Matilde Callari Galli PAESAGGI D'EUROPA/PAESAGGI DEL ...

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L'Europa dal XIX al XX secolo: una trasformazione radicale ... carestie, dei genocidi che hanno costellato il XX secolo, quasi schernendo con l'orrore dei.
Matilde Callari Galli PAESAGGI D'EUROPA/PAESAGGI DEL MONDO. IL DILAGARE DELLE CONTAMINAZIONI CULTURALI NELLA CONTEMPORANEITÀ 1.L’Europa dal XIX al XX secolo: una trasformazione radicale La fiducia nella risolutezza individuale di fronte alla quale nulla appare invincibile: l'impulso incontrastabile a lavorare senza requie in vista di uno scopo utile; il principio da sempre estraneo allo spirito orientale di un'eterna evoluzione e di un progresso costante; l'idea di una libertà civile basata sul governo delle leggi, un'idea che oppone alle mire imperialistiche dei despoti orientali l'altissima statuizione del diritto; ma soprattutto il fuoco dello spirito, quella fiamma che arde nell'irrequieta coscienza di sé e bandisce dalle mura della città il tempio della Quiete.

Così, concludendo il suo saggio su Le leggi della storiografia, Jakob Bachofen a metà dell'Ottocento indica ad un tempo l'eredità della Roma classica e i caratteri della supremazia culturale dell'Europa a lui contemporanea "sull'intera superficie terrestre", per citare ancora le sue parole. E questa supremazia affermata politicamente ed economicamente con i domini coloniali era illuminata da un'ideologia che "si gloriava dei progressi della scienza, del sapere e dell'istruzione e che credeva nel progresso morale e materiale",1 che era pronta ad assolvere il suo compito di leader del mondo portando il suo "fardello" per diffondere questi progressi e questi livelli di benessere ai quattro angoli della terra. Come scrive Mario Gennari: Tra i secoli XVIII e XIX Illuminismo e Romanticismo, pietismo e ortodossia protestante, economicismo smithiano e Sturm und Drang traducono linguaggi differenti in un dialogo impegnato strenuamente ad ottenere l'egemonia culturale nella Mitteleuropa e in Germania. 2

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Guardare retrospettivamente agli avvenimenti del nostro secolo ci convince a ritenere, così come hanno fatto molti storici della contemporaneità a partire da Hobsbawn, che quella sicurezza e quel dominio siano crollati clamorosamente, dimostrando tutta la loro fragilità all'apparire del XX secolo. Se come vuole Alain Peyrefitte la società moderna era stata costruita nell'arco dei secoli su un modello che prevedeva di accordare fiducia alle istituzioni, ai concittadini, alla propria capacità e abilità, oggi Zygmut Bauman può così commentare queste affermazioni: La prima - la fiducia nelle istituzioni - sta scomparendo, la seconda - la fiducia nei concittadini - è in gravi difficoltà senza la prima e resa confusa dall'andirivieni di popoli , costumi, valori, abitudini che ha invaso le nostre città e soltanto la terza - la fiducia nella propria capacità ed abilità - è rimasta sul campo della vita.3

Lo sfondo concreto a queste affermazioni può essere la sequela delle guerre, delle carestie, dei genocidi che hanno costellato il XX secolo, quasi schernendo con l'orrore dei dati le speranze e le illusioni delle ideologie delle classi medie dei secoli precedenti. Se nella prima guerra mondiale il 9O% dei morti apparteneva ai militari, già nella seconda guerra mondiale il rapporto per i morti che appartenevano alla popolazione civile era cresciuto dal 10% al 50% e nelle guerre contemporanee il 90% dei morti appartiene alla popolazione civile: ed inoltre questi dati si qualificano in tutto il loro orrore per le "pulizie etniche", le torture, le espulsioni di intere popolazioni che li accompagnono. Ed in più c’è la sorpresa con cui - abbagliati e spaventati come siamo dai lampi del terrorismo che illuminano le nostre città, i nostri mezzi di trasporto, le nostre case - apprendiamo che a metà dello scorso secolo un rivoluzionario quale era Friedrich Engels fosse inorridito apprendendo che a Westminster Hall era esplosa una bomba dei terroristi irlandesi: egli infatti era profondamente convinto che la guerra dovesse essere risolta tra eserciti e non colpendo persone inermi. 4 Tuttavia la contemporaneità - e il ruolo che l'Europa ha esercitato ed esercita in essa non possono essere giudicati in un semplice paragone quantitativo con il nostro passato:

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anche se il nostro secolo è stato il secolo più sanguinoso della storia, costellato da guerre e genocidi, anche se diseguaglianze e violenze sembrano dilagare coinvolgendo paesi democratici e paesi totalitari, anche se negli ultimi vent'anni il divario fra paesi "ricchi" e paesi "poveri" è salito in modo esponenziale, va anche detto che la speranza di vita in tutti i continenti è aumentata enormemente rispetto al passato, la mortalità infantile è diminuita in tutti i paesi del mondo, i progressi delle scienze - mediche o informatiche che siano raggiungono un gran numero di nazioni, il livello di istruzione è cresciuto per un numero di individui assai maggiore del passato e mai, in nessuna epoca tanti individui hanno ricevuto così tante informazioni. Per riflettere su accostamenti così dissonanti è forse opportuno analizzare più da un punto di vista qualitativo che quantitativo i cambiamenti della contemporaneità, una contemporaneità, non dimentichiamolo, che accoglie nel nostro pianeta un numero di abitanti inimmaginabile non tanti secoli fa ma solo nei primi decenni di questo secolo che sta finendo. Se poi la cifra di sei miliardi già ci sembra vertiginosa nel confronto col passato, la proiezione con il futuro lo è ancora di più: i demografi calcolano che tra quarant'anni la popolazione mondiale sarà raddoppiata e aggiungono un dato che fa apparire ancora più complesso il quadro. Analizzando le situazioni a livello di continenti e di specifiche regioni queste proiezioni mettono in luce l'aumento dei dislivelli già esistenti anche sotto questo profilo tra la popolazione delle aree più povere del pianeta e quella delle sue aree più in ricche. In queste la popolazione sembra destinata a diminuire ancora più drasticamente a causa di una crescente contrazione della natalità e di un prolungato invecchiamento. Ed è allora legittimo chiedersi come gli individui occupino questi spazi, quali i tempi e i modi dei loro radicamenti e dei loro spostamenti, quali le costruzioni simboliche che nel loro immaginario li guidano nelle loro scelte, che colorano i loro sogni, che avvelenano le loro disperazioni.

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2. I caratteri dell'interdipendenza culturale Migrazioni e nuovi mezzi di comunicazione di massa divengono i due fattori che qualificano la nostra contemporaneità, sia se vengono assunti ed analizzati in sé sia soprattutto se prendiamo in considerazione gli esiti insospettati e spesso sorprendenti delle loro interconnesioni. Storici, sociologi, antropologi, demografi, romanzieri e statistici sanno, da lungo tempo, che il nostro pianeta è stato sempre attraversato da gruppi migranti. Del resto la sedentarietà è una "scoperta" assai recente se proiettata sullo scenario centimillenario della storia della nostra specie che per migliaia e migliaia di anni, prima dell'"invenzione" dell'agricoltura ha nomadizzato, percorrendo interi continenti, passando dall'uno all'altro, sperimentando molte forme di rapporto tra i diversi gruppi che di volta in volta si incontravano, si integravano o si distruggevano. Anche dopo che la civiltà agricola prima e la civiltà industriale poi si affermarono, i movimenti migratori proseguirono assumendo forme diverse ma tutte di notevoli proporzioni e dalle conseguenze sempre rilevanti per l'andamento delle dinamiche culturali. Il panorama della nostra contemporaneità appare sotto questo aspetto profondamente mutato: le migrazioni sono anche oggi determinate da ragioni composite che affiancano, senza escludersi a vicenda, la ricerca di benessere alla necessità di sfuggire alla violenza della guerra e della persecuzione politica. Ma a questo livello di analisi le differenze con il passato appaiono ai miei occhi più di carattere quantitativo che qualitativo. Sempre grandi gruppi umani hanno vissuto quasi contemporaneamente "la diaspora della speranza, la diaspora del terrore, la diaspora della disperazione ".5 E le recenti immagini dei treni del Kosovo non possono non richiamare alla nostra memoria i treni piombati dell'Olocausto ma anche le navi di cittadini inglesi strappati alle carceri per popolare La riva fatale 6; così come i vestiti laceri, le scarpe sfondate, i fagotti di stracci degli esuli e dei profughi di oggi ricordano i vestiti laceri, le scarpe sfondate, i fagotti di stracci documentati nel museo costruito ad Ellis Island, nella baia di New York, a ricordo della diaspora, anch'essa carica di dolore e di speranza, che popolò, alla fine dello scorso secolo, gli Stati Uniti d'America.

