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Le Edizioni Minerva Medica si propongono in qualità di provider accreditato dalla Commissione Nazionale ECM, per l’erogazione di Corsi ECM FAD. Per la formazione a distanza intendono presentarsi come partner affidabile e di qualità grazie all’eccellenza di un prodotto innovativo e aggiornato, facilmente utilizzabile, rapido e intuitivo. Il materiale scientifico di approfondimento dei Corsi accreditati ECM FAD potrà essere fornito ai Medici attraverso le proprie Riviste oppure sul web. I crediti formativi potranno essere ottenuti in modo semplice e piacevole. PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELLA PIATTAFORMA CHE GESTIRÀ I CORSI ECM DI MINERVA MEDICA Sul pannello di controllo il discente ha a disposizione l’elenco dei corsi attivi, gli attestati conseguiti, l’archivio dei corsi già svolti e molti altri strumenti utili per organizzare sempre meglio i propri momenti di studio. Nella sezione CORSI il discente vede quanto tempo ha a disposizione per completarli, quanti crediti può ottenere, le descrizioni in pillole e altre informazioni per decidere quando acquistarlo. I testi di apprendimento possono essere forniti con fascicoli supplementari allegati alle nostre Riviste o supportati sulla piattaforma digitale da filmati e immagini (2 opportunità: utilizzando la rivista o solo la piattaforma il cui collegamento avviene attraverso un link dal sito delle Società Scientifiche e/o dal nostro sito). Le possibilità di collaborazione sono diverse e variano dalla FAD di puro e-learning alla blended utilizzando le nostre Riviste per la diffusione del materiale di apprendimento abbinato allo strumento on-line per lo svolgimento dei test di valutazione. Quando ha terminato lo studio, il discente dovrà completare il test di valutazione d’apprendimento: tale test può essere rifatto più volte e viene superato completando correttamente il 75% dei quesiti proposti. CORSI ATTIVI – Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva – Cardiologia e Angiologia – Chirurgia Vascolare ed Endovascolare – Dermatologia – Gastroenterologia – Ginecologia – Infermieristica – Medicina Fisica e Riabilitazione – Medicina Nucleare – Oftalmologia
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MINERVA ANESTESIOLOGICA ITALIAN JOURNAL OF ANESTHESIOLOGY AND ANALGESIA MONTHLY JOURNAL FOUNDED IN 1935 BY A. M. DOGLIOTTI OFFICIAL JOURNAL OF ITALIAN SOCIETY OF ANESTHESIOLOGY, ANALGESIA, RESUSCITATION AND INTENSIVE CARE (S.I.A.A.R.T.I.) EDITORIAL BOARD EDITOR IN CHIEF D. Chiumello Milano, Italy
SECTION EDITOR Critical Care P. Caironi Milano, Italy S. Grasso Bari, Italy L. Mascia Torino, Italy
Anesthesia and Analgesia
P. Suter Geneva, Switzerland P. Terragni Torino, Italy
G. Capogna Roma, Italy A. T. Caraceni Milano, Italy F. Cavaliere Roma, Italy E. Cohen New York, USA
G. De Cosmo Roma, Italy D. Pietrini Roma, Italy M. Rossi Roma, Italy
SOCIETÀ ITALIANA DI ANESTESIA ANALGESIA RIANIMAZIONE E TERAPIA INTENSIVA COUNCIL Vice Presidents V. Carpino (A.A.R.O.I.-EM.A.C.) Naples, Italy A. Pasetto (CPOAR) Modena, Italy G. Della Rocca Udine, Italy F. Paoletti Perugia, Italy M. Astuto Catania, Italy
President V. A. Peduto Perugia, Italy President-elect M. Antonelli Roma, Italy Treasurer F. Gori Città di Castello, Italy
Counselors A. G. Blasetti M. Verre O. Esposito G. Martinelli L. Tritapepe C. Launo F. Raimondi P. Pelaia S. Cardellino T. Fiore G. Finco M. Astuto G. Biancofiore G. Della Rocca F. Paoletti
SCIENTIFIC COMMITTEE SECTIONS Anesthesia V. A. Peduto Perugia, Italy Hyperbaric Therapy L. Ditri Vicenza, Italy
Resuscitation and Intensive Care G. Conti Roma, Italy
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A. Oliaro University of Torino, Italy
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3-PUBB ANESTETICI INALATORI
27-07-2007
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I medici devono ormai essere in grado di preparare cartelle cliniche o relazioni raccogliendo informazioni da pazienti stranieri, e ciò in conseguenza dell’enorme spostamento di persone che sta interessando il mondo intero. Sempre più frequentemente hanno necessità di comunicare con colleghi di altre nazioni scambiandosi risultati scientifici. È proprio per tali esigenze che gli Autori hanno avvertito la necessità di far nascere questo Dizionario di dimensioni tascabili che ha la dote non comune di essere insieme semplice e completo. Il volume si rivolge non solo agli studenti che ruotano nella sfera medico-scientifica, ma è indirizzato anche ai molti medici che spesso hanno difficoltà ai congressi internazionali oppure devono semplicemente comprendere meglio un testo scientifico scritto in lingua inglese. La padronanza dei vocaboli e dei loro significati sarà sicuramente facilitata da questo dizionario e ciò comporterà un miglioramento nella qualità di comprensione e comunicazione.
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24-27 OTTOBRE 2012 NAPOLI Palacongressi Mostra d’Oltremare Piazzale Tecchio
Società Italiana Anestesia Analgesia Rianimazione Terapia Intensiva
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CONSIGLIO DIRETTIVO SIAARTI Presidente Vito Aldo Peduto Presidente Designato Massimo Antonelli Vice Presidenti Vincenzo Carpino Francesco Paoletti Marinella Astuto Giorgio Della Rocca Antonio Braschi
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Coordinatori di Sezioni Culturali Rianimazione e Terapia Intensiva - Giorgio Conti Anestesia - Vito Aldo Peduto Medicina del Dolore e Cure Palliative - Amedeo Costantini Medicina dell’Emergenza - Francesco Della Corte Medicina Iperbarica - Luciano Ditri
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Consiglieri Rappresentanti Regionali Marinella Astuto (Sicilia) Gianni Biancofiore (Toscana) Angelo G. Blasetti (Abruzzo e Molise) Silvano Cardellino (Piemonte e Valle d’Aosta) Giorgio Della Rocca (Veneto, Trentino Aldo Adige,Friuli) Ottorino Esposito (Campania) Gabriele Finco (Sardegna) Tommaso Fiore (Puglia e Basilicata) Claudio Launo (Liguria) Gerardo Martinelli (Emilia Romagna) Francesco Paoletti (Umbria) Paolo Pelaia (Marche) Ferdinando Raimondi (Lombardia) Luigi Tritapepe (Lazio) Mario Verre (Calabria) Segretario - Tesoriere Fabio Gori
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In questi ultimi decenni si è registrato un enorme sviluppo delle tecniche di anestesia locoregionale, soprattutto nell’ambito della chirurgia ortopedica, con crescente interesse per i blocchi nervosi periferici. Una cospicua mole di evidenze scientifiche, infatti, ha dimostrato che i blocchi periferici sono in grado di garantire la stessa efficacia analgesica dei blocchi centrali, durante e dopo l’intervento chirurgico, ma con un controllo del dolore più specifico e selettivo e, soprattutto, con minori sequele indesiderate o complicanze. Basti pensare, in proposito, alla possibilità di utilizzare le tecniche di infusione perineurale continua per prolungare l’azione analgesica dei blocchi periferici nel periodo postoperatorio, senza quegli effetti collaterali che la somministrazione di farmaci analgesici o i blocchi centrali continui inevitabilmente comportano. Pertanto, l’elevato livello di sicurezza e la migliore analgesia garantiti da tali tecniche ne spiegano la crescente utilizzazione sia per prestazioni chirurgiche da effettuare in regime di day-hospital, sia nella fase di riabilitazione e recupero funzionale. L’anestesista di oggi dovrebbe considerare come elemento professionalizzante indispensabile l’acquisizione dell’abilità necessaria per eseguire i blocchi nervosi periferici che gli Autori di questo testo hanno saputo illustrare con particolare efficacia didattica, anche per le specifiche richieste da parte dei colleghi Ortopedici, che hanno potuto apprezzare i vantaggi derivanti da queste tecniche, e da parte dei pazienti stessi, sempre più informati sulle nuove metodiche a disposizione. Questo volume, per la concezione generale dell’opera, la strutturazione dei singoli capitoli e l’originale iconografia, rappresenta un importante contributo allo sviluppo della disciplina negli ambiti sopraconsiderati.
Un nuovo modo di vedere l’infusione 12 20 I RT 79 erumo A d T SIA Stan lienti aggio c m o ri pe le lo n uti o S u
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Blocchi arto inferiore Plesso lombare Innervazione cutanea Nervo femorale all’inguine Farmaci Nervo sciatico Blocchi arto superiore Nervo otturatorio Blocco plesso brachiale Nervo femorocutaneo laterale Blocchi dei nervi periferici al gomito Blocco dei nervi al ginocchio Blocco dei nervi periferici al polso Blocco dei nervi alla caviglia Blocco dei nervi digitali Nervi digitali al piede Blocco di Bier (IVRA)
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COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATIVO
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Rosalba Tufano Vito Aldo Peduto Massimo Antonelli
Presidente del Congresso Presidente SIAARTI Presidente Designato SIAARTI
Alberto Pasetto Giorgio Conti Amedeo Costantini Francesco Della Corte Luciano Ditri Vito Aldo Peduto Edoardo De Robertis Biagio Lettieri Giuseppe Servillo Paola Fabbriccini
Coordinatore Scientifico CPOAR Coordinatore Area Rianimazione e Terapia Intensiva Coordinatore Area Medicina del Dolore e Cure Palliative Coordinatore Area Medicina dell’Emergenza Coordinatore Area Medicina Iperbarica Coordinatore Area Anestesia Comitato Scientifico Locale Comitato Scientifico Locale Comitato Scientifico Locale Segreteria Tecnica SIAARTI
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Coordinatori Gruppi di Studio Giorgio Danelli Giorgio Capogna Luigi Tritapepe Giuseppe Renato Gristina Antonio Corcione Claudio Launo Rocco Domenico Mediati Giorgio Della Rocca Erga Cerchiari Marco Brauzzi Cesare Vittori Laura Bertini Anna Levati Gabriella Bettelli Arturo Guarino Pietro Paolo Martorano
Segreteria Tecnica SIAARTI
Università degli Studi di Perugia Sezione di Anestesia, Analgesia e Terapia Intensiva Ospedale S. Maria della Misericordia
06156 PERUGIA Tel. +39 075 5782420 Fax +39 075 5782726
[email protected]
Anestesia e Analgesia Loco-Regionale Anestesia e Analgesia in Ostetricia Anestesia Cardio-Toraco-Vascolare Bioetica Day Surgery Dolore Acuto Cronico Dolore oncologico e cure palliative Donatori multiorgano e Anestesia e Terapia Intensiva nei trapianti d’organo Emergenza Medicina Iperbarica Neuroanestesia e Neurorianimazione Ortopedia Gestione Rischio Clinico Sicurezza in Anestesia Vie Aeree Difficili Nuovi Sistemi di TIVA/TCI e Anestesia Multimodale
Segreteria Scientifica
Università degli Studi di Napoli Federico II Dip. di Scienze Chirurgiche, Anestesiologiche, Rianimatorie e dell’Emergenza Dott.ssa Francesca Bifulco
Via Pansini, 5 - 80131 NAPOLI Tel. +39 081 7463542/44 Fax +39 081 3722259
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50%/50% - N 2O/O 2 Gas Medicinale Compresso
Analgesico Inalatorio 1. Denominazione del medicinale KALINOX, 50%/50% gas medicinale, compresso
2. Composizione qualitativa e quantitativa Ogni bombola contiene: Azoto protossido 50% (mole/mole) Ossigeno 50% (mole/mole) (Ad una pressione di 170 bar a 15°C). Per l’elenco degli eccipienti, consultare il paragrafo 6.1
3. Forma farmaceutica Gas medicinale, compresso. Incolore
4. Informazioni cliniche 4.1. Indicazioni terapeutiche • Analgesia di breve durata durante procedure dolorose o condizioni di dolore da lieve a moderato in adulti e bambini > 1 mese (per esempio puntura lombare, mielogramma, chirurgia di superficie, medicazione di ustioni, riduzione di fratture semplici, riduzione di alcune lussazioni delle articolazioni periferiche, puntura endovenosa, prestazioni mediche d’urgenza per traumi, ustioni e trasporto.) • Sedazione durante chirurgia dentale nei bambini > 1 mese e in pazienti ansiosi o disabili. • Analgesia, in ostetricia, esclusivamente in ambito ospedaliero, prima di un’analgesia epidurale o qualora la stessa sia rifiutata o impossibile da praticare.
4.2. Posologia e modo di somministrazione Posologia La portata del flusso della miscela dipende solo dalla ventilazione spontanea del paziente tramite una maschera facciale, nasale o oronasale. Il flusso del gas è adattato a seconda della capacità di ventilazione del paziente. Due modi di somministrazione sono disponibili: • Flusso controllato: il flusso viene impostato dal personale sanitario specializzato sul flussometro sulla valvola della bombola di KALINOX. Il flusso è scelto e adattato dal personale sanitario specializzato in base all’assorbimento del paziente, monitorato tramite un pallone reservoir posizionato nel circuito di somministrazione. In questo caso il flusso è continuo per permettere il riempimento del reservoir durante l’espirazione del paziente. • Flusso “self regulated” o “Free on Demand”: connesso all’uscita della valvola della bombola di KALINOX, un dispositivo di somministrazione chiamato ”valvola a domanda” regola da solo automaticamente il flusso in base al bisogno del paziente durante l’inspirazione e ferma il flusso durante l’espirazione del paziente. Questo flusso è discontinuo. Se viene usata la maschera facciale, è consigliato l’uso di una “valvola a domanda”. In questa situazione, il paziente, respirando, apre la valvola, permettendo l’uscita del flusso di KALINOX dall’apparecchiatura e la sua somministrazione al paziente attraverso le vie respiratorie. L’assorbimento avviene a livello dei polmoni. Bisogna spiegare al paziente che deve tenere la maschera sul viso e respirare normalmente. Questa è una misura di sicurezza aggiuntiva per minimizzare il rischio di sovradosaggio. Se, per qualche ragione, il paziente ricevesse più KALINOX del necessario e lo stato di veglia risultasse ridotto, il paziente toglierà la maschera e la somministrazione cesserà. Respirando aria ambiente, l’effetto del KALINOX svanisce rapidamente e il paziente riprende conoscenza. Se viene usata una maschera nasale, KALINOX è somministrato con un flusso costante. In tutti i casi, il paziente deve essere costantemente monitorato durante la somministrazione. È consigliata la presenza di una terza persona. La somministrazione della miscela deve essere interrotta immediatamente in caso di perdita del contatto verbale. La massima efficacia antalgica della miscela si ottiene dopo almeno 3 minuti dall’inalazione. La durata dell’inalazione della miscela dipende dalla lunghezza della procedura e normalmente non deve superare i 60 minuti di inalazione continua. Se la procedura viene ripetuta, non deve superare 15 giorni. All’arresto dell’inalazione, il ritorno allo stato iniziale è rapido e senza effetti residui. Popolazione pediatrica La percentuale di successo è inferiore nei bambini di età inferiore a 3 anni poiché la concentrazione alveolare minima efficace è più alta rispetto ai bambini di età maggiore. Modo di somministrazione KALINOX deve essere somministrato in accordo con le linee guida locali e le specificità del mercato locale (consultare il paragrafo 4.4 “Avvertenze speciali e precauzioni di impiego”). La miscela va somministrata solo in pazienti che respirano spontaneamente. Ove possibile, la miscela può essere autosomministrata. Per ottenere la completa cooperazione del pa-
ziente, è necessario spiegargli lo scopo e l’effetto del trattamento, nonché la modalità di somministrazione. Nei bambini e in altri pazienti che non sono in grado di capire e seguire le istruzioni per l’auto-somministrazione di KALINOX, il trattamento può essere effettuato sotto la supervisione di personale medico qualificato che può aiutarli a tenere la maschera in posizione e a monitorare attivamente la somministrazione. In tali casi, KALINOX può essere somministrato con flusso costante. A causa dell’aumentato rischio che il paziente diventi marcatamente sedato e perda coscienza, la somministrazione a flusso continuo deve essere usata solo in presenza di operatori sanitari esperti nella gestione della sedazione cosciente. È sconsigliata la somministrazione tramite tubo endotracheale. • Utilizzo durante procedure dolorose: prima della chirurgia, la maschera deve essere tenuta per almeno 3 minuti. In questo lasso di tempo, deve essere mantenuto il contatto verbale con il paziente. L’inalazione continua durante la procedura e al paziente viene chiesto di respirare normalmente. Durante l’inalazione, è effettuato soprattutto il monitoraggio clinico. Il paziente deve essere rilassato, deve respirare normalmente e rispondere a semplici comandi: in caso di sedazione profonda con perdita di contatto verbale, rimuovere la maschera facciale fino alla ripresa del contatto con il paziente. • Utilizzo in odontoiatria: può essere utilizzata una maschera nasale oppure oronasale, a seconda della modalità di ventilazione del paziente. Per i pazienti disabili incapaci di mantenere la maschera in posizione, questa dovrà essere tenuta da un’infermiera senza forte costrizione fisica. Dopo un periodo di almeno 3 minuti, la procedura può essere effettuata in modo continuo se si utilizza la maschera nasale o in periodi da 20 a 30 secondi per la maschera oronasale da porre sul naso durante tali periodi. Al termine del trattamento, la maschera viene rimossa e il paziente deve rimanere a riposo sulla poltrona per 5 minuti. • Utilizzo in ostetricia: l’inalazione deve iniziare alla comparsa delle contrazioni e prima di avvertire dolore. La partoriente deve respirare normalmente durante la contrazione senza iperventilare per evitare il rischio di desaturazione di ossigeno tra le contrazioni. L’inalazione deve essere interrotta una volta conseguita la riduzione del dolore. Dato il rischio di desaturazione di ossigeno tra le contrazioni, la SpO2 deve essere costantemente monitorata in questa indicazione.
4.3. Controindicazioni • Pazienti che necessitino di ventilazione con ossigeno puro. • Ipertensione intracranica. • Qualsiasi alterazione dello stato di coscienza, che impedisca la cooperazione del paziente. • Trauma cranico. • Pneumotorace. • Bolle di enfisema. • Embolia gassosa. • Incidente da immersione. • Evidente distensione gassosa addominale. • Paziente che abbia ricevuto di recente un gas oftalmico (SF6, C3F8, C2F6) per chirurgia oculare fino a quando le bolle di gas rimangono all’interno dell’occhio e da meno di 3 mesi. Possono verificarsi complicazioni post-operatorie gravi a causa dell’aumento della pressione intraoculare. • Deficit noto e non trattato di vitamina B12 o di acido folico. • Inspiegate anomalie neurologiche di recente comparsa.
4.4. Avvertenze speciali e precauzioni di impiego Avvertenze speciali Casi di riduzione della fertilità sono stati segnalati dal personale medico o paramedico dopo l’esposizione ripetuta in ambienti scarsamente ventilati (consultare i dati sulla sicurezza preclinica). I locali adibiti ad un utilizzo frequente di KALINOX devono essere dotati di un adeguato sistema di ventilazione o di aria condizionata per mantenere il livello di azoto protossido nell’aria al minimo. La miscela deve essere conservata e somministrata ad una temperatura superiore a 0° C dato che, ad una temperatura inferiore, i due gas potrebbero separarsi con conseguente rischio di ipossia. Popolazione pediatrica L’azoto protossido può, in rari casi, causare depressione respiratoria nel neonato. Quando KALINOX è usato durante il parto, il neonato deve essere monitorato per il rischio di depressione respiratoria.
Precauzioni per l’uso Evitare l’iperventilazione poiché può causare movimenti anomali. Si preferisce l’auto-somministrazione. Un monitoraggio più accurato è richiesto in pazienti in cura con farmaci depressori del sistema nervoso centrale, in particolare derivati della morfina e benzodiazepine a causa del rischio di sonnolenza, desaturazione, vomito e abbassamento della pressione. Una volta interrotta la somministrazione della miscela, in particolare se la somministrazione è stata prolungata, i pazienti ambulatoriali che devono guidare o utilizzare macchinari de-
vono essere monitorati fino alla scomparsa di qualsiasi effetto indesiderato eventualmente manifestatosi e fino al ritorno allo stato di vigilanza precedente al trattamento. In caso di somministrazione ripetuta e prolungata dovrà essere prescritto un supplemento di vitamina B12. La somministrazione prolungata e/o ripetuta può causare abuso o dipendenza. Nel caso di impenetrabilità delle trombe di Eustachio, può essere osservata l’insorgenza di mal d’orecchie con l’aumento della pressione nella cavità timpanica.
4.5. Interazioni con altri medicinali e altre forme di interazione Associazioni controindicate Gas oftalmici (SF6, C3F8, C2F6): un’interazione tra azoto protossido e qualsiasi gas oftalmico assorbito in modo incompleto può causare complicazioni post-operatorie gravi associate alla diffusione estesa dell’azoto protossido nei tessuti. Le bolle d’aria assorbite in modo incompleto possono espandersi causando un aumento della pressione intraoculare con effetti nocivi. Associazioni che richiedono precauzioni per l’uso Esiste il rischio di potenziamento dell’effetto ipnotico di farmaci ad azione centrale (oppiacei, benzodiazepine e altri farmaci psicotropi) se questa miscela è associata ad azoto protossido.
4.6. Fertilità, gravidanza e allattamento Gravidanza Un gran numero di dati su donne in gravidanza indica nessuna malformazione o tossicità feto/neonatale. KALINOX può essere usato durante la gravidanza, se clinicamente necessario. Fertilità Studi sugli animali a basse concentrazioni di azoto protossido (≤ 1%) indicano che c’è una lieve alterazione nella fertilità maschile o femminile (vedi paragrafo 5.3). Allattamento Non ci sono dati sull’escrezione dell’azoto protossido nel latte materno. In ogni caso, in seguito a somministrazione a breve termine di azoto protossido, tenendo in considerazione l’emivita molto breve, non è necessaria l’interruzione dell’allattamento.
4.7. Effetti sulla capacità di guidare veicoli e sull’uso di macchinari Una volta interrotta la somministrazione della miscela, in particolare se la somministrazione è stata prolungata, i pazienti ambulatoriali che devono guidare o utilizzare macchinari devono essere monitorati fino alla scomparsa di qualsiasi effetto indesiderato e fino al ritorno allo stato di vigilanza precedente al trattamento.
4.8. Effetti indesiderati I seguenti effetti indesiderati possono verificarsi durante il trattamento e generalmente scompaiono nei minuti successivi all’interruzione della somministrazione della miscela: Comune (≥1/100, 9%. La morfologia dell’onda T è altamente inaffidabile come indicatore di iniezione intravascolare di bupivacaina con epinefrina durante TIVA con propofol e remifentanil nei bambini. Aumenti della pressione arteriosa, in particolare della diastolica, sembrano i più affidabili criteri di positività al test dose durante la TIVA nelle condizioni studiate. FC sembra avere affidabilità simile durante la TIVA come durante anestesia inalatoria ed mostra sensibilità inadeguata per individuare >75% di iniezioni ev. Conclusioni Le due tecniche di anestesia generale possono essere usate sicuramente con buoni risultati durante l’anestesia locoregionale. Certamente la loro scelta sarà dettata dalla Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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decisione dell’anestesista in base alle proprie conoscenze, alle proprie abitudini, alla disponibilità di mezzi in suo possesso. La conoscenza degli svantaggi e dei vantaggi è sicuramente il punto di partenza, un approccio inalatorio ed un mantenimento endovenoso potrebbero facilitare la diffusione della TIVA in associazione ai blocchi locoregionali che controllando il dolore intra e postoperatorio farebbero risaltare il vantaggio di avere un pronto risveglio, una ridotta incidenza di vomito e nausea postoperatori e assenza di “emergence delirium”. Bibliografia 1. Polaner DM, Drescher J. Pediatric regional anesthesia: what is the current safety record? Pediatr Anesth 2011;21:737-42. 2. Bromage PR, Benumof JL. Paraplegia folllowing intracord injection during attempted epidural anesthesia under general anesthesia. Reg Anesth 1998;23:104-7. 3. Giauffre E, Dalens B, Gombert A. Epidemiology and morbidity of regional anesthesia in children: a one-year prospective survey of the French-Language Society of Pediatric Anesthesiologists. Anesth Analg 1996;83:904-12. 4. Ecoffey C, Lacroix F, Giuafrè E et al. Epidemiology and morbidity of regional anesthesiain children: a follow-up oneyear prospective survey of the French-Language Society of Paediatric Anaesthesiologists (ADARPEF). Pediatr Anesth 2010;20:1061-9. 5. Hiller A, Saarnivaara L. Injection pain, cardiovascular changes and recovery following induction of anaesthesia with propofol in combination with alfentanil or lignocaine in children. Acta Anaesthesiol Scand 1992;36:564-8. 6. Picard P, Tramer MR. Prevention of pain on injection with propofol: a quantitative systematic review. Anesth Analg 2000;90:963-9. 7. Sadhasivam S, Ganesh A, Robison A, Kaye R, Watcha MF. Validation of the bispectral index monitor for measuring the depth of sedation in children. Anesth Analg 2006;102:383-8. 8. Malviya S, Voepel-Lewis T, Tait AR, Merkel S, Tremper K, Naughton N. Depth of sedation in children undergoing computed tomography: validity and reliability of the University of Michigan Sedation Scale (UMSS). Br J Anaesth 2002;88:241-5. 9. Chernik DA, Gillings D, Laine H et al. Validity and reliability of the Observer’s Assessment of Alertness/Sedation Scale: study with intravenous midazolam. J Clin Psychopharmacol 1990;10:244-51. 10. Disma N, Lauretta D, Palermo F, Sapienza D, Ingelmo PM, Astuto M. Level of sedation evaluation with Cerebral State Index and A-Line Arx in children undergoing diagnostic procedures. Paediatr Anaesth 2007;17:445-51. 11. Kam PCA, Cardone D. Propofol infusion syndrome. Anaesthesia 2007;62:690-701. 12. Koch M, De Backer D, Vincent JL. Lactic acidosis: an early marker of propofol infusion syndrome? Intensive Care Med 2004;30:522. 13. Kill C, Leonhardt A, Wulf H. Lacticacidosis after short-term infusion of propofol for anaesthesia in a child with osteogenesis imperfecta. Paediatr Anaesth 2003;13:823-6. 14. Mehta N, DeMunter C, Habibi P et al. Short-term propofol infusions in children. Lancet 1999;354:866-7. 15. Uezono S, Goto T, Terui K et al. Emergence agitation after sevoflurane versus propofol in pediatric patients. Anesth Analg 2000;91:563-6. 16. Tramer M, Moore A, McQuay H. Propofol anaesthesia and postoperative nausea and vomiting: quantitative systematic review of randomized controlled studies. Br J Anaesth 1997;78:247-55.
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QUALE ANESTESIA GENERALE ASSOCIATA AD ANESTESIA LOCOREGIONALE NEL BAMBINO? TIVA
17. Desparmet J, Mateo J, Ecoffey C, Mazoit X. Efficacy of an epidural test dose in children anesthetized with halothane. Anesthesiology 1990;72:249-51. 18. Tanaka M, Nishikawa T. Simulation of an epidural test dose with intravenous epinephrine in sevoflurane-anesthetized children. Anesth Analg 1998;86:952-7.
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19. Tanaka M, Nishikawa T. The efficacy of a simulated intravascular test dose in sevoflurane-anesthetized children: a doseresponse study. Anesth Analg 1999;89:632-7. 20. Fisher QA, Shaffner DH, Yaster M. Detection of intravascular injection of regional anaesthetics in children. Can J Anaesth 1997;44:592-8.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):25-6
Oppioidi: iperalgesia e tolleranza, dalla ricerca di base alla pratica clinica C. AURILIO
Il danno tissutale durante l’intervento chirurgico attiva i sistemi nocicettivi. I nocicettori meccanici, temici e chimici rapidamente trasmettono l’informazione dalla sede del trauma, dalla periferia al livello spinale e sopraspinale. A questi tre livelli si ottiene rispettivamente l’attivazione, la modulazione e la modificazione dello stimolo nocicettivo e probabilmente a livello sopraspinale si ha la cronicizzazione dello stimolo doloroso. Un evento cruciale di questo processo è rappresentato dall’attivazione dei recettori del N-Metil-D-Aspartato (NMDA) da parte del Glutammato. I processi di sensibilizzazione appaiono indipendenti dalla percezione dolorosa durante l’anestesia e rappresentano spesso le basi per lo sviluppo del dolore postoperatorio. L’iperalgesia dopo un intervento chirurgico può essere causata sia dalla sensibilizzazione centrale dovuta alla nocicezione chirurgica che dall’effetto dei farmaci anestetici. Entrambi possono utilizzare meccanismi simili come ad esempio il coinvolgimento degli aminoacidi eccitatori ad opera del N-Metil-D-Aspartato. L’iperalgesia indotta dalla nocicezione che si manifesta nel periodo post-operatorio è una conseguenza del danno tissutale chirurgico e del trauma nervoso e consiste in una paradossa diminuzione della soglia nocicettiva. Tale fenomeno è comunemente riferito agli oppioidi: l’iperalgesia indotta da oppioidi (OIH) si osserva in modelli sperimentali sia nell’animale che nell’uomo. Sono stati proposti quali potenziali meccanismi: la desensitizzazione rapida del recettore ad opera delle proteine G, l’iporegolazione delle vie del cAMP1, l’attivazione del sistema recettoriale del N-Metil-D-Aspartato come pure la facilitazione della via discendente. Nel fenomeno della sensitizzazione nocicettiva recentemente è stato osservato2 un ruolo evidente svolto dalle citochine e chemochine pro infiammatorie. Le citochine sono proteine piccole che vengono prodotte e secrete a richiesta, hanno una breve vita e si muovono in brevi distanze se non vengono rilasciate nel circolo sanguigno. Oltre alle interleuchine classiche ed alle chemochine chemotattiche vengono considerate citochine anche i “growth factor” come il VEGF o il FGF. Nonostante il cospicuo numero di citochine, sono state identificate le loro specifiche azioni e i meccanismi endogeni di controllo. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Scienze Anestesiologiche, Chirurgiche e dell’Emergenza, Seconda Università degli Studi, Napoli, Italia
Nell’ipersensibilizzazione infiammatoria si è visto un coinvolgimento precoce del TNFalfa, dell’IL-1beta e dell’IL-6. Un numero crescente di nuove citochine è stato associato agli stati di dolore patologico e più recentemente si è visto che anche le chemochine agiscono sui nocicettori. Pertanto una strategia terapeutica che agisca sullo stesso meccanismo d’azione potrebbe essere rivolta ai processi dell’ipersensibilità dolorifica e pertanto volta a neutralizzare le citochine pro algesiche o a spostare l’equilibrio in favore delle citochine-chemochine analgesiche. Oltre al sistema immunitario, recenti evidenze3 suggeriscono che le alterazioni neuro immunitarie possono contribuire al dolore dopo una lesione del sistema nervoso. Le cellule gliali coinvolte nel mediare i processi infiammatori4 si trovano all’interno del midollo spinale ed includono sia l’astroglia che la microglia e, soprattutto quest’ultima, è coinvolta direttamente nel mantenimento del dolore cronico. La chemochina eccitatoria gliale fractalina, che è espressa sulla membrana extracellulare dei neuroni spinali e sulle fibre afferenti sensitive spinali è uno dei candidati per l’interazione neuroni-glia. Farmaci selettivi bloccanti le funzioni delle cellule gliali prevengono e riducono la sensibilizzazione dolorosa. Dal punto di vista clinico i farmaci coinvolti nell’anestesia possono indurre il fenomeno paradosso dell’iperalgesia nel dolore post-operatorio ed indurre il dolore cronico. Quindi l’uso degli oppioidi può essere associato non solo alla perdita dell’efficacia analgesica (fenomeno della tolleranza) ma all’attivazione di meccanismi pronocicettivi che portano ad un aumento della sensibilità1 dolorosa o iperalgesia. Le circostanze per cui può accadere OIH non sono completamente chiare, ma possono includere alte dosi di oppioidi, trattamento per lungo tempo, o rapide cambiamenti nelle concentrazioni. Tre sono i meccanismi principalmente coinvolti nel fenomeno dell’iperalgesia e della tolleranza: il primo coinvolge l’attivazione del siste-
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OPPIOIDI: IPERALGESIA E TOLLERANZA, DALLA RICERCA DI BASE ALLA PRATICA CLINICA
ma glutaminergico attraverso il recettore NMDA; un secondo meccanismo si basa sul rilascio della dinorfina, una sostanza iperalgesica, al livello spinale; il terzo si basa sull’attivazione della facilitazione spinale discendente mediante la via sensitiva oppioide sulle cellule ventromediali del midollo spinale e specificamente sui livelli di colecistochinina e sul peptide correlato al gene della calcitonina e la sostanza P. Dal punto di vista clinico la OIH si manifesta con un’aumentata sensibilità al dolore che è diffusa e presente in modo tipico su l’intera area del corpo e soprattutto intorno alla ferita chirurgica. Questo fenomeno riduce l’efficacia analgesica della successiva somministrazione di farmaci oppioidi ed il fenomeno, una volta generato, rimane presente per un lungo periodo agendo sulla memoria nocicettiva, permettendo la riaccensione dell’iperalgesia da ulteriore somministrazione di oppioidi. Oltre agli oppioidi anche altri farmaci anestetici, come alcuni anestetici volatili, l’isofluorane, ma non il sevofluorane ed alcuni farmaci endovenosi, come il propofol e la clonidina possono indurre il fenomeno dell’iperalgesia. Molti studi indicano come l’abnorme persistenza di neuroplasticità eccitatoria (espressa come iperalgesia) viene attualmente considerata come il meccanismo maggiore per lo sviluppo del dolore cronico. Già in uno studio pubblicato su Anaesthesiology nel 20005 si evidenziava come alte dosi di remifentanyl si associassero ad un maggiore dolore postoperatorio nei pazienti sottoposti a chirurgia addominale maggiore con un maggiore consumo di morfina nelle prime 24ore postoperatorie. Un lavoro recente pubblicato su British Journal of Anaesthesiology nel 20106 ha confermato il dato dell’iperalgesia indotta da oppioidi in caso di somministrazione di remifentanil: in particolare 214 pazienti sono stati sottoposti ad anestesia generale per resezione di neoplasia mammaria o con sevofluorane e remifentanil o con propofol e remifentanil. Il gruppo anestetizzato con sevofluorane e remifentanyl ha richiesto un maggior dosaggio di remifentanil con sviluppo nel postoperatorio di iperalgesia da oppiacei. Il gruppo anestetizzato con propofol e remifentanil ha necessitato di dosi più basse di remifentanyl e non vi è stato insorgenza di iperalgesia postoperatoria. Si può desumere che l’iperalgesia sia dose-dipendente. Interessante è un lavoro del 2000 pubblicato su Anaestesiology7 in cui emerge che, in un modello animale di dolore postoperatorio, la somministrazione prolungata di fentanyl induca prima un effetto analgesico e dopo una riduzione della soglia algica con iperalgesia e che tale evento sia stato prevenuto dalla somministrazione di ketamina, confermando il meccanismo NMDA mediato. Su questa basi scientifiche il nostro istituto ha elaborato 3 protocolli di studio sull’utilizzo di ketamine in preemptive analgesia.
