Newton, l'ultimo dei maghi

73 downloads 867 Views 381KB Size Report
Newton, l'ultimo dei maghi. Personaggi di STEFANO GATTEI. Documenti preziosi . Nel 1936 tutte le sue carte vennero battute all'asta per circa novemila sterline.
Orizzonti Scienze Personaggi

Sushi style

di Annachiara Sacchi

{

La prima volta dello Zen in Occidente L’allievo: «Non mi è stata detta una parola sull’essenza dello Zen». Il maestro: «Quando mi porti una tazza di tè la prendo; quando ti inchini rispondo. Cos’altro ti aspetti di imparare? Se inizi a pensare, il cuore della questione ti è già

I manoscritti mostrano un volto inedito del genio britannico Teologia e alchimia per lui venivano prima della matematica

sfuggito». È uno dei dialoghi da cui partirono, nel 1936, le lezioni di Daisetz T. Suzuki in Inghilterra, poi raccolte in Lo Zen e la cultura giapponese (trad. di Gino Scatasta, Adelphi, pp. 396, e 45 ). Zen spiegato all’Occidente. Per la prima volta.

Saggi Le tesi di Le Breton

Il dolore al confine tra il corpo e l’anima di ADRIANO FAVOLE

A Newton, l’ultimo dei maghi Q i di STEFANO GATTEI

uando morì, il 20 marzo 1727 (secondo il calendario giuliano, allora vigente in Inghilterra), Isaac Newton non lasciò alcun testamento né eredi diretti. Oltre ai beni, alla biblioteca e a un certo numero di strumenti scientifici, l’inventario stilato dai curatori segnalava un’enorme quantità di fogli manoscritti, difficilmente classificabili. Alcuni contenevano annotazioni scientifiche di vario genere, altri trattavano di alchimia, cronologia, teologia, storia della Chiesa. John Conduitt, successore di Newton come governatore della Zecca e marito di Catherine Barton, figlia della sorellastra dello scienziato, chiese alla Royal Society di valutare i manoscritti in vista di una loro eventuale pubblicazione. Dopo soli tre giorni di lavoro furono individuati cinque documenti che valeva la pena di dare alle stampe. Il resto, si disse, era stato lasciato in una forma troppo frammentaria, o era comunque inadatto a essere divulgato. Nel 1740 i manoscritti entrarono in possesso della famiglia Portsmouth, che nel 1872 decise di donarli interamente all’Università di Cambridge, tranne un piccolo numero di testi teologici e cronologici, inviati nel 1755 ad Arthur A. Sykes e successivamente confluiti nella Bodleian Library di Oxford. Venne istituita una commissione, che incaricò due importanti matematici del tempo, John C. Adams e George Stokes, di esaminare gli scritti «scientifici»; a Henry R. Luard, medievista, vennero invece affidati i testi teologici e alchemici. Dopo lunghe indagini, nel 1888 i manoscritti «non scientifici» vennero restituiti alla famiglia, e di essi non si parlò più. Fino al 1936, quando Sotheby’s li mise all’asta a Londra. I 332 lotti di carte e altri Newtoniana vennero battuti per poco più di novemila sterline, una cifra considerevolmente inferiore a quella cui oggi viene valutato anche un solo foglio manoscritto di Newton. Fra gli acquirenti anche John Maynard

SSS

Documenti preziosi Nel 1936 tutte le sue carte vennero battute all’asta per circa novemila sterline. Oggi un solo foglio vergato di suo pugno vale di più

Keynes, padre della macroeconomia moderna, che riuscì ad aggiudicarsi 39 lotti. Più tardi, quando provò ad acquistarne altri da alcuni dei partecipanti, scoprì di essere in competizione con un arabista e imprenditore ebreo, Abraham S. Yahuda, particolarmente interessato ai manoscritti teologici. Keynes riuscì alla fine a entrare in possesso di 130 lotti, Yahuda di 39. Alla morte di Keynes, nel 1946, i manoscritti in suo possesso furono donati a Cambridge; quelli di Yahuda, respinti da Harvard, Yale e Princeton, vennero lasciati allo Stato di Israele, che nel 1969 decise finalmente di destinarli all’Università di Gerusalemme. C’è un tocco di Borges nell’odissea di questi manoscritti, narrata come un romanzo da Sarah Dry nel suo recente lavoro The Newton Papers (Oxford University Press). Il libro unisce la storia avventurosa dei testi alla descrizione dell’immagine pubblica del grande scienziato, evolutasi di pari passo con la scoperta del «multiforme ingegno» di Sir Isaac.

