di lavoro a tutela degli «interessi reciproci delle parti contraenti» e a fondare degli «istituti valevoli a prevenire o a temperare gli scioperi» 854. Il Toniolo ricorda a questo scopo le esperienze delle «camere del lavoro», tese a discutere «pacificamente» con gli imprenditori gli interessi e le proposte della classe operaia; i «tribunali dei probiviri» in Francia, composti da rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro e istituiti per «dirimere le controversie fra questi e quelli»; e infine il ruolo dei «consigli degli arbitri»855 inglesi, facoltativi nella loro costituzione, ma emananti sentenze il cui rispetto è obbligatorio. L’interesse è «la parte del valore del reddito netto che spetta al capitalista come tale, il quale fornisce il capitale all’opera della produzione esercitata a rischio e profitto altrui» 856. Tale definizione presuppone l’esistenza di due classi di persone: da un lato i «risparmiatori», dall’altro gli «imprenditori». Qualsiasi forma di capitale (strumentale, circolante o fisso) riceve un «interesse» 857 se è ceduto a terzi per esercitare l’attività produttiva. Dato che la moneta rappresenta tutte le specie di capitale acquistabile, l’interesse sul capitale monetario è espressione di quello di tutti i tipi di capitale prestato a fini produttivi. Il «saggio» (o ragione, o tasso) d’interesse misura il valore dell’interesse fruttato da un certo capitale. Esso è variabile in ragione della «legge normale» e di quella «commerciale o corrente» 858. La prima prevede che, «a parità di efficacia produttiva» del capitale, l’interesse sia commisurato alla somma «dei sacrifici necessari a formati risparmi durante lo sciopero e per cessati profitti e mercedi contasi spesso a decine di milioni» (TTE, IV, pp. 138-139). 853 «Se scioperano, p. e., i lavoratori nelle piantagioni di cotone, vien meno la materia greggia alle fabbriche di filatura, e ulteriormente i filati a quelle di tessitura, i tessuti alle stamperie e tintorie, si restringono il consumo e la provvisione di meccanismi, gli acquisti di carbon fossile, ecc. Così uno sciopero volontario ne determina molti altri di forzati» (TTE, IV, p. 139, nota 2). 854 TTE, IV, p. 140. Scrive G. TONIOLO (Il compito economico dell’avvenire, in ID., Saggi politici, a cura di S. MAJEROTTO, Roma 1980, p. 172): «urge all’uopo anzitutto di correggere profondamente o innovare i rapporti contrattuali, che sono il vincolo economico-giuridico che ricollega ad unità le classi proprietarie e capitaliste coi lavoratori». Egli aggiunge che «il contratto di lavoro (nell’ampio senso della parola) è destinato a divenire il grande obbietto delle ricerche dell’economia e del giure». 855 Ibidem. 856 TTE, IV, p. 141. Cfr. RICOSSA, Dizionario di economia, pp. 255-259 (Interesse); G. TATTARA, Interesse, in Dizionario di economia politica, diretto da G. LUNGHINI, V, Torino 1982, pp. 11-88. 857 Ibidem. 858 TTE, IV, p. 142.

153

re (comporre) e mettere a disposizione della produzione» 859 il capitale stesso. Tali sacrifici si riferiscono al suo processo di formazione e alla sua successiva cessione, e riguardano, segnatamente, l’«astensione dal consumo immediato» e dal consumo presente, nonché l’«astensione definitiva» 860 in caso di perdita dello stesso. Influiscono sulla sua formazione l’ampiezza del reddito, l’esistenza di istituti quali casse di risparmio e banche di deposito, le abitudini di vita. Il saggio normale dell’interesse è inoltre variabile secondo la nazione considerata, in ragione del suo grado di civiltà. Esso presenta un «limite massimo», superato il quale l’interesse assorbirebbe tutto l’effetto utile che deriva dal capitale utilizzato nella produzione, e un limite inferiore, al di sotto del quale non vi sarebbe convenienza a prestare il capitale stesso. La «legge generale commerciale» 861 dipende da fattori propri al mercato dei capitali 862. L’interesse generale varia «in ragione diretta della domanda ed inversa dell’offerta». Dal punto di vista sociale, la prima esprime il bisogno degli imprenditori di ricorrere al mercato dei capitali. Su essa influiscono il livello della produzione, la natura predominante delle industrie e il processo di sviluppo «dell’arte industriale» 863. L’offerta esprime invece la volontà dei capitalisti di ritrarre un reddito dalla cessione dei capitali a loro disposizione. Su essa influiscono il processo di accumulazione e l’ingresso nel mercato nazionale di capitali esteri. Da un punto di vista individuale, influiscono sulla domanda e sull’offerta gli «impulsi interiori» e i «fini» dei singoli imprenditori e capitalisti. In particolare, decidono le rispettive abitudini personali, l’educazione delle due classi sociali, lo spirito di speculazione e «l’avidità» 864 nell’ottenere grossi lucri. Paragonate alle oscillazioni del salario, quelle dell’interesse si presentano «più ampie rispetto ai limiti che possono toccare», «più delicate rispetto all’azione delle cause influenti», «più rapide» circa il periodo entro il quale si

859

Ibidem. TTE, IV, p. 143. 861 TTE, IV, p. 145. 862 Il Toniolo per mercato dei capitali intende sia «il fatto stesso della contrattazione» e della «cessione», sia «l’ampiezza del territorio e della corrispondente popolazione in cui si verifica quel fatto» (TTE, IV, p. 145). 863 TTE, IV, p. 146. 864 TTE, IV, p. 147. 860

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verificano, «più frequenti»865; l’interazione tra domanda e offerta è più pronta ed efficace. Le differenze tra il saggio medio generale dell’interesse e quello speciale derivano dalla natura delle industrie considerate e dal ruolo che in esse ricopre il capitale. Così, nelle industrie manifatturiere, dove le garanzie di restituzione della somma prestata sono inferiori rispetto all’industria agricola, l’interesse si mantiene più elevato. Inoltre, negli impieghi «accessibili alla universalità dei prestatori», l’offerta è più abbondante della domanda e, conseguentemente, il saggio di interesse si deprime; viceversa nelle industrie che, per l’entità della richiesta o per i lunghi tempi di restituzione, si rivolgono a «pochi privilegiati prestatori»866 la domanda supera l’offerta e il livello della remunerazione del capitale aumenta. Al pari delle leggi sul salario, anche quelle sull’interesse richiedono «rettitudine nel giudizio» e «senso di equità», nonché libera circolazione dei capitali. La «rettitudine nel giudizio» è indispensabile per attribuire al capitale il giusto valore in rapporto all’attività produttiva. Decidono su tale argomento «il carattere nazionale, l’educazione morale e civile ed i vari momenti critici della economia generale» 867. Con riferimento al tema della libertà di contrattazione degli interessi, il Toniolo ricorda come la legislazione in proposito abbia storicamente avuto un triplice indirizzo: 1) quello della «riprovazione massima dell’interesse» 868; 2) quello della «limitazione legale dell’interesse» 869; 3) quello della piena «libertà di contrattazione» 870. Nel primo sistema prende il nome di «usura» qualunque interesse percepito sul capitale a prestito. Una simile impostazione era propria della «legislazione canonica» 871. Essa intendeva, in primo luogo, sancire «il dovere della carità» an865

Ibidem. TTE, IV, p. 149. 867 TTE, IV, p. 150. Scrive il Toniolo: «il discredito p.e. riversato già dalla coscienza popolare, dalle teorie filosofiche, dalle leggi sopra i prestatori di professione, contribuì ad esacerbare l’interesse quasi a titolo di compenso della riprovazione generale che pesava sopra di loro» (TTE, IV, p. 150). 868 TTE, IV, p. 150. 869 TTE, IV, p. 153. 870 TTE, IV, p. 154. 871 TTE, IV, p. 151. Sui temi dell’usura e del prestito a interesse nella cultura cattolica del XIX secolo, vedi PECORARI, L’economia virtuosa. Orientamenti culturali dei cattolici italiani dall’unità alla seconda Repubblica, pp. 35-62. Segnalo anche P. VISMARA, Valori Morali e autonomia della coscienza. Il dibattito sul prestito a interesse nella Chiesa moderna, in UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, Chiesa, usura e debito estero. Giornata di studio su «Chiesa e prestito a interesse, ieri e oggi» in occasione del cinquantennio della Facoltà di Economia, Milano 19 dicembre 1997, Milano 1998 pp. 43-83. 866

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che nell’ambito dell’attività di prestito, «in tutti quei casi particolari e sotto quelle condizioni in cui è doverosa la beneficenza». Il Toniolo dimostra di condividere questa posizione 872, almeno fino a quando ci siano «in società dei miserabili e disgraziati» bisognosi dell’aiuto di chi possiede. Era intendimento della legislazione canonica far diventare la gratuità del prestito «legge sociale generale», fin tanto che la corresponsione dell’interesse non «divenisse argomento manifesto di giustizia e di utilità generale» 873. Le disposizioni canoniche hanno, per il Toniolo, un valore «relativo» da apprezzare in periodi storici in cui: 1) ai prestiti si ricorreva non per finanziare l’attività produttiva, bensì il consumo di sussistenza; 2) le «antipatie di religione e di stirpe» e le stesse leggi «esacerbavano i rapporti» fra mutuanti e mutuatari; 3) il capitale, «scarso e incentrato in poche mani» 874, era strumento d’oppressione dei più deboli. A mano a mano che l’attività economica si è evoluta, il «prestito feneratizio a fine produttivo» è divenuto preponderante nei rapporti di produzione, ma le disposizioni canoniche hanno «contribuito a mantenere la distinzione» fra prestito di consumo e prestito produttivo. Esse inoltre hanno favorito la partecipazione del capitalista al processo produttivo, contribuendo a creare «una classe vitale e operosa di capitalisti imprenditori» 875. Nel

secondo

caso,

definito

sistema

«della

limitazione

legale»

dell’interesse, l’autorità civile ne riconosce la legittimità e la libera contrattazione, ma al di sotto di un limite imposto dalla legge. In tale sistema, si configura come usura solo la parte d’interesse eccedente il limite legislativo. L’accusa che viene mossa a tale sistema è di non prevenire efficacemente «gli abusi a carico dei» bisognosi e di «pregiudicare» il naturale funzionamento del «mercato dei prestiti» 876. Ciò vale soprattutto nei momenti di crisi, dove i «prestatori onesti» 872

Cfr. PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, pp. 37-40, 89-103. Nel dibattito successivo alla Rerum Novarum e in linea con gli esponenti della prima Scuola storica tedesca, assumeranno importanza le posizioni formatesi all’interno dell’Unione Cattolica per gli studi sociali in Italia, fondata dallo stesso Toniolo nel 1889. Particolarmente rilevante è il testo di una relazione del Toniolo pubblicato in Atti del II Congresso cattolico italiano degli studiosi di scienze sociali, Padova 26-28 agosto 1896, Padova 1898, pp. 194-209, dal titolo Criteri scientifici etico-economici intorno al credito dal punto di vista cristiano, ora ristampato in TTE, V, pp. 485-523; sul medesimo testo vedi PECORARI, L’economia virtuosa, pp. 47-55. 873 Ibidem. 874 TTE, IV, p. 152. 875 TTE, IV, p. 153. Cfr. P. PECORARI, Orientamenti della cultura cattolica sul prestito a interesse nel secolo XIX, in Chiesa, usura e debito estero. Giornata di studio su «Chiesa e prestito a interesse, ieri e oggi» in occasione del cinquantennio della Facoltà di Economia, Milano 19 dicembre 1997, pp. 93-97. 876 Ibidem.

156

abbandonano il mercato dei capitali per non incorrere in comportamenti contra legem, e «lasciano in campo i pochi ed inonesti sovventori» 877, che arrivano a richiedere anche il doppio del limite legale. Il terzo sistema è quello della «libertà» di contrattazione degli interessi. Esso fu introdotto in Inghilterra «con una serie di disposizioni legislative dal 1819 al 1857», proclamato in Piemonte nel 1857, e progressivamente introdotto in altri Stati, eccezion fatta per la Francia. L’introduzione di un simile regime legislativo ha trovato impulso nella straordinaria e crescente importanza assunta dall’«economia di credito»878. La libera contrattazione rende l’interesse «variabile», secondo i periodi e le specie d’impiego, e lo commisura ai sacrifici sostenuti. Essa consente la formazione di nuovo capitale e la sua migliore distribuzione rispetto ai bisogni. Gli effetti corretti di un regime di libera contrattazione dipendono dalla destinazione del capitale a «fine produttivo» o «improduttivo», in altre parole a seconda che sia sostegno alla produzione o che incoraggi i «consumi superflui e dilapidatori», che sorregga produzioni «solide e di interesse generale» oppure industrie «labili e a servizio di consumatori privilegiati», o peggio, che alimenti «speculazioni avventurose, aleatorie» 879 e disoneste. Al fine di assicurare il verificarsi dei vantaggi di un sistema basato sulla libertà di contrattazione dell’interesse, sono necessarie: 1) leggi civili e penali dirette a combattere l’applicazione di tassi superiori a quello naturale del mercato (usura) o «estorti per frode»; il Toniolo, pur non negando la difficoltà di disciplinare una simile materia «senza offendere la natura economica dell’interesse», ritiene necessario l’intervento legislativo, «non fosse altro come riprovazione autorevole di fatti già repugnanti alla coscienza morale» 880; 2) la presenza di «istituti economici» che stimolino la formazione del risparmio e il prestito ad «oneste condizioni a tutte le classi sociali»; 3) «l’osservanza della morale» e dello «spirito di carità» nei prestiti con «indole di beneficenza». In tutti i casi è necessario che «l’equità temperi il rigore del diritto» 881 e del tornaconto personale.

877

TTE, IV, p. 154, nota 1. TTE, IV, p. 154. 879 TTE, IV, p. 155. 880 TTE, IV, p. 155, nota 2. 881 TTE, IV, p. 156. 878

157

È altresì indispensabile la «concorrenza» 882 fra capitalisti e imprenditori nel mercato dei capitali. Fenomeno di «straordinaria importanza economica» 883,sociale e politica, la concorrenza si trova limitata da molteplici fattori. In primo luogo, essa incontra dei limiti nella difficile conversione «dall’una all’altra specie di impiego» delle somme date a prestito. Inoltre, la circolazione dei capitali tra diverse nazioni è ostacolata dalla difficoltà di «sorvegliarne la conservazione e l’impiego» in Paesi distanti. Da ultimo, le imprese nutrono maggiore fiducia nei confronti dei capitalisti locali, senza contare poi le maggiori spese di trasporto, le diversità dei sistemi monetari e le «imperfezioni» delle garanzie «di diritto internazionale» 884.

3.