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Uno studio sulla analgosedazione pediatrica in corso di pubblicazione ha evidenziato che su 120 pazienti pediatrici da sottoporre a procedure diagnostico-terapeutiche per neoplasia i 60 pazienti anestetizzati con propofol e ketamina avevano un buon livello di operabilità così come i pazienti trattati con propofol e fentanest, ma avevano il vantaggio di più rapidi tempi di recupero e una minore incidenza di dolore postoperatorio. L’utilizzo della ketamina nei protocolli di sedazione procedurale ha ridotto il consumo di Paracetamolo/codeina per il controllo del dolore post-procedurale, in confronto al protocollo che prevedeva come farmaco sedo analgesico l’associazione farmacologica Fentanyl-Propofol Gli altri due studi presentati in abstract in questo congresso hanno valutato l’efficacia della ketamina in preemptive analgesia nei pazienti sottoposti a colecistectomia laparoscopica e nei pazienti sottoposti ad interventi di chirurgia toracica. In entrambi gli studi l’utilizzo di ketamina come preemptive analgesia prima dell’incisione chirurgica ha evidenziato un migliore controllo del dolore postoperatorio e non vi è stata incidenza di iperalgesia. Gli oppioidi però, soprattutto gli short acting che hanno permesso un anestesia maneggevole e rapida non vanno demonizzati in base ai dati finora esposti. È ben noto oggi, infatti, il meccanismo d’azione dell’iperalgesia, che si può prevenire con bloccanti l’NMDA ed inoltre, un recente lavoro pubblicato su Science nel 2012 dimostra come il remifentanil non solo induca analgesia ma sia anche in grado di cancellare la memoria spinale del dolore8. Bibliografia 1. Koppert W et al. The impact of opioid induced hyperalgesia for post-operative pain. Best Practice & Research Clinical Anaesthesiology 2007. 2. Andratsh M et al. A key role for gp130 expressed on peripheral sensory nerves in pathological pain. The Journal of Neuroscience 2009 3. Hains B et al. Activated microglia contribute to the maintenance of chronic pain after spinal cord injury. The Journal of Neuroscience, 2006. 4. Sandkuhler J et al. Models and mechanism of hyperalgesia and allodynia. Physiol Rev 2009. 5. Guignard B et al. Acute opioid tolerance: intraoperative remifentanil increases postoperative pain and morphine requirement. Anesthesiology 2000. 6. Shin SW et al. Maintenance anaesthetics during remifentanil-based anesthesia might affect postoperative pain control after breast cancer surgery. British Journal of Anesthesia. 7. Celerier E et al. Long-lasting hyperalgesia induced by fentanyl in rats: preventive effect of ketamine. Anesthesiology 2000. 8. Drdla-Schutting R et al. Erasure of a spinal memory trace of pain by a brief, high-dose opioid administration. Science 2012.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):27-31
The normobaric oxygen paradox: a multifaced phenomenon C. BALESTRA
Since the first hypothesis and findings of increased Erythropoietin (EPO) after breath-hold diving, the explanation of hypoxia as a trigger was questioned since the diver during this kind of dives was not hypoxic enough to trigger EPO production. In fact, the diver was helped down by a 20 kg sledge, then immediately came back to surface, the total dive time was never exceeding 2 min. Since the dives were performed at 40 m depth (5 atmospheres of absolute pressure), the next step was to apply the same amount of oxygen in standard conditions (laboratory conditions) to measure whether the return back from the increased oxygen partial pressure was considered by the body as a drop of oxygen in the tissues and thus leading to an increase in EPO like ascending for a stay in altitude. A report presenting the possibility to increase Erythropoietin with a single non hypoxic stimulus has been published1 (Fig. 1). It’s clinical utility has been postulated in neuroprotection and cardioprotection as a preoperative treatment, as well as in the treatment of sepsis patients2. The repetition of this simple stimulus has been used to increase hemoglobin and reticulocytes in anemic patients3,4. The possible “doping-like” effect of such a method has also been recently discussed5. Although the Normobaric Oxygen Paradox (NOP) mechanism seems to be proven, our experience demonstrate that to effectively show a significant increase of EPO after one single exposure to normobaric oxygen is not so easy6,7. This matter stays controversial for a number of reasons; let’s consider some of them since several concomitant mechanisms are involved here8. The individual circadian rhythm of erythropoietin production: hormonal variations are depending on circadian as well as seasonal rhythms. To show an increase at a specific moment of the day we found that a simple correction for baseline levels matching was not sufficient and an individual matching of the circadian rhythm was needed1. The modest acute increase of EPO was shown effective to increase hemoglobin when repeated for several days3. The effective amount and activity of glutathione of the subjects: in some cases, we could not find a clear increase of EPO in some individuals, usually subjects who were older or physically inactive. This may be related to a Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
VP Research & Education DAN Europe, Director of the Environmental, Ageing & Occupational Physiology (Integrative) Lab., Haute Ecole Paul-Henri Spaak, Pôle Universitaire Bruxelles-Wallonie, Auderghem, Brussels, Belgium
Figure 1. – Experimental setting, the subjects were sitting breathing oxygen for two hours, the red arrows show the blood sampling schedule up to 36 hours after the exposure.
decreased intracellular glutathione content. It has recently been shown that repletion of glutathione intracellular reserve can be effective on EPO production9: supplementing N-Acetyl-L-Cysteine (NAC) was useful in young healthy subjects to increase EPO after 8 days of treatment, without oxygen sessions. This approach has recently also been shown effective by Momeni et al., a single oxygen session with concomitant supplementation of NAC being able to increase EPO production10. In hyperbaric oxygen sessions, NAC has been used to reduce “toxic oxygen effects” and is still used for HBO preconditioning11. Since an upregulation of Glutathione Synthetase is induced by repetitive exposures to higher oxygen levels, the repetitive short normobaric oxygen sessions could well increase glutathione activity or available
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BALESTRA
THE NORMOBARIC OXYGEN PARADOX: A MULTIFACED PHENOMENON
Figure 2. – Intracellular explanation of the Normobaric Oxygen Paradox. Panel A: Normoxia. Normal cellular function. Panel B: Hyperoxia. During normobaric hyperoxia, reactive oxygen species stimulate GSH production (GSH synthetase); HIF-1· is continuously produced, but continuously inactivated by its binding to another protein, Von Hippel Lindau tumor-suppressor protein, and by subsequent ubiquitous metabolization by hydroxylation of proline residues. On returning to normoxic conditions (Panel C), all ROS’s are neutralized by the increased intracellular GSH. This induces EPO gene expression similarly to hypoxia, and this situation could be called the normobaric oxygen paradox. Ub= ubiquinone (reprinted with permission - Medical hypothesis).
amount. This needs to be considered when interpreting the acute EPO production, since an increase of hemoglobin levels has been shown using the NOP in non-healthy subjects, considered at a less than maximal efficiency or availability of glutathione. The dose of oxygen given: since the beginning we understood that a too high dose of oxygen given was responsible for a decrease of EPO (our initial results showed that hyperbaric oxygen therapy was suppressing EPO in a very significant way) and of course this can be explained by the glutathione activity depletion when faced to a drastic increase of oxygen reactive species. This phenomenon, when adequately used has been postulated to be beneficial for cancer12. We have also experienced that normobaric oxygen, given at too high concentrations or even too often was not as effective to increase EPO or hemoglobin. The minimal concentration of oxygen seems to lay around 40%, raising the inspired oxygen fraction too close to 100% shows very variable results. We do not know the optimal dose or the optimal frequency and we still encourage investigations on that topic. The normobaric oxygen paradox: the mechanism proposed to explain such phenomenon lays deep into the fun28
damental cellular mechanisms of adaptation to hypoxia. This latter depends on oxygen free radicals availability. In fact, in presence of reactive oxygen species under normoxic conditions, the hypoxia Inducible Factor 1 alpha, (HIF-1 alpha) is hydroxylated by prolyl-hydroxylase. This results in ubiquitylation by the Von Hippel Lindau tumor suppressing Protein (VHLp) and finally in the degradation of HIF-1 alpha in the proteasome. In case of limited availability or absence of reactive oxygen species, the HIF-1 alpha will not link with VHLp and thus can be dimerized with the HIF-1 alpha. This HIF complex can thus bind to target promoters known as hypoxia responsive elements leading to the transcription of the erythropoietin gene as well as many other genes involved in cellular metabolism13 (Fig. 2). Increasing the level of oxygen breathed by the patient (namely increasing the availability of oxygen reactive species in the cell) will enhance the production of protective agents against oxygen reactive species (ROS); this will be achieved by increasing the gluthathione synthethase enzyme activity (gamma glutamyl cysteine synthethase). This enhanced activity will thus increase the gluthathione production and subsequently ROS scavenging. During the hyperoxygenation period, an increased stock of redu-
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THE NORMOBARIC OXYGEN PARADOX: A MULTIFACED PHENOMENON
BALESTRA
Figure 3. – Tentative graphic explanation for the 2 different intracellular hypothesis of NOP.
ced glutathione (GSH) will be formed. After cessation of hyperoxygenation, this increased stock of GSH, together with the (slow) reduction of GSSG to GSH, produces an excess of this complex and allows the enhanced scavenging of ROS to last longer after oxygen level reduction with concomitant reduction of ROS availability14,15. Further studies by our group16 have shown that normobaric oxygen, given at too high concentrations or even too often17,18, is not as effective in increasing EPO or hemoglobin. The minimal concentration of inspired oxygen as already stated, seems to lay around 40%50%19, increasing the inspired oxygen fraction to 100% indeed shows very variable and less consistent results. Further investigations to determine the optimal “dose” are evidently welcomed, and the recent publications by Keramides and Mekjavic20,21 confirm the fact that giving 100% oxygen is not optimal. Furthermore, a too high variation of oxygen partial pressure such as achieved by moving from normobaric hyperoxia to hypoxia, seems to be likewise suppressive of EPO, as was recently published22. Our recent experiences on HUVEC cells (Human Umbilical Vein Endothelial Cells) (submitted) show a decrease of HIF-1 alpha expression after two hours of hyperoxia (32% oxygen) reaching 0,59% of control values, followed by 4 hours post hyperoxia by a reactive increase up to 119,1% and 176,6% six hours following hyperoxia. No real hypoxia was applied to the cellular cultured line. This increase of HIF-1 alpha allows the opportunity to Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
propose 2 concomitant mechanisms for the NOP. One favoring the GSH synthethase and another favoring the increased concentration of HIF. Of course the coexistence of both cannot be excluded (Fig. 3) This complex situation will allow the HIF dimers to bind and start gene expression. In our experience, this mechanism has been useful in patients with various forms of anemia including bone marrow hypoplasia allowing a clinically significant increase of hemoglobin in these patients23. EPO has also a broad spectrum of tissue protecting actions24. This has been advocated in different cell types, mainly in cardiac and neural cells25,26. In one study forty-eight healthy male students (aged 18-24, height 178.6 ± 11.3 cm, weight 68.4 ± 12.4 kg) were divided into 4 groups of 12 each, they were fully informed about the procedure and could withdraw at any time from the study, the academic ethical committee having given its approval. The groups were given different breathing mixtures by means of “demand-type” regulators. The mixtures were ranged by increasing percentage of oxygen: 15%, 20%, 32%, 100%. The subjects were randomly assigned to one mixture and the breathing periods were 30 minutes every other day for a ten day period (5 sessions). Haemoglobin levels and haematocrit were analysed before every session. A significant increase of haemoglobin was observed for the 15% and 100% breathing mixtures, no significant increase was reached for the 32% and 20% (Fig. 4).
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BALESTRA
THE NORMOBARIC OXYGEN PARADOX: A MULTIFACED PHENOMENON
Figure 4. – Variation of Hb levels (in procentual variation), In 4 group of 12 healthy volonteers brething different Oxygen concentrations every other day for 30 minutes. The 15% and the 100% of oxygen inspired, show an increase.
For the control group, subjects were breathing air (20% O2) through a diving (demand) regulator to induce the same mask breathing circumstances, since a dehydration or a plasmatic volume reduction has been shown to trigger EPO production27. However, we could not find such a reaction in our experimental groups. The regression lines slopes calculated for the 15% and 100% groups were not statistically different and thus a general equation could be computed for the 2 series: y (percent increase of Hb) = 1x (treatment sessions)+100, r2=0.75 and p=0.0001. It seems that the Normobaric Oxygen Paradox, applied with a minimal protocol (30 min every other day) may be sufficient to increase haemoglobin in healthy humans during a 5 sessions period over 10 days. The “100% O2” protocol seems to be equivalent to the “15% O2” protocol; this again corroborates the hypothesis of the NOP which shows that the “relative” hypoxia acts as an hypoxic trigger1,8,18. This observation indicates potentially easy and cheap applications to the patient’s bed or to the circulating mass maintain during prolonged microgravity since some reports show that the haemoglobin increase is still present in bone marrow depressed patients as known in microgravity situations28,29. Our data support such observation as shown in the figure 2 drawn out from reference 3. The data presented show the evolution of Hb concentration for two patients. The first case describes the application of normobaric oxygen breathing sessions during several days in a 42 yrs old woman receiving chemotherapy after breast cancer. She developed anemia. No erythroid stimulating agents were given, with a nadir of hemoglobin of 8.8 g/dl, the patient was given oxygen 3 times a week by means of a nasal cannula for a duration around 90 min. With a usual flow of 6-8 litres/min, this is equivalent to approximately 40% of oxygen. After a few days; the Hb level started to increase. As the increase in Hb concentration after the nadir level might have been due to the natural course observed after chemotherapy, 30
Figure 5. – Levels of Hb (g/dl) in two patients breathing oxygen. The first 100% O2 every other day with adjuvant drug therapy (Darbepoetin Alpha + IV iron) (Myelofibrosis), The second breathing 40% O2 3 times per week with no other erythroid stimulating agents (Chemotherapy).
after having reached a comfortable level of Hb (12 g/dl) the oxygen administrations were stopped. After few days, the level of Hb started to drop again, and when the oxygen administrations were resumed, the Hb concentration increased again. A second case measured is a 71 years old woman suffering from myelofibrosis, she had to undergo an aortic valve repair. To reach a comfortable Hb level before surgery, she was therefore given Darbepoetin Alpha (Aranesp 300 µg) twice a month and intravenous iron therapy in order to increase hemoglobin level prior to surgery. On top of that classical approach, 30 min of pure oxygen every other day were given by means of a demand valve mask (± 100% of Oxygen). The Hb level increased in 60 days to a comfortable level of 13,5 g/dl. Then the patient was feeling very well and decided to take a two weeks’vacation before surgery. The treatment was maintained except for the oxygen breathing. Upon her return, the level of Hb had dropped to 12.5 g/dl; after resuming the oxygen breathing, it increased again. The figure shows the regression line for both patients with bone marrow impairement. The two patient’s data on a single graph (with Hb increase on the y-axis and days of treatment on the x-axis) shows that the absolute increase (0.05 g/dl per day of treatment) is similar for both treatment strategies (y = 0.05x + 9.4; r2 = 0.79; p30-50 cm H2O, la capacità di mantenere la testa alta rispetto al corpo per almeno 5 sec. e la capacità di trattenere un oggetto tra i denti contro una forza applicata, non sono indicatori sensibili. L’Insufficienza respiratoria è la complicanza più comune della PORC, perché un incomplete recupero neuromuscolare di alcuni gruppi muscolari delle vie respiratorie alte può causare inalazione di materiale faringeo o gastrico responsabile di ipossia e, in casi gravi polmonite. L’utilizzo estensivo del monitoraggio neuromuscolare, la tipologia dei farmaci miorilassanti impiegati e la somministrazione di antagonisti appropriati ai dosaggi corretti può ridurre l’incidenza di PORC. Bibliografia 1. Murphy GS, and Brull SJ. Residual Neuromuscular Block: Lessons Unlearned. Part I: Definitions, Incidence, and Adverse Physiologic Effects of Residual Neuromuscular Block. Anesth Analg 2010;111:120-8.
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Il ruolo dei farmaci nella prevenzione del dolore cronico: che fare nella pratica clinica M. BERTI
Uno de campi di maggiore interesse per l’anestesista è attualmente quello della prevenzione del dolore cronico in particolare successivo ad intervento chirurgico. Questa vera e propria patologia può essere definita come dolore postprocedurale che perdura per oltre due mesi dopo l’intervento e che non può essere spiegato altrimenti1. L’incidenza di questo tipo di dolore è variabile anche in rapporto alla definizione adottata ed è presente nel 15% al 60% dei pazienti operati tuttavia determina una grave disabilità solo nel 4-15% dei casi; inoltre si è visto e gli interventi più spesso gravati da ciò sono rappresentati da sternotomia, mastectomia, amputazione di arti, erniotomia inguinale2. Tre sono gli interrogativi cui è difficile dare una risposta con le conoscenze attuali: 1. Perchè si sviluppa? 2. Perchè solo in alcuni pazienti? 3. È possibile prevenirlo? Perchè si sviluppa? Fattori chirurgici Esiste un fattore di partenza uguale per tutti i pazienti con dolore persistente post-procedurale: il trauma chirurgico; ma ,come anticipato precedentemente, l’insorgenza del dolore persistente non è proporzionale all’entità del trauma potendosi infatti sviluppare anche dopo interventi come l’erniotomia inguinale o l’alluce valgo probabilmente perché possono influire la durata dell’intervento e la tecnica chirurgica (LS vs LT), i danni nervosi diretti (in particolare eseguiti con bisturi elettrico) ma anche indiretti prodotti ad esempio per lo stiramento o schiacciamento dei tessuti profondi o nella fase di guarigione per intrappolamentio nervoso (reazione di guarigione verso protesi o materiale comunque estraneo). Fattori anestesiologici la tecnica anestesiologica utilizzata ed il trattamento perioperatorio del dolore. Variabili individuali una predisposizione allo sviluppo di questa patologia più probabile in pazienti con distress psicologico, e stress post traumatico, infine la determinazione genetica3. Va da sé inoltre che l’incidenza di dolore cronico aumenta se i pazienti presentano dolore prima dell’intervento indipendentemente dalla sede dello stesso come dire che il dolore predice il dolore. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Servizio di Anestesia, Rianimazione e Terapia del Dolore, Azienda Ospedaliera Universitaria, Parma, Italia
Proprio questo ultimo fatto ci suggerisce che sì il danno chirurgico anatomico è la causa del dolore diretto ma probabilmente sensibilizzazione periferica e centrale giocano un ruolo fondamentale nel dolore persistente: quando il dolore è presente la sensibilizzazione è sempre possibile, ovvero quando la scarica si genera la cronicizzazione dipende dalla entità, frequenza e durata, della stessa4. Eziopatogeneticamente parlando potrebbe essere utile distinguere una situazione di danno tissutale senza danno nervoso abbastanza rara da una con danno nervoso incluso. Nel primo, caso la sensibilizzazione periferica, il risultato della interazione biochimica tra tessuto e terminazioni nervose libere presente nel dolore infiammatorio, causerebbe una enorme attivazione glutaminergica postsinaptica cui si accompagna il massivo rilascio di GABA e glicina che crea uno stato di ipereccitabilità centrale difficilmente controllabile con perdita di capacità modulatoria, fondamentale questa per lo sviluppo di dolore cronico. In questo ambito se la periferia è il primum movens il centro la segue contribuendo in maniera determinante al mantenimento del dolore. Quando invece il nervo periferico è leso emette degli impulsi ad elevata frequenza che utilizzano aminoacidi eccitatori per la trasmissione centrale. Ruolo chiave in questo ambito è giocato dalla sensibilizzazione centrale, presente sia nel dolore neuropatico che infiammatorio, che agisce come facilitante per il trasferimento di impulsi periferici ectopici al centro. Le vie inibitorie che normalmente esercitano una azione di controllo tonico su questi neuroni sensibilizzati vengono distrutte o comunque diminuiscono al loro efficacia grazie ad un meccanismo excitotossico. In questo contesto va poi considerato il ruolo fondamentale giocato dalla microglia, composta di cellule simile ai macrofagi della periferia, Essa riceve un’attivazione attraverso sostanze ecciatatorie come sostanza P, aspartato e
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BERTI
IL RUOLO DEI FARMACI NELLA PREVENZIONE DEL DOLORE CRONICO: CHE FARE NELLA PRATICA CLINICA
glutammato oltre che nitrossido e prostaglandine: una volta attivata produce IL e ciclossigenasi aumentando il livello di attività del secondo neurone e contribuendo allo sprouting simpatico ed alla apotposi di neuroni inbitori5. Perchè solo in alcuni pazienti? La componente psicologica individuale, la presenza di dolore cronico anche in altra sede ma sopratutto una determinata espressione genica possono influenzare il risultato delle nostre terapie. Interventi appropriati potrebbero essere seguiti per adesso solo sul tratto psicologico e su quello algico preoperatorio mentre difficile è lo screening in termini di predisposizione genetica È possibile prevenirlo? In prima istanza si è visto che il paziente che svilupperà dolore persistente postoperatorio presenta in fase precoce iperalgesia ed allodinia e parestesie in sede di ferita oltre che in caso di amputazione sensazione di dolore alla parte perduta: quasi non esiste soluzione di continuità tra il dolore postoperatorio e quello persistente. Nella maggior parte dei casi inoltre cioè non è possibile propendere per un quadro infiammatorio o neuropatico puro ma per una patologia mista. Quindi prevenire il dolore cronico significa fare attenzione a diversi particolari: da una parte prevenire il danno nervoso, limitando il danno tissutale globale, dall’altra intervenire sull’atteggiamento psicologico del paziente ma soprattutto trattare il dolore ed in maniera adeguata per un periodo che va ben oltre l’intervento chirurgico poiché anche stimoli lievi possono determinare sensibilizzazione Ormai da diversi anni sappiamo che la sola somministrazione di farmaci prima dell’intervento (premptive) non è adeguata alla prevenzione del dolore persistente poiché brevi impulsi anche sub-massimali possono determinare nel sistema nervoso cambiamenti di lunga durata; per questa ragione il trattamento del dolore deve essere coprire tutto il periodo perioperatorio. Difficile è prevenire la sensibilizzazione della periferia poiché le sostanze che agiscono a questo livello sono moltissime. L’azione degli antinfiammatori però può in questo senso essere di una certa utilità ma forse lo è più per effetto centrale. Infatti sia l’infiammazione che il danno nervoso inducono una up-regolation della COX2 sintetasi e sintesi di PGE che determina a sua volta attivazione della proteina-kinasi, fosforilazione di specifici canali del sodio, attivazione e sintesi di IL1 sostanza questa che ha un estremo potere sensibilizzante. La somministrazione di COX2 inibitori potrebbe essere utile alla prevenzione del dolore persistente. In particolare più che per inibizione della COX2 sintetasi per la interazione con gli endoccannabinoidi i cui recettori si trovano sia al centro che alla periferia ed una volta stimolati determinano una riduzione prenisnaptica del rilascio di aminoacidi eccitatori6-8. Sulla prevenzione della sensibilizzazione centrale possiamo agire con diverse sostanze inibitori dell’NMDA, ketamina, destrometorfano, memantina con i quali tuttavia abbiamo un problema di effetti avversi ma anche gabapentinoidi e cannabinoidi. In alcuni casi l’azione sulle vie inibitrici discendenti serotoninergiche e sulle subunità ·2delta dei recettori del calcio ha dato risultati confortan44
ti. Tuttavia sono molti i casi in cui pregabalin offre una azione protettiva solo e soltanto quando esiste un danno nervoso e questo potrebbe essere spiegato da un altro meccanismo di azione attivazione del sistema discendente adrenergico previa stimolazione dei recettori ·2adrenergici a livello spinale. La somministrazione di oppioidi ed anestetici locali per via centrale non sempre determina una riduzione del dolore e della cronicizzazione dello stesso ma i risultati anche in questo senso variano da intervento ad intervento ad esempio nel caso dell’amputazione degli arti, più e più volte è stato visto come la preventive con oppioidi ed anestetici locali funziona solo se il paziente è libero da dolore prima dell’intervento. Dopo interventi di chirurgia mammaria è discussa l’utilità di gapentinoidi e COX2 inibitori. Risultati Risultati contraddittori si sono avuti con la somministrazione di ketamina in uno studio e anestetico locale ed oppioidi in un altro per la prostectomia radicale. Buoni risultati invece sembrano arrivare dalla somministrazione perioperatoria di peridurale dopo toracotomia e chirurgia addominale9. Conclusioni Il problema della transizione da dolore acuto a cronico è lungi dall’essere risolto poiché alla base esistono molti fattori che interagiscono in maniera complessa tra loro: un dolore che talvolta si comporta come tessuto specifico e ciò comporta una interazione diversa con lo stato genetico e mentale e fisico spesso essi stessi unici. Sicuramente alcuni fattori di rischio possono essere contenuti ma rimane il problema della imprevedibilità e per questo solo una osservazione che va al di la dello standard postoperatorio può permettere di trattare il paziente e di studiare la vera entità del problema in attesa che gli studi di genetica applicati alla clinica quotidiano possano correrci in aiuto. Bibliografia 1. Merskey H, Bogduk N. Classification of Chronic Pain: Description of Chronic Pain Syndromes and Definition of Pain Terms. IASP Press, WA, USA; 1994.a 2. Elliott AM, Smith BH, Penny KI, Smith WC, Chambers WA. The epidemiology of chronic pain in the community. Lancet 1999;354:1248-52. 3. Voscopoulos C, Lema M. When does acute pain become chronic? British Journal of Anaesthesia 2010;105(S1):i69-85. 4. Clifford J. Woolf Pain: Moving from Symptom Control toward Mechanism-Specific Pharmacologic Management Review Ann Intern Med 2004;140:441-51. 5. Watkins LR, Milligan ED, Maier SF. Spinal cord glia: new players in pain. Pain 2001;93:201-5. 6. Samad TA, Moore KA, Sapirstein A et al. Interleukin-1betamediated induction of Cox-2 in the CNS contributes to inflammatory pain hypersensitivity. Nature 2001;410:471-5. 7. Bartfai T. Immunology. Telling the brain about pain. Nature 2001;410:425-7. 8. Telleria-Diaz A, Schmidt M, Kreusch S et al. Spinal antinocicep- tive effects of cyclooxygenase inhibition during inflammation: involvement of prostaglandins and endocannabinoids. Pain 2010;148:26-35. 9. Katz J, Seltzer Z. Transition from acute to chronic postsurgical pain: risk factors and protective factors. Expert Rev Neurother 2009;9:723-44.
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I blocchi perineurali L. BERTINI
Fino dalla prima descrizione nel 1946 la tecnica di blocco continuo periferico si è evoluta da case report a diffusa e validata tecnica analgesica per il trattamento del dolore acuto e cronico1. Il primo report di blocco continuo si riferiva ad un blocco prolungato per la cura di un singhiozzo intrattabile2. Da allora le indicazioni per i blocchi continui si sono evolute e molte indicazioni sono state descritte in letteratura: trattamento dello spasmo vascolare indotte dal morbo di Raynaud3, miglioramento della vascolarizzazione di arti traumatizzati4 ed altre indicazioni per il trattamento del dolore cronico come nevralgia trigeminale5, sindrome regionale complessa6, dolore neoplastico7 e dolore da arto fantasma8,9. Una indicazione validata è il trattamento delle sindromi regionali complesse. La sindrome da dolore regionale complesso sembra essere correlata al dolore sostenuto dal simpatico piuttosto che ad altri tipi di dolore cronico. Pertanto, se tale sindrome è sospettata, dovrà essere tentato il trattamento volto al blocco della funzione del simpatico efferente, in genere mediante un blocco nervoso. Alcune osservazioni cliniche indicano che la prognosi è migliore se il blocco del simpatico si attua il più precocemente possibile. Infatti il blocco anestetico rimuove il dolore e rende possibile l’attuazione di un programma di riabilitazione che è fondamentale per il recupero della funzione dell’arto. Diversi autori riferiscono un miglioramento del dolore e della capacità di movimento con un’infusione continua di anestetico locale a livello del plesso brachiale I blocchi continui sono utilizzati anche per il controllo di alcune situazioni di dolore difficile nei pazienti affetti da patologie neoplastiche avanzate. I blocchi, quando utilizzati in combinazione con altre terapie come gli analgesici sistemici, radioterapia e chemioterapia possono essere utili nel ridurre il dolore e facilitare altri trattamenti come la fisioterapia o il trattamento del linfedema. Il metodo tradizionale di trattamento con i blocchi periferici utilizzava agenti neurolitici quali il fenolo o l’alcool. Queste tecniche possono essere efficaci per i piccoli nervi ( es. intercostali) ma sono gravati da un’elevata incidenza di Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
UOC Terapia del Dolore e Anestesia, Presidio Integrato Santa Caterina della Rosa, ASL RMC Roma, Italia
neuriti e nei pazienti con aspettativa di vita di diversi mesi questo può causare un dolore di difficile controllo. L’infusione di anestetico locale e adiuvanti come fentanyl e clonidina. Nei pazienti in fase avanzata di malattia può essere difficile posizionare il catetere per la presenza di edema ed alterazione dell’anatomia dovuta all’invasione tumorale. Teoricamente qualsiasi blocco può essere utile. Sono stati pubblicati report di blocchi: nervo femorale10, sciatico11, plesso brachialev12, paravertebrale, soprascapolare, plesso lombare e interpleurico Il blocco continuo del nervo mandibolare è stato utilizzato con successo per il trattamento di nevralgie trigeminali e di dolore da cancro13. In questi pazienti non era possibile eseguire una lesione del ganglio di Gasser per motivi legati alla patologia di base ed il blocco continuo periferico ha permesso di ottenere un prolungata riduzione del dolore. Il blocco continuo del nervo femorale è stato utilizzato in pazienti con fratture patologiche del femore. In questi casi la qualità dell’analgesia ottenuta con l’infusione di anestetico locale è stata superiore a quella ottenuta con oppioidi sistemici14. Recentemente sono stati pubblicati anche dati riguardanti l’uso dell’analgesia locoregionale nelle cure palliative pediatriche15. In questi pazienti l’indicazione al posizionamento di un catetere epidurale o perineurale è data da un inadeguato controllo del dolore con gli oppioidi e adiuvanti o è legata alla comparsa di intollerabili effetti collaterali. Inoltre con queste tecniche è possibile ridurre la sonnolenza e migliorare l’interattività con i genitori. Le controindicazioni assolute sono legate alle coagulopatie, deficit neurologici, infezioni e neutropenia. Alcuni aspetti dell’infusioni perineurali rimangono controversi: la modalità di inserzione del catetere, l’ottima tecnica per ciascuna indicazione, l’ottimizzazione dell’infusione per ridurre i possibili rischi.