Jesse Bransford (Atlanta, Georgia, 1972), Ars Scientia Magia (2007, acrilico, acquerello, grafite su carta)

Migliaia di fogli documentano infatti la lettura, la trascrizione e il commento minuzioso di vari testi alchemici. Le pagine più controverse sono però quelle di carattere teologico. Newton credeva in Dio, ma nel 1667 aveva insistito per farsi esentare, con apposita dispensa regia, dal prendere gli ordini religiosi in seno alla Chiesa anglicana, come veniva richiesto a ogni membro dell’Università di Cambridge; e in punto di morte, alla presenza di due sole persone (che tennero accuratamente nascosta la notizia), rifiutò i sacramenti. Egli riteneva che nella disputa che aveva segnato la storia della Chiesa durante il IV secolo fosse stata perpetrata, da parte di Atanasio e dei suoi seguaci, una gigantesca frode: il testo sacro sarebbe stato alterato in molti punti allo scopo di affermare la dottrina del Trinitarismo. Fellow (paradossalmente, viene quasi da dire) del Trinity College, uno dei più prestigiosi dell’Università, Newton si era convinto che la dottrina della Trinità — divenuta dogma, secondo cattolici e anglicani, con il Concilio di Nicea del 325 — fosse stata «inventata» e imposta ai cristiani all’epoca della trionfale vittoria su Ario e sugli «eretici»

Mente rivoluzionaria Matematico, fisico e astronomo, ma anche alchimista e teologo, l’inglese Isaac Newton (1642-1727) è considerato uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi. La sua opera più famosa sono i Princìpi matematici della filosofia naturale (1687), detti Principia dal titolo originale latino, in cui enunciò le leggi della dinamica e della gravitazione universale, ma sono ritenuti fondamentali anche i suoi studi sulle caratteristiche della luce, sull’ottica e sul calcolo differenziale L’odissea Le complesse vicissitudini dei manoscritti di Newton sono narrate da Sarah Dry, studiosa di storia della scienza, nel recente libro The Newton Papers. The Strange and True Odyssey of Isaac Newton’s Manuscripts («Le carte di Newton. La strana e vera odissea dei manoscritti di Isaac Newton»), pubblicato nello scorso giugno da Oxford University Press (pagine 256, £ 19.99) I testi Un profilo del genio inglese si trova nel volume Newton di Niccolò Guicciardini (Carocci, 2011). Importante anche il saggio di Paolo Casini Newton e la coscienza europea (Il Mulino, 1983)

Ariani. Adorare Cristo come Dio costituiva, per Newton, una manifestazione di idolatria: mediatore fra l’uomo e Dio, Cristo non è consustanziale al Padre. Se «non si devono ammettere più cause delle cose naturali di quelle che bastano a spiegare i loro fenomeni», come si legge nei Principia, allo stesso modo, per Newton, Dio non va moltiplicato praeter necessitatem. In alchimia o teologia, come in meccanica e astronomia, Newton non si accontenta del linguaggio metaforico o allusivo comune a tanti autori del tempo, ma conduce un’indagine di carattere quantitativo, esigendo sempre un linguaggio rigoroso, un’argomentazione stringente. Il teologo e il matematico sono in Newton due facce della medesima medaglia: forse, come piaceva pensare a Maurizio Mamiani (che per primo, nel 1994, pubblicò il Trattato sull’Apocalisse, tratto dai manoscritti di Yahuda), lo studio dei «principi matematici della filosofia naturale» è stato solo l’esercitazione scientifica di un gigante della teologia. Poco prima di morire, Keynes scrisse che «Newton non fu il primo rappresentante dell’Illuminismo. Fu l’ultimo dei maghi, l’ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri, l’ultima grande mente che guardò al mondo con gli stessi occhi con cui lo avevano guardato coloro che migliaia di anni prima avevano gettato le fondamenta del nostro patrimonio culturale». Alla luce dei manoscritti, che vengono a poco a poco resi disponibili online sul sito del Newton Project, riportare tutte le affermazioni dell’autore dei Principia entro un contesto «scientifico», così come lo intendiamo ora, costituisce senza dubbio un tradimento della sua eredità intellettuale. Ciò non vuol dire sminuirne il genio, anzi. Come osservò ancora Keynes, «credo che Newton fosse diverso dal quadro che convenzionalmente è stato dipinto di lui. Ma non penso, per questo, che egli fosse meno grande».