Rendita e profitto

La rendita è «la parte del valore del reddito netto» attribuita ai proprietari «degli agenti di natura per aver contribuito quest’ultimi alla produzione» 885. La natura, fattore indispensabile di produzione, è, in determinate circostanze, «limitata». Da ciò si ricava che i suoi elementi costitutivi sono i medesimi del «valore», ossia «utilità e limitazione». Ove tale limitazione si manifesti, la rendita è il «valore della cooperazione del fattore natura» 886 nell’ambito del processo di produzione. Fino a quando la natura interviene nel processo produttivo in maniera uniforme ed «egualmente accessibile» a tutti i produttori, il suo «concorso» «rimane gratuito»; diversamente, se essa assume la qualità di fattore limitato, la «sua efficacia produttiva» attribuisce ai proprietari degli agenti naturali

882

«Attivissima oggidì per la molteplicità degli affari, ingente per la loro entità, pressoché universale per l’ampiezza del mercato» (TTE, IV, p. 156). 883 Ibidem. 884 TTE, IV, p. 157. 885 TTE, IV, p. 158. Secondo RICOSSA, Dizionario di economia, p. 439 (Rendita), in prima approssimazione, la rendita è «il reddito netto della terra e degli altri fattori produttivi naturali […]. Un uso più rigoroso del termine rendita è riservato a quei fattori produttivi la cui offerta totale è fissata dalla natura e non può essere aumentata, come si trattasse di un dono effettuato una tantum all’umanità». Sulla teoria classica della rendita, di Marx e della scuola marginalista, v. ZENEZINI, Rendita, in Dizionario di economia politica, pp. 63-98. 886 Ibidem. Scrive RICOSSA, Dizionario di economia, p. 440 (Rendita): «è chiaro allora che vi è un elemento di rendita, nel senso rigoroso del termine, solo se la quantità dei fattori determina una scarsità naturale senza rimedio: è il caso della terra, purché la sua disponibilità sia esaurita e non si possa provvedere, per esempio, prosciugando laghi, ecc.».

158

«titolo» per vedersi assegnato un «compenso speciale» 887. Infatti, oltre un certo limite, la produttività della natura diviene decrescente, ossia si manifesta una «graduazione regrediente di efficacia». Ottenere il medesimo risultato di produzione quando minore è il concorso degli agenti naturali richiede, necessariamente, l’utilizzo in dosi maggiori di lavoro e capitale. Alla «graduazione regrediente» di efficacia, si accompagna perciò una «graduazione progrediente» 888 delle spese di produzione. Così, ogni qualvolta le esigenze di consumo richiedano l’utilizzo di agenti naturali di differente produttività, si ottengono prodotti finali comportanti differenti spese di produzione. I produttori, «approfittando della necessità» dei consumatori, vendono il loro prodotto al valore di «costo più elevato», che viene a determinare così il «valore generale di tutto il prodotto indistintamente» 889. I produttori che, «in grazia di un agente naturale di efficacia relativamente maggiore», ottengono il prodotto a costi inferiori rispetto a quello che determina il «valore generale della merce», godono, oltre agli ordinari compensi, di un extraprofitto definito, appunto, rendita 890. Questi possono cedere il loro terreno ad un imprenditore, il quale, esercitando la produzione per conto proprio, detiene per sé il profitto ordinario e cede al proprietario terriero quel surplus sotto forma di canone di locazione 891. La rendita si manifesta nelle industrie collegate «direttamente» agli agenti territoriali (industria agricola, forestale, mineraria) o in quelle che utilizzano le «forze componenti il territorio». Rispetto a esse, la rendita è definita «territoria-

887

TTE, IV, p. 158. TTE, IV, p. 159. 889 Ibidem. 890 Scrive il Toniolo: «se a rendere paghi integralmente i bisogni dei consumatori occorrono tre unità di prodotto ottenute sopra agenti naturali di decrescente efficacia, con dieci, venti, trenta di spese, il valor generale della merce si solleva a trenta per tutte le unità di prodotto indistintamente; e in tal caso mentre l’ultimo produttore (a trenta di costo) non percepisce che il profitto ordinario, gli altri due produttori, oltre a questi profitti, ricevono un guadagno straordinario di dieci e venti che compone la rendita rispettiva» (TTE, IV, p. 160). Da un siffatto ragionamento deriva che la determinazione del valore della rendita non avviene, come per gli altri redditi, principalmente dall’interazione tra domanda e offerta. Al medesimo meccanismo di formazione della rendita, erano già arrivati Malthus e Ricardo, adottando impostazioni simili. Secondo BARBER (Storia del pensiero economico, pp. 74-75), i terreni dotati originariamente di una maggiore fertilità «fruttavano ai loro proprietari una massa eccezionale di guadagni, il cui volume, inoltre, andava crescendo via via che l’aumento della popolazione accresceva, altresì, la richiesta di generi alimentari». Successivamente sarebbero state messe a coltura nuove terre, meno fertili, e quindi il valore dei prodotti si sarebbe commisurato ai maggiori costi di produzione sostenuti. Allo stesso tempo «i padroni delle terre più fertili avrebbero percepito rendite sempre più elevate». Sulla rendita ricardiana, v. RICOSSA, Dizionario di economia, p. 441 (Rendita); FANFANI, Storia delle dottrine economiche, pp. 370-373. 891 «Anche il proprietario di un terreno che lo coltiva per conto proprio percepisce nelle medesime circostanze la rendita, però commista col profitto d’imprenditore, come elemento di un reddito complesso, il quale ha un modo di comportarsi autonomo» (TTE, IV, p. 160, nota 1). 888

159

le» o, in modo più specifico, «fondiaria, forestale, mineraria»892, secondo l’industria che la consegue. La specie più importante deriva dai terreni coltivati e prende il nome di rendita fondiaria. Essa è il risultato dell’impiego di terreni di differente produttività e comporta il sostenimento di spese di produzione conseguentemente variabili nel loro importo. Il diverso costo di produzione è ottenuto nella coltura estensiva attraverso l’applicazione di capitale e lavoro in terreni sempre meno fertili, nella coltura intensiva grazie a un utilizzo di maggiori quantità dei due fattori sopraddetti sullo stesso terreno. Quand’anche due terreni siano dotati dello stesso grado di fertilità, la rendita «si ripresenta» a causa della loro «distribuzione territoriale» 893. Infatti, se per rispondere alle crescenti richieste dei consumatori, devono essere messi a coltura terreni relativamente più distanti dai «centri di consumo», le maggiori spese di trasporto rientreranno fra il costo di produzione, a vantaggio della rendita dei proprietari terrieri vicini al mercato. A livello nazionale, la rendita fondiaria si ottiene sommando «tutte le differenze tra il costo della produzione agraria esercitata in condizioni di natura più favorevoli» 894 e quello sostenuto dove le condizioni naturali sono meno propizie. La rendita presenta un andamento «relativamente generale e costante», se considerata in un dato periodo storico ed entro uno specifico mercato («legge normale») 895. Il Toniolo individua tre ordini di fattori influenti sulla sua grandezza. In primo luogo, determina la misura della rendita, l’originaria fertilità dei terreni, dipendente dalle loro intrinseche proprietà e dalla loro distribuzione territoriale. Egli considera, inoltre, la fertilità «acquisita» grazie agli apporti dell’industria fondiaria, dell’«industria dislocatrice» e di quella «agricola propriamente detta». La prima si occupa, infatti, di acquisire, preparare e migliorare il suolo per la successiva coltivazione. Tramite il suo svolgimento si fondono «col fattore natura» lavoro e capitale, traducendosi in «incrementi artificiali»896 della produttività potenziale. L’operato dell’industria «dislocatrice» modifica la rendita in ragione dei minori costi di trasporto conseguenti al suo sviluppo. Infine, l’industria «agraria propriamente detta» influisce sulla misura della rendita indicando le colture che meglio si adattano alle differenti «proprietà fisico892

TTE, IV, p. 161. TTE, IV, p. 162. 894 TTE, IV, p. 163. 895 Ibidem. 896 TTE, IV, p. 164. 893

160

chimiche del terreno» 897 e distribuendo «le zone di coltura intorno ai singoli centri di mercato o di consumo» 898 in maniera tale che i prodotti più dispendiosi da trasportare siano il meno distanti possibile dai centri stessi. In terzo luogo, a determinare la rendita concorre anche la quantità di prodotti agrari richiesti dai consumatori. «Ammessa pertanto una certa graduazione naturale di efficacia» dei terreni, «la manifestazione concreta e l’altezza relativamente costante» della rendita, considerata in un preciso periodo storico 899 e in un dato mercato 900, dipendono dall’«efficacia acquisita conseguente ai progressi produttivi», che riduce gli effetti dell’«efficacia naturale decrescente dei terreni», e dall’«entità complessiva del prodotto e del consumo» 901. Così, se il consumo complessivo non muta, ogni aumento dell’efficacia acquisita, conseguente al miglioramento delle tecniche produttive, si traduce in un restringimento del margine di coltivazione, in una diminuzione del valore dei prodotti agricoli e, conseguentemente, in un ridimensionamento della rendita. Occorre però che il miglioramento delle tecniche produttive sia generale e profondo, tanto da permettere l’abbandono delle «coltivazioni meno produttive» 902, senza compromettere la capacità di risposta alle esigenze dei consumatori. Viceversa, a parità di potenza produttiva, ogni incremento dei consumi amplia il margine, eleva il valore dei prodotti e innalza la rendita. Le due tendenze esaminate sono contemporaneamente presenti e tra loro collegate: «ogni progresso industriale», scrive il Toniolo, «deprimendo il valor dei prodotti, espande i consumi; ogni allargamento di questi, elevando il valore, provoca i progressi industriali» 903. Esistono perciò molteplici situazioni intermedie di equilibrio, «che determinano definitivamente l’altezza della rendita» 904. Oltre alla «legge normale», la rendita soggiace anche a quella «del valore corrente», che la determina secondo il valore dei prodotti agrari. Il suo importo varia sensibilmente, nel breve periodo, all’interno dei limiti posti dal «valor nor897

TTE, IV, p. 164, nota 1. TTE, IV, p. 164, nota 2. 899 Per periodo storico il Toniolo intende «tutto il tempo nel quale lo stato tecnico-economico della produzione (l’arte industriale) non subisce profonde variazioni e nel quale inoltre non muta sensibilmente l’entità media complessiva e d’indirizzo dei consumi agrari» (TTE, IV, p. 165). 900 Con il termine mercato, il Toniolo indica «l’ampiezza dello spazio e delle corrispondenti popolazioni fra cui intercedono rapporti generali e costanti di cambio dei prodotti agricoli» (TTE, IV, p. 165). 901 TTE, IV, p. 165. 902 TTE, IV, p. 166. 903 Ibidem. 904 TTE, IV, p. 167. 898

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male» 905 di lungo periodo, a causa di eventi accidentali che modificano la domanda o l’offerta. Tali variazioni non si configurano come modificazioni vere e proprie della rendita 906, bensì come alterazioni del «valore corrente dei prodotti che la compongono». Il proprietario della terra risente di tali effetti solo se percepisce la rendita sotto forma di prodotti, poiché si modificano i rapporti di cambio. Qualora invece riceva una rendita in denaro da parte di un imprenditore, gli effetti delle variazioni di valore dei prodotti ricadono su quest’ultimo. In realtà, esiste un rapporto tra rendita corrente e rendita normale: la prima diviene in alcuni casi «anello e mezzo di transizione» della seconda nel succedersi dei periodi storici 907. Il Toniolo considera la rendita fondiaria il prototipo della rendita, in cui le leggi proprie di quest’ultima si esplicano incontrando un minor numero di ostacoli. La «legge speciale» definisce, invece, «quegli aspetti e quelle inflessioni d’ordine secondario che la legge generale subisce» a causa delle caratteristiche dei «singoli agenti territoriali»908 cui si applica. Così, a titolo esemplificativo, il consumo (e indirettamente la rendita) dei prodotti del bosco non dipende dal grado di sviluppo dei bisogni personali degli individui, ma piuttosto dalla richiesta delle industrie che impiegano tali materie. Il dispiegarsi delle leggi della rendita presuppone la libera circolazione e concorrenza dei prodotti territoriali. Inoltre, se si verifica la cessione del terreno a un imprenditore dietro pagamento di un canone, deve valere la «libertà del dibattito e della concorrenza» tra le due parti contraenti. Spesso invece accade che, essendo i beni territoriali non aumentabili secondo le esigenze dei produttori, i loro possessori esercitano una «certa preminenza all’atto della convenzione» 909. La classe dei proprietari terrieri ritrae, grazie alla rendita, «una larga fonte di reddito» senza essere direttamente impegnata nella produzione economica. Da qui nasce la possibilità che essi, non assorti «interamente» nella cura degli «interessi materiali», s’interessino alla «cultura dello spirito», alle «scienze, alle arti, 905

Ibidem. Intesa come «la quota che sul prodotto complessivo di una impresa agricola trapassa al proprietario come tale» (TTE, IV, p. 167). 907 A giudizio del Toniolo «se il valore corrente delle derrate, per espansione graduale di bisogni e quindi della domanda rispetto all’offerta, lungamente si sostenta al di sopra del normale di quel periodo storico che si considera, l’alto prezzo perdurante delle derrate agricole (ferme tutte le altre circostanze), promuove l’allargamento della coltivazione a zone meno produttive; e in tal caso la rendita corrente, frattanto aumentata, prepara e determina un nuovo limite normale più elevato della medesima» (TTE, IV, p. 168). 908 TTE, IV, p. 168. 906

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alla beneficenza, alle funzioni civili e politiche» 910. Il Toniolo conclude affermando che «è questo il grande ufficio provvidenziale connesso coll’istituto della rendita, il quale poi si riflette indirettamente a beneficio di tutto il magistero economico» 911. Il profitto è la parte del «valore del reddito netto sociale che spetta all’imprenditore» 912. Questi «organizza concretamente la produzione» e sopporta il rischio d’impresa 913. L’unità produttiva è caratterizzata nella sua «costituzione» dalla presenza contemporanea di diversi fattori tutti preordinati al raggiungimento del medesimo fine. Il suo «esercizio» si concreta nello svolgimento di «una serie ordinata (ciclo) di operazioni tecnico-economiche» 914. Ogni ciclo di produzione presenta un risultato finale «remoto (non si verifica, cioè, che al termine di quel ciclo)» 915, e si manifesta in ogni singola impresa in modo «irregolare»916. 909