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BERTINI
I BLOCCHI PERINEURALI
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9. 10.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):47-8
Chirurgia anorettale in day surgery: ruolo del blocco eco guidato del pudendo L. BERTINI1, U. CUGINI2
L’intervento di emorroidectomia è gravato da un intenso dolore postoperatorio che necessita di somministrazione di oppioidi per il suo efficace controllo1. Nonostante la continua modificazione delle tecniche chirurgiche ed anestesiologiche il dolore postoperatorio rimane un problema. Il blocco del nervo pudendo è stato utilizzato in associazione all’anestesia generale per ridurre il dolore postoperatorio fino alla prima defecazione. Innervazione del pavimento pelvico L’innervazione del muscolo elevatore dell’ano (MEA) è stata per lungo tempo oggetto di discussione2. I testi di anatomia standard e gli articoli su riviste scientifiche indicano che il MEA presenta una doppia innervazione proveniente dai rami del nervo pudendo e dalle branche dirette delle radici sacrali S3 e/o S4. Il nervo pudendo, quale nervo misto, conduce sia fibre sensitive sia motorie e origina a livello del midollo spinale sacrale; i corpi dei suoi motoneuroni innervano il pavimento pelvico ed il rabdosfintere e sono sparsi a livello di un’area midollare tra il 2° ed il 4° segmento sacrale, denominata “nucleo di Onuf”. La doppia innervazione dai nervi sacrali e dal pudendo è stata confermata da numerosi studi. Recentemente, Grigorescu et al.3 hanno descritto l’innervazione del MEA (muscolo elevator dell’ano). Tali Autori hanno documentato che il MEA è innervato dalle branche del nervo pudendo, del nervo perineale e del NRI rispettivamente nell’88,2% e nel 35,3% dei casi e direttamente dai nervi sacrali S3 e/o S4 nel 70,6% dei casi Tecnica Con il paziente in posizione ginecologica, si ricerca la tuberosità ischiatica, e si segue questa fino al suo margine inferiore. Si introduce un ago da spinale n. 21, ricercando il contatto con l’osso. Quindi si fa scivolare l’ago oltre il margine laterale, si iniettano circa 10 ml di anestetico locale a lunga durata di azione, si ritira l’ago e lo si fa scivolare oltre il margine mediale, e si ripete lo stesso dosaggio. Quindi si spinge l’ago oltre il margine inferiore, e si avverte nettamente una perdita di resistenza dovuta alla perforazione del legamento sacro tuberoso; a questo punto ci si arresta e si iniettano altri 10 ml di anestetico Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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Terapia del Dolore e Anestesia, Presidio Integrato S. Caterina della Rosa, ASL RMC, Roma, Italia 2Anestesia Rianimazione, Presidio Ospedaliero “Sant’Antonio”, San Daniele del Friuli, Italia
locale. Il blocco del nervo pudendo può essere anche eseguito per via transglutea con gluida TC4, fluoroscopica o, più recentemente, ultrasonografica. Con la guida ultrasonografica è possibile ottenere delle ottime immagini dei punti di repere necessari per localizzare facilmente il nervo pudendo. Per individuare il nervo pudendo che è situato tra i legamenti sacrospinoso e sacrotuberoso5, è necessario localizzare oltre a questi legamenti l’arteria pudenda interna e la spina ischiatica poichè è difficile individuare il nervo stesso. Se si posiziona l’ago tra l’arteria e la spina ischiatica la percentuale di successo del blocco è elevata6. Analgesia nella chirurgia proctologica La chirurgia proctologica è gravata da un’elevata incidenza di dolore e ritenzione urunaria postoperatoria. Il blocco del pudendo è stato proposto come valida alternativa sia all’anestesia spinale che all’anestesia generale per ridurre queste complicanze. In uno studio recente gli effetti del blocco del nervo pudendo nella chirurgia anale sono stati comparati a quelli dell’anastesia spinale. In questo studio prospettico 163 pz consecutivi, che hanno ricevuto un intervento in elezione per emorroidi da un singolo chirurgo, sono stati randomizzati per ricevere un blocco del nervo pudendo (gruppo pudendo) con bupivacaina 0,5% (n. 81) con epinefrina 1:20.000 o anestesia spinale (gruppo spinale) con bupivacaina 0,5% (n. 82). Tutti i pz hanno avuto un blocco efficace durante la chirurgia, ma il rilasciamento del muscolo puborettale non era completo nel gruppo del blocco del pudendo. Solo in 6 pz. del gruppo del blocco del pudendo è stata necessaria la cateterizzazione urinaria rispetto ai 57 pz nel gruppo dell’anestesia spinale
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BERTINI
CHIRURGIA ANORETTALE IN DAY SURGERY: RUOLO DEL BLOCCO ECO GUIDATO DEL PUDENDO
(p 600 ml/min/m2) e consumo di ossigeno (VO2 > 180 ml/min/m2 ). Infatti, al di sotto della DO2 critica (DO2 < 600 ml/min/m2) il metabolismo aerobio non è più in grado di soddisfare le richieste energeti352
che e l’organismo ricorre alla glicolisi anaerobia , con conseguente produzione di lattati, acidosi, riduzione della sintesi proteica e disfunzione mitocondriale25. Se questi indici vengono monitorizzati nel perioperatorio , e questi target vengono raggiunti precocemente, somministrando liquidi, sangue, inotropi e vasodilatatori al fine di conseguire tale scopo (goal directed therapy) prima che si instauri uno scompenso d’organo, è possibile ridurre la morbidità e la mortalità26-28 in pazienti con mortalità attesa maggiore del 20%, consentendo inoltre la riduzione dei costi ed dei tempi di ricovero in terapia intensiva29. Esistono quindi evidenze riguardo l’importanza della ottimizzazione dello stato emodinamico e del trasporto di ossigeno nel paziente chirurgico ad alto rischio perioperatorio, che sottendono la necessità di un monitoraggio precoce della disponibilità di ossigeno, allo scopo di definire con precisione l’adeguatezza della terapia individuale. Il gold standard a tal scopo rimane il catetere arterioso polmonare o catetere di Swan Ganz30-31, ma negli ultimi anni sono stati introdotti sistemi di monitoraggio alternativi capaci di fornire adeguate informazioni a fronte di una minore invasività, come il PICCO, il LIDCO e VIGILEO, che sfruttano il principio della diluizione nel tempo di un indicatore noto per fornire una misura della gittata cardiaca, e mostrano una buona correlazione con i dati derivati dal catetere di Swan Ganz32-33. Un’altra tecnica di diagnostica e monitoraggio sempre più utilizzata in sala operatoria, nella chirurgia cardiaca e non, è rappresentata dall’ecocardiografia transesofegea. Tale metodica è in grado di apportare dati anatomici grazie all’imaging bi o tri-dimensionale e permette la valutazione di numerosi parametri emodinamici, consentendo la stima del precarico, delle pressioni di riempimento, del postcarico, della pressione arteriosa polmonare e della funzione diastolica e sistolica ventricolare, della cinesi ventricolare e della sincronia cardiaca in tempo reale. L’ottimizzazione intraoperatoria comprende inoltre l’adeguato rimpiazzo volemico e l’appropriata gestione trasfusionale includendo la possibilità delle autodonazioni nelle modalità del predeposito, dell’emodiluizione preoperatoria e del recupero intra e post-operatorio34-35, nonchè il mantenimento della normotermia perioperatoria36. Una elevata percentuale di complicanze, comprese tra il 5 e il 30% degli eventi avversi perioperatori, che più frequentemente interessano il sistema respiratorio ed il sistema cardiocircolatorio, si verifica tuttavia nelle ore immediatamente successive alla dimissione del paziente dalla sala operatoria37-39. Per assicurare una assistenza postoperatoria adeguata minimizzando i rischi per il paziente ed insieme contenendo i costi, per alcuni pazienti è necessario programmare un percorso postoperatorio protetto in una area di recupero post-anestesiologico (Recovery Room) o in unità di terapia intensiva postoperatoria, mentre i pazienti che al termine dell’intervento già presentino i criteri di dimissione adottati dalla recovery room (adeguato livello di coscienza, il controllo delle vie aeree e del dolore, stabilità del circolo, normotermia ed assenza di sanguinamento) possono essere trasferiti direttamente al reparto chirurgico di provenienza.
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OTTIMIZZAZIONE PERIOPERATORIA
LORINI
L’attenta valutazione dei pazienti basata sulle condizioni cliniche preoperatorie e sul rischio potenziale di complicanze permette di programmare il diverso livello di assistenza richiesto (legato al tipo di patologia, alla durata e alla complessità dell’anestesia e dell’intervento chirurgico ed al rischio di complicanze postoperatorie)40 e consente di ottimizzare il percorso perioperatorio del paziente ad alto rischio ottenendo una riduzione dei costi e maggiori risorse economiche da destinarsi all’assistenza dei malati più gravi41. Il ricovero in unità di terapia intensiva va dunque riservato ai pazienti a rischio in quanto instabili, con gravi patologie associate, che nel postoperatorio richiedono un attento monitoraggio emodinamico, ventilatorio, neurologico ed una estensiva assistenza infermieristica. Bibliografia 1. Mangano DT, and the Multicenter Study of Perioperative Ischemia (McSPI) Research Grup: Preoperative assessment of patient with cardiac disease. Curr Opin Cardiol 1995,10: 530-42. 2. Asthon CM. Care of patients with failing hearts: evidence for failures in clinical pratice and Healt services research. J Gen Intern Med 1999;14:130-35. 3. Goldman L, Multifactorial index of cardiac risk in non-cardiac surgery: ten-year status report (review article). J Cardiothorac Anesthesiol 1987;1:237-44. 4. ESC 2009. Guidelines for preoperative cardiac risk and perioperativa cardiac management in non cardiac surgery. 5. SIAARTI Raccomandazioni per la gestione perioperatoria del paziente cardiopatico da sottoporre a chirurgia non cardiaca. 2000. 6. Saklad M. Grading of patients for surgical procedures. Anesthesiology 1941;2:281-84. 7. Anon. New classification of physical status. Anesthesiology 1963;24:111. 8. www.ASA.org 9. Jones HJ, De Cossart L. Risk scoring in surgical patients. Br J Surg. 1999;86:149-57. 10. Neary WD, Heather BP, Earnshaw JJ. The Physiological and Operative Severity Score for the enUmeration of Mortality and Morbility (POSSUM). Br J Surg 2003;90:157-65. 11. www.sfar.org/scores2/possum2 12. Prytherch DR, Whiteley MS, Higgins B, Weaver PC, Prout WG, Powell SJ. POSSUM and Portsmouth POSSUM for predicting mortality. Physiological and Operative Severity Score for the enUmeration of Mortality and Morbility. Br J Surg 1998;85:1217-20. 13. Whiteley MS, Prytherch DR, Higgin B, Weaver PC, Prout WG. An evaluation of the POSSUM surgical scoring system. Br J Surg 1996;83:812-15. 14. Yii, M. K.; Ng, K. J. Department of Surgery, Sarawak General Hospital, Kuching, Sarawak, Malaysia. Risk-adjusted surgical audit with the POSSUM scoring system in a developing country. 15. Guidelines for preanesthesia evaluation. The American Society of Anesthesia. 16. Gruppo studio SIAARTI per la sicurezza in Anestesia e Terapia Intensiva: Raccomandazioni per la valutazione anestesiologica in previsione di procedure diagnostico-terapeutiche in elezione. Minerva Anestesiol Giugno 1998;64;18-26; 15. Mantz J, Dahmani S, Paugam-Burtz C. Outcomes in perioperative care. Curr Opin Anaesthesiol. 2010;23:201-8. 17. Reuter*. Pragmatic fl uid optimization in high-risk surgery patients: when pragmatism dilutes the benefi ts. Critical Care 2012;16:106. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):355-7
Fisiopatologia dell’ossigeno/ozono terapia: quid novi? C. LUONGO1, M. LUONGO1, A. TAVANO1, L. MASCOLO1, M. D’AMICO2
L’Ozono è la molecola triatomica dell’Ossigeno. E’ un gas instabile con breve emivita (40min a 20°C) dall’odore caratteristico, pungente (Ozein = mandare odore). L’Ozono non è un radicale libero, non ha elettroni spaiati sull’orbita esterna, ma è un forte ossidante al terzo posto dopo fluoro e persolfato. E’ una molecola già presente in atmosfera, costituendo uno strato protettivo fondamentale nei confronti dell’azione solare. La sua attività risulta invece tossica a livello degli strati più bassi, rappresentando una componente dell’inquinamento ambientale. A livello Troposferico, l’Ozono non è immesso direttamente nell’ambiente, ma la sua produzione è favorita da reazioni chimiche avvenenti tra gli Ossidi dell’Azoto (NOx ) ed i composti organici volatili (VOC) in presenza di calore e luce solare. Gli scarichi industriali e dei veicoli a motore, i vapori della benzina ed i solventi chimici sono alcune delle maggiori fonti di NOx e VOC, aumentando significativamente la produzione di O3 negli strati basali dell’atmosfera. In particolare, la produzione di tale molecola a partire dagli NOx forma un ciclo in cui l’azione della luce solare sul Diossido di Nitrogeno (NO2) genera sia ioni Ossigeno in grado di comporre l’Ozono (O3 ) che Ossido Nitrico (NO) in grado di reagire con l’Ozono per riformare il NO2 disponibile alla produzione di nuovo O3 chiudendo così il ciclo. Almeno 2500 buoni studi sperimentali e clinici dimostrano che l’inalazione prolungata di Ozono troposferico danneggia sia il sistema respiratorio che organi extra-polmonari. La cute stessa, ampiamente esposta a questa molecola, ne risulta danneggiata. Di conseguenza la forte reattività dell’Ozono ha contribuito a stabilire il dogma per cui l’Ozono è sempre tossico e le sue applicazioni mediche andrebbero vietate. In particolare, a livello alveolare, L’O3 si scompone generando radicali reattivi dell’Ossigeno, in grado di per sé di stimolare il rilascio di citochine, molecole di adesione, di perossidare i lipidi e danneggiare il DNA; inoltre la reazione di tali molecole con l’NO determina la produzione di perossinitriti (ONOO- ) che amplificano gli effetti citotossici, l’inattivazione enzimatica, la per ossidazione lipidica ed il danneggiamento del DNA. Riguardo la risposta cellulare, l’ipotesi è che l’Ozono induca il rilascio di IL-1_ dai macrofagi alveolari, il quale stimola le cellule epiteliali alveolari a Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1Dipartimento
di Scienze Anestesiologiche, Chirurgiche e dell’Emergenza, Seconda Università degli Studi di Napoli 2Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione Farmacologia “L. Donatelli”, Seconda Università degli Studi di Napoli
secernere chemochine CXC, soprattutto CINC-1 (CXCL1), le quali reclutano i neutrofili necessari allo sviluppo di un processo infiammatorio alveolare. Tali alterazioni patologiche si manifesteranno clinicamente con broncocostrizione ed atelettasia. In realtà questo “dogma” non è supportato da un’eguale azione dell’O3 applicato direttamente sul tessuto polmonare rispetto alla sua applicazione attraverso il sangue umano. Già nel 1940, Kleinmann dimostrò le proprietà antibatteriche dell’Ozono che tuttora è usato per sterilizzare l’acqua, soprattutto in seguito alla scoperta dei sottoprodotti nocivi del cloro ed alla capacità di aggredire microrganismi resistenti ai comuni disinfettanti come il Criptosporidium. Grazie all’invenzione negli anni‘70 ad opera del fisico Joachim Hansler del primo generatore di Ozono per uso medico, Hans Wolff poté descrivere nel 1974 un metodo in cui una determinata quantità di sangue veniva esposta all’Ozono in contenitori chiusi di vetro, il sangue trattato veniva poi re-infuso nel paziente generando interessanti risposte terapeutiche. Il range terapeutico è stato stabilito in una concentrazione che va dai 20 (0,42 µM) agli 80 (1,68 µM) µg di gas (O2 puro al 95% ed O3 al 5%) per ml di sangue umano. Entrato in contatto con il sangue, una piccola quantità di Ozono viene istantaneamente inattivato dagli antiossidanti già presenti nel plasma (principalmente ac. urico, ac. ascorbico ed albumina), mentre un’alta concentrazione reagisce con gli acidi grassi polinsaturi (PUFA: polynsaturated fatty acids) maggiormente presenti nelle tre tasche idrofobiche dell’albumina. In particolare, L’infusione di O3 nel plasma, determina la produzione di H2 O2, 4HNE (aldeide 4-idrossinoneale, dall’omega-6 PUFA) e 4HHE (trans-4 hydroxy-2-hexenal dall’omega-3 PUFA).
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LUONGO
FISIOPATOLOGIA DELL’OSSIGENO/ OZONO TERAPIA: QUID NOVI?
L’H2 O2 penetra rapidamente in tutte le cellule ematiche grazie ad un gradiente chimico fortemente favorevole a tale passaggio (4-5 µM all’interno della cellula contro i 40-50 µM presenti nel plasma). Negli eritrociti stimola il metabolismo dell’Ossigeno aumentando la velocità della glicolisi e, di conseguenza, la produzione del 2,3 difosfoglicerato (2,3-DPG), molecola che incrementa la cessione di Ossigeno ai tessuti, permettendo un’attività contrastante i processi ischemici. Riguardo i leucociti, l’H2 O2 stimola l’attività fagocitica dei granulociti neutrofili, con conseguente effetto sulla risposta antibatterica, ed attiva la trascrizione degli mRNA di molte citochine (IL-1,-2,-4,-6,8,-10, TNF-α, IFN-β) nei monociti e nei linfociti promuovendo complessivamente un’azione antinfiammatoria con relativi benefici nella terapia di patologie quali: aterosclerosi, BPCO, artriti, ecc.; tipicamente caratterizzate da un processo flogistico cronico . Infine, le piastrine incrementano il rilascio di fattori quali: PDGF-AB e TGF_-1, permettendo un’azione favorente la rigenerazione dei tessuti, la vascolarizzazione ed il miglioramento dei parametri emoreologici. Il 4-HNE si lega al gruppo SH della Cys34 presente nel I dominio dell’albumina, in questo modo può essere trasportato a tutti i tessuti determinando uno stress ossidativo temporaneo. A concentrazioni picomolari il 4-HNE attiva enzimi quali: superossido dismutasi (SOD), GSHperossidasi, catalasi e G6PDH; determinando una risposta protettiva sistemica nei confronti dello stress ossidativo, con conseguenti effetti protettivi nei confronti di diverse condizioni patologiche (diabete mellito, ipertensione, ecc.). La capacità di stimolare enzimi antiossidanti e di correggere lo stress ossidativo cronico, rispetto alla natura fortemente ossidante propria della molecola, è alla base di ciò che viene proposto come il “paradosso dell’Ozono”. Questa proprietà, aplicata ai vari tessuti organici, sembra essere alla base dei diversi campi in cui l’Ozono si candida come un nuovo strumento terapeutico. Nel 2009, Fuccio et al., hanno dimostrato quanto a livello del SNC l’Ozono, nonostante un via di infusione periferica, fosse in grado di ridurre l’espressione delle caspasi 1 e 12 a livello della corteccia orbito-frontale di topi neuropatici (SNI) e come nella stessa regione la produzione di IL-1 da parte degli astrociti risultasse ridotta. Tali effetti si traducevano in una riduzione della componente allodinica del dolore neuropatico indotto in tali topi e, dunque, determinando dunque un’azione terapeutica. Schulz et al., nel 1999, mostrarono come la somministrazione di Ozono in ratti peritonitici permettesse una percentuale di sopravvivenza maggiore rispetto ai controlli, una percentuale che risultava maggiore del 60% considerando una concentrazione di Ozono di 10 µg/ml. Sin dal 1981 anche le patologie ischemiche sono state trattate con una miscela Ossigeno/Ozono. D’Amico et al., nel 2010, valutò come la somministrazione di Ossigeno/Ozono per infusione intraperitoneale, in ratti in cui era stato indotto chirurgicamente un insulto ischemico/perfusivo, riduce le dimensioni dell’infarto grazie al reclutamento delle Cellule Progenitrici Endoteliali (EPCs), probabilmente grazie ad una aumentata produzione ed attivazione dell’ eNOS. Rokitansky et al. dimostrarono che un ciclo di autoemotrasfusione ozo356
nizzata (generalmente di 14 trattamenti) determinivava un miglioramento rispettivamente nel 70,6% e del 53,8% dei pazienti affetti da patologia arteriosa periferica in stadio III e IV di Fontaine, mentre l ’amputazione delle dita del piede e degli arti, poteva essere evitata nelle fasi pre-terminali. Tali risultati sono stati amplificati e confermati da Tylicki et al., e Coppola et al., i quali hanno evidenziato come l’Ozono infuso per autoemotrasfusione migliorasse i parametri emoreologici e l’ossigenazione tissutale nei pazienti affetti da arteriopatia occlusiva periferica. Di Filippo et al., nel 2011, valutarono come il trattamento intraperitoneale con Ossigeno/Ozono riduce la formazione delle aderenze peritoneali postchirurgiche indotte nei ratti tramite enterotomia. A livello intestinale l’Ozono agisce anche come modulatore dell’immunità enterica, determinando la lisi di un modesto numero di batteri utile però al rilascio di un quantitativo di LPS (ed altre molecole) sufficiente a stimolare il sistema immunitario, ma non a danneggiare la mucosa enterica. Incoraggianti sono le prospettive dell’ Ossigeno/Ozono Terapia riguardo il trattamento di malattie infettive croniche quali le epatiti B e C. Sebbene non siano ancora disponibili sufficienti dati clinici, numerosi studi dimostrano come l’Ozono stimoli la produzione di citochine quali: IFN-β e γ, IL-4, IL-6 ed IL-8; responsabili dell’attivazione delle natural killer, dei macrofagi e dei linfociti citotossici responsabili della citotossicità anticorpo mediata nei confronti degli epatociti infetti, nonché dell’attivazione delle cellule del kupffer. In campo oculistico, uno studio di Bocci del 1995, condotto su un totale di 160 pazienti affetti da Degenerazione Maculare Senile, mostrò un miglioramento dell’acuità visiva e della qualità della visione (visione più nitida, migliore percezione dei colori, ecc.) in una percentuale compresa tra il 50 ed il 60% a seconda del sottogruppo. Riguardo l’insorgenza degli effetti collaterali, bisogna considerare come l’incidenza di tali manifestazioni cliniche risulti essere estremamente bassa. Nell’infiltrazione locale di Ozono, il principale disturbo percepito dal paziente è rappresentato dal dolore improvviso, intenso ed urente che in media recede tra i 15 ed i 30 min. Solo in casi più rari, tale sintomo può essere seguito da lipotimia, ipotensione, bradicardia fino, in casi estremi, all’arresto cardiaco. Nella Grande AutoEmoTrasfusione, si possono osservare disturbi correlati alla re-infusione: formicolio alle labbra ed alla lingua, nausea, disgeusia; e disturbi successivi alla re-infusione, tra cui: stanchezza e cefalea. Sono stati inoltre rilevati fenomeni di collasso cardiocircolatorio in vasculopatici in corso di trattamento con ACE inibitori. In conclusione, l’Ozono è in grado di proteggere i tessuti da insulti di diversa origine, in quanto induttore di uno stress ossidativo generalizzato che , in un range terapeutico, stimola l’attività di enzimi antiossidanti (SOD, GSPx, Catalasi, ecc.) responsabili di un’azione diretta sui radicali liberi e di un effetto sia antinfiammatorio che antiapoptotico. Bibliografia Bocci V. Ossigeno-ozonoterapia. Comprensione dei meccanismi di azione e possibilità terapeutiche. 2004. Schulz S, Rodriguez Z, Mutters R, Bette M, Menendéz S, Car-
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FISIOPATOLOGIA DELL’OSSIGENO/ OZONO TERAPIA: QUID NOVI?
bajal C, Hoffman S. Significant Increase on Survival in Lethal Peritonitis with Ozone and Antibiotics in Rats in Proceedings Intern Ozone Symposium Basel 1999. Coppola L, Verrazzo G.,Giunta R et al. Oxygen-ozone therapy and haemorheological parameters in peripheral chronic arterial occlusive disease. Trombosi & Aterosclerosi 1992;3:83-9. Di Filippo C, Marfella R, Capodanno P, Ferraraccio F, Coppola L, Luongo M, Mascolo L, Luongo C, Capuano A, Rossi F, D’Amico M. Acute oxygen-ozone administration to rats protects the heart from ischemia reperfusion infarct. Inflamm Res 2008;57:445-9. Tylicki L. Niewglowski T. Biedunkiewicz B, Burakowski S, Rutkowski B. Beneficial clinical effects of ozonated autohemotherapy in chronically dialysed patients with atherosclerotic ischemia of the lower limbs-pilot study. Int. J. Artif. Organs 2001;24:79-82.
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LUONGO
Rokitansky O, Rokitansky A, Steiner I, Trubel W, Viebahn R, Washuttl J. Die Ozontherapie bei peripheren, arteriellen durchblutungsstorungen: klinik, biochemishe und blutgasanalytishe untersuchugen. Wassar. Berlin: Ozon-Weltkongress 1981;53-75. Fuccio C, Luongo C, Capodanno P et al. A single subcutaneous injection of ozone prevents allodynia and decrease the overexpression of pro-inflammatory caspases in the orbito-frontal cortex of neuropathic mice. Eur J Pharmacol 2009; 603:42-9. Di Filippo C. Luongo M, Marfella R, Ferraraccio F, Lettieri B, Capuano A, Rossi F, D’Amico M. Oxygen/ozone protects the heart from acute myocardial infarction through local increase of eNOS activity and endothelial progenitor cells recruitment. Naunyn Schmiedebergs Arch Pharmacol. 2010; 382:287-91.
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La medicina perioperatoria nel paziente neurochirurgico C. MAGLIONE
Negli ultimi decenni l’evoluzione della Medicina perioperatoria ha modificato in modo sostanziale l’approccio e la gestione del percorso diagnostico-terapeutico anche in ambito neurochirurgico. In questo percorso la figura dell’Anestesista svolge oggi un ruolo fondamentale: la conoscenza approfondita della fisiopatologia e dell’emodinamica cerebrale, l’esperienza clinica acquisita nel gestire situazioni critiche complesse, un’approfondita conoscenza della farmacologia e di sofisticati sistemi di monitoraggio hanno fatto sì che l’Anestesista acquisisse un ruolo chiave, non solo nella clinica, ma anche nella gestione delle risorse e nei nuovi modelli organizzativi delle strutture ospedaliere. L’Anestesiologia viene oggi considerata specialità leader anche in tema di sicurezza clinica, nonostante l’aumentato rischio sia in camera operatoria che in area critica dove ci si trova sempre più spesso, ad affrontare patologie di complessità maggiore in pazienti sempre più anziani e/o in regime di ricovero breve. Basti pensare alla Day-surgery: la valutazione clinica del paziente neurochirurgico in ambulatorio, laddove questo sia possibile, si è dimostrato il metodo migliore per ridurre i tempi di degenza. La medicina perioperatoria comprende tutti gli aspetti concernenti il percorso clinico-assistenziale del paziente, dal momento del ricovero alla sua dimissione: in questo ambito specialistico essa assume particolare importanza, data la complessità della patologia neurologica, cui si possono associare patologie concomitanti in grado di comprometterne il decorso e la prognosi. Appare quindi evidente che la valutazione preoperatoria sia indispensabile non solo per individuare il percorso anestesiologico più idoneo al paziente, ma, attraverso il coinvolgimento di più figure professionali e specialistiche, ha lo scopo di identificare e trattare situazioni borderline ed eventuali fattori di rischio. In primo luogo va effettuata una valutazione dello stato neurologico: il GCS è parte integrante di questa valutazione che deve essere documentata sia in fase pre che postoperatoria. È altresì fondamentale documentare la presenza di deficit sensitivi e/o motori e la presenza di segni o sintomi di incremento della PI (Pressione Intracranica). Tra le patologie concomitanti, nel paziente con danno neurologico,certamente quella cardiovascolare è tra le più Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
II Servizio di Anestesia, TIPO e OTI, A.O.R.N.”A. Cardarelli”, Napoli
frequenti e può causare un aumento della morbidità e della mortalità. Sia che si tratti di disturbi del ritmo, di danno ischemico o di cardiomiopatie come la “Takotsubo cardiomiopaty” o “neurogenic stunned myocardium”, devono essere tutte attentamente valutate e trattate. Molti dei pazienti affetti da patologia cardiovascolare (Fibrillazioni, trombo embolie, manifestazioni aterosclerotiche) assumono terapie antiaggreganti o anticoagulanti. Nella maggior parte dei casi un rapido reversal dell’anticoagulazione deve essere effettuato nei pazienti con sanguinamenti acuti del SNC. In pazienti portatori di stent coronarici che devono essere sottoposti ad intervento neurochirurgico, la sospensione della terapia antiaggregante va valutata caso per caso, considerando rischi e benefici in accordo con il neurochirurgo ed il cardiologo. È altresì importante il controllo dei valori pressori per ridurre il rischio di sanguinamento nei pazienti con Stroke emorragico, mentre nei pazienti con ESA (Emorragia sub aracnoidea) e rischio di vasospasmo, un’eccessiva riduzione dei valori pressori può contribuire a ridurre il FEC (Flusso Ematico Cerebrale) e la PPC(Pressione di Perfusione cerebrale) e quindi ad aggravare il danno ischemico. È di estrema importanza anche la gestione dei valori pressori durante e dopo il trattamento endovascolare degli Aneurismi e delle MAV (Malformazioni Arterovenose) cerebrali, in questi ultimi va evitato il fenomeno della NPPB (Normal Perfusion Pressure Breaktrough) descritto da Spetzler. Le complicanze polmonari sono frequenti nei pazienti con danno neurologico e sono spesso causa di allungamento dei tempi di degenza e di peggioramento dell’outcome. La prolungata immobilizzazione inoltre espone molti pazienti al rischio di trombosi venosa profonda ed embolia polmonare. Va sottolineata l’importanza del management glicemico e dell’equilibrio idro-elettrolitico. L’iperglicemia è un
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MAGLIONE
LA MEDICINA PERIOPERATORIA NEL PAZIENTE NEUROCHIRURGICO
riscontro frequente nei pazienti neurochirurgici. Uno stretto controllo dei valori glicemici può contribuire a prevenire il danno secondario e a migliorare l’outcome, così come la prevenzione delle Infezioni che costituiscono una seria e talvolta disastrosa complicanza per morbidità e mortalità. Conclusioni La Medicina perioperatoria è una realtà ormai consolidata, espressione di corresponsabilità,di più figure professionali, anche nella gestione del paziente neurochirurgico. Tra queste certamente l’Anestesista ha un ruolo di primo piano. Gli obiettivi sono molteplici: in particolare appaiono preminenti quelli della sicurezza, che attraverso un attento esame del paziente, consentono una valutazione del rischio, sia in termini di morbidità che di mortalità. Inoltre la prevenzione delle complicanze ed il trattamento del dolore postoperatorio, se da un lato garantiscono una migliore qualità delle cure e della vita del paziente, contribuiscono alla riduzione dei costi di degenza e al contenimento della spesa sanitaria.
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Bibliografia 1. Ullrich R, Zimpfer M. Clinical governante of perioperative medicine. In: Gullo A (ed) APICE. Springer-Verlag, Milano, 2002, pp. 420-425. 2. Rock P. The future of anesthesiology is perioperative medicine. Anesthesiol Clin North Am 2000;18:495-513. 3. Fletcher S, Lam A. Anaesthesia: preoperative evaluation. Inn: Winn HR, editor. Youmans neurological surgery. 5th ed. Philadelphia: Elselvier; 2004. 4. Kopelnik A, Zaroff JG. Neurocardiogenic injury in neurovascular disorders. Crit Care Clin. 2006; 22:733-52. 5. Jenkins III AL, Deutch H, Patel NP, Post KD. Complication avoidance in neurosurgery. In: Winn HR, editor. Youmans neurological surgery. 5th ed. Philadelphia: Elselvier; 2004. 6. Young WL. Anaesthesia for endovascular neurosurgery and interventional neuroradiology. Anesthesiol Clin. 2007;25: 391-412. 7. Kumar S, Kato Y, Sano H, Imizu S, Nagahisa S, Kanno T. Normal perfusion pressure breakthrough in arteriovenous malformation surgery: The concept revised with a case report. Neurol India. 2004;52:111-5. 8. Hart RG, Tonarelli SB, Pearce LA. Avoiding central nervous system bleeding during antithrombotic therapy: Recent data and ideas. Stroke.2005; 36:1588.