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Quello che è completamente nuovo è che questi movimenti, queste diaspore, oggi, si muovono all'interno di un sistema di comunicazione ignoto nel passato, che ad un tempo dà forma al desiderio e all'oltraggio ma anche agli adattamenti, alle scelte, alle ribellioni. Sono le trasmissioni televisive che portano nelle nostre case e nelle nostre coscienze la marcia disperata di un popolo scacciato perché "etnicamente" non congeniale ad un territorio, sono le trasmissioni televisive o le comunicazioni via internet che muovono i nostri antichi rimorsi costringendoci oggi, a differenza di ieri, a non poterci nascondere dietro l'alibi della non conoscenza. Ma anche i vissuti delle vittime e dei carnefici sono attraversati, in parte determinati, comunque influenzati, dalla creazione di un immaginario collettivo che paradossalmente, proprio in un conflitto che pone alla sua base i principi di territorialità, di appartenenza etnica, trascende completamente

gli spazi delle singole

nazioni. Allargando la nostra ottica, l'intero "spazio migratorio" è stravolto dall'esistenza dei mezzi di comunicazione, dagli aereoplani ai fax, dalle trasmissioni televisive alle poste elettroniche e alle "navigazioni" su internet: gli immigrati indiani guardano, in Gran Bretagna o in Italia, le telenovelas prodotte nel loro paese d'origine, ricevono di frequente visite di parenti e amici; i tassisti pakistani percorrono le strade di Sydney ascoltando le "cassette" delle preghiere registrate nelle lontane moschee del mondo musulmano, comunicano quotidianamente con le "loro" comunità; le antenne paraboliche che affollano le finestre dei "centri di accoglienza" predisposti in Emilia Romagna per gli immigrati maghrebini portano, nelle loro povere stanze, le immagini e le voci dei loro paesi: proprio mentre si muore per una città, un villaggio, un campo, l'immaginario collettivo si allarga, raggiunge spettatori appassionati che introdurranno in spazi culturali completamente diversi le immagini trasmesse nei loro paesi di origine. I mezzi elettronici mutano l'ambiente che ci circonda ponendo gli uni accanto agli altri i "localismi" e le "globalizzazioni", mescolano a piene mani tradizioni ed innovazioni, danno agli individui e ai gruppi innumerevoli "materiali" per poter vivere l'ansia del radicamento e l'ebbrezza del nomadismo. Tuttavia quello che è importante sottolineare non è tanto questa continua offerta, questo fluire di stimoli per le nostre immaginazioni sociologiche, quanto