TTE, IV, p. 169. TTE, IV, p. 170. 911 Ibidem. La posizione del Toniolo risulta differente da quella di Smith, che, nella Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, esprime giudizi opposti sulla classe dei proprietari terrieri. Scrive SMITH (La ricchezza delle nazioni, pp. 233 e 47): «quell’indolenza che è l’effetto naturale dell’agiatezza della loro condizione, li rende troppo spesso non solo ignoranti, ma anche incapaci di quell’applicazione dello spirito che è necessaria per prevedere e comprendere le conseguenze di qualunque pubblico regolamento». «Non appena la terra di un paese è tutta divenuta proprietà privata, i proprietari, come tutti gli uomini, amano di mietere dove non hanno seminato, e domandano una rendita anche per il suo prodotto naturale». Cfr. ZENEZINI, Rendita, in Dizionario di economia politica, VI, pp. 70-72. 912 TTE, IV, p. 171. Il profitto, secondo RICOSSA, Dizionario di economia, p. 410 (Profitto), è uno dei concetti «più tormentati e tormentosi della scienza economica». Il carattere di reddito residuale è proprio «della scuola classica, fino a Marx», come se «bastasse definire gli altri redditi perché, per differenza, restasse teorizzato anche il profitto». La scuola marginalista, forse più in opposizione alle tesi marxiste, sostiene «che ogni fattore produttivo riceve, in condizioni di concorrenza, una retribuzione proporzionata alla produttività (marginale) del fattore stesso». Il profitto si configura pertanto come il «corrispettivo dell’apporto che il capitale e il capitalista suo proprietario [danno] alla produzione». Cfr. E. SALTARI, Profitto, in Dizionario di economia politica, diretto da G. LUNGHINI, XI, Torino 1986, pp. 89-176. Il profitto è un reddito complesso formato, appunto, da più redditi semplici (interesse, salario, compenso per il rischio). Esso rappresenta secondo E. NAZZANI (Sunto di economia politica, Torino 18976, pp. 69-72) «la retribuzione pel capitale fatto valere direttamente dalla persona che se ne trova in possesso. Se l’imprenditore dirige effettivamente la sua impresa, allora nel profitto oltre alla rimunerazione per la formazione del capitale ed eventualmente al compenso pel rischio, entra anche la retribuzione del lavoro di direzione e sorveglianza, al quale lavoro non corrisponde un vero e proprio salario». 913 Per il Toniolo l’espressione rischio esprime «in senso ampio tutte le oscillanze od eventualità buone o cattive della produzione. In senso stretto, contrapposto a beneficio, dinota l’eventualità sinistre solamente» (TTE, IV, p. 172). 914 TTE, IV, p. 171. 915 Le teorie economiche hanno osservato il profitto da due punti di vista differenti. Scrive SALTARI (Profitto, in Dizionario di economia politica, XI, pp. 89-90) «da un lato, se ci si pone al termine del processo produttivo», si può affermare che «il livello raggiunto dal profitto, o meglio dal saggio di profitto, misura l’esito delle operazioni produttive intraprese». D’altra parte, «se ci si pone all’inizio del processo» medesimo, «il profitto esprime il giudizio sul futuro andamento della produzione e perciò, a seconda delle attese, sulla misura in cui i mezzi della produzione ottenuti precedentemente verranno reimpiegati». Il primo metodo, al quale sembra rifarsi anche il Toniolo, è seguito, fra i tanti, da Ricardo, che, ponendo il suo punto di osservazione alla fine del processo produttivo, studia come, sulla base delle cognizioni della tecnica e sulle caratteristiche del sistema distributivo, vengano a determinarsi il saggio di profitto e i prezzi. Il secondo metodo, invece, è proprio di «Keynes, Kalecki e della scuola postkeynesiana». Per un approccio critico alla 910

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Rispetto a tale argomento, il Toniolo osserva come il risultato della produzione, «nella continuità di più cicli produttivi» e considerata la totalità delle imprese, sia «relativamente regolare e costante». Tale regolarità è però frutto di «una serie di irregolarità, ora favorevoli ora sfavorevoli», nel reddito e nei fattori della produzione. Le forme di costituzione dell’impresa possono variare «rispetto alle modalità del suo ordinamento e rispetto all’estensione del suo ufficio» 917. Nell’impresa che produce per il commercio 918, l’imprenditore acquisisce i fattori di produzione dai rispettivi proprietari in cambio di un compenso per tutta la durata del contratto. Così, mediante il pagamento del salario, dell’interesse e del fitto, ottiene rispettivamente il lavoro, il capitale e gli «agenti territoriali». L’imprenditore è pertanto distinto dai «dispositori degli agenti di produzione» 919. È necessario allora, che egli sia in grado di fornire adeguate garanzie morali e materiali, atte ad assicurare l’adempimento delle obbligazioni assunte, consistenti nel «possesso di un patrimonio economico proprio» 920, e segnatamente rappresentato dal capitale. Gli imprenditori, da un punto di vista generale, fanno parte della categoria dei capitalisti. Al suo interno essa è divisa in classi speciali: quella dei «capitalistiindustriali e quindi assuntori di capitale» (gli imprenditori) 921 e quella dei «capitalisti-prestatori di capitale» 922, con funzioni e importanza economica e sociale ben diverse. Gli elementi costitutivi del profitto sono l’«utilità» e i sacrifici 923 propri della figura dell’imprenditore. In tal modo, il profitto misura «il valore della coteoria smithiana del profitto, v. P. E. TAVIANI, La teoria del profitto nella scuola smithiana, Firenze 19612, pp. 1-23. 916 Ibidem. 917 TTE, IV, p. 172. 918 Ossia «per vendere i prodotti e realizzarne il valore mediante il cambio, non già per consumo immediato dei produttori stessi (produzione domestica)» (TTE, IV, p. 172, nota 2). 919 Ibidem. 920 TTE, IV, p. 173. 921 Su tale distinzione concorda anche il NAZZANI (Del Profitto. Saggio, p. 18) affermando che «il profitto è la parte che nella distribuzione delle ricchezza tocca a colui che fa valere un capitale in un’industria esercitata a suo rischio: è il reddito del capitalista-imprenditore». 922 Ibidem. 923 Ponendo tra gli elementi influenti sul profitto i sacrifici sostenuti dall’imprenditore, il Toniolo si avvicina alla posizione di J. S. Mill. Questi ha elaborato secondo SALTARI (Profitto, in Dizionario di economia politica, XI, p. 115) la cosiddetta teoria del fondo salari, secondo la quale la funzione principale del capitale consiste «nel valicare l’intervallo temporale che intercorre tra la produzione e il consumo». L’aspetto più rilevante è che Mill «ritiene che in tanto questa formazione di capitale sia disponibile, in quanto il capitalista si astenga dal consumare la parte di prodotto che gli appartiene». Ne discende che «la particolare funzione svolta dal capitalista nel porlo in essere, l’astinenza, va remunerata. Questo compenso è il profitto».

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operazione dell’imprenditore» 924 alla produzione sociale. La «legge normale» del profitto, ricavata considerando il suo «saggio medio generale» in tutte le industrie di un Paese, afferma che il compenso dell’imprenditore si proporziona alla «media generale dei sacrifizi inerenti alla prestazione di quella funzione medesima» 925. I fattori che compongono i suddetti sacrifici riguardano, in primo luogo, il lavoro di costituzione e gestione dell’impresa stessa. È un’attività tesa all’organizzazione della produzione e costituisce un «gravissimo onere per chi» la compie. Il secondo ordine di fattori si riferisce ai cosiddetti «sacrifici di astensione», intesi come «privazione, diminuzione o dilazione» 926 dei benefici derivanti da un consumo immediato della ricchezza a favore del suo impiego nell’attività produttiva. Essi si riferiscono, nel caso di impiego di capitale proprio, all’astensione dal consumo corrente, necessaria alla formazione del capitale; se si considera l’impiego di capitale altrui, tali sacrifici si ricollegano all’obbligo di corrispondere agli operai, ai capitalisti e ai proprietari degli agenti naturali un «compenso regolare, continuato, [e] periodico» a fronte di un reddito netto di impresa frutto di un processo «più o meno protratto» nel tempo e «irregolare»927. Inoltre, servendo il capitale proprio da garanzia per i terzi, l’imprenditore non può liberamente servirsene. Il profitto dell’imprenditore non segue le leggi dei due «titoli elementari» distinti che lo compongono (prestazione di lavoro e impiego di capitale), bensì, essendo un «reddito unico» 928, risponde a una propria «legge». Così, secondo il mercato e il periodo storico considerato, il «profitto medio generale» si modifica in funzione del «vario grado di avanzamento dell’arte industriale» e della natura delle imprese impegnate nel processo produttivo. Entro uno stesso ambito nazio-

924

Ibidem. TTE, IV, p. 174. SMITH (La ricchezza delle nazioni, p. 133) afferma, invece, che i profitti «sono interamente regolati dal valore del capitale impiegato, e sono maggiori o minori in proporzione alla dimensione di questo capitale». Cfr. O’BRIEN, Gli economisti classici, pp. 183-192. 926 Ibidem. 927 TTE, IV, p. 175. 928 TTE, IV, p. 176. Scrive il NAZZANI (Del Profitto. Saggio, p. 30-32): «[il profitto] non cessa di essere per l’economia politica un reddito unico, un fenomeno di distribuzione distinto dagli altri del salario, dell’interesse e della rendita; […] e poiché il salario è la retribuzione di chi lavora per altri e l’interesse è il compenso dovuto a chi presta ad altri i suoi capitali, e poiché l’imprenditore impiega nel proprio negozio i capitali propri e la propria attività, così ci pare antiscientifico il ridurre i profitti ad interessi e salari». Inoltre «il salario tocca a chi sul mercato del lavoro rappresenta l’offerta; l’interesse va a chi rappresenta l’offerta sul mercato dei capitali. Ma su quei mercati, l’imprenditore, lungi dal rappresentare l’offerta, rappresenta il suo opposto, cioè la domanda». 925

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nale e temporale, esso tende a rapportarsi al valore di «minimo compenso» 929 sufficiente a convincere gli imprenditori a impegnarsi in maniera regolare. Sul giudizio di «relativa sufficienza» influiscono le abitudini degli imprenditori, il prestigio sociale della loro classe, la possibilità di effettuare profittevoli speculazioni e il meccanismo della concorrenza. Il profitto corrente «è in ragione diretta della domanda ed inversa dell’offerta del concorso personale e reale degli imprenditori» 930. La prima dipende dalla «quantità dei bisogni effettivi» di prodotti dell’industria da parte dei consumatori e «dagli impulsi a rivolgersi» alle imprese per trovare soddisfazione alle loro necessità, piuttosto che rivolgersi «all’industria domestica». L’offerta esprime «la tendenza dei produttori di farsi imprenditori pel commercio», dipendente dalla «diffusione delle attitudini e abitudini» fra essi, dalla loro disponibilità di mezzi produttivi e dall’aspirazione a «ritrarre un reddito sotto forma di profitto» 931. I profitti «medi speciali» delle industrie considerate singolarmente si mantengono al di sopra o al di sotto di quello medio generale in funzione della natura specifica delle industrie, che comporta differenti gradi di sacrifici, e delle «modalità nell’ordinamento» interno, dalle quali possono derivare condizioni particolari che rendono difficile il compito dell’imprenditore. Il Toniolo conclude ricordando la grande importanza del ruolo degli imprenditori all’interno dell’economia sociale, ulteriore giustificazione alla presenza del profitto. Grazie a essi sono rese possibili le «grandi applicazioni della scienza alla produzione» e per merito delle loro «audaci iniziative» si allarga «il margine della produzione a vantaggio di tutti i dispositori degli agenti produttivi e infine dei consumatori». Scrive il Toniolo: «non bastano gli operai istruiti, i capitali abbondanti, i favori di natura, se manchino elementi ordinatori e l’azione illuminata ed ardita che traduca in atto, a beneficio universale, queste forze disgregate ed inerti». Egli riconosce grandi meriti alla classe «numerosa, potente, colta, operosissima, e pur sempre benemerita degli odierni imprenditori», fautori della «grandezza economica della civiltà moderna» 932.

929

Ibidem. TTE, IV, p. 178. Il Toniolo, nel dare tale definizione, richiama direttamente il Cossa. 931 TTE, IV, p. 178. 932 TTE, IV, p. 179. 930

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4.

Le leggi della distribuzione

4.1.

Norme

Il termine «incivilimento» si riferisce al «progresso regolare della società umana verso uno stato di perfezione consono alla natura e al fine di essa» 933. Tale progresso si concreta nello sviluppo delle «facoltà morali, intellettuali, [e] fisiche» degli individui che compongono la società. Il progresso in campo economico raffigura «uno degli aspetti dell’incivilimento», strettamente collegato agli altri. Ogni miglioramento delle condizione economiche, perciò, deve necessariamente tradursi in uno sviluppo di tutte «le altre manifestazioni dell’essere sociale». Il Toniolo vuole individuare gli eventuali collegamenti tra la «legge del progresso e dell’incivilimento economico» e il «magistero della distribuzione della ricchezza» 934. In particolare, egli si chiede cosa accada al salario, all’interesse, alla rendita e ai profitti a seguito di un’elevazione o di una diminuzione del reddito totale della società, e in quale proporzione partecipino le varie parti di esso a tali movimenti del «fondo comune»; infine, le suddette variazioni non devono essere considerate in se stesse, ma in relazione alle modificazioni dello «stato economico» delle classi sociali percepenti la variata frazione del reddito totale 935. In primo luogo, il reddito totale della società «tende, coll’incivilimento, ad ampliarsi». Tale fenomeno risulta essere conseguenza diretta del progresso delle tecniche di produzione, che determinano un aumento del prodotto finale rispetto a una diminuzione degli sforzi necessari a ottenerlo e, conseguentemente, un aumento degli importi dei compensi. Ciò può avvenire o mediante l’ottenimento della medesima quantità di prodotto con minori dispendi di lavoro, capitale e agenti naturali, o attraverso un aumento delle quantità prodotte, rimanendo inalterata la quota di fattori produttivi impiegati. Così, in una qualsiasi industria, il singolo prodotto viene a costare meno e il suo valore unitario diminuisce di con933

TTE, IV, p. 180. Cfr. SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 180. TTE, IV, p. 181. Sul tema del rapporto tra sviluppo e distribuzione del reddito v. LOMBARDINI, Economia politica, pp. 812-814; ID., Il metodo della scienza economica: passato e futuro, pp. 23-25. 935 TTE, IV, p. 181. Qui il Toniolo dimostra attenzione non tanto al comportamento astratto delle variabili economiche, ma agli influssi che tali meccanismi riversano nella vita reale degli uomini: «importa sapere, p. e., non tanto se l’interesse cresca o scemi per ogni unità di capitale, ma se il benessere e la potenza economica complessiva della classe dei capitalisti riceva dal progresso aumento o diminuzione» (TTE, IV, p. 181). 934

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seguenza. La diminuzione del valore è però stimolo all’ampliamento dei consumi, che genera un’espansione della produzione generale con la nascita di nuove imprese. Scrive il Toniolo: se in un’industria tessile «si produceva, p.e., dapprima un milione di metri di panno al costo di venti lire l’uno (valore unitario), cioè che importava un valore complessivo di prodotti di venti milioni. In seguito ad un perfezionamento meccanico che ridusse il costo di ogni metro a dieci lire, il consumo e la produzione si triplicarono; cosicché, mentre il valore unitario discese alla metà, il valore complessivo del prodotto sociale salì a trenta milioni»936. In tale industria, il «risultato complessivo da dividersi» fra i detentori dei fattori produttivi cresce «non solo in una misura proporzionale, ma progressiva» 937 rispetto al miglioramento delle tecniche di produzione. Ogni progresso produttivo si traduce, pertanto, in un miglioramento del benessere generale. Aumentando, con l’incivilimento, il fondo comune dei compensi, anche i redditi speciali (salario, interesse, rendita, profitto) tendono ad aumentare in valore assoluto. In particolare: 1) il salario manifesta una tendenza all’incremento, in relazione alle mutate condizioni della civiltà; 2) l’interesse «dei capitali per ogni unità di essi» tende a diminuire a causa delle minori difficoltà di accumulazione e circolazione, ma d’altra parte, all’aumento della produzione si accompagna l’allargamento del mercato dei «prestiti fruttiferi» e, conseguentemente, si moltiplicano le occasioni di prestito che permettono di ritrarre un «lucro complessivamente maggiore» 938; 3) il profitto, se considerato nel suo «saggio percentuale», diminuisce, ma se si guarda alla sua «entità complessiva» cresce; 4) infine, i «proprietari della terra» sono in grado, «tuttavolta (entro certi limiti)», di accrescere i propri redditi attraverso «incrementi industriali della potenza produttiva del suolo», originati dall’uso di lavoro e capitale, ma che poi «seguono le leggi della rendita» e si risolvono in un «aumento delle risorse complessive dei dispositori degli agenti naturali» 939. Il Toniolo sostiene che ciascuna classe partecipa all’aumento del reddito sociale «in proporzione del valore del proprio concorso»; vale a dire che esse hanno una diversa importanza relativa, dalla quale discende un differente grado 936