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Forebrain biomolecular and functional changes in neuropathic pain models in rodents and hMSC’s remodelling activity S. MAIONE
Emotional-affective and cognitive dimensions of pain are less well understood than nociceptive and nocifensive components, but the forebrain is believed to play an important role. Recent evidence suggests subcortical and cortical brain areas outside the traditional pain processing network contribute critically to emotional-affective responses and cognitive deficits related to pain. These brain areas include different nuclei of the amygdala and certain prefrontal cortical areas. Their roles in various aspects of pain will be discussed. Biomarkers of cortical dysfunction are being identified that may evolve into therapeutic targets to modulate pain experience and improve pain-related cognitive impairment. Supporting data from preclinical studies in neuropathic pain models will be presented. Neuroimaging analysis provides evidence for plastic changes in the pain processing brain network. Results
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Department of Experimental Medicine, “L. Donatelli” Pharmacology Division, The Second University of Naples, Naples, Italy
of clinical studies in neuropathic pain patients suggest that neuroimaging may help determine mechanisms of altered brain functions in pain as well as monitor the effects of pharmacologic interventions to optimize treatment in individual patients. Recent progress in the analysis of higher brain functions emphasizes the concept of pain as a multidimensional experience and the need for integrative approaches to determine the full spectrum of harmful or protective neurobiological changes in pain.
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Teoria del doppio effetto: escamotage o dottrina? P. MALACARNE
La teoria del doppio effetto (TDE), facente risalire al teologo medievale Tommaso D’Acquino, fornisce una giustificazione etica ad azioni che sebbene intraprese con intenzionalità e finalità buone possono però avere anche effetti negativi prevedibili ma non voluti. Per essere applicabile, la teoria prevede la presenza di 4 criteri: l’ effetto buono ricercato intenzionalmente deve essere eticamente condivisibile, non deve essere ottenuto tramite l’effetto cattivo, l’effetto cattivo non deve essere intenzionalmente ricercato ma solo previsto, l’effetto buono deve essere di tale rilevanza rispetto all’effetto cattivo da rendere proporzionalmente accettabile la previsione dell’effetto cattivo stesso. Applicata al “fine vita”, la TDE è stata interpretata come dottrina per giustificare sul piano etico l’uso di farmaci (in particolare morfina o suoi derivati, benzodiazepine, neurolettici e propofol) per alleviare sintomi intrattabili e refrattari, tali da dover utilizzare dosaggi tali da poter potenzialmente abbreviare la durata della vita (o in altri termini prolungare il processo del morire) nel paziente terminale; la TDE è stata sottoposta a critiche sia sul piano etico e filosofico (ad es. relativamente alla ambiguità e non univocità dell’intenzionalità che sottende alla ricerca dell’effetto buono) che clinico; queste critiche tendono da un lato a far apparire la TDE come un escamotage per sfuggire alla realtà delle cose (... sò bene che a certi dosaggi abbrevio la vita del malato, ma siccome dico di farlo per alleviargli il dolore…), e d’altra parte altri autori hanno contestato la necessità della TDE come giustificazione etica all’uso di farmaci con possibili effetti collaterali (abbreviare la vita) alla luce della assenza di documentazione scientifica di tali effetti collaterali e alla luce della considerazione che essendo il paziente terminale, cioè destinato a morte certa in tempi brevi, l’imperativo etico è non “quando” ma”come” morire.
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Pisa
In T.I. la somministrazione di farmaci finalizzati alla analogo-sedazione fino alla soppressione della coscienza del paziente morente (sedazione terminale) può essere strettamente connessa alla problematica della sospensione di trattamenti salvavita (ventilazione meccanica invasiva, supporto amminico, ecc.) ritenuti futili: nelle situazioni nelle quali in T.I. si procede alla sospensione di trattamenti salvavita perché ritenuti futili, la decisione circa la terminalità del malato è già chiara e il paziente è nella maggior parte dei casi già sottoposto a sedo-analgesia prima della sospensione, per cui un incremento farmacologico finalizzato al pieno e totale controllo dei sintomi durante e dopo la sospensione dei trattamenti salvavita non ha nessuna necessità di essere giustificato con la TDE. Bibliografia Jansen L. Disambiguating clinical intentino: the ethics of palliative sedation. J. Medicine and Philosophy 2010;35:19-31. Raus K, Sterckx S, Mortier F. Continuous deep sedation at the end of life and the natural death hypotesis. Bioethics 2011. Maltoni M, Scarpi E. Rosati M et al. Palliative sedation in end of life care and survival: a systematic review. J of clinical oncology 2012;30:1378-83. Allmark P, Cobb M, Liddle B et al. Is the doctrine of double effect irrelevant in the end of life decision making? Nursing philosophy 2010;11:170-7.
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Cordotomia cervicale percutanea S. MAMELI, A.M. PILI, G.M. PISANU, M. CARBONI
La cordotomia cervicale percutanea rappresenta sicuramente la tecnica più efficace di cui dispone l’algologo per il controllo del dolore nocicettivo, non responsivo al trattamento farmacologico, nel paziente affetto da neoplasia. Qualsiasi scelta terapeutica deve seguire ad un’attenta valutazione algologia che porti alla definizione della diagnosi patogenetica. Nel dolore persistente, con carattere prevalentemente incident, la cordotomia cervicale percutanea è sicuramente la scelta terapeutica corretta. Quando nel progredire della malattia di base si ha il coinvolgimento di strutture muscolo-scheletriche, plessi nervosi, con reclutamento di un numero elevato di fibre C e soprattutto A-delta, solo le terapie di blocco nervoso sono efficaci e a poco serve la somministrazione di dosi elevate di oppiacei sia a lento che a rapido rilascio essendo noto che le fibre amieliniche A-delta sono sprovviste di oppiocettori. Nonostante tutto, l’intervento non trova consenso e viene troppo spesso sconsigliato in nome di terapie sicuramente di più semplice esecuzione, ma non altrettanto efficaci. Molti sono i preconcetti sulla cordotomia : che sia troppo rischioso, imprevedibile nei risultati, gravato da complicanze( paresi, insufficienza respiratoria). La riuscita dell’intervento è subordinata ad una tecnica ineccepibile, frutto di una perfetta conoscenza anatomica e fisiologica delle vie ascendenti e discendenti, e di una grossa esperienza dell’operatore; è richiesta infatti una lunga curva di apprendimento, una solida preparazione teorica e ottima manualità con le tecniche percutanee. È imbarazzante che nonostante si faccia un gran parlare di qualità di vita, di diritto alla terapia del dolore, si svalorizzi una tecnica che, con le corrette indicazioni, è in grado di controllare in maniera definitiva il dolore nocicettivo, migliorando la qualità di vita non del paziente con limitata aspettativa di vita, che dopo aver
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U.O. Terapia del Dolore, Ospedale Oncologico Regionale, Cagliari
provato tutto viene lasciato alla sua disperazione o avviato ad una procedura che a quel punto perde molto della sua utilità. L’intervento va riservato al paziente con lunga aspettativa di vita, capace ancora di una efficace vita di relazione, dopo aver definito la diagnosi patogenetica della sintomatologia algica che lo afflige. Nel tentativo di rilanciare la metodica e confermare l’alto indice di efficacia, abbiamo condotto uno studio sulla qualità di vita di gruppi di pazienti oncologici con dolore nocicettivo, prevalentemente incident, trattati con tre metodiche differenti: a) terapia farmacologia b) terapia di blocco nervoso con somministrazione di anestetici locali per via spinale c) cordotomia cervicale percutanea. Abbiamo somministrato ai pazienti il BRIEF PAIN INVENTORY e l’SF36 per valutare la qualità di vita e l’OSIXESTXY, per valutare il grado di disabilità. I risultati hanno evidenziato un miglioramento della qualità di vita superiore nei pazienti sottoposti a cordotomia rispetto agli altri approcci terapeutici e un grado di disabilità ridotto al minimo in tutti i pazienti sottoposti ad intervento. Sicuramente la cordotomia non potrà essere attuata in tutti i centri di terapia del dolore, ma sarebbe auspicabile che ogni algologo ne riconoscesse la valenza e le indicazioni per decidere di usufruire della consulenza di altri centri, come è consuetudine per qualsiasi metodica altamente specialistica.
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AngioJet: tromboaspirazione reolitica nell’embolia polmonare M. MARGHERI, S. VECCHIO
L’embolia polmonare (EP) è una malattia frequente, che si associa ad un’elevata mortalità nei pazienti definiti ad alto rischio (shock e/o ipotensione) e nel sottogruppo di pazienti a rischio intermedio con segni di disfunzione del ventricolo destro e positività dei marcatori di danno miocardico1. Attualmente la sola terapia raccomandata nel trattamento dell’EP acuta (Classe I) è quella farmacologica, con eparina o trombolitici, e solo in casi selezionati è previsto il ricorso alla terapia percutanea e a quella chirurgica, che tuttavia è gravata da un’elevata mortalità operatoria (1050%)2-5. In particolare la trombolisi è il trattamento di prima scelta nei pazienti con EP ad alto rischio. Dal registro ICOPER emerge tuttavia che i due terzi dei pazienti con EP massiva non vengono trattati con trombolitici, a causa delle numerose controindicazioni, e che il loro profilo di sicurezza è limitato dall’elevata percentuale di sanguinamenti maggiori (circa 24%)6. L’embolectomia percutanea sembra pertanto rappresentare una valida alternativa alla trombolisi nei pazienti in cui questa è controindicata o risulta inefficace (Classe IIb)1, con il vantaggio di essere meno invasiva rispetto alla chirurgia e di ripristinare la perfusione polmonare in tempi molto più rapidi rispetto alla trombolisi. Tuttavia per le notevoli difficoltà tecniche ed organizzative, questo tipo di procedura è stata fino ad oggi poco applicata, con limitate segnalazioni in letteratura. L’embolectomia polmonare percutanea consiste nell’utilizzo di sistemi che determinano la frammentazione, la suzione o la reolisi del materiale trombotico. Fra questi, quello con il miglior profilo di efficacia e di sicurezza sembra essere il sistema AngioJet (Possis Medical, Inc., Minneapolis, MN, USA), che utilizza l’effetto reolitico. La trombectomia reolitica mediante sistema AngioJet ha avuto l’approvazione della Food and Drug Administration nel trattamento della trombosi acuta dei graft venosi e delle coronarie native, e il marchio CE per il trattamento nel distretto arterioso polmonare. Tuttavia, i dati ad oggi pubblicati in letteratura riguardanti l’utilizzo dell’AngioJet nel distretto polmonare, sembrano essere promettenti. Nel distretto polmonare possono essere usati il Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
U.O. Cardiologia, Ospedale Santa Maria delle Croci, AUSL Ravenna
catetere dedicato per il distretto arterioso polmonare o il catetere Xpeedior. Per ottenere una frammentazione ed aspirazione efficace del materiale trombotico, il catetere AngioJet deve essere manovrato in senso cranio-caudale e viceversa, mediante ripetute serie di 3-5 passaggi lenti, della durata complessiva di 15-20 secondi, per un totale di massimo 2-3 minuti per ciascun polmone. Generalmente, il successo tecnico di tale trattamento, è definito come la capacità di portare l’AngioJet a livello della circolazione polmonare e di aspirare il trombo con una riduzione dell’indice di Miller di almeno il 30% rispetto al valore basale; mentre il successo procedurale è definito come il successo tecnico con riperfusione del territorio a valle dei rami polmonari trattati, in assenza di complicanze periprocedurali. La nostra casistica consiste di 51 pazienti colpiti da embolia polmonare acuta, sia ad alto che a rischio intermedio, trattati mediante trombectomia reolitica con sistema AngioJet per la presenza di controindicazioni o fallimento della fibrinolisi. Il successo tecnico è stato raggiunto nel 92,2% dei pazienti, con un valore medio di riduzione dell’indice di Miller pari al 51,2±17,4%. In particolare è stata osservata dopo il trattamento una riduzione significativa degli indici di perfusione, di ostruzione e quindi dell’indice di Miller e della pressione polmonare sistolica cruenta nei tre sottogruppi di pazienti distinti in base alla presenza di shock, ipotensione o disfunzione ventricolare destra. La mortalità totale intra-ospedaliera è risultata pari del 15,7%, ed il 75% dei pazienti deceduti presentava all’ammisione shock cardiogeno. Da questa casistica è emerso inoltre come l’acquisizione di una maggiore esperienza da parte degli operatori sia determinante e si associa ad un miglior outcome dei pazienti legato soprattutto alla riduzione dei sanguinamenti maggiori, a parità di profilo di rischio dei pazienti trattati7.
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MARGHERI
ANGIOJET: TROMBOASPIRAZIONE REOLITICA NELL’EMBOLIA POLMONARE
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Il ruolo dell’anestesista rianimatore in ambienti ostili P. MARIN
Con la definizione di “ambienti ostili” o più comunemente “condizioni ambientali difficili” si intendono quelle situazioni nelle quali viene esercitata una determinata attività professionale al di fuori delle normali sedi lavorative, delle condizioni abituali ed in concomitanza di una improvvisa perdita o forte limitazione di supporto tecnologico e di infrastrutture. In tali condizioni deve cambiare l’approccio al modo quotidiano di lavorare prediligendo tecniche di lavoro e procedure operative più semplici. Tale affermazione riguarda soprattutto l’attività dell’anestesista-rianimatore che, come poi vedremo, assume un ruolo fondamentale nelle condizioni ambientali difficili. I principali esempi di “ambienti ostili” possono essere rappresentati dalle catastrofi sia di tipo naturale (terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami, frane, alluvioni) sia causate dall’uomo (incidenti industriali, maxi incidenti stradali e ferroviari), dallo svolgere attività in paesi in via di sviluppo o in ambienti remoti (località desertiche, foreste amazzoniche, Antartide), dalla partecipazione attiva in operazioni militari (missioni di peace-keeping, conflitti bellici). I maggiori fattori che accomunano queste situazioni sono riconducibili ad uno squilibrio fra le richieste mediche avanzate dalla popolazione e l’offerta delle prestazioni sanitarie erogate, a condizioni ambientali estreme (metereologiche, contaminazioni tipo nbc, ecc.), ad un supporto logistico insufficiente ed all’assenza o alla grave carenza di infrastutture. Il ruolo dell’anestesista-rianimatore, proprio per la sua duplice veste di anestesista e di rianimatore, in tali contesti presenta molteplici funzioni; andiamo ora ad analizzare quali sono i principali ruoli iniziando da quello anestesiologico. In tutti gli ambienti ostili l’attività chirurgica è di primaria importanza a diversi livelli operativi: sul campo, nei presidi ospedalieri di primo livello, in strutture sanitarie mobili di maggiore specializzazione. Le finalità dell’anestesia campale devono potere consentire al chirurgo di effettuare prestazioni di pronto soccorso ed interventi chirurgici urgenti e contenuti nei tempi di durata intesi a salvare la vita del paziente (Control DamaVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Servizio di Anestesia e Rianimazione, Ospedale di Albenga (SV)
ge Surgery), permettere l’esecuzione di interventi più lunghi (negli ospedali da campo), permettere attività mediche e chirurgiche che consentano la disincarcerazione del paziente dal luogo del ritrovamento (in terremoti, crolli, alluvioni o frane). A tal proposito, l’anestesista-rianimatore si può trovare a dover decidere, per effettuare la disincarcerazione di un paziente, a seconda delle sue condizioni generali, di effettuare un’ amputazione di arto direttamente “on the field”; tale pratica, dopo il terremoto catastrofico di Haiti del gennaio 2010, ha suscitato parecchie discussioni in campo accademico sul fatto che erano state eseguite troppe amputazioni ritenute non necessarie. Le tecniche anestesiologiche utilizzate devono garantire la massima sicurezza al paziente (ottenere una anestesia con il paziente in respiro spontaneo, avere la migliore stabilità emodinamica, ridurre il rischio di depressione respiratoria nel postoperatorio, ridurre il tempo di risveglio del paziente per avere il letto operatorio e l’anestesista libero per un nuovo intervento, ottenere un buon livello di analgesia post-operatoria, essere le più semplici possibili) in un ambiente dove l’attività lavorativa si svolge in condizioni di stress psicofisico elevato con potenziali ripercussioni negative sulla performance professionale. Recenti studi internazionali hanno dimostrato una diretta relazione tra lo stress ambientale ed un’aumentata probabilità di commettere un errore umano. A corollario di quanto detto, il ruolo dell’anestesista in ambienti ostili deve avvicinarsi quanto più possibile ad una filosofia di approccio che gli statunitensi definiscono con un acronimo: KISS (keep it simple and stupid), cioè si devono applicare tecniche anestesiologiche il più semplici possibili: più semplice è la tecnica di lavoro utilizzata, più è difficile commettere errori, migliore è il risultato. In ambienti di lavoro ostili, le tecniche anestesiologiche più utilizzate sono l’anestesia generale endovenosa
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MARIN
IL RUOLO DELL’ANESTESISTA RIANIMATORE IN AMBIENTI OSTILI
(soprattutto mediante Ketamina) e l’anestesia loco-regionale (blocchi nervosi periferici, anestesia subaracnoidea). Le limitazioni dell’anestesia generale inalatoria sono dovute al fatto che spesso non si hanno a disposizioni ventilatori da sala operatoria (troppo ingombranti e pesanti) o quanto meno si hanno difficoltà tecniche nel permettere il loro funzionamento (carenza di ossigeno e/o di aria compressa, difficoltà nell’avere energia elettrica per tempi più o meno lunghi). Un capitolo a parte nell’utilizzo dell’anestesia generale inalatoria in ambienti difficili è quello relativo all’uso di apparecchi tipo drawn-over; progettato per impieghi militari e per uso in ambienti avversi, tale sistema è leggero, robusto, capace di funzionare in assenza di gas medicali compressi, estremamente diffuso nei paesi in via di sviluppo. Il drawn-over è costituito da un vaporizzatore a bassa resistenza interna (permette l’uso senza avere gas compressi in quanto basta l’inspirazione del paziente a trascinare l’aria ambiente), una valvola unidirezionale, un pallone autoespansibile, una valvola unidirezionale per anestesia; il circuito è di tipo aperto con eliminazione dell’espirato nell’ambiente, il gas respirato dal paziente è costituito da aria ambiente, eventualmente arricchibile con ossigeno; è utilizzabile in ventilazione spontanea, assistita, in maschera facciale o con tubo oro-tracheale. Un altro ruolo estremamente importante dell’anestesistarianimatore durante le maxiemergenze e le catastrofi è quello di operare nel tempo più breve possibile cercando di salvare il maggior numero di vite; in tali scenari spesso il rianimatore si trova ad agire nella prima fase della “damage control resuscitation” (DCR). Il termine “damage control” viene comunemente utilizzato dalla Marina degli Stati Uniti ed esprime il concetto della capacità di una nave di “assorbire” un dato danno e di mantenere l’integrità della missione. Parallelamente in Medicina con tale terminologia intendiamo l’insieme delle azioni che vengono effettuate su di un paziente per aumentare le sue possibilità di sopravvivenza. Per effettuare una buona “damage control resuscitation”, quindi impedire che si instauri la “triade mortale” (ipotermia, acidosi, coagulopatia), si deve iniziare ad agire il più precocemente possibile direttamente sul campo. Tale procedure possono essere iniziate in qualsiasi scenario “ostile” indipendentemente dalla sua natura; il comune denominatore della scena è quello di trovare un paziente gravemente traumatizzato quasi sempre in stato di shock ipovolemico. L’ambiente “ostile” nel quale sono stati effettuati più
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studi ed applicate procedure comportamentali formulate secondo principi strategici e tattici è quello riferibile all’ambito militare. Le linee guida della Medicina Operativa e Tattica prevedono che di fronte ad un paziente con shock ipovolemico si agisca secondo un algoritmo comportamentale che prima di seguire le normali linee guida dell’ATLS (Airway, breathing, circulation) utilizzi misure fondamentali per contrastare il sanguinamento massivo in atto (catastrophic bleeding). È implicito che tutto quanto utilizzabile in ambito militare, come è spesso successo in passato, venga successivamente utilizzato in ambiente civile. I materiali tattici che vengono usati in questa delicata e fondamentale fase della DCR sono: i tourniquet da combattimento (applicabili in caso di emorragie agli arti), i bendaggi compressivi con garze da combattimento che, oltre ad effettuare un’azione compressiva, contengono potenti fattori emostatici, gli agenti emostatici in polvere. Un importante ruolo che l’anestesista-rianimatore esprime in condizioni ambientali difficili è quello legato all’attività di evacuazione medica di persone ferite più o meno gravemente. In relazione a questo tipo di attività, si è riscontrata una grande quantità di lavori scientifici pubblicati su riviste internazionali di anestesia e Rianimazione sull’evacuazione medica effettuata durante lo Tsunami avvenuto nel dicembre 2004 nell’Oceano Indiano (Sud-est asiatico). In relazione all’ambito più strettamente militare è importante sottolineare che l’attività dell’anestesista-rianimatore sta assumendo un ruolo sempre più predominante in “ambienti ostili”. Ciò è dovuto al fatto che dopo la caduta del Muro di Berlino (novembre 1989) e la conseguente fine della logica politico-militare dei due grandi blocchi contrapposti (USA, URSS), le principali organizzazioni internazionali (ONU, NATO) hanno sempre di più utilizzato personale militare al fine di attivare operazioni di peace-keeping in caso di conflitti territorialmente limitati. Questa forma di intervento ha coinvolto personale medico e paramedico richiamato in servizio attivo e tra queste figure sanitarie quella dell’anestesista-rianimatore per le sue caratteristiche tecnico-scientifiche è stata quella più richiesta e considerata idonea all’impiego. A conclusione di questa breve relazione, possiamo dire che il ruolo dell’anestesista-rianimatore in ambienti ostili assume una posizione di centralità e spesso di insostituibilità, poiché diventa il perno ed il punto di riferimento attorno al quale si svolge l’intera attività medica di soccorso.
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Il dolore cronico postincisionale: nuove opzioni terapeutiche C. MATTIA, V. BECCACECI, O. SACCHETTI
Il dolore cronico post-chirurgico (CPSP) è un problema significativo sia da un punto di vista clinico che economico. Come da definizione, questo dolore insorge dopo l’intervento chirurgico e non è legato ad alcun dolore preoperatorio presente sullo stesso sito. I fattori predittivi per l’insorgenza di dolore cronico postoperatorio sono molteplici e comprendono fattori genetici individuali, età e sesso, la presenza di dolore cronico pre-operatorio, fattori psicosociali, neurofisiologici, lesioni intraoperatorie di nervi e muscoli, complicanze post-operatorie e presenza di dolore acuto nel primo periodo del post-intervento. Si presume che la gravità e la cronicità del dolore pre-operatorio siano i principali fattori di rischio per CPSP1. L’incidenza media stimata è alta e varia tra il 10 ed il 50%, con variazioni legate soprattutto a fattori specifici per ogni procedura. I tipi di chirurgia a maggior rischio di incidenza di CPSP sono la toracotomia, la chirurgia del seno, la chirurgia dell’ernia inguinale e le amputazioni. Nonostante ci sia una crescente conoscenza sull’incidenza di CPSP dopo determinati tipi di chirurgia, i dati relativi ai meccanismi e alla fisiopatologia che portano all’insorgenza di dolore cronico post-operatorio sono limitati. Sono stati studiati gli elementi costitutivi del dolore neuropatico, in particolar modo per quanto riguarda le procedure con un’elevata incidenza di lesione nervose (ad esempio, la linfoadenectomia ascellare). Oltre ai fattori chirurgici, sembra tuttavia che anche altri fattori, prevalentemente individuali, siano in grado di aumentare il rischio di dolore cronico post- chirurgico. Durante l’intervento chirurgico il rilascio di citochine infiammatorie e di altri mediatori può attivare i nocicettori. Dopo l’intervento, il dolore è prevalentemente incidente ed in caso di guarigione della ferita senza complicazioni questo dolore progressivamente si attenua e scompare. Perciò, dopo il processo di sensibilizzazione e di facilitazione della trasmissione sinaptica che avviene nel sistema nervoso centrale (SNC), in assenza di stimoli periferici ripetuti si ritorna alla normale attività intrinseca dei nocicettori2. Al fine di evitare il CPSP, la strategia migliore potrebbe dunque essere l’interruzione a lungo termine dell’input sensoriale dal sito della lesione nervosa, tramite l’utilizzo dell’anestesia locale e regionale, che ha la capacità di prevenire cambiamenti Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Scienze e Biotecnologie Medico-Chirurgiche, Facoltà Medicina e Farmacia, “La Sapienza” Università di Roma
attività-dipendenti nel SNC o di altri farmaci attivi su specifici canali o recettoriI bersagli farmacologici di questo trattamento preventivo possono includere: – Il blocco dei canali del sodio Nav1.3, Nav1.7 e Nav1.8. – L’apertura dei canali del potassio nei neuroni sensoriali. – L’attivazione dei trasportatori del glutammato. – Il blocco del canale del calcio voltaggio dipendente Ntype Cav2.2. – L’antagonismo dei recettori purinergici P2X4 e P2X7 nelle cellule della microglia. – Il legame dei canali del calcio Alfa-2-delta. Il Pregabalin è un analogo lipofilo dell’acido gammaamino-butirrico (GABA), con proprietà anticonvulsivanti, ansiolitiche e modulanti del sonno, che agisce sulla subunità alfa-2-delta dei canali del calcio.L’ipotetico vantaggio della somministrazione perioperatoria di pregabalin nel prevenire il CPSP è quello di ridurre l’ipereccitabilità dei neuroni del corno dorsale indotte dal danno tissutale. Tuttavia il suo ruolo, il suo dosaggio ottimale e la durata del trattamento nel controllo del dolore post-operatorio necessitano di essere ulteriormente studiati3. La lidocaina è un altro farmaco che agisce su uno dei target precedenti. Si tratta di un anestetico locale, che agisce tramite il blocco dei canali del sodio Nav 1.7 e Nav 1.8. Questi recettori, sensibilizzati da traumi chirurgici, funzionano in modo anomalo nei nocicettori dermici, aumentando le scariche ectopiche. La lidocaina si è dimostrata in grado di sopprimere l’attività anomala spontanea ed evocata che avvia e sostiene il dolore neuropatico, di ridurre gli impulsi ectopici in seguito a lesione dei nervi periferici e di ridurre anche i cambiamenti comportamentali nel dolore neuropatico sperimentale.Per queste ragioni gli anestetici locali sono utilizzati per l’infiltrazione della ferita chirurgica, costituendo così una semplice, efficace ed economica modalità in grado di fornire una
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MATTIA
IL DOLORE CRONICO POSTINCISIONALE: NUOVE OPZIONI TERAPEUTICHE
buona analgesia per una varietà di procedure chirurgiche, senza effetti collaterali importanti. Singole dosi di anestetici locali forniscono sollievo dal dolore, ma la breve durata del loro effetto può essere il fattore limitante4. Recentemente, sono state sviluppate nuove tecniche per prolungare l’analgesia postoperatoria, compreso l’uso di cateteri connessi a reservoir elastomerici contenenti anestetici locali o altri coadiuvanti e l’utilizzo dell’analgesia per infiltrazione locale con grandi volumi di anestetici locali, iniettati nei differenti piani tissutali. Tuttavia, gli effetti collaterali associati all’uso degli anestetici locali, in particolar modo la tossicità dell’infusione di grandi dosi, possono costituire un limite di questa tecnica5. Il cerotto di lidocaina al 5% è attualmente prescritto per il trattamento della nevralgia post-erpetica, agendo sui nocicettori cutanei danneggiati/eccitati. Ogni patch contiene 700 mg di lidocaina e consiste in un morbido cerotto di idrogel impregnato di lidocaina 5% in una base acquosa adesiva. Questo viene applicato ad un supporto non intrecciato di poliestere ricoperto da una pellicola di rilascio di polietilene tereftalato (PET). I cerotti dovrebbero essere mantenuti dalle 12 alle 16 ore consecutive al giorno e poi rimossi, fino all’applicazione successiva dopo 8-12 ore. La quantità di lidocaina assorbita per via sistemica è molto bassa, dal 3 al 5% della dose applicata, ed è direttamente correlata alla durata dell’applicazione. La concentrazione necessaria per un effetto antiaritmico è di 1500 ng/ml e la dose tossica è di 5000 ng/ml, mentre i livelli sierici di picco con una dose di quattro cerotti applicati per 12 ore è molto bassa (225 ng/ml), essendo 25 volte inferiore alla dose tossica6. In uno studio prospettico effettuato da Hans et al.7, gli autori sostengono fortemente che il cerotto di lidocaina al 5% possa costituire una nuova opportunità terapeutica per il trattamento del dolore neuropatico localizzato post-chirurgico e postraumatico. Il cerotto di lidocaina al 5%, infatti, sopprimendo l’attività anormale spontanea ed evocata che avvia e sostiene il dolore neuropatico, agisce perifericamente come un analgesico topico non invasivo, combinando efficacia ed un minimo assorbimento sistemico con un basso rischio di interazione con altri farmaci ed un eccellente profilo di sicurezza e tollerabilità8. Oltre a questa azione locale, un recente lavoro9 fa ipotizzare una diversa ragione per la quale la lidocaina potrebbe essere in grado di dare analgesia: in un esperimento condotto su cellule astrocitarie umane, i metaboliti della lidocaina si sono dimostrati in grado di bloccare in maniera competitiva il Glycine Transporter di tipo 1, molecola incaricata di rimuovere la Glycina dal suo sito d’azione astrocitario. Poiché la Glycina è, insieme al GABA, il maggior neurotrasmettitore inibitorio del Siste-
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ma Nervoso Centrale, disporre di una sostanza che ne mantenga alta la concentrazione al sito effettore e dunque ne aumenti l’efficacia può essere particolarmente utile, soprattutto nel trattamento del dolore neuropatico. Ulteriori studi sono certamente richiesti per stabilire quali siano le concentrazioni di lidocaina necessarie per ottenere questo effetto sulla Glycina, senza incorrere negli effetti collaterali tipici degli AL. Se le concentrazioni ematiche utili ad ottenere questo effetto antalgico si rivelassero basse e la sperimentazione clinica dimostrasse che non la concentrazione di picco, tipica della somministrazione endovenosa, bensì la concentrazione ematica media e una stabile e prolungata area sotto la curva sono utili ad ottenere questo effetto sulla Glycina, proprio l’uso di un cerotto a cessione lenta, graduale e controllata si potrebbe rivelare lo strumento più efficace.Per queste ragioni, possiamo ipotizzare che il cerotto di lidocaina al 5% potrebbe rappresentare un efficace trattamento per la prevenzione ed il trattamento delle CPSP. Studi randomizzati e caso-controllo con campioni di dimensioni adeguate ed un sufficientemente lungo follow-up potranno, in futuro, confermare questa ipotesi. References 1. Gerbershagen H, Zgür E, Dagtekin O, Straub K, Hahn M, Heidenreich A et al. Preoperative pain as a risk factor for chronic post-surgical pain – Six month follow-up after radical prostatectomy. Eur J Pain 2009;13:1054-61. 2. Kehlet H, Jensen TS, Woolf CJ. Persistent postsurgical pain: risk factors and prevention. Lancet 2006;367:1618-25. 3. Baidya DK, Agarwal A, Khanna P, Arora MK. Clinical Pharmacology of Pregabalin in acute and chronic pain. J Anaesthesiol Clin Pharmacol. 2011;27:307-14. 4. Ganapathy S, Brookes J, Bourne R. Local infiltration analgesia. Anesthesiol Clin. 2011;29:329-42. 5. Gupta A. Wound infiltration with local anaesthetics in ambulatory surgery. Curr Opin Anesthesiol 2010;23: 708-13. 6. Hans G, Robert D, Verhulst J, Vercauteren M. Lidocaine 5% patch for localized neuropathic pain: progress for the patient, a new approach for the physician. Clin Pharmacol: Advances and Applications 2010;2:65-70. 7. Hans G, Joukes E, Verhulst J, Vercauteren M. Management of neuropathic pain after surgical and non-surgical trauma with lidocaine 5% patches: Study of 40 consecutive cases. Curr Med Res Opin 2009;25:2737-43. 8. Correa-Illanes G, Calderón W, Roa R, Piñeros JL, Dote J, Medina D. Treatment of localized posttraumatic neuropathic pain in scars with 5% lidocaine medicated plaster. Local and RegionalAnesthesia 2010;3:77-83. 9. Werderhausen R, Kremer D, Brandenburger T, Schlosser L, Jadasz J, Kury P et al Lidocaine Metabolites inhibit Glycine Transporter 1. A novel mechanism for the analgesc action of systemic lidocaine ? Anesthesiology 2012;116:147-58.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):373-4
Vie transcutanea, transdermica, intradermica e analgesia: oppioidi C. MATTIA, O. SACCHETTI, V. BECCACECI
Uno dei principali settori di ricerca nelle tecnologie farmaceutiche punta l’attenzione sullo sviluppo di formulazioni in grado di liberare il farmaco nell’organismo in quantità e velocità controllata. In commercio esistono numerose forme farmaceutiche nelle quali il rilascio può essere ritardato, o mediante le quali la velocità e la durata della liberazione del principio attivo possono essere programmate. I sistemi terapeutici transdermici (o cerotti) sono sistemi multilaminati che sono applicati sulla pelle per semplice pressione, come i normali cerotti. Pur appartenendo a tipologie diverse, essi presentano alcuni elementi comuni: un backing, strato impermeabile che svolge la funzione di sostegno e di protezione e che non permette la dispersione del principio attivo all’esterno; uno strato adesivo, che consente il posizionamento del cerotto in una porzione dell’organismo e lo mantiene in posizione durante l’applicazione ed il deposito di farmaco. Offrono il grande vantaggio di non essere “invasivi” per il paziente, poiché vengono applicati sulla pelle come un semplice cerotto. Per questa ragione, i farmaci in commercio sotto forma di cerotti transdermici sono molto numerosi (es. scopolamina, nitroglicerina, estradiolo, clonidina, nicotina, testosterone, fentanyl, buprenorfina). I cerotti transdermici sono progettati in modo rilasciare una quantità di farmaco costante su una precisa superficie (determinata dalla dimensione del cerotto) e su una particolare zona del corpo (in modo da tener conto del diverso assorbimento cutaneo). In questo modo, il dosaggio è molto più accurato, in quanto il cerotto viene progettato in modo da rilasciare una quantità di farmaco adatta alle permeabilità della zona di applicazione. Così, si può avere una certa sicurezza che la frazione di farmaco assorbita sia sufficiente a produrre livelli ematici adeguati per tutta la durata del programma terapeutico.Tali formulazioni in forma di cerotto consentono dunque il controllo del livello ematico del farmaco, diminuendo il numero di somministrazioni giornaliere, in modo da evitare fenomeni di sotto/sovra-dosaggio e minimizzare gli effetti collaterali indesiderati. Con questi sistemi è possibile mantenere le concentrazioni plasmatiche all’interno della zona di efficacia terapeutica per un periodo prolungato di tempo. Tutto questo garantisce il rispetto del regime terapeutico Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Scienze e Biotecnologie Medico-Chirurgiche, Facoltà Medicina e Farmacia, “La Sapienza” Università di Roma