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piuttosto che la pervasività dei mezzi di comunicazione, il loro penetrare nelle nostre abitazioni, il loro infiltrarsi nelle nostre abitudini, introduce nella nostra vita quotidiana la trasversalità dei progetti sociali. E il richiamo alle "radici", attraversando l'etere unisce con i suoi pesanti legami emotivi, gruppi insediati nei contesti più diversi che stanno ottenendo successi o frustrazioni nel loro faticoso processo di adattamento: contemporaneamente il richiamo ad affrontare lo stesso progetto politico, può tagliare nazionalità ed insediamenti, unire gruppi dalle provenienze più disparate, può divenire mobile e potenzialmente appartenere all'umanità tutta. E queste tensioni, opposte ma analoghe nel loro potere di trasformare i tradizionali legami tra gruppi e territori, rendono ingenuo, anacronistico ed illusorio il richiamo a bilindare le frontiere di stati nazionali e di continenti. Così l'identità sotto l'incessante susseguirsi delle mille forme di comunicazione sembra svincolarsi dal territorio: annullando nella comunicazione le categorie di spazio e di tempo il Web ha decretato "la morte della distanza": le notizie si trasmettono in tempo reale, tutti sanno, o possono sapere, tutto nello stesso momento. E in una prospettiva futura sarà certamente possibile qualificare ancora di più l'informazione seguendo anche la richiesta degli utenti, i loro interessi e curiosità individuali. Senza tuttavia sognare attraverso questo mezzo di annullare differenze e dislivelli: come voleva McLuhan un nuovo codice non soppianta quelli che lo hanno preceduto ma si affianca ad essi. Nella storia della nostra specie molte forme di comunicazione si sono affermate: la comportamentale, l'orale, le diverse modalità della scrittura, della comunicazione artistica. Oggi siamo in grado di prevederne la nascita e lo sviluppo di molte altre e probabilmente in questa differenziazione la comunicazione potrà anche assumere funzioni e ruoli diversi: alcune sue forme probabilmente saranno sempre più mirate a convincere e a persuadere all’acquisto (e penso ai mezzi elettronici), altre si specializzeranno per divertire ed intrattenere i loro utenti (e penso alle trasmissioni televisive), altre ancora specializzeranno e potenzieranno il loro ruolo creativo e critico (e penso alla scrittura). Su questi ruoli, su queste funzioni diversificate, con grande probabilità, si innesteranno meccanismi differenzianti che riproporranno in forme nuove ma non certo meno crudeli le esclusioni e le discriminazioni che sempre, in ogni epoca e in ogni terra, si sono innestate sul possesso del potere della comunicazione.

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3. I luoghi della contraddizione: terre d’esilio/terre di transito Oggi sempre più numerose sono le voci che ci spingono ad abbandonare lo schema teorico che postula la rispondenza tra la collocazione geografica e la cultura. E nella letteratura si vanno affermando le analisi che si interrogano sui nuovi aspetti che assumono il cambiamento sociale e le trasformazioni culturali che avvengono non più in spazi disgiunti ma in spazi interconnessi. "E' la riterritorializzazione dello spazio, scrivono Akil Gupta e James Ferguson, che ci obbliga a riconcentualizzare, sin dalle loro fondamenta, le politiche della comunità, della solidarietà dell'identità e della differenza culturale". 7 Diaspore, emigrazioni, conflitti, non appartengono più solo a gruppi ristretti e ben definiti: in Europa vivono ormai da anni più di venti milioni di immigrati e si calcola che trenta milioni siano gli sfollati e rifugiati che nei paesi in via di sviluppo hanno lasciato le loro residenze a causa dei conflitti armati, mentre masse di esuli di cui si ignora la precisa entità provenienti sia dall'Est europeo che dai paesi in via di sviluppo si sono riversati negli ultimi dieci anni nei paesi del mondo industrializzato a ritmi sempre più sostenuti, tanto da confermare l'analisi di Julia Kristeva: "l'epoca attuale è un'epoca di esilio". 8 Questi drammi non appartengono certo solo alla contemporaneità: tutti i continenti da secoli e secoli sono stati attraversati e sconvolti da emigrazioni e guerre, il nostro secolo ha visto ai suoi esordi il massacro degli armeni, è stato punteggiato da gulag e lager, da genocidi e da Olocausti: la ricerca della "purezza" ha guidato Hitler, Mussolini ma anche Stalin, Mao e Pol Pot e continua oggi la sua rappresentazione feroce nel Kosovo, ma anche in Ruanda, in Iran e in Turchia e a Timor. Il paradosso della nostra epoca consiste nel fatto che oggi queste "purezze identitarie", con la loro ricerca di esclusività ideologica e territoriale, non aderiscono solo ad un gruppo collocato in un luogo fisico e politico ben definito ma si sono sparse in tutto il mondo. E' come se la disseminazione delle notizie aprisse più luoghi, non connessi spazialmente, ad accogliere lo stesso sogno identitario: e l'integralismo islamico mostra il suo volto feroce in Algeria e nei sobborghi parigini, l'esodo riguarda popolazioni europee ed africane tutte pronte ad imporre e a respingere, la lotta tra cattolici e musulmani scoppia feroce in Indonesia, nel Borneo gli "indigeni" massacrano gli