TTE, IV, p. 182. TTE, IV, p. 182-183. 938 I dati in possesso del Toniolo dimostrano che «il reddito totale della classe capitalistica posseditrice oggi [1878] di miliardi prestati al 6,4 e forse 3% secondo le nazioni, eccede di gran lunga quello di altri tempi, dove lo scarso capitale prestavasi al 20% e più» (TTE, IV, p. 184). 937

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di partecipazione agli aumenti del prodotto complessivo. Come sostiene Pecorari, «ponendo il quesito della proporzionalità con cui si partecipa all’aumento generale del reddito, il Toniolo accenna ai termini del rapporto tra lavoro e capitale, inclinando verso una impostazione che non coincide con quella da lui elaborata negli anni Novanta, quando avrà acquisito la prospettiva, aperta e critica, del neotomismo 940 lovaniense, superando anche il precedente dettato ketteleriano» 941. Si pensi alla posizione sul valore economico del lavoro, e segnatamente del lavoro operaio, rispetto all’importanza del capitale. A causa di intrinseche caratteristiche, il primo dimostra di non essere suscettibile di «notevole sviluppo né in qualità né in quantità» 942. Discende da tali considerazioni che i lavoratori partecipano ai miglioramenti generali del reddito in misura inferiore rispetto a quella delle altre classi sociali. Viceversa, il capitale, è dotato di grande flessibilità rispetto alle forme concrete che può assumere ed è disponibile in quantità pressoché illimitate. Esso si configura così come il fattore della produzione che «dischiude i nuovi orizzonti», che applica all’attività produttiva «i progressi del sapere», «che inizia, attua e misura massimamente tutti gli avanzamenti della efficacia produttiva della ricchezza generale» 943. È «legge normale della produzione» la crescita del «bisogno, sia assoluto che relativo, di capitale»; altrettanto può dirsi della contrazione della domanda di lavoro. Sempre grazie al capitale, che si traduce in «incrementi industriali del terreno», i proprietari terrieri riescono a elidere «gli effetti dell’efficacia decrescente del suolo» 944 e a rispondere alle crescenti esigenze alimentari della popolazione, contribuendo all’incremento del reddito sociale. Una posizione, quella del giovane Toniolo, che non ritroviamo in opere successive, quali, ad esempio, il Trattato. Sul volume dedicato alla produzione della ricchezza, nell’analisi dei rapporti tra i fattori di produzione, è lampante il ruolo centrale affidato al lavoro, «ente primigenio» della produzione, rispetto al capitale, che si configura come un «fattore derivato» 945. 939

TTE, IV, p. 185. Cfr. PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo, pp. 49-59. 941 PECORARI, Il solidarismo possibile, pp. 12-13. Sui rapporti del Toniolo con Désiré Mercier, v. PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo, pp. 60-70. Sull’influsso di Wilhem Emmanuel von Ketteler v. P. PECORARI, Ketteler e Toniolo. Tipologie sociali del movimento cattolico in Europa, prefazione di A. MONTICONE, Roma 1977, pp. 21-47. 942 TTE, IV, p. 185. 943 TTE, IV, p. 186. 944 TTE, IV, p. 186-187. 945 Cfr. TTE, III, p. 74-92 e COSSA, Saggi di economia politica, p. 158. La centralità del lavoro nel processo produttivo e la subordinazione del capitale a esso verranno ribadite nell’enciclica Laborem exer940

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Con l’incivilimento, tutte le classi sociali «tendono ad accrescere in assoluto i loro redditi»; in termini relativi, però, tale aumento «risulta comparativamente assai differente». Da siffatte premesse si deduce: 1) che ogni aumento del «reddito netto complessivo» si traduce in un innalzamento della porzione percepita dalle singole classi sociali; 2) che partecipano «largamente ai progressi generali della ricchezza» solo i detentori di capitale e, precisamente, le figure del «capitalistaprestatore», del «capitalista-imprenditore» o del «capitalista-proprietario»; 3) che la possibilità di accedere al capitale è la «condizione ad un’equa partecipazione ai benefici del progresso economico» 946; 4) che è indispensabile l’introduzione di «istituti economici» in grado di agevolare le classi inferiori nell’«acquisto legittimo» e nell’«impiego proficuo» del capitale, anche attraverso la rinascita «dei mestieri», delle «società cooperative di produzione» o la «partecipazione al profitto e al capitale delle grandi imprese» 947. Le «classi capitaliste», infine, non devono abusare della loro superiorità, ma, «per virtù di sapiente carità civile», sono chiamate a sostenere il «moto ascendente delle classi lavoratrici» 948. Diversamente, se ciò non si verifica, il progresso economico si concreta in un’accentuazione del divario tra la classe dei salariati e le altre, preludio di «conflitto» e di «dissolvimento» della società. Il Toniolo osserva come in concreto gli avanzamenti assoluti e relativi del reddito totale della società non si «effettuino con moto generale e simultaneo», bensì «per mezzo di movimenti parziali e successivi» 949 di «grande rilievo nella vita reale» 950. Inoltre, l’aumento del reddito generale si traduce «temporaneamencens di Giovanni Paolo II promulgata il 14 settembre 1981. Come ricorda P. BARUCCI (Storia, scienza economica e messaggio salvifico, p. 45) «sarà ancora la Laborem exercens a portare un contributo fondamentale su questi temi, definendo il lavoro la dimensione fondamentale dell’esistenza dell’uomo sulla terra, affermando che lo scopo del lavoro è l’uomo stesso, precisando che il lavoro è fonte di diritti per il lavoratore e che, da questo insieme di premesse generali, deriva che vi è “un principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale che è un postulato appartenente all’ordine della morale sociale”». 946 TTE, IV, p. 187. 947 TTE, IV, p. 188, nota 1. 948 Ritorna anche qui un tema caro al Toniolo e in più occasioni ribadito: a «ogni avanzamento economico delle classi superiori» deve seguire «una elevazione corrispondente della moralità» e dei «doveri» delle «classi dirigenti a pro della generalità» (TTE, IV, p. 188, nota 2). 949 TTE, IV, p. 188. 950 Scrive il Toniolo: «a mo’ d’esempio, se il progresso produttivo precede in taluni rami d’industrie e mantiensi lungamente tardivo in altri, alle più elevate ricompense in denaro percepite dai collaboratori di quelle industrie progredite non corrisponde una eguale elevazione dei compensi reali, ossia delle soddisfazioni finale che quelli ne traggono; […] ciò vale, p.e., per la sproporzione fra i progressi delle industrie agricole e quelli di tutte le altre, in ispecie delle manifatturiere, il vantaggio di un più alto salario in moneta percepito dall’operaio nelle industrie manifattrici odierne assai progredite va per esso (almeno

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te in straordinario vantaggio per taluni e in gravissimo pregiudizio» per altri 951. L’incremento del reddito sociale non segue una «legge di continuità», bensì si manifestano «soste e ricorsi»: in tali casi, se il reddito nazionale resta costante, ogni aumento dell’importanza di una classe sociale ha effetti deleteri sul reddito delle altre; così, se in un momento storico preciso rimane inalterata la produzione nazionale e si crea un’eccessiva offerta di braccia, inevitabilmente il salario diminuisce di quanto aumentano l’interesse e il profitto. Il processo di «incivilimento» ha quindi notevoli riflessi sull’«economia distributiva», modificando i consumi, le abitudini, la distribuzione territoriale delle popolazioni e il peso nella società delle singole classi sociali. Spesso ai cambiamenti economici si accompagnano sconvolgimenti «delle idee, delle virtù, dei bisogni, dei costumi, della vita giuridica, politica e religiosa», con l’insito pericolo di creare «occasioni» favorevoli alla nascita di «disequilibri ed attriti» 952. Tali irregolarità hanno, tuttavia, carattere transitorio, riequilibrate e assorbite da «quelle forze recondite» dell’organismo sociale che divengono «una condizione alla perenne energia della vita sociale e con essa dell’incivilimento» 953.

4.2.

Deviazioni

Le leggi fin qui esposte si riferiscono a uno «stato normale della società». In concreto possono, però, verificarsi delle situazioni patologiche del «magistero distributivo» 954. Per «crisi sociale» s’intende uno «stato di sofferenza della società umana» dovuto ad «un disordine nell’organismo e nella vita (nel modo di essere e di agire) della società stessa» 955. Lo «stato anormale» è caratterizzato dall’instabilità degli istituti sociali e dalla netta contrapposizione fra i diversi in-

per un certo periodo) perduto nell’acquisto di derrate agricole ad alto prezzo, specialmente nei grandi centri; e in ordine al benessere definitivo dei lavoratori quella elevazione riesce veramente nominale» (TTE, IV, p. 189). 951 Ciò avviene quando «la trasformazione dell’ordinamento tecnico produttivo, che sostituisce le macchine al lavoro diretto, sia improvvisa e generale, nel qual caso la sofferenza delle classi operaie disattivate e messe sul lastrico trova l’opposto riscontro nella febbrile attività e negli accumulati guadagni dei capitalisti imprenditori» (TTE, IV, p. 190). 952 TTE, IV, p. 190. 953 Ibidem. 954 TTE, IV, p. 191. 955 Ibidem.

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teressi delle classi stesse 956. In particolare, la crisi dell’economia distributiva si concreta in uno «stato di sofferenza» causato da «un disequilibrio nella partecipazione delle singole classi alla ricchezza sociale» 957. Il Toniolo osserva come tali crisi si ripresentino ciclicamente nella storia con caratteri sia «comuni o generici», sia «specifici o variabili» 958. La forma più comune di crisi dell’economia distributiva vede contrapposte le classi sociali dei capitalisti e dei proprietari terrieri, rappresentanti dell’«oligarchia della ricchezza in alto», contro le classi lavoratrici, simbolo del «pauperismo in basso» 959. Figlia di una democrazia già malata, si trasforma ben presto da crisi distributiva in aperta crisi sociale. Infatti, non si può parlare di libertà civile, di «altezza morale» e di pacifica convivenza dove si sottomettano «i molti ai pochi», dove la gestione della cosa pubblica divenga esclusivo appannaggio della classe dominante e l’avidità nel ritrarre lucro «materializz[i] la vita», dove, infine, si offuschi il senso della «carità» 960. Le crisi sociali nelle società cristiane, a differenza di quelle dell’antichità classica, avvengono in periodi storici di transizione, dove i «vecchi istituti», in contrapposizione ai nuovi, stanno per dissolversi, e tendono a modificarsi abitudini, bisogni, interessi degli individui, conseguentemente all’«offuscarsi nella co-

956

Sostiene PECORARI (Il solidarismo possibile, p. 13) che il verificarsi dei «conflitti di classe» è un «concetto-chiave che più volte il Toniolo approfondirà nella fase matura della sua opera, argomentando che il disordine sociale è l’effetto obbligato di una «deviazione dall’ordine razionale e provvidenziale», la cui causa non solo si rinviene nella «debolezza» dell’uomo, ma ha origine storica, involgendo l’insieme delle relazioni (religiose, morali-civili, politiche-economiche) che fanno da supporto al vivere sociale». Per SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p .77) anche nella Sintesi storica delle vicende economiche del comune fiorentino dal 1378 al 1530 (1888), il Toniolo individua le «cause del tracollo dell’economia fiorentina» nella «prolungata lotta di classe tra la borghesia grassa – detentrice del potere e dei capitali – e il popolo minuto degli artigiani minori e del salariato». 957 TTE, IV, p. 192. 958 Ibidem. I primi «rispondono alla cagione prima ed efficiente di tutte le perturbazioni sociali, la quale consiste nell’offuscarsi della fede in un ordine provvidenziale delle società umane». Gli altri «corrispondono alle cause occasionali e prossime d’ogni crisi, e variano perciò a seconda della fisionomia propria d’ogni epoca storica in cui si manifestano» (TTE, IV, p. 192-193). 959 TTE, IV, p. 193. 960 Ibidem. Il Toniolo ricorda come in un simile stato «trovansi cadute a più riprese la Grecia, specialmente ai tempi della conquista macedonica, Roma dopo la seconda e terza guerra punica e, con sintomi via via più gravi, sotto l’impero; che si riprodusse in parecchie delle repubbliche medioevali italiane col conflitto tra il popolo minuto e il popolo grasso; che si estende in Germania ed in Inghilterra durante l’epoca delle riforme religiose, accentrando quivi i beni in mano dei signori (lords) anglicani e preparando così il pauperismo inglese e il proletariato irlandese, traducendosi colà nelle violenze vandaliche degli anabattisti e nella guerra dei contadini, che proruppe a mezzo il nostro secolo con conati socialisti in più luoghi ed in ispecie con la rivoluzione a Parigi del 1848, ripetuta ed inasprita poi nel 1870; che infine insidia, accerchia, tormenta quasi tutta la società attuale in America ed Europa» (TTE, IV, p. 193-194).

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scienza pubblica [dei] grandi principi morali che assicurano la conservazione e i progressi della società» 961. Il Toniolo argomenta che la «crisi sociale che impende sulla civiltà odierna» [1878] è, in primo luogo, dovuta al «disequilibrio economico tra capitale e lavoro e le correlative classi sociali». Tale fenomeno si configura come un fattore intrinseco all’ordinamento moderno della produzione, dove l’applicazione delle macchine ha inevitabilmente depauperato il valore del lavoro manuale. Inoltre, la trasformazione delle tecniche produttive è stata «profonda» e «rapida» e ha reso sovrabbondante l’offerta di lavoro sulla domanda per un lungo periodo di tempo. D’altro canto, essa ha richiesto notevoli investimenti, che pochi imprenditori sono riusciti a sostenere, accumulando successivamente «straordinari guadagni» fra «le sofferenze degli operai» 962. A tutto ciò va aggiunta la sproporzione esistente fra i progressi dell’industria manifatturiera rispetto a quella agricola, che ha significato ulteriori sofferenze per la classe lavoratrice a causa dell’alto prezzo delle derrate alimentari. Hanno, infine, concorso a diminuire il valore «intellettuale e morale» dell’operaio: 1) la scomparsa del tirocinio, che formava l’operaio e l’uomo; 2) lo scioglimento delle «corporazioni d’arti e mestieri» che avevano svolto nel corso degli anni compiti d’istruzione e educazione della classe lavoratrice, aumentandone il rispetto; 3) l’introduzione nelle fabbriche del lavoro femminile e minorile, germe della «dissoluzione dei vincoli e sentimenti familiari»; 4) l’introduzione di una «morbosa mobilità che allentò l’affezione al luogo natio e l’amore della patria» 963. Una simile situazione è stata ulteriormente aggravata dal disequilibrio fra le condizioni economiche e quelle sociali e politiche dell’operaio. L’uguaglianza e la libertà, proclamate dalle leggi «a profitto di tutti», hanno finito coll’incrementare l’inferiorità economica dell’operaio trovatosi inerme di fronte ai meccanismi della concorrenza senza regole. Alla di «lui indipendenza giuridica» non si è accompagnata l’«indipendenza di fatto» 964.