da parte del paziente, in quanto la diminuzione del numero di somministrazioni riduce il rischio di dimenticanze o auto aggiustamenti nell’assunzione del farmaco. La progettazione dei cerotti transdermici viene effettuata in base a quattro elementi: caratteristiche di penetrazione del farmaco nel circolo sistemico; eventuale miglioramento dell’assorbimento con enhancers; scelta della matrice che deve rilasciare il farmaco; scelta delle dimensioni del cerotto. La relazione che rappresenta il passaggio di un farmaco disciolto nel veicolo attraverso lo strato corneo è la legge di Fick: dQ/dt = K Cv Ds A / h dove dQ/dt = quantità di farmaco che compare all’altro lato della membrana; K= coefficiente di ripartizione del farmaco fra barriera e veicolo; Cv= concentrazione del farmaco disciolto nel veicolo; Ds= coefficiente di diffusione del farmaco, cioè la facilità con la quale si muove nella membrana di spessore h e di superficie A; h= spessore della cute nella zona di applicazione. Per quanto attiene le caratteristiche del cerotto, esso è costituito da una matrice monostrato o multistrato solida o semisolida ed in questo caso sono la composizione e la struttura della matrice che regolano la diffusione del principio attivo alla pelle. La matrice può contenere adesivi che assicurano l’adesione della preparazione alla pelle. La preparazione può anche essere costituita da un serbatoio semisolido, un lato del quale è costituito da una membrana che controlla il rilascio e la diffusione del principio attivo dalla preparazione Per essere utilizzati nei cerotti transdermici, i farmaci devono essere efficaci a basse dosi, avere una struttura molecolare stabile (non modificabile nel tempo) ed essere in grado di attraversare la barriera cutanea. Attraverso la cute possono, come abbiamo detto, essere assorbite varie sostanze medicinali. Bisogna però distinguere un assorbimento limitato in loco, finalizzato cioè ad una azione il più possibile locale, che è la via transcutanea, da un assorbimento finalizzato ad ottenere una concentrazione plasmatica
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MATTIA
VIE TRANSCUTANEA, TRANSDERMICA, INTRADERMICA E ANALGESIA: OPPIOIDI
efficace, che è la via transdermica. Si può mirare a raggiungere effetti locali = attività limitata allo strato corneo, epidermide, derma, cioè al sito di applicazione, per patologie localizzate a livello cutaneo, per cui non si espone tutto l’organismo all’effetto del farmaco; oppure effetti regionali = attività nella zona sottostante la cute; o, ancora, effetti sistemici = raggiungere concentrazioni plasmatiche efficaci per distribuirsi in altri distretti dell’organismo. Tra i farmaci che sfruttano la via transcutanea possiamo citare i FANS, la Lidocaina e la Capsaicina, mentre tra quelli che utilizzano la via transdermica, oltre ai classici Nitroderivati ed alla Nicotina, si sono sempre più diffusi i cerotti contenenti Oppioidi. Per essere assorbiti attraverso la cute gli oppioidi devono essere liposolubili, motivo per il quale la Morfina, che è idrosolubile, è esclusa da questo possibile utilizzo. Il Fentanyl ed i suoi derivati e la Buprenorfina sono invece fortemente liposolubili e ben si prestano a questo specifico usoIl Fentanyl è un oppioide sintetico, agonista puro dei recettori µ. La sua elevata liposolubilità ne consente l’uso per via transdermica e transmucosa. Essendo un agonista puro non presenta effetto tetto, non produce metaboliti attivi in grande quantità e può essere impiegato in presenza di insufficienza renale. L’effetto analgesico persiste per un tempo variabile dopo la rimozione del cerotto: in alcuni casi l’effetto del cerotto dura meno di 3 giorni, in un quarto circa dei pazienti è necessaria una sostituzione del cerotto prima delle 72 ore, in un intervallo di tempo compreso fra le 48 e 60 ore. La Buprenorfina è un oppioide semisintetico derivato dalla tebaina, la cui struttura chimica contiene lo scheletro della morfina, ma con alcune differenze. È un analgesico ad azione centrale, agonista parziale sui recettori µ. L’azione agonista nei confronti dei recettori oppioidi, l’andamento curvilineo del grafico dose-risposta, la lenta dissociazione dai siti di legame e l’elevata liposolubilità rappresentano le proprietà farmacologiche essenziali della molecola. Viene eliminata prevalentemente per via fecale. La buprenorfina è stata utilizzata per almeno 30 anni nel trattamento del dolore oncologico, tuttavia con impiego limitato, in parte perché inizialmente disponibile solo in formulazioni per uso parenterale e sublinguale e, in parte, per il verificarsi di eventi avversi, soprattutto negli anziani. È stata considerata a lungo un oppioide debole, a causa dei dubbi circa l’esistenza di un effetto tetto che, peraltro, non è mai stato confermato negli studi sull’uomo. Infatti studi condotti sull’uomo con buprenorfina somministrata per via sublinguale o parenterale hanno dimostrato l’esistenza di un effetto tetto per la depressione respiratoria, ma non per l’analgesia, anche quando si utilizzano dosaggi elevati del farmaco (16 mg i.v. e 12 mg sublinguale).A differenza della morfina, la buprenorfina non sembra possedere effetti depressivi sul
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sistema immunitario, caratteristica particolarmente utile nei pazienti oncologici, soprattutto se anziani e/o diabetici, nei quali tale sistema è spesso compromesso anche in funzione degli effetti immunodepressivi del trattamento chemioterapico. La sua elevata liposolubilità ne consente l’uso per via transdermica e transmucosa. In pazienti mai trattati con oppioidi, la dose di BUP-TDS prescelta dipende dall’intensità del dolore. I pazienti con dolore di grado lieve-moderato possono iniziare con metà cerotto da 35 mcg/h equivalente a 17,5 mcg/h, dal momento che la matrice polimerica consente di poterlo tagliare senza che ciò comprometta l’efficacia. La sua concentrazione plasmatica si riduce mediamente del 50% dopo 30 ore dall’asportazione del cerotto.Nell’utilizzo clinico degli oppioidi per via transdermica va considerato che lo spessore della cute, la temperatura corporea e la temperatura esterna possono far variare la biodisponibilità del farmaco in modo sostanziale. In particolare l’assorbimento del farmaco dai sistemi transdermici ha un tempo di latenza legato alle caratteristiche del farmaco e dell’individuo, dipende in parte dallo spessore della cute e dalla temperatura (aumenta in modo clinicamente rilevante con la febbre, durante la stagione estiva o in vicinanza di fonti di calore)e persiste, per un tempo variabile, anche dopo la rimozione del cerotto, con un effetto che viene definito di “secondo reservoir cutaneo”. Grazie, nel complesso, alle loro caratteristiche di efficacia e sicurezza, i cerotti transdermici contenenti oppioidi si sono sempre più affermati, nel trattamento del dolore. come formulazioni vantaggiose ed apprezzate dai pazienti. Bibliografia Al-Tawil N, Odar-Cederlöf I, Berggren AC, Johnson HE, Persson J. Pharmacokinetics of transdermal buprenorphine patch in the elderly.Eur J Clin Pharmacol. 2012 Jun 17. Andresen T, Upton RN, Foster DJ, Christrup LL, Arendt-Nielsen L, Drewes AM. Pharmacokinetic/pharmacodynamic relationships of transdermal buprenorphine and fentanyl in experimental human pain models.Basic Clin Pharmacol Toxicol. 2011;108:274-84. Mattia C, Coluzzi F, Sonnino D, Anker-Møller E. Efficacy and safety of fentanyl HCl iontophoretic transdermal system compared with morphine intravenous patient-controlled analgesia for postoperative pain management for patient subgroups.Eur J Anaesthesiol. 2010;27:433-40. Paech MJ, Bloor M, Schug SA.New formulations of fentanyl for acute pain management.Drugs Today (Barc). 2012;48:11932. Santos P, Watkinson AC, Hadgraft J, Lane ME.Formulation issues associated with transdermal fentanyl delivery.Int J Pharm. 2011;416:155-9. Van Nimmen NF, Poels KL, Menten JJ, Godderis L, Veulemans HA.Fentanyl transdermal absorption linked to pharmacokinetic characteristics in patients undergoing palliative care.J Clin Pharmacol. 2010;50:667-78.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):375-9
Implicazioni cliniche della disfunzione mitocondriale nel paziente critico A.T. MAZZEO, G. MAZZEO, S. MICALIZZI, C. BARBERA
I mitocondri sono organelli con la funzione precipua di mantenere l’omeostasi cellulare attraverso il controllo di una serie di funzioni di vitale importanza per la cellula. In considerazione di ciò, risulta sempre più evidente l’implicazione dei mitocondri sia nella fisiopatologia delle insufficienze d’organo del paziente critico in terapia intensiva, che nei meccanismi di ‘recovery’ dal danno stesso. Mentre il ruolo centrale della disfunzione mitocondriale nella patologia neurodegenerativa acuta e cronica è ormai da tempo oggetto di studi sia in campo sperimentale che clinico e numerose strategie terapeutiche sono state proposte con l’obiettivo di perseguire la cosiddetta ‘neuroprotezione mitocondriale’, meno chiaro ma profondamente interessante, per le possibili ripercussioni cliniche, appare il ruolo della disfunzione mitocondriale nel determinismo delle insufficienze d’organo del pazente critico. In particolare, una crescente letteratura correla gli eventi patologici cellulari, particolarmente a livello mitocondriale, allo sviluppo di disfunzione d’organo e morte durante sepsi. Infatti, è stato suggerito che la disfunzione d’organo della sepsi possa essere almeno in parte correlata alla disfunzione mitocondriale, come risultato dello stress ossidativo, e possa associarsi conseguentemente alla insufficienza enegetica cellulare, che è il substrato della insufficienza tissutale e deve pertanto essere considerata come target primario di possibili strategie terapeutiche. Si ritiene infatti che la disfunzione mitocondriale durante sepsi possa essere l’effetto combinato di eventi patologici a carico della cellula e di meccanismi genetici, culminanti in una compromissione della funzione bioenergetica cellulare. Gia’ da diversi anni si assiste, dunque, ad un crescente interesse verso le possibili implicazioni cliniche della disfunzione mitocondriale nel paziente critico. Ciò è legato alla possibilità che l’approccio biochimico-metabolico possa fornire valide opzioni terapeutiche per la gestione ed il miglioramento dell’outcome del paziente critico. La conoscenza del meccanimo di danno e la capacita’ di rilevarlo in maniera precoce potrebbero inoltre rivelarsi importanti ai fini del trattamento. Riprendendo alcuni interessanti articoli di Levy et al.2 e di Harrois et al.3, un breve richiamo alla fisiologia della funVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Neuroscienze, Scienze Psichiatriche e Anestesiologiche, Università degli Studi di Messina
zione mitocondriale può risultare utile per comprendere meglio ciò che si verifica in condizioni patologiche. I mitocondri sono essenziali per la produzione di energia, a partire dall’ossidazione dei substrati energetici glicidi, lipidi ed aminoacidi. Grazie a questo processo, si giunge alla produzione dell’ATP, molecola di immagazzinamento dell’energia all’interno delle cellule eucariotiche. Ogni mitocondrio possiede una membrana esterna, permeabile a molecole di larghe dimensioni, ed una membrana interna, permeabile a molecole di dimensioni minori. All’interno di quest’ultima si trovano i complessi proteici coinvolti nel trasporto degli elettroni (complessi I,II,III e IV) e nella sintesi dell’ATP. Inoltre si ritrovano le proteine trasportatrici di piruvato, acidi grassi, ATP, ADP e fosfato inorganico attraverso la membrana stessa. Il ciclo di Krebs ha luogo nella matrice mitocondriale, laddove si ritrovano DNA mitocondriale e ribosomi, che conferiscono ai mitocondri la capacità di sintetizzare alcune proteine. Dal ciclo di Krebs vengono prodotti NADH (Nicotin-adenin-dinucleotide, 3 da ogni molecola di acetil-CoA) e FADH2 (flavin-adenin-dinucleotide, 1 da ogni molecola di acetil-CoA), che donano elettroni alla catena respiratoria. Il NADH al complesso I (NADH deidrogenasi), il FADH2 al complesso II (succinato-coenzima Q reduttasi). Entrambi i complessi trasferiscono elettroni al CoQ. Il complesso III (CoQ-citocromo c reduttasi), accetta gli elettroni dal CoQ e li trasferisce al citocromo c. Infine il complesso IV (citocromo c ossidasi) trasferisce gli elettroni dal citocromo c all’ossigeno. Tale flusso di elettroni attraverso i complessi respiratori mitocondriali (I-IV), produce quell’energia necessaria per trasferire protoni attraverso la membrana interna, dalla matrice mitocondriale verso lo spazio intermembrana. Il gradiente elettrochimico che ne deriva (detto potenziale di membrana mitocondriale) è indispensabile sia per la
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MAZZEO
IMPLICAZIONI CLINICHE DELLA DISFUNZIONE MITOCONDRIALE NEL PAZIENTE CRITICO
produzione di ATP ed accumulo di Calcio (Ca2+), che per il mantenimento dell’omeostasi mitocondriale. I protoni vengono traslocati attraverso la membrana interna dal complesso F0F1-ATPasi (complesso V). Il trasporto elettronico e la sintesi dell’ATP sono processi strettamente accoppiati (accoppiamento catena trasporto elettronico-fosforilazione ossidativa). Pertanto, se si verifica un riduzione del gradiente protonico, si assiste ad un’interruzione della produzione di ATP (disaccoppiamento catena trasporto elettronico-fosforilazione ossidativa). Tale evenienza può verificarsi ad opera di proteine di disaccoppiamento (UCPs) e per apertura dei pori di transizione (MPT), entrambi presenti nella membrana mitocondriale interna. L’importante ruolo biologico svolto da queste proteine, risiede nella loro capacità di regolare la biogenesi mitocondriale, il flusso di calcio, la produzione di radicali liberi (ROS) e la temperatura locale. Ma come si integra tutto questo con la pratica clinica, soprattutto con quella delicata categoria di pazienti, come quelli critici? Sepsi grave/shock settico e danno da ischemia/riperfusione sono le principali cause d’insufficienza multi-organo e di mortalità nelle ICU non coronariche4, con una mortalità superiore al 50%. Nel paziente critico, la MOF rappresenta l’evoluzione fisiopatologica di numerosi processi morbosi che possono evolvere in una disfunzione multiorgano, spesso letale. Sebbene la MOF sia spesso associata alla sepsi, in realtà la sua patogenesi passa attraverso lo sviluppo della SIRS (Sindrome da Risposta Infiammatoria Sistemica), che non sempre riconosce come primum movens un focolaio infettivo. Fenomeni come ischemia/riperfusione, associata ad un’eccessiva produzione di radicali liberi, attivazione ed adesione dei neutrofili all’endotelio5-7, con successiva trans-migrazione nel tessuto circostante, lesione della barriera intestinale con traslocazione batterica ed un iniziale stato iperinfiammatorio, seguito da una ritardata immunosoppressione, che predispone ulteriormente al rischio infettivo, vengono generalmente considerati alla base della patogenesi della MOF8-10. Sul fronte cellulare, il meccanismo che porta al danno d’organo è riconducibile alla disfunzione mitocondriale, come dimostrano numerosi studi sperimentali condotti sia su modelli animali, che su pazienti critici11,12. Brealey et al.,13 in un articolo che può essere considerato un caposaldo della teoria della correlazione tra disfunzione mitocondriale e gravità clinica del paziente, utilizzando un modello animale murino di peritonite stercoracea, trattata con fluido-terapia a lungo-termine, hanno riportato che l’alterata utilizzazione dell’ossigeno nel paziente settico e nei modelli animali è da correlare all’inibizione della catena respiratoria mitocondriale mediata dall’ossido nitrico. Lo scarso outcome ed il danno d’organo dei pazienti con shock settico è stato correlato ad iperproduzione di NO e disfunzione mitocondriale, osservata su muscolo scheletrico. Il contributo di questo studio è importante, poiché può essere considerato come rappresentativo della sepsi nell’uomo, con una mortalità del 40% e lo sviluppo di MOF. Quello che è stato osservato è che, sia nel muscolo scheletrico, che nel fegato, l’attività dei Complessi II, III e IV è rimasta invariata per tutto il 376
periodo di osservazione. Invece, l’attività del Complesso I si è ridotta, sia nel fegato, che nel muscolo scheletrico, con peggioramento della severità clinica e significativa riduzione dei livelli di ATP in entrambi i tessuti. Dal punto di vista istologico, le alterazioni osservate sono state di lieve entità; non si è osservata necrosi o apoptosi, suggerendo un possibile meccanismo adattivo cellulare. Vanhorebeek et al. hanno riportato i dati ottenuti da 20 pazienti deceduti in ICU chirurgiche ed in cui è stato possibile evidenziare anomalie mitocondriali strutturali e funzionali (ridotta attività dei Complessi I e IV) a livello epatico, ma non muscolare14. Tali alterazioni a livello epatocitario sono state riscontrate anche su biopsie ottenute da pazienti sottoposti a trapianto di fegato, sebbene i dati possano essere messi in relazione sia con i danni da ischemia/riperfusione (I/R), che con quelli prodotti dalla risposta immunitaria dell’ospite15. Nei modelli animali, il danno da I/R che accompagna i trapianti di cuore e fegato, danneggia la funzionalità mitocondriale16,17. In un recente studio di Kozlov et al, viene stabilito che nella progressione del danno da I/R rivestono un ruolo principale: la disfunzione mitocondriale (caratterizzata da deplezione di ATP), l’apertura dei pori di transizione di permeabilità mitocondriale (MPT) e l’aumentata produzione dei ROS1,18. Nello stesso studio, gli autori prendono in considerazione i dati di letteratura che si riferiscono alla potenziale efficacia di trattamenti mirati al ripristino della funzione mitocondriale alterata. Il nitrito è un donatore di NO, specialmente nelle condizioni di ipossia/acidosi, in grado di mediare la citoprotezione dopo I/R. I benefici del trattamento con nitrito sono stati dimostrati in numerosi modelli in vivo. Un recente studio di Jung et al. ha evidenziato che la terapia a lungo-termine con nitrito, quando iniziata dopo 24 dall’insulto I/R induce rigenerazione tissutale e vascolare e migliora il recupero funzionale19-21. Pertanto gli autori concludono che la terapia precoce e a lungo-termine con nitrito può essere efficace nel trattamento delle condizioni ischemiche, come per esempio nei pazienti colpiti da stroke. L’NO endogeno è un gas altamente diffusibile, con numerosi effetti sulla fisiologia mitocondriale. Normali livelli intracellulari di NO stimolano la biogenesi mitocondriale mediante cGMP (Guanosin-monofosfato ciclico) e PGC1 (coattivatore 1 del proliferatore gamma del perossisoma). L’NO prodotto dalla eNOS (NO sintetasi costitutiva) attiva la produzione di cGMP ad opera della guanilato ciclasi solubile. Questo porta all’espressione del cottivatore trascrizionale PGC-1, aumento della produzione di NRF-1 (Nuclear respiratory factor 1) ed attivazione della biogenesi mitocondriale22. Inoltre, l’NO agisce anche sulla muscolatura liscia vasale, provocando vasodilatazione. Ciò determina una migliore disponibilità di substrati ed ossigeno per le cellule ed i mitocondri. Tuttavia, durante i processi flogistici, alti livelli di NO vengono prodotti ad opera della iNOS (NO sintetasi inducibile23,24). Quest’aumentata produzione, in condizioni patologiche, inibisce direttamente la respirazione mitocondriale, agendo sul complesso IV (citocromo c ossidasi, COX), con compromissione della fosforilazione ossidativa25; l’NO, infatti, si lega al ferrocitocromo a3,
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IMPLICAZIONI CLINICHE DELLA DISFUNZIONE MITOCONDRIALE NEL PAZIENTE CRITICO
competendo con l’ossigeno sul sito di legame al gruppo eme. Ciò suggerisce che in condizioni fisiologiche, quando la concentrazione di ossigeno è bassa, concentrazioni nanomolari di NO possono effettivamente regolare la catena respiratoria mitocondriale, inibendola reversibilmente. Pertanto la riduzione della respirazione mitocondriale indotta dall’NO in condizioni di ipossia può essere considerata un meccanismo adattivo alla ridotta disponibilità di ossigeno26,27. Ciò può portare ad incompleta riduzione dell’ossigeno, aumentata produzione di ROS ed attivazione di AMPK (protein kinasi attivata dall’AMP). È stato dimostrato che in condizioni di ipossia, l’NO derivato dal nitrito, inibisce il complesso I, ma migliora l’inattivazione ossidativa del complessi II e IV e dell’aconitasi durante la riossigenzione, prevenendo così l’apertura del MPT(mitochondrial permeability transition) ed il rilascio di citocromo c28. Effetti simili sono stati dimostrati con il tricarbonil-cloro-rutenio-glicinato, molecola donatrice di CO, che agisce in modo simile all’NO sulle metalloproteine. Su un modello di sepsi, Lancel et al. hanno dimostrato che il CO stimola la biogenesi mitocondriale e riduce la mortalità nei topi29. Tuttavia, l’NO reagisce col superossido, producendo un composto intermedio tossico, il perossinitrito, che danneggia i mitocondri30,31. Quando l’NO raggiunge concentrazioni superiori, può competere con la superossidodismutasi (SOD) e reagire con l’anione superossido, producendo ONOO (perossinitrito). In condizioni di infiammazione, la simultanea produzione di O2 e NO può aumentare fino a 1000 volte e portare alla formazione di perossinitrito fino a 1.000.000 di volte. Quindi, anche minime variazioni di O2 e NO, possono produrre grandi variazioni (in termini di aumento) di perossinitrito, riducendo simultaneamente la disponibilità di NO. Il perossinitrito è coinvolto nei processi di citotossicità, poiché in grado di attraversare le membrane biologiche e di reagire con i complessi I e III della catena di trasporto elettronico mitocondriale. Inoltre può regolare l’apoptosi, mediante permeabilizzazione della membrana esterna. Quest’ultimo evento favorisce la fuoriuscita di numerose molecole di segnale pro-apoptotiche, promuovendo la morte cellulare programmata. Inoltre, viene facilitata la transizione di permeabilità mitocondriale (MPT), cioè la permeabilizzazione della membrana interna. Il risultato sarà la perdita del potenziale di membrana mitocondriale con cessazione del trasporto elettronico e della produzione di ATP. Ancora, il perossinitrito può ossidare direttamente alcune molecole a basso peso molecolare con funzione protettiva dallo stress ossidativo, come il glutatione ridotto (GSH). I dati apparentemente contrastanti sulle potenzialità dell’NO vengono analizzati in un lavoro di Protti e Singer32, che ipotizzano che la riduzione della spesa energetica cellulare possa rappresentare la potenziale strategia terapeutica della disfunzione mitocondriale nel paziente con MOF. L’ibernazione riduce il metabolismo degli animali in condizioni avverse; alcune specie animali sono in grado di tollerare lunghi periodi di ipossia, sopprimendo il turnover dell’ATP. Nel caso degli uomini, i pazienti con disturbi coronarici cronici spesso sviluppano una disfunzione contrattile del miocardio, Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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nota come “ibernazione miocardica”, che può rappresentare un meccanismo adattivo all’ischemia, con recupero al ripristino di un’adeguata perfusione33. Per quanto riguarda l’NO, affermano che l’inibizione specifica di NOS inducibile in corso di sepsi può rappresentare una potenziale strategia terapeutica, anche se la scelta del dosaggio rappresenterà la chiave del successo. Ciò è avvalorato dall’aumento della mortalità segnalato in uno studio di fase III su un inibitore aspecifico di NOS nei pazienti con shock settico. In effetti, il risultato complessivo negativo di questo studio ha mimetizzato il beneficio in termini di sopravvivenza osservato con basse dosi34. Altra possibile strategia terapeutica è quella ormonale. Gli ormoni tiroidei possono stimolare l’attività mitocondriale. Iniezione di T3 nei ratti ipotiroidei induce iperespressione dei fattori di trascrizione correlati alla biogenesi mitocondriale35. Persistenti bassi livelli circolanti di T3 nel paziente critico, possono essere dovuti ad una disfunzione neuroendocrina36. La terapia sostitutiva ormonale somministrata al momento giusto, cioè quando le cellule hanno riacquistato la capacità di ripristinare l’attività mitocondriale e di aumentare il metabolismo, può essere utile per “risvegliare” la cellula e promuovere un precoce recupero funzionale. Tuttavia, la terapia supplementare con tiroxina può rivelarsi pericolosa37, pertanto va valutata con attenzione. Altri ormoni che potrebbero essere considerati nel trattamento della sepsi sono la leptina e gli estrogeni. La leptina è un ormone secreto dal tessuto adiposo. Essa controlla l’assunzione di cibo ed il bilancio energetico, al fine di mantenere costante la massa totale di grasso corporeo. In ratti diabetici grassi, l’iperleptinemia ectopica innesca la proliferazione mitocondriale, trasformando gli adipociti bianchi in cellule ossidanti grassi, ricche di mitocondri38. Anche la somministrazione di estrogeni o agenti antiandrogeni dopo trauma / emorragia aumenta l’attività degli enzimi mitocondriali, la sintesi proteica e i livelli di ATP rispetto ai controlli39. Un ulteriore equivalente biologico all’ ibernazione indotta da sepsi batterica, è la quiescenza batterica. Questo è un ben noto stato di bassa crescita, reversibile, dei micobatteri, come Mycobacterium tuberculosis. Il Micrococcus luteus può essere “risvegliato” da questa fase di riposo da una proteina endogena chiamata ‘fattore promovente la rianimazione’40. Poiché i mitocondri discendono da un endosimbionte batterico, l’identificazione e l’applicazione di una proteina simile, che possa specificamente stimolare l’attività mitocondriale, potrebbe produrre risultati positivi. La letteratura offre ulteriori spunti per le possibili opzioni terapeutiche della disfunzione mitocondriale. Gli antiossidanti con azione mirata sui mitocondri richiedono ulteriori studi. I peptidi mimetici o gli agenti cationici lipofilici con azione sui mitocondri (MitoQ, SkQ1) potrebbero rappresentare una terapia antiossidante, sebbene risulti ancora difficile direzionare la loro azione su organi o cellule bersaglio41. In generale, un legame tra l’esposizione all’H2S e la funzione mitocondriale è data dalla ben nota capacità dei solfuri di inibire fortemente la citocromo c ossidasi (COX), cioè l’accettore finale degli elettroni nella catena respiratoria mitocondriale. Questa proprietà è alla base dell’ele-
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vata tossicità di questo composto. D’altro canto, ciò non implica che gli effetti biologici dell’H2S siano esclusivamente mediati dall’azione diretta sui mitocondri42, poiché non è stato osservato un aumento della biogenesi mitocondriale, dopo danno da I/R su miocardio43. Sulla base di queste osservazioni, si ipotizza che l’H2S riduca principalmente il danno mitocondriale, mediante un effetto antiossidante. Il piruvato è un attivatore del complesso della piruvato deidrogenasi (PDHC) e riduce il rapporto citoplasmatico NADH/NAD +, stimolando la via glicolitica. Anche il dicloroacetato (DCA), un analogo strutturale del piruvato, attiva il PDHC. Un trial clinico controllato sull’utilizzo del DCA, per il trattamento di pazienti con sepsi o insufficienza epatica, non ha mostrato effetti benefici tali da migliorare l’emodinamica o la sopravvivenza44. Il piruvato agisce anche come antiossidante e il suo potere farmacologico nella sepsi, così come in altre condizioni critiche, sembra essere in parte legato a questa proprietà45,46. La somministrazione esogena di citocromo c è stata proposta come ulteriore approccio terapeutico per la disfunzione mitocondriale nella sepsi47. Il razionale per questo trattamento è dato dalla constatazione che la depressione cardiaca negli animali settici si sviluppa contemporaneamente alla comparsa di inibizione della COX. Tuttavia, non sono disponibili dati per supportare i potenziali benefici di citocromo c esogeno negli esseri umani. Il precondizionamento è un fenomeno in cui la protezione contro gli insulti severi, si ottiene attraverso l’adattamento a bassi livelli di insulti48,49. Gli stimoli precondizionanti includono ischemia/ipossia, basse dosi di endotossina, agonisti dell’ adenosina A1, agonisti degli oppioidi delta1 e altri. Si ritiene che i mitocondri siano l’obiettivo finale di un precondizionamento attivo tramite le vie di segnalazione dell’NO50 o di una stimolazione della biogenesi mitocondriale51. La MOF rappresenta la principale causa di morte nei pazienti critici. La disfunzione mitocondriale riveste un ruolo importante nello sviluppo delle insufficienze d’organo, attraverso le variazione di ATP, ROS, Ca2 + e il rilascio di proteine proapoptotiche. Pertanto, i mitocondri possono direttamente (tramite diminuzione dei livelli di ATP) e/o indirettamente (attraverso la modulazione di segnali ROS-dipendenti) contribuire alla disfunzione cellulare e all’insufficienza d’organo, contribuendo al peggioramento dell’outcome dei pazienti ricoverati in ICU. Considerato il ruolo critico dei mitocondri nei processi di vita o morte cellulare, ed essendo ormai dimostrato il loro coinvolgimento nella fisiopatologia del paziente critico in genere, e del paziente settico in particolare, ne deriva che una crescente letteratura sia stata di recente rivolta allo studio delle implicazioni fisiopatologiche della disfunzione mitocondriale e all’impiego di agenti farmacologici che siano potenzialmente in grado di proteggere direttamente o indirettamente l’integrita’ mitocondriale. Le strategie rivolte alla prevenzione del danno mitocondriale possono quindi rappresentare la terapia del futuro per i pazienti critici. Inoltre, essendo il ripristino della funzione mitocondriale un potenziale prerequisito del recovery dal danno d’orga378
no, la valutazione della funzione mitocondriale potrebbe divenire un importante indice di valutazione del paziente critico. Alcune questioni rimangono tuttavia aperte, e tra queste: è la disfunzione mitocondriale la causa iniziale della disfunzione d’organo o ne rappresenta semplicemente un meccanismo atto ad evitare ulteriore danno cellulare correlato all’eccessiva produzione ossidativa mitocondriale o alla incontrollata autodistruttiva risposta immunitaria? 52 Bibliografia 1. Kozlov et al. Mitochondrial dysfunction and biogenesis: do ICU patients die from mitochondrial failure? Annals of Intensive Care 2011;1:41 2. Stanley Muravchick et al. Clinical Implications of Mitochondrial Dysfunction. Anesthesiology 2006;105:819-37. 3. Anatole Harrois, et al. . Alterations of mitochondrial function in sepsis and critical illness. Current Opinion in Anaesthesiology 2009;22:143-149. 4. Moore LJ et al. Sepsis in general surgery: a deadly complication. Am J Surg 2009;198:868-74. 5. Welbourn CRB et al. Pathophysiology of ischaemia reperfusion injury: central role of the neutrophil. Brit J Surg 1991; 78:651-5. 6. Koziol JM et al. Occurrence of bacteremia during and after hemorrhagic shock. J Trauma 1988;28:10-6. 7. Rush BFJ et al. Endotoxemia and bacteremia during hemorrhagic shock: the link between trauma and sepsis? Ann Surg 1988, 207:549-54. 8. Buchholz BM et al. Membrane TLR signaling mechanisms in the gastrointestinal tract during sepsis. Neurogastroenterol Motil 2010;22:232-45. 9. De Winter BY et al. Interplay between inflammation, immune system and neuronal pathways: effect on gastrointestinal motility. World J Gastroenterol 2010;16:5523-35. 10. Stearns-Kurosawa DJ et al. The pathogenesis of sepsis. Annu Rev Pathol 2011;6:19-48. 11. Fredriksson K et al. Dysregulation of mitochondrial dynamics and the muscle transcriptome in ICU patients suffering from sepsis induced multiple organ failure. PLoS One 2008; 3:e3686. 12. Brealey D et al. Association between mitochondrial dysfunction and severity and outcome of septic shock. Lancet 2002; 360:219-223. 13. David Brealey et al. Mitochondrial dysfunction in a longterm rodent model of sepsis and organ failure. Am J Physiol Regul Integr Comp Physiol 2004;286:R491–R497. 14. Vanhorebeek I et al. Protection of hepatocyte mitochondrial ultrastructure and function by strict blood glucose control with insulin in critically ill patients. Lancet 2005;365:53-9. 15. Duclos-Vallee JC et al. Hepatitis C virus viral recurrence and liver mitochondrial damage after liver transplantation in HIV-HCV co-infected patients. JHepatol 2005;42:341-9. 16. Kuznetsov AV et al. Mitochondrial defects and heterogeneous cytochrome c release after cardiac cold ischemia and reperfusion. Am J Physiol Heart Circ Physiol 2004;286: H1633-H1641. 17. Kuznetsov AV et al. Functional heterogeneity of mitochondria after cardiac cold ischemia and reperfusion revealed by confocal imaging. Transplantation 2004;77:754-6. 18. Murillo D et al. Nitrite as a mediator of ischemic preconditioning and cytoprotection. Nitric Oxide 2011;25:70-80. 19. Abe Y et al. Hepatocellular protection by nitric oxide or nitrite in ischemia and reperfusion injury. Arch Biochem Biophys 2009;484:232-237. 20. Zuckerbraun BS et al.Nitrite potently inhibits hypoxic and inflammatory pulmonary arterial hypertension and smooth
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Mitochondrial dysfunction in severe traumatic brain injury A.T. MAZZEO1, A. MICALIZZI1, S. YOKOBORI2, M. ROSS BULLOCK2
The central role of mitochondria in determining ‘death or life decision’ (Green 1998) after brain injury has been demonstrated in experimental and clinical studies, and significantly changed the early approach to traumatic brain injury (TBI) patients. Mitochondria are essential for bioenergetics, redox and ion homeostasis and, conversely, mitochondrial dysfunction is responsible for a cascade of events which continue for days after the initial injury, and contribute to secondary damage, eventually leading to the loss of essential cell functions, and axonal and neuronal damage (Gilmer 2009, Lifshitz 2004 ,Fiskum 2000, Starkov 2004, Xiong 1997). Both structural and functional damage in mitochondria have been described after TBI (Lifshitz 2004, Singh 2006). Mitochondrial dysfunction occur rapidly, and evolves progressively over 24 hr of injury. Severe mitochondria swelling, loss or fragmented cristae membranes, and rupture of outer membrane have been reported, indicative of onset of mitochondrial permeability transition (Lifshitz 2004, Singh 2006). As the outer membrane rupture occurs, apoptogenic proteins are released into the cytosol, activating the caspase-dependent cell death cascades, and causing a bioenergetic catastrophe (Kroemer 1998). Mitochondrial events responsible for cell dysfunction and death are numerous and include loss of cellular calcium homeostasis, oxidative stress, promotion of apoptosis, metabolic and bioenergetic failure and cell death (Singh 2006). Mitochondria are regulators of both energy metabolism and apoptotic patways; they are the ‘powerhouse of the cell’ (Stavrovskaya 2005) providing ATP essential for cellular processes and neuronal viability, and they function as high capacity calcium sink, maintaining calcium homeostasis, within the cell. Ion shifts are recognized among mechanisms responsible for mitochondrial swelling. In particular, mitochondria are essential in the regulation of intracellular calcium, acting by sequestering and releasing intracellular calcium that is known to be massively increased in TBI, stroke, and especially oxidative stress (Xiong 1997, Sullivan 2000a,b, Sullivan 2005). Literature increasingly reports that after a brain and a spinal cord injury, a reduced mitochondrial bioenergetics Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1Dipartimento
di Neuroscienze, Scienze Psichiatriche e Anestesiologiche, Università degli Studi di Messina 2Department of Neurosurgery, University of Miami, Miller School of Medicine, Miami, FL, USA
occurs, as measured by altered oxygen consumption during different states of mitochondrial respiration (Sullivan 2005). The resulting effect at level of synaptic mitochondria, isolated 3 hr post-injury from the injured cortex of TBI animals, is a reduction in respiratory control ratio (rate of respiration in the presence of ADP/rate of respiration in the absence of ADP), a loss of electron transport system capacity and a reduction in oxidative phosphorylation evident by reduced oxygen consumption after the addition of ADP. In the event of spinal cord injury, the extent of mitochondria dysfunction is evident even at 24 hr post-injury (Sullivan 2005). The time course of post-traumatic mitochondrial dysfunction in experimental models of TBI, reveals that significant changes occur early after the injury, 15-30 min post-injury, with peak impairment at 12-24 hr (Sullivan 1998, Singh 2006). In a study investigating mitochondrial bioenergetic changes occurring after mild, moderate and severe injuries, in an experimental model of cortical contusion, Gilmer et al. observed that alteration in mitochondrial function was evident even after mild injury and that as the injury severity increased, the overall oxygen consumption was significantly reduced. Signs of mitochondrial dysfunction were evident as early as 1 hr post injury and remained constant for up to 3 hr (Gilmer 2009). In the study, the overall oxygen utilization rate was assessed by measuring the amount of oxygen consumed throughout all states of respiration, divided by the time elapsed and amount of mitochondrial protein present in the assay. It was evident an injury-dependent decline in the overall rate of oxygen utilization, suggestive of a significant bioenergetic impairment. In the same study a 10% reduction in maximum respiration abilities was observed in animals subjected to mild injuries, and a 30% reduction in those with a severe insult (Gilmer 2009).
