in cui come una Cassandra che parla al vento pubblicai «La Rabbia e l'Orgoglio
». Quel grido di dolore che i Fra' Accursio definirono empio, profano, indecente ...
PROLOGO
Uomo piccante e mordace, esperto in difficili Scienze e dai giovani colti assai amato, dall'istesso Papa Giovanni ammirato e stimato ma dai nemici invidiosi assai odiato, nel 1327 Messer Francesco da Ascoli meglio noto come Mastro Cecco scrisse un polemico saggio che chiamò «Sfera Armillare». Saggio ove parlando de' tempi suoi sostenea cose tanto malgradite all'Inquisizione quanto care al popolo savio e ai savi allievi della Scuola Filosofica da lui aperta in Firenze. E giacché ciò non piacea al Duca di Calabria che oltre ad esser Signore della città era il primogenito di Roberto d'Angiò re di Napoli, e ancor meno piacea al suo primo ministro che oltre ad essere Monaco Conventuale era vescovo d'Aversa, il reo fue arrestato. Fue portato nelle carceri fiorentine del Sant'Uffizio e assegnato a tal Fra' Accursio dell'Ordine de' 9
Predicatori, per apostolica incombenza Grande Inquisitore della Provincia Toscana. Da gente che non volea o non dovea o non potea intenderne le proposizioni la «Sfera Armillare» fue adunque esaminata e giudicata libro empio, profano, indecente, abbietto, contrario alla fede ortodossa, composto a suggerimento del Diavolo, infetto della più perniciosa eresia. E quale iniquo stregone Mastro Cecco venne sottoposto per vari mesi alle più rigorose torture nonché pungolato a riconoscere le sue colpe e abiurare i suoi errori. Ma invano. Ad ogni sevizia ei rispondea che non trattavasi di colpe o errori. Che quelle cose le avea dette, le avea scritte, le avea insegnate, perché eran vere e perché ci credea. Fue così che il 20 settembre 1328 lo portarono alla Chiesa di Santa Croce per l'occasione apparata a lutto. Lo misero sopra un eminente palco a bella posta eretto e alla presenza d'un volgo innumerevole, di innumerevoli autorità, innumerevoli dottori e consultori del Sant'Uffizio, gli lessero il compendio del processo. Gli elencaron tutte le empietà del polemico saggio e di nuovo gli chiesero se volesse pentirsi, abiurare, salvare in extremis la vita. Ma di nuovo ei rifiutò. .Di nuovo rispose
che quelle cose le avea dette, le avea scritte, le avea insegnate perché erano vere, perché ci credea. E allora Fra' Accursio lo dichiarò eretico recidivo nonché irriducibile, una ruina per sé e per gli altri, una mala pianta da estirpare. Invocata la grazia di Dio e dello Spirito Santo lo condannò ad essere bruciato vivo assieme col malefico libretto più gli altri colpevoli scritti che avea dato alle stampe. Poi ordinò che le copie in possesso dei cittadini gli fossero tosto recapitate per venir distrutte entro quindici dì, aggiunse che chiunque le avesse tenute o financo occultate sarebbe stato colpito da scomunica nonché punito con castighi corporali spirituali pecuniari, e fece scendere il reo dal palco. Gli fece indossare il crudele sambenito ossia la veste coi diavoli dipinti. Gli fece mettere in capo una farsesca mitra a pan di zucchero e scalzo lo consegnò a Messer Jacopo da Brescia, esecutore di Giustizia e vicario del Braccio Secolare. La sentenzia fue eseguita dopo la sfilata del corteo previsto per ogni supplizio, e si svolse fuori di Porta alla Croce ove era stato innalzato un lungo palo nonché gran quantità di legname. Sul legname, tutte le copie della «Sfera Armillare» e degli altri vo-
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lumi che s'eran potuti rintracciare. Con somma intrepidezza, sdegnosamente conipiangendo l'ignoranza e la bigotteria e la tartu feria e il manco della Ragione dentro cui la sua epoca nivea, Mastro Cecco si lasciò legare al palo. E in breve tempo bruciò. Si incenerì come carta assieme ai suoi libri. Ma il suo pensiero rimase.
( Nota d'Autore. Racconto ricostruito sulle cronache dell'«Inquisizione in Toscana» redatte dall'abate Modesto Rastrelli e nel 1782 pubblicate dall'editore Anton Giuseppe Pagani in Firenze. Il linguaggio riproduce lo stile dell'abate che a sua volta si esprimeva con termini in uso al tempo di Mastro Cecco ma validi ancor oggi. Anche i fatti, del resto, sono in sostanza gli stessi).
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