961

TTE, IV, p. 194. TTE, IV, p. 195. 963 TTE, IV, p. 196. 964 Scrive il Toniolo: «e così il lavoratore pareggiato al capo fabbrica ed al proprietario dinanzi ai tribunali e spesso all’urna elettorale, tanto più fu tratto a disdegnare la propria umiliazione economica di mezzo alla quale la proclamata sovranità popolare sembrò a lui derisione» (TTE, IV, p. 197). 962

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L’«odierno disordine sociale» 965 è primariamente una crisi economica traente le origini dal perdurante conflitto tra capitale e lavoro. Essa si pone all’attenzione dell’opinione pubblica come la cosiddetta «questione operaia» che travolge il salariato manifatturiero e agricolo, nonché altre «forze sociali spostate ed interessi economici offesi o delusi» 966. In tal modo la crisi economica diviene vera e propria crisi sociale, manifestandosi «per la prima volta nella storia del mondo», rileva il Toniolo, in un regime di libertà «civile, economica, [e] politica». La crisi sociale si manifesta anche «nell’ordine delle idee», attraverso dottrine tese «a giustificare ed attuare la riforma degli istituti sociali» 967. Il Toniolo si riferisce esplicitamente al socialismo, avente lo scopo di rinnovare il sistema sociale poggiandolo su «principi e fondamenti» diversi 968. Egli individua altresì i caratteri generali «delle varie dottrine socialistiche», rilevando in particolare come esse mirino non solo alla modifica del sistema economico, bensì dell’intero ordinamento sociale nei suoi fondamentali istituti, quali la proprietà, la famiglia, lo Stato e la Chiesa. Tali dottrine, a giudizio del Toniolo, tendono a sopravvalutare l’importanza «dell’organismo sociale» a scapito dell’individualità di ciascuno, giungendo a sacrificare la «libertà di quest’ultimo per assorbirlo nel gran tutto della società (panteismo sociale)» 969. Con riferimento ai «mezzi di attuazione, possono distinguersi»: 1) i cosiddetti «riformatori mistici» 970; 2) gli «ingenui», i quali si «affidano alla spontaneità umana» non appena si trovi slegata dal «vincolo in cui oggi trovasi inceppata»; 3) «i violenti», drammaticamente più numerosi, i quali invocano l’intervento ar-

965

TTE, IV, p. 197. TTE, IV, p. 198. 967 TTE, IV, p. 199. 968 «Il comunismo ne è una forma particolare più avanzata, che pone a base del nuovo assetto la comunione dei beni e talora altresì della famiglia (Messedaglia)» (TTE, IV, p. 199). 969 Per il Toniolo, che si rifà al Minghetti, «gli errori dei socialisti e comunisti nella loro origine sono essenzialmente errori filosofici e giuridici» e «perciò stesso potrebbero soggiungersi morali e religiosi». Egli considera alcuni «sistemi filosofici notisi, p.e., come il razionalismo puro e l’individualismo di Kant è strada al panteismo di Hegel, e questo al materialismo di Büchner, preparando così il socialismo nelle idee e nei fatti». Stessi effetti sono attribuiti dal Toniolo ad alcune dottrine religiose. «Il protestantesimo, p.e., affermando l’autorità subbiettiva in materia di religione a detrimento di una autorità superiore all’individuo ed imperante, favorisce quel processo logico per cui dall’individualismo si va al socialismo teoretico e pratico, predisponendo così gli animi alla accettazione di questa» (TTE, IV, p. 199, nota 1). Cfr. PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, pp. 42-50. 970 Il Toniolo si riferisce a Saint-Simon. 966

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mato dello Stato che, abolendo gli istituti della libertà privata, «effettui la preconcetta nuova organizzazione» 971. Bisogna ricordare «che il discorso tonioliano si riferisce a un socialismo storicamente datato, cronologicamente collocabile tra ’800 e ’900, benché l’analisi non escluda tipologie “socialistiche” e “comunistiche” precedenti»972: dall’antichità,

ove

le

«pratiche

comunistiche»

erano

meno

«aliene»

all’ordinamento sociale dei popoli al «primo periodo dei tempi moderni» in cui si ribadisce la «santità della famiglia» pur «proclamando la comunione dei beni», dalle violente reazioni del XVIII secolo 973 contro «l’incivilimento» e inneggiando a un «preteso stato di natura» al secolo XIX, in cui l’aspetto economico è «predominante» e l’obiettivo diviene la ripartizione della ricchezza «con più equa legge (Messedaglia) 974». Nella prima metà del XIX secolo, però, le idee socialiste restano opera di solitari pensatori e, segnatamente, di «Saint-Simon, Fourier, Owen». È dal «1847 circa (epoca di commovimenti sociali profondissimi)» 975 che esse assumono i «caratteri più spiccati e definiti»976 e, precisamente: 1) l’ostilità nei confronti della «proprietà specialmente sotto forma di capitale industriale», per l’elevazione, contro la borghesia, del «quarto stato (la classe operaia)»; 2) l’opposizione scientifica alle teorie degli economisti, ponendo in rilievo «le ragioni intellettuali e morali delle classi sofferenti» 977; 3) la vicinanza al «movimento sociale delle moltitudini»978 con inclinazioni per lo più violente. In tal modo «il pensiero si congiunge all’azione per mettere la civiltà moderna alla sua prova suprema» 979. 971

TTE, IV, p. 200. PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, p 44. 973 Con «Morelly, Mably, Brissot de Warville, Babeuf, ecc.» ( TTE, IV, p. 201). 974 «Ciò non esclude che non si discutano e si propugnino riforme radicali anche in ogni altro ordine della vita sociale (fino all’abolizione di Dio!)» (TTE, IV, p. 201, nota 2). 975 Per opera di «Proudhon e di Luigi Blanc in Francia, di Lassalle, Jacoby, C. Marx, Bebel, Liebknecht in Germania (preceduti questi ultimi da Winkelblech, Engels e Rodbertus)» (TTE, IV, p. 201-202). 976 TTE, IV, p. 202. 977 Il Toniolo chiosa argomentando che «talune dottrine invero degli economisti classici sono tali da dischiudere l’adito alle opposte teorie dei socialisti» (TTE, IV, p. 202, nota 2). Cfr. V. CUSUMANO, Le scuole economiche della Germania in rapporto alla quistione sociale, Napoli 1875, pp. 360-366. Scrive il CUSUMANO (Le scuole economiche della Germania in rapporto alla quistione sociale, pp. 360-361): «gli smithiani radicali combattono il socialismo a nome dell’ordinamento economico naturale ed a nome della scienza naturale dell’economia politica. A noi quest’argomentazione non sembra sufficiente. […] Anzi, sostenendo che le leggi economiche sono naturali e immutabili, non si riesce a convalidare le teorie socialistiche, le quali, siccome fu dimostrato, si fondano sopra simili leggi naturali per propugnare l’abolizione dell’ordinamento economico odierno?». 978 La cui prima esperienza «fu fatta nel 1849 a Parigi da Luigi Blanc» (TTE, IV, p. 202, nota 3). 979 TTE, IV, p. 202. Secondo CUSUMANO (Le scuole economiche della Germania in rapporto alla quistione sociale, p. 262) «il socialismo moderno […] è più critico che utopistico, è militante e battagliero, 972

175

4.3.

Rimedi

I rimedi alle crisi sociali sono, al pari delle loro cause scatenanti, particolarmente complessi e investono ambiti di indagine riguardanti fattori economici e religiosi, e l’ordine morale e civile dei popoli. In coerenza con l’assunto che la legge del progresso dell’economia distributiva riversa i propri positivi effetti con maggiore copiosità nei confronti delle classi sociali «dispositrici del capitale», il Toniolo avverte la necessità che le crisi economiche siano affrontate agevolando «l’acquisizione legittima e l’impiego utile del capitale da parte delle classi lavoratrici» o favorendo «una più diretta loro partecipazione ai vantaggi di questo». Tale processo permette di smorzare la «separazione tanto economica, quanto morale» fra le classi superiori e quelle inferiori, rinvigorendo, «per mezzo degli stessi rapporti economici», anche il «vincolo morale» 980 tra esse. Per far fronte alle crisi sociali ed economiche il Toniolo suggerisce l’introduzione di tre «grandi istituti»: la cooperazione, il patronato industriale, la legislazione. La «cooperazione» 981, definita anche self-help, si concreta nella formazione di un insieme di «istituti popolari fondati sulla associazione mutua», aventi l’obiettivo di migliorare le «condizioni economiche» 982 delle classi popolari facendo affidamento sulle forze delle stesse classi inferiori. Si distinguono: 1) «società cooperative di consumo» che acquistano grosse partite di merce, per poi rivenderle «al minuto», favorendo così «il risparmio e l’accumulazione» delle somme che normalmente rappresentano i guadagni «dei minuti intermediari»983; 2) «società cooperative di credito», grazie alle quali i consociati accedono al mercato dei prestiti, per «mezzo della garanzia solidale», più facilmente e «alle

si estende alla teoria e alla pratica, muove migliaia e migliaia di operai in tutto il mondo, possiede associazioni, congressi e giornali, fa scioperi e dimostrazioni […]». 980 TTE, IV, p. 204. 981 Sulle associazioni corporative e mutualistiche v. TONIOLO, Il compito economico dell’avvenire, in ID., Saggi politici, pp. 172-178. 982 TTE, IV, p. 204-205. 983 Scrive il Toniolo: «furono iniziate e grandeggiarono straordinariamente in Inghilterra, dove la istoria dei primi fondatori – i probi pionieri di Rochdale – compone la più bella pagina degli odierni conati di risorgimento popolare» (TTE, IV, p. 205).

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condizioni comuni del commercio» 984; 3) società cooperative di produzione, che attuano «immediatamente l’esercizio» industriale, sia «rispettando l’autonomia di ogni piccola impresa» e occupandosi soltanto di acquistare le materie prime o vendere i prodotti, sia promuovendo la nascita di «imprese collettive» dove gli operai rivestono la duplice funzione di lavoratori e capitalisti. La buona riuscita dell’attività cooperativa presuppone «intelligenza ed esperienza nella direzione, abnegazione, concordia e temperanza fra i collaboratori, oculatezza nella scelta delle industrie non troppo aleatorie, né troppo grandiose pel capitale» 985. Il «patronato industriale esprime le istituzioni concrete» che mettono in atto «l’azione diligente e benefica delle classi superiori» a favore di quelle «inferiori» 986. Il suo «fondamento» si rinviene nella «legge suprema di etica sociale», secondo la quale «ogni superiorità» impone maggiori doveri nei confronti delle classi meno favorite, e in un’altra di «solidarietà civile». Nel XIX secolo il patronato ha il compito di promuovere le «istituzioni autonome delle classi operaie», poiché difficilmente le «iniziative rinnovatrici» richiedenti «cultura di mente, energia morale, [e] sacrifizi economici»987 sono introdotte autonomamente dalle «classi inferiori». Inoltre, tale istituto ha la funzione di favorire l’introduzione di «provvidenze riformatrici» a carico degli imprenditori e beneficio degli operai, quali «casse di risparmio», «società di mutuo soccorso», «casse

984

Ne sono esempi le mutue associazioni di Schulze-Delitzsch in Germania o quelle «introdotte con lievi modifiche in Italia dal Luzzatti» (TTE, IV, p. 205). Probabilmente il Toniolo ha in mente le seguenti opere «L. LUZZATTI, La diffusione del credito e le banche popolari, Padova 1863; SCHULZEDELITZSCH, Fahresberischt fur 1869» (TTE, V, p. 411, note 1 e 2). Egli, infatti, cita i suddetti volumi in G. TONIOLO, Sull’importanza delle banche agricole, «Rivista periodica dei lavori della R. Accademia di scienze, lettere e arti in Padova», 20 (1871), pp. 81-113, ristampato in TTE, V, pp. 409-436. Circa la posizione del Toniolo di fronte alla questione sulla natura e le finalità del credito v. G. TONIOLO, Criteri scientifici etico-economici intorno al credito dal punto di vista cristiano, in UNIONE CATTOLICA PER GLI STUDI SOCIALI IN ITALIA, Atti e documenti del secondo congresso cattolico italiano degli studiosi di scienze sociali tenutosi in Padova nei giorni 26, 27, 28 agosto 1896, Padova 1897, ristampato in TTE, V, pp. 485-521. Sulle banche di credito popolare tedesche v. L. LUZZATTI, La diffusione del credito e le banche popolari, a cura di P. PECORARI, Venezia 1997, pp. 87-101. Sul movimento delle casse rurali v. L. MOTTA, Credito popolare e sviluppo economico, l’esperienza di una banca locale lombarda fra il 1874 e il 1907, Milano 1976, pp. 319; P. CAFARO, Per una storia della cooperazione di credito in Italia, le casse rurali lombarde (18831963), Milano 1985, pp. 13-53; F. BOF, Genesi e primi sviluppi delle Raiffeisenkassen nella Marca (18921915), in Un secolo di cooperazione di credito nel Veneto, le casse rurali ed artigiane, a cura di G. ZALIN, Roma 1985, pp. 169-192; ID., Le casse rurali nella marca trevigiana tra ’800 e ’900. Alle origini della cooperazione cattolica di credito nelle campagne venete, Treviso 1992, pp. 19-45, 132-147; ID., La cassa rurale di Orsago. Cent’anni di vita nella storia del movimento cooperativo dell’Alto trevigiano 1895-1995, Pordenone 1995, pp. 45-58; ID., Le origini della Banca popolare, in Storia della Banca popolare vicentina, a cura di G. DE ROSA, Roma-Bari 1997, pp. 63-64. 985 TTE, IV, p. 206. 986 TTE, IV, p. 207. 987 TTE, IV, p. 208.

