Andrea Luppi1. Morte del mito e sua reincarnazione. Narrazione come
conoscenza? Pensando a Platone, la prima cosa che verrà in mente è con tutta ...
Andrea Luppi1
Morte del mito e sua reincarnazione Narrazione come conoscenza?
Pensando a Platone, la prima cosa che verrà in mente è con tutta probabilità la sua teoria delle Idee; la seconda, tuttavia, sarà per molti una buia caverna contenente degli uomini incatenati. Il cosiddetto “mito della caverna” è infatti uno dei passi più celebri di questo pensatore, e forse dell’intera filosofia. Naturalmente, nessuno ha mai pensato che Platone si riferisse ad una spelonca realmente esistente, ed è anche chiaro che il sole non è che un simbolo di qualcosa d’altro. Proprio per questo si parla di “mito”, e non di resoconto o aneddoto: è chiaro a tutti che si tratta di una storia che il filosofo ha inventato allo scopo di spiegare in modo più semplice concetti altrimenti assai più complessi. È altresì facile notare un forte parallelismo con la vita e la morte del suo maestro, Socrate. Certamente quello della caverna non è l’unico mito di cui Platone si sia servito per la spiegazione dei risultati delle sue indagini filosofiche: bastino a dimostrarlo il mito di Er e quello, forse più noto, del Demiurgo (che godrà di grande fortuna nel tempo). Egli ne faceva un uso sistematico, tanto da farne in molti casi il vero e proprio centro della sua esposizione, che in loro assenza risulterebbe spesso irrimediabilmente mutilata. Ciononostante, a partire dal suo stesso allievo Aristotele in poi, la filosofia ha preso un altro indirizzo, almeno per quanto riguarda le scelte espositive: il trattato. Il racconto come aiuto alla comprensione, come similitudine “potenziata” non è del tutto venuto meno (si pensi ai famosi porcospini di Schopenhauer), né lo è il dialogo di stampo platonico (Galilei ne è un esempio). È altresì vero che pensatori come Giordano Bruno o Friedrich Nietzsche prediligevano altre forme espositive ancora, ma questa più che una smentita costituisce, a ben vedere, una prova del fatto che un codice espositivo c’era (e c’è tuttora). Entrambi questi filosofi avevano infatti forti intenti polemici e di rottura con i loro predecessori e contemporanei, e quale miglior modo per realizzarli che distinguersi fin dalla forma? Il predominio nel campo filosofico del trattato resta però un fatto saldo e difficilmente contestabile, e a questo punto la domanda sorge spontanea: “perché?” Per quale ragione si è abbandonato il mito come strumento preferenziale per la trasmissione del sapere filosofico? (Filosofico, urge specificarlo: la saggezza popolare, infatti, non si è uniformata a questa scelta e ha continuato a tramandarsi con favole e simili).
1 Alunno della classe V C nell’anno scolastico 2011/2012. © PRISMI on line 2013 2013
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Il mito era chiaro, e riusciva bene nel suo intento comunicativo: perché abbandonarlo? In fondo, la storia della letteratura è piena di opere, sia in prosa che in poesia, che pur non essendo trattati sono ricchissime di valore filosofico, esposto in modo più o meno diretto: basti pensare alla Commedia dantesca, o ai romanzi di C.S. Lewis. Le radici della risposta si possono forse trovare nel fatto che, diversamente da Platone, il suo allievo Aristotele era uno scienziato, e come tale interessato al rigore e alla sistematicità: non è difficile immaginare come la necessità di correttezza abbia potuto prevalere sulla semplicità. Un altro fatto interessante è che Platone non amava la scrittura, in quanto la considerava incapace di rispondere alle domande del lettore come invece fa il maestro col suo discepolo. È possibile che il mito (ancor più della forma dialogica) sia stato il suo tentativo di risposta: esso infatti non mostra il suo significato a chiare lettere, in modo univoco, ma lo svela progressivamente in risposta all’interrogarsi di colui che vi si accosta. Esso si presta cioè all’interpretazione, anzi: alle interpretazioni. Può darsi però che questa polivocità, questa pluralità e potenziale infinità di significati sia parsa eccessiva ad Aristotele, che pertanto potrebbe aver rifiutato questa forma espositiva nel timore di essere frainteso (volutamente, da parte degli avversari, o per errore da parte di discepoli inesperti). Infine trovo che sia degno di nota, a proposito del rapporto tra narrazione e conoscenza, il capovolgimento del medesimo da parte di Hegel: non più “narrazione come conoscenza”, bensì conoscenza come narrazione. Egli vede infatti il percorso del conoscere come coincidente con una narrazione su scala cosmica, i cui attori non sono più personaggi inventati, ma reali: quelli della Storia. Hegel fa cioè dell’intera storia della filosofia un mito, attraverso il quale la filosofia e lo Spirito che essa incarna comprendono se stessi. E come tale la filosofia risulta una inesauribile fonte di nuove interpretazioni e di nuova conoscenza, tratta appunto dal suo infinito ri-narrarsi a se stessa.
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