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MITOCHONDRIAL DYSFUNCTION IN SEVERE TRAUMATIC BRAIN INJURY
Previously, Singh et al. had shown in a model of controlled cortical impact TBI in mice, that a marked and substained alteration in mitochondrial respiratory rates, respiratory control ratio, and calcium-buffering capacities was evident by 3hr and peaks by 12 hr after TBI, when maximal respiratory capacity was reduced by 63% (Singh 2006). They also showed that calcium buffering was already impaired at 30 min after injury, decreased by 50% at 3 hr, and persisted low at 12 hr after injury (Singh 2006). Mitochondrial dysfunction was associated with increased markers of mitochondrial oxidative damage, such as lipid peroxidation, protein nitration and protein oxidation. Soane et al. (Soane 2007) identified abnormalities of electron transport chain complexes, nitric oxide inhibition of cytochrome oxidase, citocrome c release, oxidative inactivation of mitochondrial matrix enzymes, availability of the metabolic cofactor NAD, and the opening of mitochondrial permeability transition pore (mPT), among the principal responsible mechanisms of impaired mitochondrial function. Among these pathomechanisms, active after TBI, a pivotal role as a possible determinant of cell death following acute neurodegeneration, is played by mitochondrial permeability transition, which has been defined as a sudden increase in inner mitochondrial membrane permeability to solutes of molecular mass less than 1500 Da (Zoratti 1995; Szabó 1991). This will result in the loss of membrane potential, further mitochondrial swelling, and rupture of the outer mitochondrial membrane. The mPT is thought to occur after the opening of a mega channel that is known as the permeability transition pore (PTP), which putatively consists of the voltage-dependent anion channel (VDAC), the adenine nucleo- tide translocator (ANT), cyclophilin-D (Cyp-D), and other molecules (Sullivan 2005, Tsujimoto 2007). A comprehensive review on the role of mitochondrial transition pore, and its modulation, in traumatic brain injury and delayed neurodegeneration after TBI has been recently published by our group (Mazzeo 2009a). Metabolic imaging studies performed after head injuries well depict the metabolic failure which is consequent to mitochondrial dysfunction, after TBI. In a population of severe head injury patients, by measuring N-acetylaspartate (NAA) levels, using proton magnetic resonance spectroscopy, Signoretti et al. showed a reduction of NAA/Choline and NAA/Creatinine ratios within the first 10 days after injury (Signoretti 2008). In patients with poor outcome, NAA decrease, a marker of neuronal loss or distress, was inesorable and irreversible, whereas significantly higher levels of NAA were detected in patients who experienced good outcomes, in whom NAA levels recovered within 60 days of injury. Based on the knowledge of mitochondrial involvement in the determinism of death after brain injury, mytochondrial dysfunction appears a logic target of neuroprotective strategies (Robertson 2009, Kristal 2004, Stavrovskaya 2005, Sullivan 2005, Greco 2010, Greco 2011). As mitochondria are affected very early after the injury, therapeutic interventions should be initiated early, to aim effective neuroprotection. Ideally these therapies should be initia382
ted within 3 hr and maintained for 48-72 hr to optimally reduce mitochondrial failure (Singh 2006). Possible targets for intervention, aiming at mitochondria neuroprotection, are bioenergetic dysfunction and metabolic failure, oxidative stress and apoptosis. Mitochondrial activation of apoptosis could be blocked enhancing mitochondrial antioxidant properties, through the upregulation of the inducible mitochondrial antioxidant enzyme MnSOD. Manganese superoxide dismutase (Mn-SOD; SOD2), a primary mitochondrial antioxidant enzyme, scavenges superoxide radicals and its overexpression provides neuroprotection (Jung 2009). In a model of cerebral ischemia in mice, Jung et al. demonstrated the role of signal transducer and activator of transcription 3 (STAT3) as a transcriptional regulator of MnSOD gene expression, as well as a neuroprotectant, and clarified the molecular mechanism of ROS overproduction after cerebral ischemic injury via Mn-SOD reduction caused by STAT3 inhibition (Jung 2009). As mitochondria are major targets of oxidative stress, neuroprotection through stimulation of mitochondrial antioxidant protein expression has been recently considered (Greco 2010). Expression of genes coding for many antioxidant defense proteins is regulated by the nuclear factor-erythroid 2-related factor 2 (Nrf2) transcriptional activating factor and neuroprotection by pharmacologic activation of Nrf2 pathway of gene expression has been proposed in literature (Greco 2010). Administration of sulforaphane, by translocation of Nrf2 to the nucleus and increasing mRNA levels for superoxide dismutase 1, was able to improve neurologic outcome, in a model of intracerebral hemorrhage (ICH) (Zhao 2007). When given to rats following cortical impact injury, sulforaphane improves hippocampal- and prefrontal cortex-dependent cognitive functions, thus supporting its use as a potential treatment option also following brain injury (Dash 2009). Administration of agents acting as aerobic energy metabolism enhancers, such as exogenous pyridine neucleotides, ketone bodies, pyruvate, and acetyl-L-carnitine (ALCAR), is another possible approach to mitochondria neuroprotection. It has been proposed that ALCAR can provide neuroprotection through an improvement in cerebral energy metabolism or for a general anti-inflammatory action of carnitine, or for its ability to activate Nrf2 pathway (Scafidi 2010). Finally, giving the role of mPTP in the neuropathological cascade of events following TBI, it is logic to consider it as a main target of therapy in both experimental and clinical investigations. Among drugs interfering with the opening of the mPTP, after TBI, Cyclosporin A (CsA) appears the most promising. During last decades, several studies in experimental brain injury models investigated CsA role in the early phase after TBI, for its ability to preserve mitochondrial integrity (Okonkwo 1999, Sullivan 1999, Sullivan 2000a,b). By inhibiting the opening of the mPTP, CsA prevents mitochondrial swelling and preserves the mitochondria bioenergetic state, necessary to maintain membrane pumps and to restore ionic balance (Okonkwo 1999). The drug has also been demonstrated to be neuroprotective in in vivo models of focal (Yoshimoto 1999, Matsu-
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MITOCHONDRIAL DYSFUNCTION IN SEVERE TRAUMATIC BRAIN INJURY
moto 1999, Shiga 1992) and global (Uchino 1995) cerebral ischemia and has proven to be effective in models of hypoglicemic brain damage (Friberg 1998, Ferrand-Drake 2003). CsA also prevents mitochondrial destruction and the release of caspase following cellular ischemia or TBI (Okonkwo 1999, Povlishock 1996, Signoretti 2004, Sullivan 1999, Sullivan 2000 a,b). In a study evaluating the effect of CsA upon N-acetylaspartate (NAA) reduction and ATP loss, in a model of TBI, CsA demonstrated significant neuroprotection, blunting a 30% NAA reduction and restoring 26% of the ATP loss (Signoretti 2004). The effects of CsA administration on axonal function, following TBI, have recently been evaluated, suggesting a significant neuroprotection for myelinated axons when CsA was administered at 15 m following fluid percussion injury, and also supporting a growing evidence that axon type, myelinated versus unmyelinated, exerts a potent influence on extent of nerve damage and its response to neuroprotective drugs (Colley 2010). As part of a Phase II clinical trial, our research group at Virginia Commonwealth University in Richmond, designed a prospective, randomized, double-blind, 2-center, placebo-controlled study, to evaluate safety, tolerability and pharmacokinetics of a single intravenous infusion of CsA in patients with a severe TBI. Within 12 hours of the injury, patients were assigned to receive either an intravenous infusion of Cyclosporin A or placebo. The dose of CsA was 5 mg/kg/day given over 24 hours, as a slow continuous infusion, diluted in 250 ml of 5% dextrose. The safety and tolerability profile of the drug have been reported (Mazzeo 2009b), and other aspects of drug administration, such as its effects on cell-mediated immunologic function (Mazzeo 2006), and brain neurochemistry and cerebral and systemic hemodynamics (Mazzeo 2008). In our phase II clinical trial, the administration of CsA in the early phase after the injury, resulted in significant elevation in the extracellular fluid glucose and pyruvate, which may be evidence of a neuroprotective effect of the drug, as important energy substrates. Paradoxically brain extracellular lactate concentrations were also significantly more elevated in the CsA treated patients than in placebo, reflecting a complex metabolic situation whereas lactate augmentation, far from being expression of anaerobic metabolism, could be expression of higher glycolitic rate and hypermetabolism, after TBI. The early administration of CsA was also associated with a significant increase in mean arterial pressure (MAP) and cerebral perfusion pressure (CPP) (Mazzeo 2008). We had also demonstrated that no significant difference exists in the studied immunologic parameters in the placebo versus CsA-treated populations at any time point, nor in the incidence of infection or sepsis (Mazzeo 2006). The results of our trial demonstrate the safety and tolerability profile of CsA when administered in the early phase after severe TBI in humans, with the aim of neuroprotection (Mazzeo 2009b). Furthermore, in an experimental cortical impact model of TBI, Sullivan et al. observed that earlier treatment, begun in the first 3 hr, was significantly more effective to achieve neuroprotection, than that begun at 4 and 8 hr (Sullivan 2011). Cortical damage was decreased by 68% when the Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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treatment was initiated at 1 hr post-injury and by 46% if initiated at 3 hr. The results of this study further support the already recognized observation of the importance of a proper, early, therapeutic window for drugs aiming mitochondrial neuroprotection. Finally, it is now increasingly recognized that mitochondrial targeted preconditioning may represent a promising therapeutic weapon against neurodegeneration, thus aiming at neuroprotection. It has recently been proposed that transient exposure of mitochondria to physiopatological intracellular events, or pharmacological agents, determines mitochondrial changes which can protect neurons against adverse subsequent critical events (Correia 2010). References Colley BS et al. The effects of cyclosporin-A on axonal conduction deficits following traumatic brain injury in adult rats. Exp Neurol. 2010;224:241-51. Correia SC et al. Mitochondrial preconditioning: a potential neuroprotective strategy. Front Aging Neurosci. 2010;2. pii: 138. Dash P et al. Sulforaphane improves cognitive function administered following traumatic brain injury. Neurosci Lett. 2009; 460:103-7. Ferrand-Drake M et al. Cyclosporin A prevents calpain activation despite increased intracellular calcium concentrations, as well as translocation of apoptosis-inducing factor, cytochrome c and caspase-3 activation in neurons exposed to transient hypoglycemia. J Neurochem 2003;85:1431-42. Fiskum G. Mitochondrial participation in ischemic and traumatic neural cell death. J Neurotrauma 2000;17:843-55. Friberg H et al. Cyclosporin A, but not FK506, protects mitochondria and neurons against hypoglycemic damage and implicates the mitochondrial permeability transition in cell death. J Neurosci 1998;18:5151-9. Gilmer LK et al. Early mitochondrial dysfunction after cortical contusion injury. J Neurotrauma. 2009;26:1271-80. Greco T et al. Neuroprotection through stimulation of mitochondrial antioxidant protein expression. J Alzheimers Dis. 2010;20 Suppl 2:S427-37. Greco T et al. Sulforaphane inhibits mitochondrial permeability transition and oxidative stress. Free Radic Biol Med. 2011; 51:2164-71. Green D et al. The central executioners of apoptosis: caspases or mitochondria? Trends Cell Biol. 1998;8:267-71. Jung JE et al. Regulation of Mn-superoxide dismutase activity and neuroprotection by STAT3 in mice after cerebral ischemia. J. Neurosci. 2009;29: 7003-14. Kilbaugh TJ et al. Cyclosporin A preserves mitochondrial function after traumatic brain injury in the immature rat and piglet. J Neurotrauma. 2011;28:763-74. Kristal BS et al. The mitochondrial permeability transition as a target for neuroprotection. J. Bioenerg. Biomembr. 2004;36: 309-12. Kroemer G et al. The mitochondrial death/life regulator in apoptosis and necrosis. Annu Rev Physiol. 1998;60:619-42. Li PA et al. Cyclosporin A enhances survival, ameliorates brain damage, and prevents secondary mitochondrial dysfunction after a 30-minute period of transient cerebral ischemia. Exp Neurol 2000;165:153-163. Lifshitz J et al. Mitochondrial damage and dysfunction in traumatic brain injury. Mitochondrion. 2004;4:705-13. Matsumoto S et al. Blockade of the mitochondrial permeability transition pore diminishes infarct size in the rat after transient middle cerebral artery occlusion. J Cereb Blood Flow Metab 1999;19:736-41.
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MAZZEO
MITOCHONDRIAL DYSFUNCTION IN SEVERE TRAUMATIC BRAIN INJURY
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):385-6
La cannula tracheotomica: sempre cosa buona e giusta? D. MAZZON1, R. MUZZOLON2, L. BERNARDI1
Le condizioni in cui viene praticata una tracheotomia (T) in Terapia Intensiva (TI) sono riconducibili sostanzialmente a 3: necessità di ventilazione meccanica invasiva, necessità di bypassare una ostruzione delle prime vie aeree, necessità di aspirare secrezioni tracheobronchiali. Una parte di T vengono praticate in pazienti affetti da patologie acute, in cui l’informazione ed il consenso del paziente sono raramente perseguibili; in tale caso, la probabile assenza di disposizioni anticipate di trattamento circa la T fanno sì che, quando la scelta pare clinicamente appropriata, il parere medico debba in genere trovare applicazione. Nel caso in cui l’appropriatezza clinica sia incerta per età avanzata, prognosi della malattia in corso e patologie concomitanti, va fatto ogni tentativo, con l’aiuto dei familiari, per comprendere se il paziente darebbe il proprio consenso alla T. Esiste però una quota non trascurabile di T che vengono praticate in pazienti affetti da patologie croniche, quando vengono poste indicazione alla ventilazione meccanica invasiva continua o alla presenza di un accesso tracheale permanente per garantire la tracheoaspirazione. In tali casi, è auspicabile che la scelta consapevole del paziente avvenga alla conclusione di un percorso avviato dallo specialista che lo ha in cura per la patologia cronica (Es.: SLA, BPCO, Distrofia Muscolare, ecc.). Uno schema esemplificativo di quanto sinora detto è rappresentato nella figura 1. Dal momento che l’esecuzione di una T “precoce”, non oltre 5-7 gg di intubazione orotracheale, favorisce lo svezzamento dal respiratore e riduce la durata della degenza in TI1, i pazienti sottoposti a T temporanea vengono generalmente trasferiti ancora con la cannula in sede in reparti a minore intensità di cure. Si consegue così apparentemente un doppio beneficio: quello del paziente, che si avvale di una riduzione della durata della ventilazione con riduzione del rischio di contrarre polmonite associata al ventilatore (VAP), e quello della struttura, che da un più rapido turnover dei letti intensivi trae il vantaggio di poter dare una pronta risposta alla richiesta di posti-letto ad alta intensità di cure. Secondo i dati GIVITI 2010, il 7.2% dei pazienti viene trasferito dalla TI con la cannula tracheotomica ancora in sede. Negli ultimi anni, sistemi strutturati di segnalazioni di Eventi Avversi (EA) hanno messo in luce come gli EA Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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legati alla gestione delle cannule sono altrettanto frequenti ma possono avere esiti più gravi rispetto a quelli legati al tubo endotracheale (TET), mettendo così in crisi la convinzione che la via aerea fosse più sicura in TI con una cannula tracheale anzichè con un TET. Il rischio di EA gravi a carico di pazienti tracheotomizzati nei reparti di degenza è ben documentato nel database dell’UK Patient Safety Agency, che riporta 453 EA avvenuti fra il 2005 e il 2007, di cui 338 con danno al paziente, in 15 casi direttamente correlati al decesso del paziente stesso. I fattori contribuenti agli EA sono stati: mancanza di piano e di strumenti per gestire situazioni di emergenza, mancanza di disponibilità h 24 di endoscopia respiratoria, mancato uso di cannule “sicure” per il reparto (con controcannula), mancata formazione degli operatori, scarse informazioni all’atto del trasferimento dalla TI e delle consegne fra il personale del reparto di degenza, mancata conoscenza della differenza fra tracheotomizzato e laringectomizzato, assenza di specifiche Linee-Guida e procedure aziendali2. L’impatto della presenza della cannula tracheotomica sulla mortalità del paziente, una volta trasferito dalla TI in reparto di degenza, è stato studiato in 2 recenti studi che hanno portato a risultati contrapposti3,4. L’Editoriale che accompagna il lavoro di Fernandez e Coll. suggerisce di non interpretare i dati di tale studio multicentrico come una affermazione circa la sicurezza in generale della trasferibilità di un paziente con cannula tracheotomica dalla TI. Dobbiamo invece chiederci caso per caso se la combinazione delle caratteristiche di quel paziente e di quel reparto danno sufficienti garanzie di sicurezza per la gestione di una cannula tracheotomica e conseguentemente stabilire i tempi e i luoghi più idonei per la decannulazione, che deve essere condotta secondo modalità predefinite5. La TI dell’Ospedale di Belluno si è dotata dal 2005 di un sistema di rilevazione degli EA con segnalazione volonta-
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LA CANNULA TRACHEOTOMICA: SEMPRE COSA BUONA E GIUSTA?
ria su scheda di IR6. Gli EA legati al controllo/gestione delle vie aeree sono stati 34. Quelli legati alla gestione della cannula sono stati 5, di cui 1 solo con livello di gravità pari a 4 (livello 1-2: “near miss”; 2-4: nessun danno per il paziente; 5-8: danno moderato, significativo, severo al paziente), 3 con gravità pari a 6 ed 1 con gravità pari a 8, generato al di fuori della TI e riguardante una decannulazione tracheotomica accidentale seguita dal tentativo di riposizionamento non andato a buon fine. La constatazione del rischio di EA potenzialmente fatali nel paziente portatore di cannula tracheotomica nei reparti di degenza, induce ad aprire una riflessione sul beneficio fornito al paziente da una tracheotomia precoce in relazione ai rischi cui egli può andare incontro a causa di una successiva gestione inappropriata e non sicura al di fuori della TI. La sicurezza del paziente con cannula tracheotomica al di fuori della TI dipende da un lato dalla pianificazione da parte della TI di un progetto di gestione a breve-medio periodo che comprende prescrizioni su: umidificazione, gestione della controcannula, tempi e modalità dei cambi cannula, dello svezzamento, dell’uso della valvola fonatoria, indicazione di una figura o di un “team” di riferimento per un follow-up strutturato. Dall’altro lato è cruciale che il personale sanitario del reparto di destinazione sia in grado non solo di praticare al paziente con cannula tracheotomica l’assistenza “ordinaria” (medicazione, aspirazione, gestione dell’umidificazione e della controcannula, ecc.), ma che sia anche in grado di riconoscere i segni e sintomi precoci ed intervenire tempestivamente ed efficacemente in caso di emergenze come: ostruzione, dislocazione/rimozione accidentale, emorragia. I benefici della cannula tracheotomica non devono essere quindi solo valutati in relazione alla sua utilità al fine di un rapido trasferimento dalla TI. Essi vanno bilanciati con il rischio concreto che il paziente venga collocato in una sorta di “terra di nessuno” clinico-assistenziale ove è esposto al pericolo di EA anche fatali, riducibili con l’a-
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dozione di un “pacchetto” di misure precauzionali. La corretta informazione sulle problematiche connesse alla cannula e la formazione del personale coinvolto nella gestione della cannula rendono opportuno un coinvolgimento diretto dell’A/R per la competenza acquisita nella gestione della cannula in TI. Solo realizzando questi requisiti, la gestione di un paziente con cannula tracheale potrà soddisfare le fondamentali dimensioni dell’appropriatezza: etico-deontologica, clinica, organizzativa. Solo la cannula tracheotomica applicata al paziente giusto, nel momento giusto, in un contesto organizzativo ottimale per garantirne la sicurezza, è “cosa buona e giusta”. Bibliografia 1. Griffiths G, Barber VS, Morgan L et al. Sistematic review and meta-analysis of studies of the timing of tracheostomy in adult patients undergoing mechanical ventilation. BMJ 2005;330:1243-55. 2. McGrath BA, Thomas AN. Patient safety incidents associated with tracheostomies occurring in hospital wards: a review of reports to the UK National Patient safety Agency. Postgrad Med J 2010;86:522-5. 3. Hernandez Martinez G, Fernandez R, Sanchez Casado M et al. Tracheostomy tube un place at ICU discharge is associated with increased ward mortality: Respiratory Care; 2009; 54:1664-52. 4. Fernandez R, Tizon AL, Gonzales J et al. ICU discharge to the ward with a tracheostomy cannula as a risk factor for mortality: a prospective, multicenter propensity analysis. Crit Care Med 2011;39:2240-5. 5. Schmidt U, Hess D, Bittner E. To decannulate or not to decannulate: a combination of readiness for the floor and floor readiness? Crit Care Med 2011;39:2360-1. 6. Mazzon D, Bernardi L, Dorigo L et al. L’Incident Reporting migliora la sicurezza dei pazienti in Anestesia e Rianimazione? GIMBE conferenza annuale 2010: Abstract book N. 23. http://www.gimbe.org/report/conferenza_2010/Abstract%2 0Book.pdf
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La segnalazione di eventi: un’esperienza italiana di incident reporting D. MAZZON, L. BERNARDI, PL. TREVISAN, D. LONGI, P. CASARIN, E. SERAFINI
La UO di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Belluno ha partecipato nel 2005 ad un progetto regionale di sperimentazione di un sistema di incident reporting (IR), coordinato dall’Agenzia Regionale Socio-Sanitaria (ARSS), in seguito all’approvazione dei requisiti per l’accreditamento delle strutture sanitarie del Veneto. Obiettivi principali del progetto erano: la sperimentazione di una scheda informatizzata di rilevamento degli EA e la relativa procedura informatica per l’inserimento; l’analisi dei dati con la finalità di sviluppare un sistema di IR. La scheda è stata disegnata per ottenere informazioni su base volontaria sull’EA, sul contesto e sulle concause. L’iniziale esperienza con questo sistema ha mostrato un’ampia e convinta adesione da parte degli operatori della nostra TI1. A conclusione della fase preliminare si è intravista la possibilità di adottare il metodo della segnalazione volontaria di EA con scheda di IR come strumento per il miglioramento continuo della qualità, attuando il ciclo: “rilevazione del rischio – analisi/valutazione del rischio – adozione di misure correttive – valutazione di impatto”. Pertanto, la rilevazione degli EA con IR è stata da noi continuata anche dopo la conclusione della sperimentazione regionale del 2005 ed è a tutt’oggi praticata come attività ordinaria nella nostra TI. La complessità del “sistema TI” espone i pazienti ad un consistente rischio di Eventi Avversi (EA), in buona parte legati ad errori umani, come risultava già nello studio di Donchin del 1995 che riportava un’incidenza di 1.6 errori/paziente/24 ore, commessi in eguale misura da medici e infermieri, largamente attribuibili a cattiva trasmissione di informazioni all’interno dell’equipe2. In Australia è stato avviato nel 1995 un progetto nazionale per introdurre e diffondere un sistema di IR, adottato anche nelle TI3, che si è dimostrato una componente fondamentale per la GRC, contribuendo a determinare modifiche di comportamento nell’uso di apparecchiature, di prescrizioni e somministrazione farmacologica, di protocolli clinici e condizionando i programmi formativi4. Negli USA è stato avviato nel 2001 un progetto analogo, ad opera della John Hopkins University, specificatamente pensato per le TI. Ad esso hanno aderito 23 ICU segnalando 2075 EA fra il 2002 e il 20045. In Europa, la rilevazione sistematica degli Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
UO Anestesia e Rianimazione, Ospedale di Belluno
EA in TI e la loro analisi strutturata pare svolta assai sporadicamente6 e, solo recentemente, allo scopo di creare un network finalizzato allo studio degli EA in terapia farmacologica7. Nel nostro contesto specifico, tutti gli operatori della TI avevano già partecipato nel 2004 ad un corso di formazione sugli aspetti generali della GRC, quindi, nel 2005, si è fatta precedere la sperimentazione da una breve formazione sul metodo dell’IR, sulla scheda di rilevamento e sul progetto regionale. Sono stati nominati due referenti per il rischio clinico in TI, uno medico e uno infermieristico, quali costanti riferimenti per tutti gli operatori della TI, con la funzione di coordinare e supervisionare il corretto svolgersi della sperimentazione nel 2005 e, successivamente, di fungere da facilitatori per continuare l’attività di IR. È stata inoltre costituita l’Unità di Rischio di UO, composta dal Responsabile Aziendale delle funzioni per la sicurezza del paziente, dai due referenti per la gestione del rischio di UO, dal Direttore e dal Coordinatore Infermieristico di UO. Questo team, impegnato nel 2005 nel progetto regionale, negli anni successivi ha svolto le seguenti attività: analisi periodica delle schede di IR, aggregazione degli EA per tipologia, individuazione degli EA da sottoporre ad analisi più approfondite. A partire dal 2008 si è deciso di allargare questo gruppo ad altri membri dell’equipe della TI, costituendo l’“Incident Report Review Group” (IRRG) con il compito di individuare, sulla base della segnalazione degli EA, le criticità dei percorsi clinico-assistenziali (PCA) da sottoporre ad azioni correttive. Infine, l’IRRG è stato il motore del piano formativo accreditato dalla Regione Veneto con 39 crediti formativi ECM che, a partire dal 2008, ha coinvolto tutti gli operatori della TI facendoli partecipare al processo di revisione dei percorsi PCA individuati. Successivamente, sia nel 2010 che nel 2011, è stata scelta la modalità della Formazione sul Campo per continuare il percor-
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LA SEGNALAZIONE DI EVENTI: UN’ESPERIENZA ITALIANA DI INCIDENT REPORTING
so sulla base della revisione continua della mappatura del rischio quale risulta dall’analisi degli EA. Dal 2005 al 2010 sono state raccolte 243 schede di segnalazione di EA accaduti in TI, di cui 81% non anonime. Sono state identificate 17 categorie di EA, da quelle a maggiore frequenza, cioè EA legati a Farmaci (84 EA34,4%), Controllo/Gestione delle vie aeree (34 EA13,9%), Cateteri Venosi Centrali (CVC; 27 EA-11%), a quelle meno rappresentate. Gli EA sono stati raggruppati per gravità effettiva come valutata dal medico RRC secondo la scala da 1 ad 8 contenuta nella scheda di IR (livello 1-2: “near miss”; livello 2-4: nessun danno per il paziente; livello 5-8: danno moderato, significativo, severo al paziente). Si sono così individuati 151 EA con gravità effettiva /= 5 (38%). I 76 EA con stima di gravità futura >/= 5 e stima di frequenza futura >1/anno in caso di riaccadimento, qualsiasi sia la loro gravità effettiva, assieme ai 93 EA di gravità effettiva >/= 5, sono stati sottoposti ad analisi più approfondita da parte dell’IRRG al fine di adottare azioni correttive8. L’analisi degli EA legati ai farmaci è stata condotta da un Gruppo di Lavoro (GdL) ad hoc che ha elaborato il “Manuale per la gestione farmaci di UO ed. 2010” con i seguenti contenuti: posologia e modalità di preparazione e somministrazione dei farmaci impiegati in TI; modalità ordinaria di prescrizione in grafica (principio attivo, prescrizione anticipata/sospesa, abbreviazioni, ecc.); modalità operative per prescrizione verbale/telefonica e prescrizione “al bisogno”; farmaci e nutrizione enterale (frantumabilità, interazioni, ecc.); protocollo infermieristico per somministrazione antibiotici (diluizioni, intervallo di somministrazione); modalità di gestione degli stupefacenti; revisione dei protocolli per l’allestimento dei carrelli in TI. L’analisi degli EA legati al controllo/gestione delle vie aeree ha portato all’elaborazione di una procedura infermieristica di UO relativa al nursing del paziente sottoposto a VAM e di una procedura gestionale aziendale relativa alla gestione del paziente tracheotomizzato. Il crescente numero di pazienti tracheotomizzati in TI e il rischio di EA gravi dopo il trasferimento nei reparti di degenza è ben documentato nel database dell’UK Patient Safety Agency, con 968 EA fra il 2005 e il 2007, di cui 453 con danno al paziente e 15 contribuenti al decesso9. Anche le sale operatorie rappresentano un settore ed elevata rischiosità di EA per: invasività delle azioni sul paziente, complessità delle procedure, continuità delle innovazioni tecnologiche, intensità dei ritmi di lavoro, elevata interazione e interdipendenza fra i diversi operatori, criticità nella comunicazione e collaborazione10. Recentemente, è stato messo l’accento sull’importanza che semplici controlli da svolgersi attraverso checklists possano avere un ruolo di grande utilità per ridurre morbilità e mortalità in sala operatoria11. Dal 2007 il sistema di rilevazione degli EA con IR è stato adottato anche presso il nostro Gruppo Operatorio (GO). Sono state così raccolte 189 segnalazioni che sono state suddivise in 4 categorie di EA: EA legati a gestione delle informazioni (39%), gestione di apparecchi/dispositivi (30%), gestione del processo di sterilizzazione/igiene 388
ambientale (16%), gestione de farmaci (16%). Gli EA sono stati raggruppati per gravità effettiva come valutata dal medico RRC secondo la scala da 1 ad 8 contenuta nella scheda di IR. Si sono così individuati 177 EA con gravità effettiva /= 5 (6 %). I 58 EA con stima di gravità futura >/= 5 e stima di frequenza futura >1/anno in caso di riaccadimento, qualsiasi sia la loro gravità effettiva, assieme ai 12 EA di gravità effettiva >/= 5, sono stati sottoposti ad analisi più approfondita da parte dell’IRRG al fine di adottare azioni correttive. Le segnalazioni hanno riguardato tutte le fasi del percorso perioperatorio: preparazione del paziente all’intervento; preparazione e controllo apparecchi/dispositivi/farmaci per intervento e anestesia; trasporto paziente da reparto a sala operatoria; trasporto al letto operatorio e posizionamento; preparazione campo e tavoli/gestione dell’ambiente; intervento chirurgico; controllo postoperatorio e rientro in reparto. A scopo esemplificativo, si riporta che nella sola fase della preparazione del paziente all’intervento le segnalazioni di EA hanno riguardato: assenza di visita anestesiologica, esami/consulenze o emocomponenti previsti; errata gestione delle terapie domiciliari e preoperatorie; assente o errata identificazione di paziente/sito/ lato/procedura; assenza del consenso informato; errata gestione della preparazione del paziente (doccia, tricotomia, digiuno, ecc); assenti/errate prescrizione di preanestesia, profilassi TVP e AB; mancanza posto-letto in TI per gestione postoperatoria. In larga misura, le azioni correttive adottate hanno riguardato l’implementazione delle Raccomandazioni ministeriali del “Manuale per la sicurezza in Sala Operatoria” dell’Ottobre 2009, sia con l’adozione di una scheda per la gestione perioperatoria, sia con l’istituzione di nuove modalità strutturate per trasmissione di informazioni e la cura dell’implementazione di quelle già esistenti. Le segnalazioni hanno inoltre resa manifesta la necessità di dotarsi o rivedere procedure strettamente legate all’attività chirurgica: accesso al GO, lavaggio mani, igiene ambientale, preparazione tavoli, conta garze e materiali, trasporto campioni, procedura per taglio cesareo di emergenza, ecc. La scheda è stata inoltre impiegata per segnalare eventuali scostamenti/ inosservanze dalle procedure adottate, al fine di favorirne l’implementazione. A differenza di altri sistemi impiegati per raccogliere informazioni utili alla gestione del rischio clinico (revisione di cartelle, analisi dei claims/reclami, ecc.), la segnalazione volontaria degli EA con scheda di IR fornisce una raccolta sistematica e strutturata di informazioni sugli EA provenienti dal contesto stesso in cui l’evento si è verificato, consentendo così di delineare il profilo di rischio di attività specifiche12. Affinché la segnalazione degli EA con IR abbia un ruolo chiave nel migliorare la sicurezza dei pazienti, è necessario che essa sia vissuta come un’opportunità di miglioramento delle cure, senza temere alcuna colpevolizzazione di un eventuale errore umano. L’analisi degli EA deve essere il più possibile condivisa con l’equipe ed approfondire i fattori organizzativi e gestionali che possono aver contribuito ad essi. Il mantenimento nel tempo del sistema richiede poi che da esso scaturiscono cambiamenti di
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PCA o di modalità organizzative finalizzati al miglioramento delle cure, della sicurezza del paziente, della riduzione dei contenziosi. Se condotta soddisfando tali requisiti, l’attività di segnalazione di EA con IR può contribuire al miglioramento del clima comunicativo ed essere uno strumento per favorire il “team building”. Bibliografia 1. Bianchin C, Bernardi L, Di Silvio L, Mazzon D. Sistema di reporting degli eventi avversi in Terapia Intensiva. Esperienza condotta presso il reparto di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale di Belluno. Emergency Care Journal 2008:1: 22-7. 2. Donchin Y, Gopher D, Olin M et al. A look into the nature and cause of human errors in the ICU. Crit Care Med 1995; 23:294-300. 3. Baldwin I, Beckman U, Shaw L et al. Australian Incident Monitoring Studyin intensive care: local unit review meetings and report management. Anaesth Intensive Care 1998; 26/3:294-7. 4. Spigelman AD, Sman G. Review of the Australian Incident Monitoring Study. ANZ J. Surg. 2005;75:657-61. 5. Pronovost PJ, Thompson DA, Holzmueller CG et al. Toward learning from patient safety reporting systems. J Crit Care 21: 304-15.