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di pensione istituite, amministrate, [e] sussidiate» dagli industriali, «case operaie», e ancora «asili infantili», «scuole gratuite» e «biblioteche circolanti» 988. Per attuare un maggior «coordinamento degli interessi materiali» tra imprenditori e lavoratori, particolare importanza riveste la «riforma del sistema rimuneratorio». Segnatamente, grazie alla «mercede a compito» al posto di quella a tempo, l’operaio può aumentare la propria retribuzione impiegando maggiore intensità di lavoro 989; «mediante la partecipazione» ai profitti finali, ai redditi propri dell’operaio si aggiungono quelli del capitalista; infine, attraverso «la partecipazione al capitale» delle industrie, che da individuali divengono collettive, gli operai, con l’acquisto di «minute azioni», assumono «dignità e importanza di soci capitalisti» 990. L’efficacia di tali istituti dipende «in gran parte dallo spirito morale» proprio delle classi degli imprenditori e dei lavoratori 991. Infine, il Toniolo tratta della «legislazione sociale propriamente detta» intendendo per essa l’introduzione di «provvidenze tutrici e promotrici dei pubblici poteri» volte a «mantenere ed eventualmente restaurare l’integrità e il regolare sviluppo dell’organismo sociale» 992. Trovata origine in Inghilterra, essa si è diffusa «gradualmente in ogni Paese civile». Il Toniolo distingue «leggi speciali di 988

TTE, IV, p. 208-209. I vantaggi economici della retribuzione a compito sono ricordati anche dal RICCA-SALERNO (La teoria del salario nella storia delle dottrine e dei fatti economici, pp. 101-102): «il salario a compito eccita maggiormente l’attività degli operai, ed arreca ai capitalisti un guadagno più che proporzionale all’aumento di spesa, in quanto accresce la durata e intensità del lavoro». Egli ricorda come «parlando delle costruzioni navali a Dumbarton, il Denny, dic[a] che col lavoro a compito si è aumentato il prodotto del 75%, mentre la somma dei salari crebbe del 50%, in guisa che vi ebbe per l’imprenditore un guadagno del 15 o almeno del 14% sul costo di produzione». 990 TTE, IV, p. 209. Secondo G. LEGRAND (Principi e realizzazioni nell’opera di Giuseppe Toniolo, in Raccolta di scritti in memoria di Giuseppe Toniolo nel decennio della sua morte, Milano 1929, p. 50) «la partecipazione operaia ai profitti e all’organizzazione dell’industria non avrà per lui [il Toniolo] nulla di condannabile in sé; che l’operaio sia azionista e insieme salariato dell’azione, tanto meglio! Ne avranno vantaggio tanto l’operaio che il padrone, giacchè tale loro attitudine è di collaboratori e non di rivali; unione di classe perciò e non guerra di classe!». 991 Infatti, «guai se da parte degli imprenditori porgesi argomento al sospetto che gli istituti benefici, piuttosto che largiti da un senso di dovere morale e di santa carità sociale, sieno introdotti per deferenza alle esigenze dei tempi o soltanto per calcoli mercanteschi; le beneficenze sembrano allora agli occhi degli operai obbligazioni giuridiche e alimentano, più che la riconoscenza, la pretensione. Guai se negli operai non domini lo spirito di moderazione, disposto ad agevolare agli imprenditori un compito benefico […]. I conflitti ripullerebbero sotto altra forma a comprimere egualmente lo slancio della produzione moderna e a dissolverne l’organismo» (TTE, IV, p. 209-210). 992 TTE, IV, p. 210. È fondamentale porre l’accento sul ruolo che il Toniolo riconosce all’organismo sociale, inteso come «aggregazione primitiva e spontanea». Esso, infatti, è dotato di «un modo di essere e di comportarsi suo proprio e distinto dalla organizzazione giuridico-autorevole della stessa nello Stato». Nel suo saggio Dei fatti fisici e dei fatti sociali nei riguardi del metodo induttivo (1872) il Toniolo esprime la sua concezione dello Stato. Scrive SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 70): «lo Stato quindi è distinto della “società” civile, ma non separato, quasi fosse un ente a sé stante, poiché è proprio l’organismo sociale che si struttura come ordinamento giuridico – e diviene Stato – per dare forza coattiva e sicurezza alle esterne relazioni dei propri membri». 989

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protezione del lavoro», «leggi promotrici e adiutrici del movimento ascendente delle classi operaie» e «provvidenze aventi indole e ufficio più generali» 993. Le prime sono state emanate per «impedire esorbitanze o colpevoli negligenze degli imprenditori» nei confronti degli operai. Rientrano in tale categoria tutti gli atti giuridici tesi a limitare l’orario lavorativo per donne e adolescenti 994, a introdurre un limite minimo di età per essere assunti, a garantire «l’igiene negli stabilimenti», la «morale» e la «sicurezza» e a «conciliare la necessità del lavoro colla cultura dello spirito e il soddisfacimento di doveri superiori» 995. Con le leggi «promotrici», lo Stato svolge un’azione d’integrazione del movimento ascendente di emancipazione delle classi operaie e di soccorso «delle classi superiori a pro delle inferiori». Sono contemplate tra esse l’istituzione delle «casse di risparmio postali» e delle «casse governative per le pensioni», nonché la nascita di «scuole speciali d’arti e mestieri» 996 a favore dell’educazione dei lavoratori. Da ultimo, le leggi di carattere generale si riferiscono massimamente alla «riforma del sistema tributario» 997, affinché esso non si dimostri troppo gravoso 993

TTE, IV, p. 210-211. Nel proporre tale distinzione, il Toniolo si rifà a quanto trattato dal Luzzatti in L. LUZZATTI, La legislazione sociale nel parlamento inglese, «Giornale degli economisti», 1 (1875), pp. 14-15. Infatti, scrive PECORARI (Economia e riformismo nell’Italia liberale, p. 111), «il Luzzatti distingue gli Atti protettivi (Protective Acts) da quelli emancipatori (Enabling Acts) e di carattere generale (Acts of General Benefit)». 994 Il Ricca-Salerno ci fornisce una serie di interessanti dati riguardanti il fenomeno del lavoro femminile e minorile: «nel Belgio [1887] di 385.051 operai, impiegati in varie industrie», ben «24.709» avevano meno di 14 anni, «38.336 fra i 14 e i 16 anni» e le donne erano «53.871». A ciò si aggiungeva che il salario di donne e minori era inferiore a quello dei maschi adulti. Lo dimostrano i dati contenuti nella seguente tabella dove «il loro salario è, relativamente a quello degli adulti, rappresentato dalle seguenti cifre percentuali»: Mosca Massachusetts Inghilterra Donne 73.09% 51.39% 40.92% Adolescenti 51.34% 43.04% 29.06% Fanciulli 35.88% 32.15% 9.56% Fonte: i dati, desunti da Ricca-SALERNO (La teoria del salario nella storia delle dottrine e dei fatti economici, pp. 153 e 189), sono stati da me elaborati. 995 TTE, IV, p. 211. Sulla definizione del Luzzatti degli «Atti protettivi» v. PECORARI, Economia e riformismo nell’Italia liberale, pp. 111-113. 996 TTE, IV, p. 211. 997 Sulla riforma del sistema tributario cfr. G. TONIOLO, Riforme del sistema tributario, in UNIONE CATTOLICA PER GLI STUDI SOCIALI IN ITALIA, Atti e documenti del secondo congresso cattolico italiano degli studiosi di scienze sociali tenutosi in Padova nei giorni 26, 27, 28 agosto 1896, Padova 1897, ristampato in TTE, V, pp. 485-521. Il testo riporta l’intervento «di Giuseppe Toniolo sulla relazione svolta da Anastasio Rossi in materia tributaria al secondo congresso dell’Unione cattolica per gli studi sociali in Italia (Padova, 26-28 agosto 1896)». La tesi del Rossi, argomenta PECORARI (Toniolo, un economista per la democrazia, pp. 111-112), «favorevole alla progressione» d’imposta, «aveva suscitato perplessità in vari congressisti (ad esempio, Antonio Malvezzi Campeggi, Romolo Murri e Giuseppe Alessi)». Seguì l’intervento del Toniolo che «fu decisivo per l’accoglimento della tesi rossiana. L’ordine del giorno conclusivo votato dal congresso fu però alquanto sfumato, recitando testualmente che “qualunque sistema di contribuzioni debba il più pos-

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«sopra i consumi di prima necessità» 998 e sia in grado di calmierare quella che oggi definiamo la dinamica crescente del costo della vita. L’intervento legislativo è «un dovere dello Stato», chiamato a contribuire al mantenimento dell’«equilibrio sociale» con un’azione «proporzionata alle condizioni specifiche di fatto delle singole classi sociali». I buoni risultati della legislazione sociale nel suo triplice dispiegarsi trovano origine prima nell’«autoenergia della classe operaia» e «negli incoraggiamenti delle classi superiori e dirigenti». L’azione dello Stato imprime a l’«attività spontanea del corpo sociale unità, coordinamento, continuità» 999.

sibile accostarsi ai criteri della giustizia distributiva e di economia finanziaria, espressi dalle seguenti formule: una tenue progressività dell’imposta, insieme coll’esenzione delle quote minime; la semplificazione dei tributi sia nel numero che nei metodi di prelevazione; e infine la preferenza delle imposte dirette insieme colla riduzione di quelle indirette (in ispecie del dazio consumo)”». 998 TTE, IV, p. 212. 999 Ibidem. Da queste considerazioni emerge che l’intervento dello Stato nella concezione tonioliana, come sostiene PECORARI (Giuseppe Toniolo e il socialismo, p. 184), «non significa staticità delle classi popolari, e neppure sclerosi del loro interno dinamismo, bensì processualità concomitante, correlata, con reciproche implicazioni, pure nella ribadita priorità di una iniziativa che per “inderogabile obbligo morale” (dovere non diritto) incombe su chi in qualche modo meglio può o più possiede».

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7 N OTA BIOGRAFICA Giuseppe Toniolo nasce a Treviso il 7 marzo 1845. L’ambiente familiare riveste grande importanza nella sua formazione. La madre, Isabella Alessandri, di origine armena, donna radicata in parrocchia e dotata di profonda «religiosità e sensibilità», educa il giovane Toniolo al «cristocentrismo e alla pietà mariana» 1000. Il padre, Antonio, stimato ingegnere originario di Schio, nel Vicentino, si è «distinto nella direzione dei lavori di bonifica delle valli veronesi e ostigliesi». La famiglia Toniolo non mette radici a Treviso, ma si trasferisce in varie città del Veneto 1001, da Vicenza a Verona, da Rovigo a Padova, in relazione alle esigenze che la professione del padre impone. All’età di soli nove anni il piccolo Giuseppe viene affidato alle cure dei religiosi del collegio di Santa Caterina, a Venezia. Il collegio, fondato da Eugenio Napoleone viceré d’Italia e principe di Venezia nel 1807, è un ambiente «di studi seri, dove egli frequenta successivamente il ginnasio e il liceo» 1002. Qui conosce Giacomo Zanella e Luigi Dalla Vecchia, «uomo di solida cultura e robusta spiritualità» 1003. Superato brillantemente l’esame di maturità, nel 1863 il Toniolo si iscrive alla facoltà politico-legale dell’Università di Padova. In città trova un ambiente laicista e massonico 1004, nel quale non fa ostentazione del proprio sentire religioso, ma neppure lo tiene nascosto. All’Università è allievo di docenti «in gran parte liberalmoderati, quali il Luzzatti, il Messedaglia e il Lampertico». È altresì «allievo di Giambattista Pertile, Giampaolo Tolomei e Luigi Bellavite» 1005. Il 27 giugno 1867 consegue la laurea; il 28 dicembre 1868 è nominato «assistente alla cattedra giuridico-politica dell’Università di Padova»; il 30 agosto 1873 consegue l’abilitazione alla libera docenza privata di economia politica; il 5 dicembre 1873, all’età di soli ventotto anni, legge di fronte ai suoi maestri padovani la prelezione intitolata Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche. Nel 1874 1000

PTD, p. 636. Le condizioni di vita nel Veneto dell’epoca lasciano certamente il segno nella formazione del Toniolo. Quella sotto i suoi occhi è una regione fortemente rurale e povera, la cui attività principale è costituita da un’agricoltura poco progredita; un’area geografica che, sotto la dominazione austriaca, sconta alti tassi di emigrazione. 1002 D. SORRENTINO, L’economista di Dio. Giuseppe Toniolo, Roma 2001, p. 22. 1003 Ibidem. 1004 Cfr. PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo, pp. 22-23. 1005 PTD, p. 636. 1001

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viene nominato «professore reggente di economia politica, statistica e diritto amministrativo nel regio istituto tecnico di Venezia, conseguendo la titolarità nel 1876» 1006. Dal 20 marzo 1878 al 13 gennaio 1879 è titolare della cattedra di economia politica all’Università di Modena 1007, per poi passare all’Università di Pisa, dove insegnerà fino al 1917 1008. Gli anni che vanno dal 1879 al 1889 vedono il Toniolo

impegnato

in

«una

fervida

attività

intellettuale»,

segnata

dall’approfondimento della conoscenza della «cultura cattolica tedesca» e dall’allargamento dei «propri orizzonti al mondo scientifico franco-belga» 1009. Il 4 settembre 1878, nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta di Pieve di Soligo, sposa Maria Schiratti, che lo seguirà prima a Modena e poi a Pisa 1010. Negli stessi anni il Toniolo inizia la sua attività all’interno del movimento cattolico organizzato nell’Opera dei Congressi 1011. Il suo contributo si indirizza «di preferenza alla sezione seconda dell’Opera» 1012, diretta dall’amico Stanislao Medolago Albani. Essa è denominata Economia e carità e si occupa delle «iniziative cattoliche nel campo sociale, [dei] circoli e unioni operaie, [delle] società di mutuo soccorso cattoliche, [delle] associazioni per il miglioramento delle case operaie, [delle] casse rurali, [delle] cooperative, ecc.» 1013. Nel 1889 fonda l’Unione cattolica per gli studi sociali 1014. La «prima adunanza» si tiene «il 29 dicembre nell’episcopio di Padova con il patrocinio di mons. Giuseppe Callegari, amico ed estimatore del Toniolo» 1015. Il neonato «so-

1006

PTD, p. 637. Cfr. G. RUSSO, Giuseppe Toniolo a Modena, in Attualità del pensiero di Giuseppe Toniolo, a cura di M. L. FORNACIARI DAVOLI-G. RUSSO, Milano 1982, pp.153-158. 1008 Cfr. VISTALLI, Giuseppe Toniolo, pp. 641-648. D. SORRENTINO, Giuseppe Toniolo. Una biografia, Cinisello Balsamo 1988, pp. 57-66. 1009 Ibidem. 1010 Cfr. VISTALLI, Giuseppe Toniolo, pp. 77-88; SORRENTINO, Giuseppe Toniolo. Una biografia, pp. 43-56; ID., L’economista di Dio, pp. 41-52. 1011 Sull’Opera dei Congressi v. S. TRAMONTIN, L’intransigentismo cattolico e l’Opera dei Congressi, in Storia del movimento cattolico in Italia, volume primo, diretta da F. MALGERI, Milano 1981, pp. 32-36. Cfr. P. SCOPPOLA, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma 19632, pp. 21-42; G. CANDE3 LORO, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1974 , p. 237; G. SPADOLINI, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Milano 1976, pp. 213-324; T. BORLA, L’opera dei congressi e la democrazia cristiana nel pensiero di Giuseppe Toniolo, in Il pensiero economico-sociale di Giuseppe Toniolo, a cura di R. MOLESTI-S. TRUCCO, Pisa 1990, pp. 33-49; G. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Roma-Bari 19962, pp. 205-224. 1012 A. ARDIGÒ, Toniolo: il primato della riforma sociale per ripartire dalla società civile, Bologna 1978, p. 17. 1013 Ibidem. 1014 Cfr. SORRENTINO, Giuseppe Toniolo. Una biografia, p. 75-78. 1015 PTD, p. 638. 1007