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immigrati, colpevoli di aver occupato le loro terre e fenomeni di intolleranza caratterizzano i rapporti tra italiani e immigrati. Nell'epoca della deterritorializzazione, dello "spazio cibernetico", il concetto di patria continua a dar forma alle nostre identità culturali, particolarmente in quelle comunità che sono sottoposta - per una ragione o per l'altra - alla diaspora e al trasferimento, sia in quelle comunità che dalle diaspore e dai trasferimenti si sentono minacciate. Troppo spesso il legame tra un luogo, la memoria e la nostalgia gioca ruoli colmi di ambiguità nell'immaginario collettivo spingendo gruppi dalle connotazioni diverse come possono essere chi chiede asilo e chi accoglie verso attaccamenti tanto appassionati quanto poco radicati nell’esperienza quotidiana, verso tradizioni spesso esaltate più dalla nostalgia che dai vissuti personali, verso politiche, costumi, istituzioni che il tempo ha ormai travolto e trasformato. A livello letterario l’ ambiguità che attanaglia i popoli migranti è stata analizzata e disvelata con grande precisione da Salman Rushdie che in Patrie immaginarie così scrive: Forse gli scrittori nella mia stessa situazione, esuli o emigrati o espatriati, sono perseguitati dallo stesso senso di perdita, da un forte senso di riappropriazione, di guardare indietro, anche a rischio di venir tramutati in colonne di sale. Ma se guardiamo indietro, dobbiamo farlo sapendo - e ciò genera incertezze profonde - che la nostra alienazione fisica dall'India significa quasi inevitabilmente non essere in grado di recuperare esattamente le cose che abbiamo perduto; e che, in breve, creeremo delle fiction, invisibili patrie immaginarie, Indie della mente.9

Del resto la contaminazione di lingue, costumi, usi e valori sta trasformando lo stesso concetto di esilio: se ancora troviamo forme di attaccamento strazianti e tenaci, se ancora a livello politico queste "patrie immaginarie" vengono spesso create, enfatizzate ed usate per alimentare fra gli esiliati e gli immigrati odi e fazioni, per arruolare truppe e risorse per future guerre tese - forse, in un futuro non ben definito - a riconquistare territori perduti, 10 numerosi scrittori - da Kundera alla Richterova, da Brodskyj alla Bachmann, alla Linhartova - nelle loro opere ammettono la difficoltà di identificare oggi un"altrove" collettivo e

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cercano di potenziare i caratteri innovativi e liberatori che può assumere oggi l'esilio. E Vera Linhartova così commenta in una recente intervista radiofonica la sua condizione di esiliate che scrive le sue opere in una lingua diversa da quella appresa da bambina: “Ho scelto il luogo dove volevo vivere, ma ho anche scelto la lingua che volevo parlare(...).Le mie simpatie vanno ai nomadi, non possiedo l'anima di una sedentaria. Anch'io posso affermare che il mio esilio è venuto ad esaudire ciò che da sempre era il mio voto più caro: vivere "altrove". Per quanto riguarda poi un approccio scientifico a questo tema mi sembra che le voci antropologiche, che hanno messo in discussione la "naturalità" della sedentarietà, le loro ricerche che, sia pur timidamente, hanno cercato di dimostrare l'"invenzione" e l'uso politico e manipolatorio di molte tradizioni che fondano culture ed etnie, non sono ascoltate con la dovuta attenzione, soprattutto sono pressocché ignorate dai mezzi di comunicazione di massa e sono pressocché assenti dai nostri programmi scolastici. Solo riconoscere che oggi il mondo è interconnesso e interdipendente, ci permette di individuare i limiti di gran parte delle politiche immigratorie, che nei loro aspetti più estremi possono essere interpretate come un potente mezzo per mantenere gli equilibri di potere tutti ed esclusivamente in favore di un "noi" immaginato assai più circoscritto e limitato di quanto per molti versi in realtà non sia. Nella vita reale, nelle esperienze quotidiane, nelle articolazioni dell'immaginario collettivo molte identità si intersecano, molti processi di identificazione si affiancano, si sovrappongono, si elidono. E le molteplicità delle suggestioni, la coesistenza di richiami colmi di contrasti rischia di tradursi immediatamente e direttamente