SSS

Eredità Keynes acquisì parte dei manoscritti: per lui «lo scienziato non fu il primo illuminista ma l’estremo rappresentante dei Sumeri»

quasi vent’anni dalla pubblicazione di Antropologia del dolore (Métailié, 1995; edito in Italia da Meltemi nel 2007), David Le Breton torna sull’argomento con l’uscita di Esperienze del dolore. Fra distruzione e rinascita (Raffaello Cortina, pp. 295, e 25). «Il dolore — scrive l’antropologo e sociologo francese — è una sorta di incastro di bambole russe: una se ne apre e, subito, ne appare un’altra, e poi un’altra ancora. I volti del dolore sono innumerevoli, ed è mio desiderio metterli a confronto per cercare di capire meglio per quale motivo alcune esperienze dolorose distruggono la persona, mentre altre l’aiutano a costruirsi». Nei sette capitoli del libro, Le Breton coniuga il termine dolore al plurale: ci sono da un lato i dolori subìti, come la tortura, la violenza o le malattie croniche; dall’altro i dolori cercati, come avviene negli sport estremi, nel tatuaggio e in altri marchi corporei, nella body art. Ci sono dolori ambivalenti, come quelli del parto. Il dolore può distruggere il sé, alienandolo dal mondo esterno, ma anche divenire arma per resistere all’emarginazione sociale. Il dolore poi non va confuso con la sofferenza — la distinzione, assai problematica, tra i due concetti pervade tutto il volume. «Se il dolore è un concetto medico, la sofferenza è il concetto dell’individuo che la prova». Non tutti i dolori implicano sofferenza, alcuni al contrario

SSS

La distinzione Non bisogna credere che tutti i dolori implichino sofferenza: al contrario alcuni di essi procurano godimento e piacere

procurano godimento e piacere. Negli ultimi vent’anni la nostra concezione del dolore è in effetti molto cambiata e Le Breton ne dà conto con il suo consueto stile: un’ampia rassegna di studi e di casi narrati con un ritmo sincopato e tratti da una letteratura multidisciplinare che spazia dall’antropologia medica alla psicoanalisi, dall’arte alle politiche del corpo. Le interpretazioni fisiologiche e teleologiche del dolore sono parziali e spesso illusorie, argomenta Le Breton. Non sempre infatti il dolore segnala la presenza di una minaccia all’integrità del corpo e, viceversa, esso non è sempre presente nell’indicare l’insorgere di una malattia grave. Certamente il dolore «è lo scotto che paghiamo alla dimensione corporea dell’esistenza» e tuttavia è irriducibile alla dimensione organica. Il dolore «è significato, ossia sofferenza, ed è percepito secondo una griglia interpretativa propria di ogni individuo». Più che sensazione, è percezione, emozione, senso, confine tra il sé e il mondo. Il dolore insomma ci permette di indagare la complessità dell’essere umano e mette in rilievo l’inadeguatezza delle dicotomie tra anima e corpo, individuo e cultura, male fisico e sofferenza psichica. È decostruendo queste opposizioni che, secondo Le Breton, la medicina del dolore può trasformarsi da scienza del corpo a scienza della persona colta nella sua interezza.