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dalizio intendeva occuparsi di “tutte le scienze sociali (distinte dalla politica) fino a quella comprensiva e sovrana che è la dottrina dell’incivilimento o (come comunemente oggi si dice) sociologia” […], non trascurando le discipline ausiliarie quali l’etnografia, la biologia, la storia, la statistica, ecc.», nella consapevolezza del ruolo centrale affidato al cristianesimo e alla Chiesa, il tutto nell’ottica di una «cultura» avente «un indiscutibile primato sulle contingenze della prassi». Le conseguenze che il sistema capitalistico moderno aveva inevitabilmente portato nella realtà sociale, la questione del proletariato, l’avanzata del socialismo, gli stessi contenuti della Rerum novarum promulgata da Leone XIII il 15 maggio 1891, spingono il Toniolo «a redigere Il programma dei cattolici di fronte al socialismo, che fu discusso e approvato da un’assemblea dell’Unione convocata a Milano il 2-3 gennaio 1894» 1016. Il documento, scrive Paolo Pecorari, «presenta […] alcuni caratteri di inequivocabile novità: 1) distingue tra “socialismo dottrinale” e movimento operaio, apprezzato quale strumento di resurrezione popolare; 2) insiste sul concetto di “popolo”, sacrificato dalla “rivoluzione borghese”; 3) prende atto del “dissesto dei volghi campagnoli” e propone quale rimedio la ricomposizione dei “patrimoni collettivi degli enti morali e giuridici, delle opere pie, delle corporazioni religiose, della Chiesa, che furono ritenuti sempre quasi il tesoro riservato al popolo”» 1017. Con tale programma il Toniolo «supera i limiti del solidarismo tradizionale» e propone la «ricostituzione dei patrimoni collettivi […] da mettere a frutto per il bene comune» 1018. Lo stesso documento sottolinea la necessità della «diffusione della piccola proprietà contadina», della «partecipazione agli utili delle aziende» da parte del salariato e apre la strada alla costituzione del «movimento sindacale cattolico riconoscendo la possibilità di costituire associazioni esclusivamente operaie per tutelare i diritti del lavoratore di fronte ai padroni» 1019. Al Congresso di Fiesole del settembre 1896 il Toniolo «affronta i problemi tra cristianesimo e credito». In tale occasione egli insiste «sulle agevolazioni creditizie alla piccola proprietà agricola, sullo sviluppo delle casse di risparmio, sul collegamento tra istituti di credito cattolici, sulla necessità di “cristianizzare” in nome della giustizia e carità evangelica “il più ribelle e fedifrago degli stru1016

PTD, p. 639. Ibidem. 1018 PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, p. 11. 1019 PTD, p. 639. 1017

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menti del progresso economico, il capitale trafficante nei prestiti e nelle usure”» 1020. Intanto all’interno dell’Opera dei Congressi i contrasti continuano 1021. «L’avallo» dato dal Toniolo nel 1897 alla «democrazia cristiana» ha l’effetto di accentuare «i sospetti che la vecchia dirigenza dell’Opera nutre nei suoi confronti» e di far rimanere delusi «i “giovani”, i quali, specialmente dopo la crisi del ’98 (un’unica repressione aveva colpito tanto i socialisti quanto i cattolici), chiedevano un profondo rinnovamento dell’organizzazione»1022. Il Toniolo, anch’egli convinto della necessità di un profondo rinnovamento, propone che della presidenza dei comitati parrocchiali e diocesani dell’Opera facciano parte «i rappresentanti “di tutte le istituzioni autonome” cristiane (società di mutuo soccorso, casse rurali, cooperative, ecc.)» 1023. Il Comitato permanente «approvò “di massima” i suoi suggerimenti, ma di fatto li insabbiò». I contrasti proseguirono e «tra il 1903 e il 1904 la situazione precipitò». Quando nel 1904 Pio X sciolse l’Opera dei Congressi «il Toniolo giudicò l’evento “subitaneo” in apparenza, ma “remotamente ponderato” nella sostanza» 1024. Lo scioglimento dell’Opera dei Congressi però «chiudeva un tipo di presenza dei cattolici italiani non la presenza stessa»; essa «archiviava una formula, ma lasciava sussistere le forze, le passioni e i contrasti che la formula rappresentava» 1025. «Durante il pontificato di Pio X […] il Toniolo gode del favore degli ambienti vaticani» 1026 e gli viene assegnato il compito, «insieme con il Medolago e il Pericoli», di elaborare «alcune proposte operative» riguardanti «il nuovo assetto da dare alle forze cattoliche» in relazione alla partecipazione alla vita politica. Sugli «Statuti di Firenze» nascono «le tre Unioni: popolare, economico-sociale

1020

PTD, p. 640. Cfr. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia, pp. 75-77. 1022 PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, p. 187. Cfr. P. A. BRUCCOLERI, Giuseppe Toniolo, il milite della democrazia cristiana, in Raccolta di scritti in memoria di Giuseppe Toniolo nel decennio della sua morte, pp. 35-46; SCOPPOLA, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, pp. 54-68; CANDELORO, Il movimento cattolico in Italia, p. 266; PECORARI, Economia e riformismo nell’Italia liberale, pp. 69-82; F. TODESCAN, Giuseppe Toniolo e il problema della democrazia, Vicenza 1999, pp. 7-16. 1023 PTD, p. 641. 1024 PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, p. 187-188. 1025 G. B. GUZZETTI, Il movimento cattolico italiano dall’unità ad oggi, Napoli 1980, p.186. Cfr. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia, pp. 205-223. 1026 PTD, p. 642. 1021

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ed elettorale» 1027. Della prima il Toniolo ricopre la carica di «presidente effettivo per quattro anni», per poi diventarne presidente onorario dal 1912. La «progressiva attenuazione del non expedit» trova nel Toniolo un «riservato consenso», sentendosi egli estraneo alla politica e desideroso, invece, di impegnarsi in campo sociale e nel «lavoro scientifico». Importanti sono i contributi che dà alle Settimane sociali in tema di salario (1907), di legislazione sociale (1909), di unioni professionali (1911). Quanto all’attività organizzativa, è da segnalare il suo impegno per la costituzione della Società cattolica italiana per gli studi scientifici e per la nascita di una Università cattolica in Italia. «Sul piano degli studi, va ricordato l’interesse del Toniolo per la sociologia, che egli considerava […] come sintesi di tutte le scienze» 1028. Volendo seguire una distinzione dello Spicciani 1029, potremmo suddividere lo «sviluppo del pensiero scientifico» del Toniolo in due «momenti sostanziali e distinti, anche se non separati». Da un lato troviamo il «giovane Toniolo», nel quale emergono i debiti culturali nei confronti «dei liberisti Angelo Messedaglia e Luigi Cossa» e l’interesse per gli «ideali “interventisti” di Luigi Luzzatti, di Fedele Lampertico e di tutto il gruppo degli altri economisti veneti che facevano capo al Giornale degli economisti, tribuna dei “socialisti della cattedra” italiani» 1030. Dall’altro abbiamo «il Toniolo professore» all’Università di Pisa, che «prende sempre più le distanze dallo Historismus dei suoi colleghi prussiani», teme il loro «panteismo di Stato» ed «elabora il suo discorso economico in sempre maggiore sintonia con il nuovo indirizzo neoscolastico dell’Università di Lovanio». Volendo tracciare un breve profilo di Toniolo economista, dobbiamo ricordare come egli abbia elaborato «non meno di novantasette scritti su materie economiche, e settantasei su materie varie con riferimenti a questioni di economia sociale, costituenti un complesso di poco meno di duecento documenti dot-

1027 Ibidem. Cfr. GUZZETTI, Il movimento cattolico italiano dall’unità ad oggi, pp. 188-193. Scrive CANDELORO (Storia del movimento cattolico in Italia, p. 322): «a presiedere l’unione popolare, che cominciò a funzionare nel dicembre 1906 quando fu inaugurato a Firenze l’Ufficio centrale, fu chiamato il Toniolo. Alla presidenza dell’Unione economico-sociale, che ebbe, come già il Secondo gruppo, la sede centrale a Bergamo, fu confermato il Medolago Albani. Alla presidenza dell’Unione elettorale, che ebbe la sede centrale a Roma, fu chiamato l’avvocato Filippo Tolli». 1028 Ibidem. 1029 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 185. 1030 Cfr. PECORARI, Sull’opera economica del giovane Toniolo, pp. 19-52.

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trinali, compresi fra le due date estreme 1871 e 1917» 1031. La sua produzione scientifica può essere suddivisa «per comodità di studio [in] tre periodi specifici». Il primo va «dalla libera docenza del 1872 al suo arrivo a Pisa», avvenuto nel febbraio del 1879. In questi anni il Toniolo si preoccupa di «definire la sua posizione scientifica entro l’agitato mondo degli economisti italiani di allora» e si applica principalmente allo studio «del momento economico della distribuzione del reddito» 1032. Risalgono a tale periodo: Delle banche popolari in relazione agli interessi dell’agricoltura 1033; Dei fatti fisici e dei fatti sociali nei riguardi del metodo induttivo 1034; Il quesito delle piccole imprese nell’odierno momento storico. Saggio sulla economia delle piccole industrie 1035; Delle varie forme di rimunerazione del lavoro in rapporto colla partecipazione degli operai ai profitti degli imprenditori 1036; Sulla teoria della rendita. Lettera al senatore F. Lampertico a proposito del suo libro “La proprietà” 1037; Il salario. Saggio di una esposizione sistematica delle sue leggi 1038. Sempre a questo periodo appartengono il volume Sulla distribuzione della ricchezza 1039 e la prelezione intitolata Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche, letta dinanzi ai maestri padovani il 5 dicembre 1873 1040. In Dei fatti fisici e dei fatti sociali nei riguardi del metodo induttivo il Toniolo si rifà alle «pregevolissime pubblicazioni dell’on. Prof. Messedaglia» e alle «splendide lezioni all’Università di Padova» 1041 del Luzzatti. In questo lavoro troviamo espressa la necessità di «partire dalla osser-

1031

MARCONCINI, Profilo di Giuseppe Toniolo economista, p. 8. Per un’elencazione delle opere del Toniolo suddivise per materia e anno di pubblicazione rimando al sopra citato lavoro di Marconcini e, segnatamente, alle pp. 73-95. 1032 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 64. 1033 «Rivista periodica dei lavori della R. Accademia di scienze, lettere ed arti in Padova», 20 (1871), pp. 81-113, ristampato in TTE, V, pp. 409-436. 1034 «Archivio giuridico», 10 (1872), pp. 178-212. Il testo, letto il 23 giugno 1872 alla Regia Accademia Padovana di scienze, lettere e arti, è ora ristampato in TTE, II, pp. 219-265. 1035 «Rassegna di agricoltura, industria e commercio», (1874), ristampato in TTE, IV, pp. 3-41. 1036 «Giornale degli economisti» 1 (1875), pp. 282-301, ristampato in TTE, IV, pp. 42-64. 1037 «Giornale degli economisti» 4 (1877), pp. 345-361, 465-481, ristampato in TTE, IV, pp. 65102. 1038 «Giornale degli economisti» 7 (1878), pp. 261-280, 343-364; 8 (1878) pp. 267-289. Il testo è ora ristampato in TTE, IV, pp. 214-291. 1039 Il suddetto testo accoglie una sintesi delle lezioni tenute dal Toniolo quando era docente di economia politica all’università di Padova. Pubblicato per i tipi della Ed. Drucker e Tedeschi nel 1878, è ora ristampato in TTE, IV, pp. 103-213. 1040 La prelezione è ora ristampata in TTE, II, pp. 266-292. 1041 TTE, II, p. 220, nota 1.

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vazione dei fatti» per pervenire successivamente alla definizione di «leggi veramente universali e costanti» 1042. Un’attenzione particolare va rivolta alla prelezione del 1873, nella quale il Toniolo vuole «combattere il determinismo con cui molti studiosi snaturano il fenomeno economico svuotandolo del contenuto etico» 1043. Egli si rende conto che occorre combattere «contro questa pretesa neutralità della scienza di fronte alle valutazioni etiche» 1044, contro una concezione positivistica tutta ottocentesca «che esclude già in partenza ogni tendenza finalistica» e relega i valori etici a ricoprire la posizione di «elementi esogeni» 1045. Nella prelezione l’interesse individuale viene riconosciuto come uno «dei motori dell’umana operosità» 1046, ma è ben lontano dall’essere considerato come l’unico e dal diventare di conseguenza «il supporto principale dell’economia politica» 1047. L’homo oeconomicus è troppo astratto per rendere appieno l’uomo nella sua interezza, e il distacco dell’etica dal fenomeno economico è un’evidente forzatura della realtà delle cose. Non per questo il Toniolo sottovaluta l’importanza dell’interesse individuale, tanto da affermare che esso «rimane pur sempre il centro di gravità della statistica sociale» 1048. Non siamo in presenza di una «sottovalutazione, o svalutazione, dell’interesse personale inteso quale fattore di crescita della vita economica e civile»; emerge semmai «la consapevolezza dei limiti di ogni postulazione astrattiva dell’homo economicus» 1049. Affermare però che «l’utilità individuale» rappresenta «l’unico principio dinamico della vita collettiva» è un «errore filosofico»,

1042

SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 67. «Presa pure una qualunque società che offra le dovute condizioni di ampiezza, le leggi che si effettuano in essa non hanno il carattere di assoluta universalità, ma sono piuttosto la risultante di una combinazione degli elementi essenziali ad ogni consorzio civile, con altri accidentali (come le condizioni di suolo, di stirpe, di civiltà nelle molteplici loro varietà e gradazioni)» (TTE, II, p. 241). 1043 VISTALLI, Giuseppe Toniolo, p. 680. 1044 Scrive F. VITO (Prefazione, in TTE, I, p. XVIII, in corsivo nell’originale): «si trattava di dimostrare che indifferente rispetto all’ordine dei valori può essere che indaga i rapporti tra le pietre o le piante o gli animali o gli astri o gli atomi o le molecole o i numeri, ma non chi si sforza di comprendere il risultato dell’azione umana, libera e consapevole, e perciò operante al di fuori di ogni vincolo deterministico». Infatti (ivi, p. XIX, in corsivo nell’originale) «là dove la materia da investigare è intessuta di libere decisioni della volontà umana è impossibile giungere a generalizzazioni valide prescindendo dalla valutazione dei fini». 1045 MOLESTI, L’economia sociale di Giuseppe Toniolo: il Trattato, p. 94. 1046 TTE, II, p. 269. 1047 PECORARI, Sull’opera economica del giovane Toniolo, p. 31. 1048 TTE, II, p. 284. 1049 PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, p. 17. Scrive SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 176): «Tentò [il Toniolo] di lavorare non su un ipotetico e astratto homo oeconomicus, che si suppone agisca mosso dalla razionalità dell’interesse personale, ma piuttosto sulla osservazione diretta dell’uomo così come si presenta di luogo in luogo e di tempo in tempo, con la molteplicità dei suoi reali moventi economici».