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MAZZON
6. Hubler M, Mollemann A, Regner M et al. Anonymous critical incident reporting system. Implementation in an intensive care unit. Anaesthesist 2008;57/9:926-32. 7. Valentin A, Capuzzo M, Guidet B, Moreno R, Metnitz B, Bauer P et al. Errors in administration of parenteral drugs in intensive care units: multinational prospective study. BMJ. 2009 Mar 12;338:b814. doi: 10.1136/bmj.b814. 8. Mazzon D, Bernardi L, Dorigo L et al. L’Incident Reporting migliora la sicurezza dei pazienti in Anestesia e Rianimazione? GIMBE conferenza annuale 2010: Abstract book N° 23. http://www.gimbe.org/report/conferenza_2010/Abstract%2 0Book.pdf 9. McGrath BA, Thomas AN. Patient safety incidents associated with tracheostomies occurring in hospital wards: a review of reports to the UK Patient Safety Agency. Postgrad Med J 2010;86:522-5. 10. Edozien LC. La sicurezza del paziente in sala operatoria: un’analisi generale. La Professione 2006;4:18-27. 11. A surgical safety checklist to reduce morbidity and mortality in a global population. NEJM 2009;360/5:491-9. 12. Beckmann U, Bohringer C, Carless R et al. Evaluation of two methods for quality improvement in intensive care: facilitated incident monitoring and retrospective medical chart review. Crit Care Med 2003;31/4:1006-11.
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Nuove raccomandazioni S.I.A.A.R.T.I. sul dolore da cancro R.D. MEDIATI
Il dolore è il sintomo più frequente malattia oncologica, esso rappresenta spesso la prima manifestazione della malattia e nel 64% dei casi è anche il sintomo di un avanzamento della malattia con comparsa di nuove lesioni. Durante la sessione verranno presentate le nuove raccomandazioni S.I.A.A.R.T.I. sul dolore da cancro, queste costituiscono l’aggiornamento delle Raccomandazioni SIAARTI per la valutazione ed il trattamento del dolore cronico nel paziente oncologico pubblicate su Minerva Anestesiologica nel 2003. All’interno della Consensus Conference del Gruppo di Studio “Dolore oncologico e Cure Palliative” si è deciso di redigere linee guida EBM validate che, come altre linee guida SIAARTI già pubblicate, presentano una serie di raccomandazioni cliniche tese ad uniformare i comportamenti medici; in quanto raccomandazioni possono dunque essere rispettate, modificate o rifiutate a seconda delle esigenze cliniche del singolo paziente e/o del contesto clinico di applicazione. Rimangono validi gli impegni già assunti dalla Consensus Conference del Gruppo di Studio nel 2003: – impiego di sistemi tassonomici definiti da una migliore comprensione
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dei meccanismi patogenetici del dolore – maggiore accuratezza diagnostica; – uso corretto delle strategie terapeutiche e rispetto dei criteri della Evidence Based Medicine (EBM).Si aggiungono:-Valutazione globale della situazione del malato e considerazione del dolore come parte di un ampio quadro di sofferenza, che accompagna la malattia malattia oncologica. Approccio alla sofferenza basato sui principi della medicina palliativa. È stata preliminarmente esaminata la forbice esistente tra livelli di raccomandazioni delle linee guida internazionali ed effettiva evidenza scientifica delle stesse, evidenziando una serie di elementi di criticità da sottolineare. Bibliografia Gonzales GR et al. Pain 1991;47:141-4.
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Il breaktrough pain in Italia: epidemiologia R.D. MEDIATI
Il Breaktrough Pain (BTP) è una esacerbazione transitoria di dolore che interviene in un paziente con dolore oncologico di base stabile e ben controllato. Il BTP ha un notevole impatto sulla qualità di vita del malato oncologico, con risvolti clinici, umani, sociali ed economici rilevanti.In letteratura è stata riportata una variabilità dell’incidenza molto ampia, dal 20% al 95% dei pazienti studiati. L’epidemiologia del dolore episodico intenso ad oggi disponibile in letteratura offre molte critiche per varie ragioni. Ad oggi, infatti non esiste in Italia una stima del BTP, misurato con criteri univoci, nei vari setting (reparti di oncologia, Terapie del dolore, Hospice). È apparso utile realizzare uno studio osservazionale multicentrico con l’obiettivo di realizzare un osservatorio su scala nazionale che misuri la prevalenza del BTP e le sue principali caratteristiche. Vengono censiti dati afferenti da tre diversi setting clinici (Terapia del Dolore, Oncologia ed Hospice). Attualmente lo Studio è in corso, sono coinvolti 20 Centri in tutta Italia.A luglio 2012 sono stati arruolati 730
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pazienti affetti da dolore cronico oncologico con episodi di BTP, il valore medio di dolore di base di 3,0173 (NRS 0-10). Il BTP si presenta con una frequenza quotidiana da 1 a 4 episodi in circa il 90% dei pazienti arruolati. Verranno presentati i dati preliminari dello studio. Bibliografia Caraceni A, Martini C, Zecca E, Portenoy RK et al. Working Group of an IASP Task Force on Cancer Pain. Breakthrough pain characteristics and syndromes in patients with cancer pain. An international survey. Palliat Med 2004;18:177-83. Zeppetella G, O’Doherty CA, Collins S. Prevalence and characteristics of breakthrough pain in cancer patients admitted to a hospice. J Pain Symptom Manage. 2000;20:87-92.
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Come misurare l’intensità del dolore e come il livello di sedazione E. MONDELLO, S. MICALIZZI, A. ARENA, L. CARDIA, R. SILIOTTI
Il crescente interesse registrato nell’ultimo ventennio nei confronti dell’analgosedazione nei pazienti critici in Terapia Intensiva ha ratificato la nascita di un nuovo filone di ricerca scientifica, riguardante le problematiche inerenti alle misurazioni quali- e quantitative dell’intensità del dolore e della profondità della sedazione.L’indiscutibile valenza clinica della sedazione ha catalizzato l’attenzione della comunità scientifica anestesiologica internazionale, col risultato che in pochi anni sono stati effettuati innumerevoli trials al riguardo, e che tutte le Società Scientifiche si sono prodigate nel pubblicare raccomandazioni e linee-guida specificatamente dedicate1,2; l’argomento è stato sviscerato in ogni suo risvolto, e grandissima importanza è stata data, come era logico aspettarsi, alla ottimizzazione del monitoraggio della analgosedazione, ossia della valutazione qualitativa e quantitativa delle due componenti: il dolore e lo stato di coscienza3-5. La ricerca della metodica, clinica o strumentale, più adeguata in termini di efficacia, affidabilità e riproducibilità è stata dunque oggetto di studi approfonditi in ogni parte del mondo; gli esiti sono stati i più svariati, ma alla fine dei conti è emersa una grande verità: sia gli scoring systems che le metodiche strumentali sono mezzi utilissimi e non devono mancare nel bagaglio tecnico-culturale dell’Intensivista, ma di sicuro non sono infallibili, per cui la competenza e l’esperienza dell’Anestesista-Rianimatore continuano ad essere gli elementi imprescindibili per una corretta e proficua misurazione della intensità del dolore e della profondità della sedazione dei pazienti critici in Terapia Intensiva. La nostra trattazione verterà su una review delle principali metodiche, oggettive e soggettive, comunemente impiegate nella pratica clinica per la valutazione della analgosedazione. Come misurare l’intensità del dolore In passato, per i più svariati motivi, il dolore del paziente critico è stato sottostimato e sottovalutato: l’attenzione oggi rivolta dagli Intensivisti alla specifica problematica, nonché alle sfavorevoli ripercussioni sull’outcome che possono scaturire da un’inadeguata terapia antalgica, ha dato luogo a tutta una serie di studi finalizzati alla ottimizzazione della misurazione dell’intensità del dolore dei Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Sezione di Anestesiologia, DPT di Neuroscienze, Scienze Psichiatriche e Anestesiologiche, Università degli Studi di Messina
pazienti, passo fondamentale per un’adeguato trattamento analgesico. Da alcuni anni è infatti fortemente raccomandato, da tutte le Società Scientifiche, registrare sulla cartella clinica, in maniera regolare, il grado di dolore, allo stesso modo di quanto viene fatto per gli altri parametri vitali. L’autovalutazione del paziente rimane chiaramente il miglior indicatore, e a tal uopo esistono le scale numeriche o analogiche visive cui accenneremo in seguito; spesso però i pazienti critici ricoverati in Terapia Intensiva non sono in grado di comunicare efficacemente il loro grado di dolore, a causa dei disordini cognitivi, della sedazione più o meno profonda o della presenza di tubo orotracheale/cannula tracheostomica. Da qui la necessità di identificare una scala che utilizzi, come parametri di riferimento, degli indicatori osservabili, sia fisiologici che comportamentali; fino ad oggi, nonostante l’abbondanza di trials finalizzati a tal scopo, non esiste ancora uno strumento individuale universalmente accettato e validato. Valutazione del dolore nel paziente cosciente In tali casi, per il monitoraggio del dolore è possibile applicare le cosiddette metodiche unidimensionali3-5. Tra esse, menzioniamo le più comunemente impiegate: – la Visual Analogue Scale (VAS), considerata il gold standard nella valutazione del dolore, consiste in una linea orizzontale di 10 cm compresa tra due estremi, a cui corrisponde “nessun dolore “ e “il massimo dolore immaginabile”. Viene spesso impiegata in ICU anche se non è mai stata specificamente testata; risulta però di difficile applicazione nei pazienti anziani. – la Numeric Rating Scale (NRS), scala a 10 punti (0-10) dove il paziente indica con un numero l’intensità del suo dolore: 0 nessun dolore, 10 il dolore più atroce. Sembra essere il metodo più usato, e il preferito dagli infermieri in ICU.
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MONDELLO
COME MISURARE L’INTENSITÀ DEL DOLORE E COME IL LIVELLO DI SEDAZIONE
Valutazione del dolore nel paziente non cosciente
Metodiche soggettive
In questi casi, come suddetto, è necessario valutare i parametri fisiologici (FC, FR, PA), i fenomeni neurovegetativi (lacrimazione, dilatazione pupillare, sudorazione), e le variazioni comportamentali (espressione del volto, agitazione, postura). Tuttavia, l’affidabilità di queste valutazioni è stata spesso giustamente messa in discussione, soprattutto per la non specificità dei segni clinici del dolore: troppe sono, oltre alla percezione del dolore, le altre condizioni patologiche in cui si possono riscontrare tachicardia, iperventilazione e incremento pressorio, specialmente in pazienti critici affetti dalle più svariate patologie.È quindi opportuno ricorrere all’impiego associato di scale comportamentali complesse e multiparametriche, come la Behavioural Pain Scale (con un punteggio da 3 a 12 basato sulla somma dei punteggi di 3 items: espressione del viso, movimenti degli arti superiori e compliance alla ventilazione meccanica), score di facile impiego che consente di modulare il trattamento antalgico in accordo con le variazioni del punteggio, nonché di valutare l’impatto della terapia impostata sul comfort del paziente. Uno score di misurazione del dolore recentemente sviluppato, il Critical Care Pain Observation Tool, è costituito da 4 componenti: espressione facciale, movimenti del corpo, tensione muscolare e compliance alla ventilazione per i pz intubati/vocalizzazione per i pazienti estubati. Lo strumento è stato ampiamente studiato negli ultimi anni, e ha soddisfatto i criteri di validità e di riproducibilità6.
Le scale di valutazione del grado di sedazione sono basate sull’osservazione clinica e vengono registrate in base alla valutazione diretta da parte di un osservatore. In letteratura medica sono state descritte più di 30 scale cliniche, ma le scale più comunemente impiegate in campo internazionale, sia nella pratica quotidiana che nelle ricerche cliniche, sono il Ramsay Score, descritto da Ramsay et al già nel 1974, la SAS, la OAA/S e la RASS, che indicano, oltre al grado di sedazione, anche i diversi livelli di agitazione dei pazienti critici7. Queste metodiche hanno ottenuto, grazie agli studi effettuati, i maggiori consensi per la loro semplicità di esecuzione, la riproducibilità inter-operatore e la efficacia. Al momento attuale, quindi, le raccomandazioni non possono che indirizzare gli Intensivisti a un adeguato impiego di tali scoring systems, di provata utilità nella guida e nel controllo della sedazione in ICU, con un occhio sempre attento alle innovazioni tecnologiche, in attesa di ulteriori evidenze cliniche che possano comprovarne la validità2.
Critical Care Pain Observation Tool Come misurare il livello di sedazione L’impiego routinario di una scala di valutazione della profondità della coscienza nei pazienti critici ricoverati in ICU e sottoposti a sedazione è fortemente raccomandata da tutte le Linee Guida pubblicate al riguardo specifico. Un decennio fa ciò non si osservava nella maggior parte delle ICU, ma adesso l’obiettivo del raggiungimento di un determinato endpoint di sedazione per ogni paziente ha fatto sì che gli scoring systems siano diventati parte integrante dell’assistenza intensivologica; essi vengono infatti registrati a intervalli regolari ormai in maniera ubiquitaria7. Le misurazioni soggettive si alternano, nella pratica clinica, con quelle oggettive o strumentali, basate su monitor, nati come DoA (Depth of Anesthesia) monitors e “prestati” alle esigenze della Terapia Intensiva, che processano i dati estrapolati dall’EEG o dai potenziali evocati uditivi dei pazienti, producendo valori numerici adimensionali che riflettono la profondità dello stato di coscienza ottenuto con l’impiego dei farmaci sedativi. Le metodiche strumentali, così come gli scoring systems, sono state studiate negli ultimi tre lustri con un numero illimitato di trials di confronto, sia tra strumenti diversi che tra metodica oggettiva e scoring system; tuttavia, mentre questi ultimi sono stati ampiamente validati e ritenuti affidabili ed efficaci, il monitoraggio oggettivo non è stato ancora universalmente accettato per le profonde incongruenze emerse dagli studi stessi, e il suo impiego in ICU è consigliato sempre in associazione alla valutazione soggettiva2,4,5. 396
Metodiche oggettive La tecnologia avanzata moderna non poteva non offrire agli Intensivisti una chance in più per il monitoraggio oggettivo della funzione cerebrale: ormai da due decenni sono disponibili monitors che registrano il segnale EEG corticale e utilizzano la frequenza, la potenza o il disordine di questi segnali per determinare il livello di sedazione del paziente, quantificandolo numericamente su un display che può così essere più facilmente interpretato. Differenti sono le metodologie che sono state sviluppate per processare il segnale EEG: tra i più comunemente impiegati nella pratica clinica citiamo il BIS, il CSM, il Narcotrend, l’Entropia. BIS (Bispectral Index). L’indice bispettrale è un parametro derivato dall’analisi eletttroencefalografica, rappresentato da un valore numerico compreso tra 0 (paziente profondamente sedato) e 100 (paziente sveglio). Si tratta di una misurazione empirica, statisticamente derivata, basata su un enorme database di EEG registrati su volontari e su pazienti anestetizzati.Un valore di BIS tra 50 e 60 è stato associato a una probabilità molto bassa di risposta ai comandi verbali. La soglia di perdita della coscienza corrisponde a circa 70. Valori di BIS sotto i 45 mostrano un’eccessiva profondità dello stato di coscienza1,3,4,7. CSM (Cerebral State Monitor). Di più recente introduzione, impiega il Cerebral State Index (CSI) per quantificare, sempre su una scala da 0 a 100, l’effetto diretto dei sedativi e degli anestetici sull’encefalo; i punteggi tra 40 e 60 indicano una adeguata profondità dell’ipnosi. Fino ad oggi, il Cerebral State Monitor è stato impiegato principalmente per monitorizzare la profondità dell’anestesia2,3. Narcotrend Questo monitor processa i segnali EEG grezzi impiegando registrazioni mono- o bi-canale da differenti posizioni degli elettrodi. Il software Narcotrend calcola il Narcotrend Index, altra scala dimensionale da 0 a 100. La probabilità di predizione della profondità di sedazione è risultata essere lievemente migliore rispetto a quella del BIS, secondo studi recenti2,3.
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COME MISURARE L’INTENSITÀ DEL DOLORE E COME IL LIVELLO DI SEDAZIONE
Entropia Il monitoraggio dell’entropia si basa sul principio che l’EEG del paziente sveglio è altamente “disordinato”. L’inizio della sedazione provoca una maggior regolarità del tracciato, uno stato di ridotta entropia. L’Entropy Monitor recentemente introdotto misura due parametri, uno lento “state entropy” (entropia del segnale EEG calcolata al di sopra dei 32 Hz) e uno più veloce “response entropy” (frequenze elevate oltre i 47 Hz, con segnali generati dal muscolo frontale). Sembra che l’entropia sia in grado di fornire una migliore (anche se non statisticamente significativa) probabilità di predizione della variazione dello stato sedativo rispetto al BIS, quando impiegata per monitorare il livello di coscienza in pazienti sani volontari sottoposti a infusione di propofol e remifentanil1,2,5. A questi dispositivi di origine EEGgrafica si aggiunge l’AEP, che integra all’analisi della semplice attività elettrica corticale anche le variazioni, causate dall’approfondimento o dall’alleggerimento della sedazione, delle risposte uditive evocate. Gli AEP sono stati ampiamente studiati, nell’ultimo decennio, grazie all’interesse suscitato recentemente dal rischio “awareness; le risposte uditive evocate a media latenza si riducono in ampiezza e aumentano in termini di latenza, con l’aumentare della profondità della sedazione. L’AEP Monitor utilizza un algoritmo che calcola un indice numerico, l’A-Line Autoregressive Index (AAI), a partire dalla latenza e dall’ampiezza del potenziale evocato; esso trasforma l’AEP ed il segnale EEG in un valore di scala da 0 a 100, che viene appunto utilizzato per misurare la profondità del livello di coscienza. Tale indice si correla bene con l’indice BIS1,3,4,7. I risultati dei trials, anche i più recenti8-10 sono spesso contraddittori, inficiati dagli artefatti; sono quindi necessari ulteriori studi per valutare realmente l’efficacia di queste metodiche oggettive di monitoraggio. Non v’è comunque dubbio che questi monitor costituiscano un aiuto importante per l’Intensivista, “una freccia in più al suo arco”, da correlare ad altri parametri clinici (modificazioni emodinamiche e/o neurovegetative), finalizzata alla diagnosi più precoce possibile di eventuali non gradi-
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te variazioni dello stato di sedazione del paziente: la semplice analisi dei trend, infatti, dovrebbe già di per sé dare delle preziose informazioni sulla adeguatezza del piano sedativo programmato, con tutto ciò che questo può comportare, in termini di miglioramento degli standard di qualità assistenziale e di sicurezza per i pazienti. Bibliografia 1. Iacobi J, Fraser GL, Coursin DB et al. Clinical practice guidelines for the sustained use of sedatives and analgesics in the critically ill adult. Crit Care Med 2002;30:119-41. 2. GdS SIAARTI per l’analgosedazione in Terapia Intensiva: SIAARTI Recommendations for analgo-sedation in intensive care unit. Minerva Anestesiol 2006;72:769-805. 3. Mondello E, Siliotti R, David A. Gestione clinico-strumentale dell’analgo-sedazione in ICU. Minerva Anestesiol 2006, 72(Suppl.1 al n.10):124-28. 4. Sessler CN, Grap MJ, Ramsey MAE. Valutazione e monitoraggio dell’analgesia e della sedazione in unità di Terapia Intensiva. Crit Care 2008;12(Suppl.3):S2(doi:10.1186/ cc6148). 5. Thuong M. Sedation and analgesia assessment tools in ICU patients. Ann Fr Anesth Reanim 2008;27:581-95. 6. Gelinas C, Harel F, Fillion L, Puntillo KA, Johnston CC. Sensitivity and specificity of the critical-care pain observation tool for the detection of pain in intubated adults after cardiac surgery. J Pain Symptom Manage 2009;37: 58-67. 7. Mondello E, Siliotti R, Gravino E, Coluzzi F, David T, Sinardi AU. Sedation monitoring in ICU. Minerva Anestesiol 2005;71:487-96. 8. Kwon MY, Lee SY, Kim DK, Lee KM, Woo NS, Chang YJ, Lee MA. Spectral entropy for assessing the depth of propofol sedation”. Korean J Anesthesiol 2012;62:234-9. 9. Le Blanc JM, Dasta JF, Pruchnicki MC, Gerlach A, Cook C. Bispectral Index values, sedation-agitation scores, and plasma lorazepam concentrations in critically ill surgical patients. Am J Crit Care 2012;21:99-105. 10. Ichicawa J, Taira K, Nishiyama K, Endo M, Kodaka M, Kawamata M, Komori M, Ozaki M. Auditory evoked potential index does not correlate with observer assessment of alertness and sedation score during 0.5% bupivacaine spinal anesthesia with nitrous oxide sedation alone. I Anesth 2012; 26:400-4.