in un'etica "buona per tutte le stagioni", giustificatrice di ogni forma di

"egoismo proprietario". La mistura tra queste fluttuazioni e l'aspirazione a ricercare nel passato e nel presente inesistenti purezze identitarie, è estremamente pericolosa, responsabile a mio parere della ferocia di cui si colorano le mille "guerre di riconoscimento" che popolano la scena della contemporaneità. Forse dovremmo recuperare, come consiglia Bourdieu, il concetto di "distinzione" non come "diversità eccellente" ma come ricerca di orientamenti, definiti politicamente e

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storicamente fondati, per immettere nella nuova dimensione mondiale delle nostre reti di interdipendenza gli strumenti di autogoverno propri dei nuovi gruppi creati dai processi di globalizzazione. E per tornare alle osservazioni con cui ho aperto questo intervento, il problema della storia del mondo appare oggi in una luce completamente diversa da quella ampiamente diffusa sino ai primi anni del '900. E interessanti appaiono le interpretazioni di quegli storici che pongono al suo centro la continua ed affannosa interazione di forze che promuovono l'integrazione globale e di forze che ricreano l'autonomia locale. Hanno scritto Charles Bright e Michael Geyer: Al centro della nostra storia non va posta la lotta tra sistemi in evoluzione e sistemi che tenacemente la respingono. (...) Tutto sembra piuttosto giocarsi sui termini di una possibile integrazione, di una possibile convivenza. Su questo campo è in atto una lotta accesa, confusa e feroce che ha per oggetto proprio i termini di questa integrazione, proprio i modi di questa convivenza; che ha al centro chi o che cosa controlli e definisca l'identità degli individui, dei gruppi sociali, delle nazioni, delle culture. 11

Quello che va accettato, per quanto difficile e doloroso possa apparire ai nostri occhi, è che il percorso di questa lotta non è più preordinato dalle dinamiche di quella espansione occidentale che ha iniziato, molti secoli fa, un processo di integrazione globale. Come ha scritto Homi Bhabha: L'unico luogo da cui, nel mondo contemporaneo, è possibile parlare è quello in cui la contraddizione, l'antagonismo, gli ibridismi dell'influenza culturale, i confini delle nazioni, non sono "trasformati" nell' utopico senso di liberazione o di ritorno. Il luogo da cui parlare è là dove sono quelle incommensurabili contraddizioni entro cui la gente sopravvive, è politicamente attiva e cambia.12

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E. Hobsbawn, Il secolo Breve, Rizzoli, Milano, 1995, p.18.

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M. Gennari, Storia della Bildung, Editrice La Scuola, Brescia, 1995, pp. 60-61. Z. Bauman, Il teatro dell’immortalità: mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino, Bologna 1995, p.62. 4 E. Hobsbawn, op.cit., p. 26. 5 A. Appadurai, Modernity at Large, University of Minnesota Press, Minneapolia, 1997. 6 R. Hughes, La riva fatale, Adelphi, Milano, 1990. 7 A. Gupta J. Ferguson ( a cura di), Anthropological Location, University of California Press, Berkeley, p. 37. 8 A. Triulzi, “Della Vecchia giumenta e altri esili”, in Africa e Orienti, n° 1, 1999, p. 5. 9 S. Rushdie, Patrie Immaginarie, Mondadori, Milano, 1991, p.14. 10 G. Kepel, Ad Ovest di Allah, Sellerio, Palermo 1996. 11 C. Bright, M. Geyer, “For a Unified History of the World in the Twentieth Century “ in Radical History Review, n° 39, 1987, pp.69-91. 12 H. Bhabha, The Location of Culture, Routledge, London, 1994, p.18. 3

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