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un «errore di fatto», un «errore di metodo» 1050. Infine è l’uomo «la causa efficiente e massima delle leggi sociali ed economiche» 1051 e nulla concorre a meglio indirizzarle «quanto la coscienza della propria dignità morale» 1052. La prelezione è per il Toniolo una pubblica adesione al metodo della prima (o vecchia) scuola storica tedesca 1053. Il secondo periodo va dal 1880 al 1900. In esso il Toniolo approfondisce i temi della «storia economica medioevale e moderna». Infatti, «l’incontro con la cultura tedesca» si rivela fondamentale nell’indirizzare i suoi interessi scientifici verso la storia economica, «la quale assume un ruolo centrale nella sua attività di studioso durante gli anni ’80» 1054. Grazie al Cossa, al Messedaglia e al Lampertico il Toniolo apprezza «il recupero, operato dal Roscher, della storicità quale componente essenziale della scienza economica» 1055. Egli pubblica così una decina di saggi, nella cui parte finale «la ricostruzione storica» diventa «modello interpretativo […] della realtà economica del suo tempo» 1056. Rientra fra i lavori del periodo considerato Dei remoti fattori della potenza economica di Firenze nel Medio Evo 1057. Come avverte lo stesso Toniolo nella prefazione, non si tratta di un «lavoro di erudizione storica», bensì di uno studio che, «risalendo più addietro nell’ordine delle cause generatrici», ha l’obiettivo di indicare i fattori che «prepararono ed educarono remotamente le attitudini e virtù economiche» 1058 del popolo fiorentino. Seguendo il metodo della scuola storica tedesca, egli individua

1050

TTE, II, p. 284. TTE, II, p. 283. PECORARI (Ketteler e Toniolo, p. 50) sostiene che il Toniolo con tale affermazione rinvia esplicitamente «al Minghetti (che nel 1859 aveva cercato di travalicare, appellandosi in primo luogo a ragioni di ordine etico, i limiti del puro utilitarismo, nell’opera Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto) e al Contzen (professore di economia politica ad Aquisgrana)». 1052 TTE, II, p. 274. Cfr. PECORARI, Ketteler e Toniolo, p. 51. 1053 SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 73) rileva che «l’adesione allo storicismo economico tedesco non significò per il Toniolo rinunciare alla definizione di leggi economiche generali e anche universali». PECORARI (Sull’opera economica del giovane Toniolo, p. 26) definisce quella del Toniolo un’adesione «al nuovo corso degli studi economici e storico-statistici del mondo tedesco» come «piena di cautele» e «moderata». 1054 PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, p. 22. 1055 PTD, p. 636. 1056 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 74. 1057 TONIOLO, Dei remoti fattori della potenza economica di Firenze nel Medio Evo, ristampato in TRF, pp. 3-287. Di questo periodo vanno ricordati inoltre Scolastica ed umanesimo nelle dottrine economiche al tempo del rinascimento in Toscana (Annuario della R. università di Pisa per l’anno accademico 1886-87, Pisa 1888, pp. 5-116, ristampato in TRF, pp. 291-371); Sintesi storica delle vicende economiche del Comune fiorentino dal 1378 al 1530 del 1888; La statistica nella repubblica fiorentina del 1894; Saggio sulla politica industriale e mercantile nella repubblica fiorentina del 1897. Cfr. SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 77-83. 1058 TRF, pp. 5-6. 1051

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quali cause di sviluppo economico i «fattori naturali tellurici» 1059 (e segnatamente la posizione e la conformazione geografica di Firenze), «i fattori etnici» 1060, il percorso storico-civile e, infine, «i fattori etico-economici» 1061. Dall’interazione dei quattro fattori menzionati «ciascun popolo può acquisire proprie “attitudini”, anche economiche». Quando esse diventano una costante nella storia, allora si trasformano in «tradizioni che esprimono il genio di un popolo». Le tradizioni, infine, modellano le istituzioni e il diritto. Si delinea pertanto «un tipo “normale” di sviluppo», in mancanza del quale si manifestano vere e proprie crisi sociali. Il Toniolo rileva come «l’economia moderna» sia frutto di un’ideologia liberista fautrice dell’«isolamento» del processo di sviluppo «dal contesto vitale dei popoli». Tale ideologia è l’individualismo, che non solo impedisce «il nascere di nuove tradizioni nazionali», ma è causa di «continuo e irreversibile malessere sociale» 1062. Quanto agli aspetti etico-economici, va ricordata l’importanza degli «abiti morali» sviluppatisi a Firenze e degli istituti «propugnati dalla morale cristiana» 1063, primo fra tutti la famiglia. In particolare il Toniolo cerca «nella storia la conferma dell’importanza dell’etica nella disciplina economica»: le schematizzazioni astratte, infatti, gli sembrano «manchevoli per la loro pretesa di essere assolutamente indipendenti dalla morale» 1064. Con lo studio della storia medioevale di Firenze il Toniolo attua il «proposito di mettere in evidenza l’intimo legame che unisce vita religiosa, morale, giuridica, politica – da una parte – e mondo economico – dall’altra – in un ambiente permeato dalla fede cristiana e dal pensiero scolastico» 1065. La tesi sostenuta in Dei remoti fattori, e cioè che sono le tradizioni formate dalle attitudini socio-culturali di un popolo a modellare le istituzioni, porta alla considerazione del ruolo dello Stato. Seguendo tale percorso dovrebbero autonomamente «nascere quei correttivi» indispensabili a «ridare equilibrio alle situazioni economiche anomale». L’intervento statale potrebbe così essere «artificiale» e tradursi in un atto capace di «soffocare ogni autonoma ripresa». Tuttavia il Toniolo, cosciente di trovarsi a vivere in un periodo storico peculiare, richiede 1059

TRF, p. 9, in maiuscoletto nell’originale. TRF, p. 23, in maiuscoletto nell’originale. 1061 TRF, p. 194, in maiuscoletto nell’originale. 1062 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 75-76. Cfr. TRF, pp. 278-279. 1063 S. MAJEROTTO, Prefazione, in TRF, p. X, in corsivo nell’originale. 1064 MAJEROTTO, Prefazione, in TRF, p. XIV, in corsivo nell’originale. Cfr. PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, pp. 22-30. 1060

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«un eccezionale e transitorio intervento regolatore dello Stato» 1066, uno Stato che, lontano da ogni concezione totalitaria, deve esercitare «la propria sovranità a vantaggio comune, coordinando i fini delle diverse società naturali»; inoltre, esso deve necessariamente poggiare su «tante istituzioni intermedie» e, oltre a farsi garante dell’ordine sociale, deve tendere «a far progredire la condizione morale e materiale dei cittadini» 1067. Nel corso di tali studi il Toniolo matura «un modo personale […] di intendere la ricerca storica», che non «deve assumere criteri e finalità di esterna erudizione» 1068, né essere considerata al pari di una «serie di fatti umano-sociali da cui ciascuno […] possa attingere ammaestramenti occasionali» per sostenere la propria «azione pratica», bensì deve configurarsi come «una disciplina ausiliaria delle scienze sociali», similmente alla statistica, alla etnografia e in generale a «tutte le discipline raccoglitrici e descrittive dei fatti» 1069. Il terzo periodo copre l’arco di tempo che va dall’inizio del nuovo secolo fino al 1918, anno della sua morte. Nei primi anni del Novecento il Toniolo s’impegna a «riordinare le proprie dispense universitarie per pubblicarle in un Trattato di economia sociale» 1070. Il suo intento è di «applicare e rendere manifesti i complessi legami etici intercorrenti tra l’attività economica, la persona umana e il ruolo centrale che questa (non l’individuo, né il collettivo ipostatizzato) è chiamata a svolgere nella società contemporanea» 1071. Nel 1907 il Toniolo dà alle stampe il primo volume del Trattato, l’Introduzione 1072. In esso, esponendo «i problemi metodologici e la storia dottrinale dell’economia», egli vuole dimostrare, grazie anche alle verifiche della storia, «la connessione organica che sempre esiste tra l’aspetto economico e quello

1065

VITO, Prefazione, in TTE, I, p. VII, in corsivo nell’originale. SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 80-81. Cfr. SPICCIANI, Per un diritto italiano del lavoro, pp. 27-31; TODESCAN, Giuseppe Toniolo e il problema della democrazia, pp. 19-21. 1067 R. MOLESTI, Il pensiero economico-sociale di Giuseppe Toniolo, in Il pensiero economico sociale di Giuseppe Toniolo, pp. 157-160. 1068 PECORARI, Toniolo, un economista per la democrazia, p. 26. 1069 TRF, p. 394. 1070 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 83; cfr. G. BARBIERI, Riflessioni su Toniolo storiografo ed economista, in Attualità del pensiero di Giuseppe Toniolo, pp. 49-52. 1071 PTD, p. 643. 1072 L’Introduzione ebbe una prima edizione nel 1907 e una seconda, riveduta e ampliata, nel 1915, entrambe per i tipi della Libreria editrice fiorentina. Tale volume è ora ristampato in TTE, I, pp. 15-484, (prima parte dell’Introduzione desunta dalla seconda edizione, pp.1-282) e in TTE, II, pp. 1-215 (seconda parte corrispondente alle pp. 283-410, sempre dell’edizione del 1915. 1066

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etico-giuridico» 1073. Si tratta di un chiaro tentativo di «fondazione della scienza economica su nuove basi», di un ripensamento «delle varie categorie economiche, coordinandole alla luce di una nuova visione dell’uomo e della società», di una ricollocazione al vertice dei valori «etici e religiosi» in maniera sovraordinata rispetto a quelli «finanziari ed economici», di un impegno per sottoporre «a profonda revisione i concetti dell’economia tradizionale» 1074. Quella del Toniolo è un’economia «intesa come scienza di mezzi utili» e, poiché «utilità significa attitudine a conseguire un risultato», essa è menomata in partenza «senza la conoscenza del fine» 1075. Sulla scelta dei valori etici cui far riferimento il Toniolo non ha dubbi: sono quelli dell’etica cristiana, che può considerarsi «la forma più perfetta di etica», apportatrice dei più «benefici influssi anche nella vita sociale» 1076. Nel 1909 pubblica il volume sulla produzione della ricchezza 1077, che rappresenta la «confluenza e la sintesi di tutti i suoi precedenti studi economici e storiografici» 1078. Il volume, come ricorda lo stesso autore nella premessa intitolata Una parola sulle leggi economiche, vuole enunciare le regole di «concreta esplicazione» 1079 delle leggi economiche nell’ambito appunto della produzione della ricchezza. Egli riconosce che «tutto l’ordine operativo […] si dispiega dietro l’impulso dell’utile, cioè della suprema legge edonistica», ossia «del conseguimento del massimo effetto col minimo mezzo». Così «la produzione definisce come si consegua il massimo di ricchezza o di prodotto col minimo sacrificio di 1073

SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, pp. 86-87. Scrive MOLESTI (L’economia sociale di Giuseppe Toniolo: il Trattato, p. 97): «il compito che il Toniolo si era proposto era veramente imponente e non fa affatto meraviglia che egli non sia potuto andare oltre ad una fase, per così dire, preliminare, ad una fase metodologica o logico-storica, che peraltro gli consente di metter a nudo tanti problemi, di chiarire questioni controverse, soprattutto di porre in luce il carattere parziale e deformante di tanti aspetti della scienza economica tradizionale». 1075 MOLESTI, L’economia sociale di Giuseppe Toniolo: il Trattato, p. 98. «È impossibile il concetto dell’utilità, che vuol dire attitudine a conseguire un risultato in cui sta il bene, senza il concetto del fine stesso. Veggasi infatti i dubbi che altrimenti insorgono: l’utile è il benessere individuale o sociale? Momentaneo o duraturo? E in cosa consiste questo benessere? Nella quantità assoluta della ricchezza ovvero nella distribuzione proporzionale di essa? E giusta quale criterio distributivo? È impossibile rispondere a tutto ciò senza il concetto dei fini dell’individuo, della società, dello Stato, della civiltà» (TTE, I, p. 77). Cfr. MARCONCINI, Profilo di Giuseppe Toniolo economista, pp. 52-54. 1076 MOLESTI, L’economia sociale di Giuseppe Toniolo: il Trattato, p. 99. L’insegnamento del Toniolo per MARCONCINI (Profilo di Giuseppe Toniolo economista, p. 60) «ammette la legge del tornaconto, ma la vuole connessa alle leggi di giustizia e di carità; ammette e sostiene fervidamente l’iniziativa individuale, ma la vuole connessa alla cooperazione delle classi; ammette la libertà […], ma la vuole subordinata nell’uso suo al bonum commune». 1077 La pubblicazione de La Produzione è a cura della Libreria editrice fiorentina. Dopo la morte del Toniolo furono redatte una seconda edizione (semplice ristampa senza modifiche) nel 1921 e una terza nel 1944, sempre per i tipi della stessa casa editrice. Il testo è ora ristampato dalla prima edizione in TTE, III, pp. 3-535. 1078 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 88. 1074

191

fattori (mezzi) produttivi»1080. Tali leggi però non sono definibili a priori, attraverso

un

procedimento

deduttivo,

bensì

devono

essere

la

risultante

dell’osservazione e dell’indagine storica 1081. Le leggi economiche non si manifestano mai seguendo unilateralmente la pura razionalità, ma sempre sono indirizzate e condizionate dal contesto storico, frutto dell’ambiente e dell’interazione dell’uomo e della società. Nel discorso economico rientra a pieno titolo l’etica, e segnatamente quella cristiana, non come un elemento che si «sovrappone all’economia» stessa o che limita il dispiegarsi della legge edonistica, bensì come elemento qualificante «l’economia fin da principio». La morale cristiana diviene pertanto «un essenziale strumento per discernere gli aspetti “normali” da quelli “patologici” della moderna economia» 1082. «L’ultimo contributo a carattere teoretico» del Toniolo è un discorso tenuto il 4 aprile 1909 all’Accademia dei Georgofili di Firenze e intitolato Della convenienza di tenere distinta la trattazione economica dell’industria fondiaria dalla industria agricola propriamente detta 1083. Quando il 7 ottobre 1918 la morte coglie il Toniolo, il volume La circolazione

1084

è quasi pronto, mentre il quarto volume sulla Ripartizione e consumo

della ricchezza non fu mai scritto.

1079

TTE, III, p. 3. TTE, III, p. 11. Per «ordine operativo» il Toniolo intende «il sistema delle leggi o procedimenti razionali-positivi dell’attività economico-sociale nei suoi momenti caratteristici, la produzione, la circolazione, la distribuzione, il consumo della ricchezza» (TTE, III, p. 6). 1081 Scrive SPICCIANI (Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 90-91): «al di là della legge delle proporzioni definite, che è la legge prima e fondamentale della coordinazione dei fattori produttivi (ma che in sostanza è lo stesso principio edonistico applicato a questo settore), tutte le leggi che reggono il settore produttivo della economia sono per il Toniolo ricavate dall’esperienza storica con un processo induttivo. La divisione del lavoro, l’accentramento economico e giuridico nella impresa collettiva, l’impiego progressivo delle macchine, non esprimono niente di universale, ma sono piuttosto – come egli si esprime – “ indirizzi così costanti nella storia, che possono dirsi alla loro volta leggi del progresso produttivo”». 1082 SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 92-93. 1083 Il testo è ora ristampato in TTE, IV, pp. 296-324. Cfr. SPICCIANI, Giuseppe Toniolo tra economia e storia, p. 94-97. 1084 De La circolazione uscì un’edizione postuma, a cura di J. MAZZEI (Firenze 1921) che riprodusse le bozze, peraltro non tutte rivedute dall’autore, e alcuni appunti dell’anno accademico 1911-12 del corso professato dal Toniolo all’Università di Pisa. Tale edizione è ora ristampata in TTE, V, pp. 3-405. 1080