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La sedazione terminale a domicilio: come, quando e perché P. MORINO
Definizione, scopi, indicazioni Le più recenti indicazioni dell’Associazione Europea per le Cure Palliative propongono di utilizzare esclusivamente i termini di “sedazione palliativa” o “sedazione nelle cure di fine vita” e lasciar decadere gli altri termini oggi in uso, quali “sedazione terminale”, che non coprono adeguatamente lo spettro delle procedure cliniche cui si vuole fare riferimento e inducono ad attribuire alla sedazione palliativa intenzioni che le sono estranee. Il riferimento corretto di questi termini (sedazione palliativa, sedazione nelle cure di fine vita) è all’uso di farmaci sedativi per alleviare sofferenze intollerabili e refrattarie, attraverso la riduzione della coscienza. La definizione di refrattarietà, cioè di non rispondenza ad altri trattamenti, implica una capacità di valutazione clinica specifica. È considerato refrattario anche quel sintomo che non sarebbe comunque trattabile in una cornice temporale accettabile per il paziente, o che comporterebbe per lui un carico di effetti collaterali non accettabile. La definizione di intollerabilità è invece soggettiva e quindi tutta nelle mani del paziente, quando questi è cosciente, non potendo riferirsi in maniera inequivoca a parametri clinici obiettivabili. Sulla base di un’ampia serie di studi osservazionali, peraltro tra loro disomogenei, le più frequenti indicazioni alla sedazione palliativa risultano essere lo stato di agitazione refrattario a benzodiazepine e neurolettici, dopo che siano state considerate le cause reversibili di delirium, il dolore refrattario agli oppioidi e adiuvanti analgesici, dopo che le cause reversibili di dolore e la rotazione degli oppioidi siano state considerate, la dispnea refrattaria al trattamento con ossigeno, broncodilatatori, corticosteroidi e oppioidi, dopo che le eventuali cause psicologiche reversibili siano state considerate, e il vomito refrattario a trattamento antiemetico, dopo che tutti i fattori di rischio per l’emesi siano stati considerati. Si è soliti specificare ulteriormente una procedura di sedazione palliativa dichiarandone la profondità (lieve: se si mantiene la coscienza sufficiente perché il paziente comunichi con chi gli è vicino; profonda: se la capacità di Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Direttore Unità Cure Palliative/Leniterapia Hospice Convento delle Oblate, Dipartimento Oncologico AS, Firenze
comunicare è abolita) e l’intermittenza o meno dello stato di sedazione. Proprio la sedazione profonda e mantenuta continuativamente fino alla morte pone i maggiori interrogativi ai clinici e ai familiari. La definizione dell’intollerabilità della sofferenza per il paziente e della refrattarietà dei sintomi per il medico, considerato il punto di vista del paziente, sembrerebbe esaurire la problematica delle indicazioni alla sedazione palliativa, ma le nostre difficoltà nel leggere profondamente cosa la sofferenza di una persona sia e quale sia il limite che la rende intrattabile – altrimenti che con la sedazione – o non più trattabile nel tempo residuo di vita, rendono impossibile standardizzare criteri e procedure per l’attuazione di questa procedura. Dovendo dunque valutare con attenzione ogni singolo caso, è consigliabile non solo che le dosi di sedativi utilizzate siano proporzionali ai sintomi da controllare, ma che, almeno inizialmente, la procedura di sedazione sia non continua ma preveda la possibilità di remissione (sedazione intermittente). Questo atteggiamento vale come norma prudenziale per la gran parte dei casi di sedazione palliativa, ma è particolarmente giustificato nel controllo delle profonde angosce di morte qualora ci si aspetti che il paziente possa beneficiare della tregua all’ansia data dalla sedazione. Si assume che sia tecnicamente possibile gestire con precisione il passaggio dallo stato di sedazione a quello di risveglio, o di recupero delle capacità comunicative. Si tratta comunque di una questione tecnica che richiede specifica esperienza, e la possibilità di deviazioni dalla durata pianificata della sedazione è da mettere in chiaro durante il processo decisionale. Proprio l’equilibrata gestione della sedazione, sia in termini di proporzionalità che di intermittenza, è una prova dell’alto livello tecnico raggiunto oggi dalle Cure Palliative e della flessibilità che questo introduce nella gestione di delicati equilibri emotivi e relazionali, oltre che corporei. In caso di prolungata
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sedazione senza risveglio, infatti, o di sedazione indotta in modo continuo fin dall’inizio, la capacità di adattamento e di accettazione dell’intervento da parte dei familiari potrebbe essere ridotta. È necessario considerare uno schema di intervento per cui, al presentarsi di un sintomo apparentemente refrattario, l’équipe curante possa valutare collegialmente l’irreversibilità della situazione, rivalutare la terapia in atto, prendere in considerazione eventuali alternative terapeutiche, procedere al controllo dei sintomi attraverso la riduzione più o meno profonda dello stato di coscienza con la somministrazione di un dosaggio adeguato di farmaci al bisogno o, se necessario, fino alla sedazione profonda continua. La durata media della sedazione è di pochissimi giorni: oltre la metà delle sedazioni praticate avviene nelle ultime 48 ore di vita. Se da una parte questo dato rende meno problematica l’accettazione della sedazione palliativa su un piano etico, dall’altra si può anche indicare il rischio che proprio la percezione di morte imminente potrebbe influenzare la decisione medica di ricorrere alla sedazione palliativa prima di avere esaurientemente valutato tutte le alternative di cura. La chiara definizione degli scopi della sedazione, delle indicazioni per cui viene attuata, e del processo decisionale seguito, dovrebbero pertanto essere costantemente perseguiti e condivisi in equipe in ogni caso di sedazione palliativa. A tal fine riteniamo che debba essere obbligatoria e possa di fatto rivelarsi utile alla comunicazione all’interno dell’équipe la registrazione di tutti questi aspetti nella cartella clinica. La proporzionalità dei sedativi usati, elemento cruciale dell’eticità di questa procedura che trova riscontro nello specifico intervento farmacologico eseguito a fronte del monitoraggio del livello della sedazione e del controllo ottenuto per i sintomi refrattari, deve parimenti essere documentata nella cartella clinica del paziente. Farmaci utilizzati e il monitoraggio della sedazione Diversi studi hanno riportato i farmaci utilizzati per la sedazione palliativa. Fra questi: – sedativi ansiolitici: midazolam, lorazepam; – antipsicotici (neurolettici): aloperidolo, clorpromazina; – antiepilettici ad azione sedativa: fenobarbital; – anestetici generali: propofol (somministrabile solo nelle sedi e con le indicazioni previste). Il farmaco più utilizzato nella sedazione terminale è senz’altro il Midazolam, che può essere efficacemente usato sia per via endovenosa che sottocutanea. La dose del farmaco necessaria per ottenere una sedazione è molto variabile, e i dati in letteratura riportano dosaggi medi compresi tra 22 e 70 mg/die. Spesso vengono associati neurolettici (Aloperidolo, Clorpromazina, Levomepromazina) per aumentare l’effetto sedativo della benzodiazepina. Per quel che riguarda la via di somministrazione dei farmaci per la sedazione, certamente la sottocutanea è la meno invasiva ma spesso, specialmente nelle fasi più avanzate, le alterazioni emodinamiche modificano l’assorbimento dell’infusione ren400
dendo tale via non completamente affidabile; la via endovenosa deve essere quindi considerata la prima scelta fin dalle fasi iniziali qualora sia già presente un accesso venoso (CVC o Port), ma comunque è opportuno considerare la necessità di reperire un accesso venoso periferico per la gestione dei sintomi nelle ultime fasi di vita del malato. Va ricordato che – anche se la somministrazione di oppioidi durante la sedazione può rivelarsi necessaria per un buon controllo del dolore – gli oppioidi non sono indicati per indurre la sedazione stessa e possono accompagnarsi, alle dosi necessarie per ottenere un certo livello di sedazione, ad effetti collaterali quali nausea e delirium. Pertanto il loro uso isolato – non accompagnato da benzodiazepine – è sconsigliato per indurre e/o mantenere una sedazione palliativa. La sedazione palliativa nelle cure di fine vita deve essere, come qualsiasi altra misura di controllo dei sintomi, attentamente monitorata. Mentre per un paziente comatoso in Terapia Intensiva la priorità viene data ad aspetti quali il bilancio elettrolitico o i segni vitali, nel caso della sedazione palliativa la priorità è data al controllo della sofferenza del paziente a al supporto offerto alla famiglia durante il difficile periodo della sedazione. Se il paziente non è prossimo a morire ma vuole tuttavia essere sedato, diventa importante monitorare il livello di sedazione. Gli strumenti attualmente disponibili per valutare la profondità della sedazione non sono ideati per la situazione di cure palliative e dovrebbero perciò essere adattati, specie quando prevedano stimolazioni fisiche del paziente. Il livello della sedazione deve essere giornalmente rivalutato, sia all’interno dell’équipe sia discutendone con i familiari. L’imminenza del decesso e lo stato clinico generale avranno importanza nella considerazione di come intervenire su alimentazione e idratazione. Ogni considerazione sulla prosecuzione, la sospensione, il mantenimento o l’instaurazione di idratazione o alimentazione artificiale in un paziente sedato, così come di ogni altro intervento concorrente con la sedazione, va considerato come una decisione a sé stante per quanto condizionata dal contesto della sedazione. Il bisogno di alimentazione e idratazione può cambiare alla fine della vita. Non c’è alcuna prova che l’alimentazione artificiale possa prolungare la sopravvivenza di un malato oncologico; riguardo alla somministrazione di fluidi, i dati empirici sono meno definitivi. L’idratazione artificiale può essere utile per il controllo in particolare del delirium. Se si decide di somministrare fluidi la via considerata più adeguata è quella sottocutanea, e il dosaggio di un litro al giorno è sufficiente. Occorre quindi valutare il singolo caso clinico poiché possono sussistere sia ragioni per provvedere alla somministrazione di liquidi sia per astenersene, tenendo comunque in considerazione che né l’alimentazione né l’idratazione artificiale possono avere un effetto fisiologico rilevante in un paziente la cui morte è imminente. Problematiche etiche della sedazione palliativa La sedazione palliativa, a maggior ragione la sedazione nelle cure di fine vita, va a toccare diversi ambiti critici per la riflessione etica: da quello della promozione della
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autodeterminazione in un soggetto massimamente fragile (il soggetto morente), a quello del supporto da assicurare a chi si sta preparando al lutto per la perdita del proprio caro morente e può vedere nella pratica di sedazione sia una risposta adeguata, sia una risposta poco comprensibile, sia una perdita ingiustificatamente anticipata della possibilità di comunicare con lui, fino alle problematiche della comunicazione e della condivisione delle emozioni legate al coinvolgimento dell’intera équipe durante l’assistenza del malato alla fine della vita e a maggior ragione in concomitanza di decisioni cliniche così rilevanti. Una prima risposta alle difficoltà e ai conflitti che si possono determinare è da trovare nella trasparenza del processo decisionale, che comporta un’accurata registrazione e la cura di condividere con tutti gli interessati ogni passaggio, la sua motivazione, e le modalità di monitoraggio dell’intervento deciso. A questa trasparenza e accuratezza si aggiunga l’importanza, che riteniamo debba ancora crescere nella pratica, della pianificazione anticipata delle cure come principale mezzo di sostegno dell’autodeterminazione del soggetto fragile proprio perché in prossimità della propria morte. In primo piano devono anche essere la considerazione della proporzionalità della sedazione e della possibilità – almeno iniziale – di una sua intermittenza. Infine, è necessario che il processo decisionale, pur considerando l’unicità del contesto (cioè quel particolare paziente e la sua famiglia nella situazione di fine vita e sofferenza intollerabile per sintomi refrattari), tenga distinta la decisione della sedazione da quella di astensione/ sospensione di alimentazione e/o idratazione artificiale o di altre terapie e trattamenti di sostegno vitale. Molti operatori, ma spesso anche i familiari, considerano comunque critica questa procedura dal punto di vista etico, poiché essi temono che l’intraprenderla possa anticipare il momento della morte del paziente: questa considerazione deve essere diminuita nel rango di importanza, poiché non trova conferma nei dati empirici disponibili, una volta garantito che la sedazione palliativa avvenga secondo proporzionalità, con procedure e per indicazioni corrette. A ulteriore conferma si riportano le conclusioni della EAPC Ethics Task Force del 2004, valide anche nel caso di sedazione profonda continua fino al decesso. In ogni caso la sedazione palliativa si distingue dall’eutanasia perchè: l’intenzione è l’alleviamento dei sintomi; l’intervento è proporzionato a questo scopo; vengono impiegati farmaci sedativi a dosaggio adeguato per il controllo della sofferenza, e non farmaci letali; il risultato atteso è il sollievo dalla sofferenza e non la morte anticipata del paziente e dunque il decesso del paziente non è un criterio di successo del trattamento. Per converso, di fronte a questi dubbi e difficoltà, è importante ricordare che, trattandosi di una pratica medica volta al trattamento di sintomi refrattari a ogni altra terapia, il non intraprenderla, quando clinicamente appropriata, grava il curante della responsabilità morale dell’astensione (da un) dall’unico intervento possibile per alleviare le sofferenze del paziente. Più complessa, e con diversa lettura a seconda dell’etica di riferimento, la giustificazione della soppressione della coscienza. Se ciò che viene ridotto o soppresso nella sedazione palliativa, infatti, non è la vita residua del paziente Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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ma la possibilità di continuare ad essere consapevole di se stesso e di relazionarsi con il mondo esterno e con la sua rete di affetti, ciò in un certo senso viene a interrompere anticipatamente la sua biografia: è questa la più importante implicazione etica cui i medici e tutto il personale curante devono porre la massima attenzione al fine di optare per la sedazione palliativa solo in presenza di indicazioni corrette e di un processo decisionale ineccepibile, supportato da attento monitoraggio e dalla ricerca clinica per il miglioramento degli interventi terapeutici anche in questa fase avanzatissima di malattia. La sedazione intesa, dunque, non come l’atto medico che determina, per il malato, l’esclusione dal mondo dei vivi, ma come un’opzione terapeutica che la persona può scegliere, alla fine della vita, in presenza di sofferenze, per lui insopportabili, per essere accompagnato a una morte vissuta, per quanto possibile, in coscienza e libertà. Bibliografia Broeckaert B, Olarte JMN. Sedation in palliative care: facts and concepts, in H. Ten Have e D. Clark (a cura di ), The ethic of palliative care, Open University Press, 2002, pp. 166-180. Charter S, Viola R, Paterson J et al. Sedation for intractable distress in the dying: a survey of experts, Pall Med 1998;12: 255-69. Cherny NI, Portenoy RK. Sedation in the treatment of refractory symptoms: guidelines for evaluation and treatment, “J Palliat Care”, 1994;10:31-8. Chiu TY, Hu WY, Lue BH et al. Sedation for refractory symptoms of terminal cancer patients in Taiwan, J Pain Symptom Management 2001;21:467-72. De Graeff A, Dean M. Palliative sedation therapy in the last weeks of life: a literature review and recommendations for standards, J Palliat Med, 2007;10:67-85. De Souza E, Jepson BA. Midazolam in terminal care, Lancet, 1998;1: 67-8. EAPC Ethics Task Force. Eutanasia e suicidio assistito da medico: il punto di vista di una Task Force sull’etica dell’EAPC, “RiCP”, 2004;1:42-6. Fainsinger RL, de Moissac D, Mancini I. et al. Sedation for delirium and other symptoms in terminally ill patients in Edmonton, J Pall Care 2000;16:5-10. Fainsinger RL, Waller A, Bercovici M. et al. A multicentre international study of sedation for uncontrolled symptoms in terminally ill patients, Pall Med 2000;14:257-65. Gremaud G, Zulian G, Indications and limitations of intravenous and subcutaneous midazolam in palliative care center, J Pain Symptom Manage, 1998;15:331-3. Morita T. Palliative sedation to relieve psycho-existential suffering in ill cancer patients, J Pain Sympt. Manage 2004;28: 445-50. Morita T, Inoue S Chihara S. Sedation for symptom control in Japan: the importance of intermittent use and communication with family members, J Pain Symptom Manage 1996; 12:32-3ì8. Morita T, Tsuneto S, Shima Y.Proposed definitions for terminal sedation, “Lancet”, 2001:358:335-6. Morita T, Chinone Y, Ikenaga M et al. Efficacy and safety of palliative sedation therapy: a multicenter, prospective, observational study conducted on specialized palliative care units in Japan, J Pain Symptom Manage 2005;30:320-8. Muller-Busch HC, Andres I, Jehser T. Sedation in palliative care: a critical analysis of 7 years experience, BMC Palliat Care 2003;2: 2. Peruselli C, Di Giulio P, Toscani F et al.Home palliative care for terminal cancer patients: a survey on the final week of life, Pall Med 1999;13:233-41.
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Ipotermia terapeutica nel trattamento dell’encefalopatia ipossico-ischemica del neonato A. MOSCATELLI, E. LAMPUGNANI, G. BOTTARI, S. BURATTI, F. CATANI, A. FRANCESCHI, S. FRONTALINI, L. PETRUCCI, F. PUNCUH, A. SIMONINI, M. TUMOLO, P. TUO
Introduzione L’asfissia perinatale rappresenta un’importante causa di danno neurologico alla nascita. Nei paesi sviluppati l’incidenza è pari a 2-6/1000 nati vivi, mentre l’incidenza di encefalopatia ipossico-ischemica (EII) di grado moderato o grave è di 0,5-1/1000 nati vivi. Incidenze maggiori si riscontrano nei paesi in via di sviluppo. Il 15-25% dei neonati con EII moderata o grave muore in epoca neonatale, mentre il 25% dei sopravvisuti presenterà sequele neurologiche importanti. Le strategie di trattamento sino ad ora applicate al neonato post-anossico sono state prevalentemente di supporto e non mirate al trattamento del processo fisiopatologico in atto. Non è quindi sorprendente che, nonostante il costante miglioramento delle cure perinatali, l’incidenza di paralisi cerebrale infantile riferibile ad asfissia perinatale sia rimasta sostanzialmente immodificata negli ultimi anni1. Lo standard di cura praticato sino a pochi anni fa è stato rappresentato da: rianimazione in sala parto secondo linee guida ILCOR (International Liaison Committee on Resuscitation), mantenimento dell’omeostasi glucidica ed idro-elettrolitica, mantenimento della normocapnia, correzione dell’ipotensione e trattamento delle convulsioni. Molte strategie di neuroprotezione sono state tentate (restrizione idrica, somministrazione profilattica di fenobarbitale, “scavengers” di radicali liberi, antagonisti degli amminoacidi eccitatori, calcio-antagonisti, terapie iperosmolari, steroidi), tuttavia, solo l’ipotermia, negli ultimi anni, si è dimostrata efficace nel proteggere l’encefalo di neonati post-anossici2,3. Fisiopatologia del danno ipossico-ischemico perinatale L’encefalopatia ipossico-ischemica è un processo patologico che non si esaurisce al momento dell’insulto ipossico-ischemico, ma presenta un andamento evolutivo nel tempo. Sebbene i neuroni possano andare incontro a morte contestualmente all’ischemia-ipossia, molti si riprendono dopo l’insulto primario, per poi morire ad ore-giorni di distanza. Studi di spettroscopia con risonanza magnetica condotti in neonati asfittici con EII moderata o grave hanno dimoVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
U.O.S Rianimazione Neonatale e Pediatrica, U.O.C. Anestesia e Rianimazione, Dip. Alta Intensità di Cura e Percorso Nascita, Istituto Giannina Gaslini, Genova
strato che molti di questi pazienti presentano un metabolismo ossidativo sostanzialmente normale immediatamente dopo l’evento ipossico-ischemico, per poi sviluppare una compromissione tardiva del metabolismo ossidativo a seguito di 6-15 ore dall’insulto primario. Questa fase di latenza pone le basi per la possibile efficacia di un intervento neuroprotettivo instaurato precocemente. L’ipossiaischemia porta ad una rapida deplezione dei fosfati ad elevato contenuto energetico, determinando la progressiva depolarizzazione della membrana plasmatica, con conseguente grave rigonfiamento cellulare, eccessivo accumulo di calcio intracellulare e accumulo di amminoacidi eccitatori (AAE) a livello extracellulare. A seguito del processo di riperfusione, la maggior parte di questi eventi è reversibile in 30-60’, il metabolismo ossidativo si normalizza ed i neuroni entrano in una fase di latenza in cui le funzioni cellulari appaiono normalizzate. Dopo circa 6-15 ore, tuttavia, il metabolismo ossidativo cerebrale può subire una compromissione secondaria, caratterizzata da edema citotossico, convulsioni, accumulo di AAE, disfunzione del metabolismo mitocondriale e conseguente morte cellulare neuronale. L’insulto ipossico-ischemico porta ad una serie di alterazioni metaboliche cellulari che sono alla base del deficit del metabolismo ossidativo primario e secondario e che possono causare morte cellulare, attraverso meccanismi di necrosi ed apoptosi. Ipossia ed ischemia inducono nei neuroni il passaggio ad un metabolismo di tipo anaerobico, che ha come conseguenza l’accumulo di lattati e la perdita di fosfati ad elevato contenuto energetico. Questo causa la depolarizzazione delle membrane plasmatiche con liberazione di AAE (glutammato) che si accumulano a livello sinaptico per aumentata liberazione e ridotto reuptake da parte delle terminazioni presinaptiche. Il glutammato, a sua volta, attiva recettori NMDA, aumentando l’ingresso di
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calcio nel citoplasma. L’aumento del calcio intracitoplasmatico, anche per liberazione da parte di strutture citoplasmatiche deputate al suo sequestro, attiva lipasi, proteasi, NO sintetasi e xantina-ossdasi. Le lipasi danneggiano le membrane plasmatiche rendendo disponibili acidi grassi che, in presenza di ossigeno, producono radicali liberi. Lo stesso avviene ad opera della xantina-ossidasi e della NO sintetasi che, rispettivamente, nel metabolizzare l’adenosina (derivante dal consumo di ATP) e nel sintetizzare ossido nitrico, producono grandi quantità di radicali liberi dell’ossigeno. I radicali liberi dell’ossigeno, attraverso una sorta di reazione a catena che si autoamplifica (perossidazione lipidica), compromettono irreversibilmente l’integrità delle membrane plasmatiche. La morte neuronale per necrosi prevale nella fase acuta (disfunzione energetica primaria). Ad essa contribuisce tutta la cascata di eventi descritta, che porta acutamente a rigonfiamento e lisi cellulare per depolarizzazione della membrana plasmatica ed incapacità della stessa a mantenere gli equilibri ionici per mancanza di substrati energetici. L’apoptosi, invece, entra in gioco prevalentemente a seguito della compromissione secondaria del metabolismo energetico ed è indotta da: aumento del calcio intracellulare (attivazione recettori NMDA), infiammazione e stress ossidativo. Ne consegue l’attivazione di geni proapoptotici e di proteasi (caspasi) che, insieme a prodotti di degradazione dei mitocondri, inducono la morte cellulare programmata4-7. Presupposti fisiopatologici dell’efficacia neuroprotettiva dell’ipotermia e evidenze a favore del trattamento Le strategie di neuroprotezione sino ad ora tentate (restrizione idrica, somministrazione profilattica di fenobarbitale, “scavengers” di radicali liberi, antagonisti degli amminoacidi eccitatori, calcio-antagonisti, terapie iperosmolari, steroidi), si sono dimostrate fondamentalmente poco efficaci nel migliorare l’outcome dei neonati affetti da EII. Esse, infatti, hanno come bersaglio solo alcuni eventi della cascata che è responsabile della patogenesi del danno ipossico perinatale. L’ipotermia, rappresenta invece l’unico provvedimento per cui esistono importanti evidenze a favore. Molto probabilmente perchè l’ipotermia è in grado di intervenire a vario livello nel processo fisiopatologico dell’EII: riduzione del fabbisogno metabolico neuronale, riduzione dell’accumulo di agenti citotossici (AAE, radicali liberi), inibizione della risposta infiammatoria, inibizione delle vie metaboliche cellulari implicate nella genesi di apoptosi. L’interesse per l’ipotermia come strumento terapeutico per contenere il danno neurologico dopo ipossia-ischemia risale agli anni ’30-40, quando comparvero le prime descrizioni di casi di pazienti sopravvissuti, senza esiti, dopo rianimazione prolungata a seguito di annegamento in acque fredde4,5. Esiste oggi un’ampia evidenza, derivata da modelli animali di encefalopatia ipossico-ischemica neonatale, in varie specie, che dimostra come l’ipotermia, intesa come raffreddamento di 4-6 °C rispetto ai controlli, abbia effetti neuroprotettivi. Il livello di ipotermia raggiunto è stato differente nei vari studi, con target di temperatura rettale variabile tra 28,0 °C e 33,0 °C. Sembra che esista una diretta correlazione tra grado di ipotermia e livello di 404
neuroprotezione, con una maggiore neuroprotezione alle temperature più basse. La durata del raffreddamento è stata anch’essa variabile tra 3 e 72 ore. L’efficacia del trattamento ipotermico è stata valutata con differenti modalità a seconda del modello sperimentale utilizzato: riduzione del metabolismo energetico (studi di risonanza magnetica), riduzione delle aree infartuali, riduzione della perdita di neuroni, mantenimento di abilità sensitivomotorie, mantenimento dell’integrità delle strutture ippocampali e normalizzazione delle alterazioni elettroencefalografiche. Nessuno studio sperimentale ha riportato effetti avversi nei soggetti trattati se si esclude il riscontro di brivido durante il raffreddamento nel maialino8. Risale al 2005 la pubblicazione dei primi importanti studi randomizzati condotti nell’uomo sul trattamento con ipotermia dell’EII neonatale: uno studio pilota (Eicher et al, ipotermia sistemica moderata a 33,0 °C per 48 ore) e due studi randomizzati controllati, con potere statistico sufficiente per poter rilevare un effetto sull’outcome neurologico. Degli ultimi due, il Cool Cap Study prevedeva l’applicazione di ipotermia cerebrale selettiva (raffreddamento selettivo del capo per portare il paziente ad una temperatura centrale di 34,0-35,0 °C per 72 ore), mentre l’altro (NICHD Whole Body Cooling Trial) utilizzava l’ipotermia moderata sistemica (33 °C per 72 ore). Tutti gli studi prendevano in considerazione l’EII di grado moderato o severo, definita in base a criteri emogasanalitici e clinici di sofferenza perinatale (emogasanalisi entro un’ora dalla nascita, Apgar) ed alla valutazione secondo Sarnat e Sarnat modificata. Le alterazioni del tracciato con elettroencefalografia integrata in ampiezza (aEEG) erano invece parte dei criteri di selezione esclusivamente nel Cool Cap Study9-11. La metanalisi di tali studi dimostra una riduzione del 24% del rischio di morte e/o disabilità grave nei soggetti trattati12. Esistono tuttavia ulteriori cinque studi randomizzati controllati, pubblicati anche antecedentemente a quelli sopracitati, che sono stati presi in considerazione insieme a quest’ultimi nell’ambito di una review Cochrane (Jacobs et al.). Gli autori hanno selezionato studi randomizzati controllati che comparavano il trattamento con ipotermia versus terapia standard in neonati affetti da encefalopatia ipossico-ischemica, valutando l’outcome combinato morte o disabilità neurologica grave. I risultati della metanalisi evidenziano che l’ipotermia riduce la mortalità senza incrementare l’incidenza di disabilità grave nei sopravvissuti. Questo risultato è di fondamentale importanza, in quanto una delle maggiori preoccupazioni era quella di introdurre un trattamento che potesse ridurre la mortalità in pazienti con EII, aumentando la sopravvivenza di soggetti con gravissime disabilità neurologiche. L’ipotermia può determinare importanti effetti collaterali: bradicardia, iper-ipotensione, allungamento del QT, aritmie cardiache, alterazioni glicemiche, alterazioni emocoagulative. Tuttavia, l’analisi degli 8 lavori oggetto della review ha dimostrato che i benefici del raffreddamento in termini di riduzione della mortalità e/o disabilità grave nei sopravvissuti, sono decisamente preponderanti rispetto agli effetti collaterali con incidenza statisticamente significativa: piastrinopenia ed ipotensione13. Recente-
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IPOTERMIA TERAPEUTICA NEL TRATTAMENTO DELL’ENCEFALOPATIA IPOSSICO-ISCHEMICA DEL NEONATO
mente sono stati pubblicati i risultati dello studio TOBY. Si tratta di uno studio randomizzato controllato con criteri di inclusione sovrapponibili a quelli del Cool Cap study, nel quale, però, veniva utilizzata ipotermia sistemica (33,5 °C per 72 ore). Le conclusioni dello studio confermano quanto evidenziato dalle pubblicazioni precedenti, dimostrando un aumento della sopravvivenza di soggetti senza disabilità neurologica ed una minore gravità degli esiti neurologici nei soggetti trattati rispetto ai controlli. Nello studio TOBY, il raffreddamento è stato iniziato già durante il trasporto, i risultati ne confermano la sicurezza e fattibilità14. Una recente metanalisi dei principali studi pubblicati, che include anche lo studio TOBY, ha dimostrato una riduzione del 20% del rischio relativo di morte e/o disabilità grave nei soggetti trattati. Conferma inoltre che, nei soggetti sopravvissuti, l’outcome neurologico è migliore (non si ha un incremento della sopravvivenza di soggetti con gravi handicaps neurologici)1. Ulteriori due studi, recentemente pubblicati, hanno presentato risultati che si allineano con quelli degli studi precedenti, entrambi prevedevano il ricorso all’ipotermia sistemica. Il neo.nEURO.network trial utilizzava l’aEEG, oltre ai criteri clinici, per la selezione dei pazienti. Ha riportato un’efficacia maggiore rispetto agli studi sino ad oggi disponibili in letteratura,; tale risultato potrebbe essere attribuibile ad un effetto neuroprotettivo sinergico della sedazione oppioide con morfina che era applicata a tutti i pazienti15. Nell’ICE trial (condotto in Australia), invece, i criteri di selezione erano esclusivamente clinici, venivano raffreddati pazienti con deficit di basi minori rispetto ad altri studi (>-12), con avvio dell’ipotermia presso i centri invianti. Lo studio ha dimostrato l’efficacia e la sicurezza dell’inizio del trattamento ipotermico già presso i punti nascita16. Per quanto riguarda il timing del trattamento, la finestra terapeutica entro la quale esso si è dimostrato efficace è di 6 ore. Sembra che un intervento precoce consenta risultati migliori, mentre raffreddamenti tardivi (oltre le 6 ore) possono consentire qualche beneficio, anche se non è ancora definito se i vantaggi del trattamento siano da considerare superiori rispetto ai rischi connessi agli effetti collaterali. Invece, non esistono ancora dati sufficienti per poter affermare se l’ipotermia sistemica sia superiore a quella selettiva o viceversa. (4,8) Sulla base di queste evidenze l’ILCOR (International Liaison Committee on Resuscitation), nell’ambito delle nuove linee guida sulla rianimazione cardio-polmonare emanate alla fine del 2010, si è espressa con la seguente raccomandazione: neonati nati a 36 settimane di età gestazionale ed affetti da encefalopatia ipossico-ischemica moderata o grave dovrebbero essere sottoposti atrattamento ipotermico, secondo uno dei protocolli degli studi randomizzati-comtrollati attualmente disponibili. Allo stato attuale l’ipotermia può, quindi, essere considerata uno standard terapeutico nella cura del neonato affetto da encefalopatia ipossico-ischemica17. Protocollo terapeutico Il protocollo terapeutico in uso presso l’U.O.S. Rianimazione Neonatale e Pediatrica dell’Istituto Giannina GasliVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
MOSCATELLI
Tabella I. – Encefalopatia moderata tipo I e grave (A + B + C). Almeno uno dei criteri A (asfissia alla nascita): – Apgar 10 mV, oppure margine inferiore > 5 mV e margine superiore > 10 mV e convulsioni. – Encefalopatia moderata (EEG standard): voltaggio continuo < 25 mV ma > 10 mV e/o convulsioni. – Encefalopatia grave (aEEG): margine inferiore < 5 mV e margine superiore < 10 mV, burst suppression. – Encefalopatia grave (EEG standard): burst suppression o voltaggio continuo < 10 mV.
ni è stato realizzato a seguito dell’analisi dei protocolli dei principali studi randomizzati controllati pubblicati, dai quali trae spunto, con qualche modifica che tiene anche conto della realtà locale della Regione Liguria10,11,14-16. Prevede il raffreddamento a 33,5 °C per 72 ore tramite l’utilizzo di un materassino raffreddante servocontrollato; la temperatura di riferimento è la temperatura rettale profonda (2,5-3 cm). Sono sottoposti a trattamento neonati con diagnosi di EII di grado moderato (tipo I) e grave. (Tabella I) Vengono anche trattati neonati con EII caratterizata da criteri clinici meno gravi (EII di grado moderato tipo II), ma con aEEG alterato (Tabella II). La diagnosi di EII si basa su criteri di sofferenza ipossica perinatale (pH e deficit di basi entro 1 ora dalla nascita, punteggio di Apgar, necessità di ventilazione continua a 10’ dalla nascita), criteri clinici (derivati dalla classificazione dell’EII secondo Sarnat e Sarnat) e criteri aEEG (Tabella I). I pazienti con EII moderata tipo II, presentano manifestazioni cliniche più sfumate ma un quadro aEEG che è identico a quello di soggetti con EII moderata tipo I. Rappresentano criteri di esclusione: l’età gestazionale inferiore a 34 settimane o peso -10 mmol/l entro 60’ dalla nascita. Almeno uno dei criteri B: – tono muscolare anomalo; – convulsioni cliniche; – postura anomala; – riflessi anormali (suzione, gasping, Moro); – anomalie del respiro (apnee, iperventilazione, ecc.); – fontanella tesa. Almeno uno dei criteri C: – aEEG: – margine inferiore < 5 mV; – margine superiore > 10 mV; – convulsioni. EEG standard: – voltaggio continuo < 25 mV ma > 10 mV; – e/o convulsioni.
bradicardia emodinamicamente significativa, emorragie e coagulopatie non controllabili, condizioni cliniche compatibili con un quadro di morte cerebrale, malformazioni maggiori, patologie genetiche a prognosi infausta entro il primo anno di vita. Tali criteri di esclusione non sono considerati assoluti ed ogni caso è oggetto di valutazione collegiale. Per quanto riguarda la selezione dei pazienti, bisogna prendere in considerazione il fatto che la valutazione clinica presenta una bassa sensibilità e specificità, di conseguenza hanno un maggiore valore i criteri più facilmente oggettivabili: pH, deficit di basi ed aEEG. Il valore di pH, tuttavia, può talvolta non rispecchiare fedelmente il grado di sofferenza perinatale, poichè influenzabile dall’efficacia delle manovre di rianimazione e dalla somministrazione di alcalinizzanti. Questo è il motivo per cui, nel nostro protocollo, vengono arruolati anche pazienti con un quadro clinico e con alterazioni di pH più sfumate, ma con aEEG alterato. L’aEEG, infatti, presenta sensibilità e specificità elevate (rispettivamente 92% e 85%) e costituisce, se correttamente eseguito ed interpretato, l’indice più affidabile di encefalopatia. La maggiore sensibilità e specificità si ottiene, tuttavia, dall’analisi combinata di più criteri: criteri di asfissia (pH, Apgar, necessità di ventilazione), clinici e aEEG18. All’ingresso in reparto dopo una rapida stabilizzazione, la priorità viene data alla valutazione clinica e aEEG del paziente (almeno 20’ di tracciato). Affinchè l’aEEG sia affidabile è necessario che il neonato presenti una temperatura centrale superiore a 34.5°C e che non siano stati somministrati farmaci anticomiziali o sedativi nei 30-60’ antecedenti alla valutazione. Se il neonato è candidabile ad ipotermia si procede a sedazione con oppioidi, intubazione e ventilazione meccanica. Talvolta, artefatti da movimento possono dare un tracciato falsamente interpretabile come normale; in questo caso può essere utile la curarizzazione del paziente. La scelta dell’intubazione, 406
opzione non raccomandata da molti autori, è giustificata dalla volontà di mantenere uno stretto controllo della PaCO2, al fine di ottimizzare il flusso ematico cerebrale, evitando episodi di ipo ed ipercapnia. Per lo stesso motivo si mantiene la pressione arteriosa entro i limiti superiori della normalità, monitorando la pressione arteriosa attraverso il posizionamento di una cannula arteriosa. PaCO2 e pressione arteriosa media vengono modulate anche in base ai valori di saturazione regionale cerebrale di ossigeno, monitorata in continuo con tecnologia NIRS (near infrared spectroscopy)4. La scelta dei farmaci anticomiziali e sedativi riveste particolare importanza. L’encefalopatia ipossico-ischemica è, infatti, una delle principali cause di convulsioni neonatali ed esistono consistenti evidenze che dimostrano come l’entità e la durata degli episodi convulsivi siano negativamente correlati con l’outcome. Le convulsioni hanno un impatto negativo sullo sviluppo neuropsicologico, predisponendo a disturbi cognitivi, comportamentali e allo sviluppo di epilessia. D’altra parte la sedazione è necessaria per evitare il discomfort relativo al raffreddamento, alla ventilazione meccanica ed alle procedure. Recenti acquisizioni basate su studi animali dimostrano come GABA agonisti e antagonisti NMDA possano avere effetti neurodegenerativi nell’encefalo di soggetti in via di sviluppo attraverso meccanismi apoptotici. La maggior parte degli anestetici e dei sedativi appartiene a questa classe di farmaci. Molti anticomiziali (benzodiazepine, barbiturici, fenitoina, acido valproico, vigabatrin) avrebbero lo stesso effetto. Anticomiziali di recente introduzione, come il topiramato, avrebbero invece effetto neuroprotettivo; mentre per il levetiracetam, nell’animale, non sono stati dimostrati effetti di neurodegenerazione. Inoltre, questi due farmaci di nuova generazione consentirebbero una maggior percentuale di successo nel controllo delle crisi convulsive. Per questi motivi abbiamo recentemente sviluppato un protocollo sperimentale che prevede la somministrazione precoce di topiramato, possibilmente già durante il trasporto e per tutta la durata dell’ipotermia, come agente neuroprotettore e l’eventuale ulteriore trattamento delle crisi convulsive con levetiracetam e lidocaina nei casi refrattari (non noti effetti neurodegenerativi da lidocaina). Per quanto riguarda la sedazione ricorriamo all’utilizzo di oppioidi, che sembrano avere effetti neuroprotettivi nei soggetti affetti da encefalopatia ipossico-ischemica.(19) Nell’ambito dello stesso studio sperimentale, sono stati introdotti altri interventi neuroprotettivi che prevedono: – mantenimento della sodiemia ai limiti superiori della norma (145-150 mEq/l: effetto antiedemigeno cerebrale, miglioramento del flusso ematico cerebra- le, riduzione dei potenziali postsinaptici eccitatori); – supplementazione con magnesio solfato con un target di magnesiemia di 2,5-3 mg/dl per tutta la durata del trattamento ipotermico (riduzione dell’ingresso di calcio nei neuroni); – supplementazione con melatonina e vitamina E per una settimana (azione antiossidante); – somministrazione di n-acetil-cisteina per 24 ore; – supplementazione con carnitina per una settimana (scavenger di acil-CoA esteri in caso di disfunzione mitocondriale secondaria ad ipossia-ischemia).
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IPOTERMIA TERAPEUTICA NEL TRATTAMENTO DELL’ENCEFALOPATIA IPOSSICO-ISCHEMICA DEL NEONATO
Il nostro protocollo di neuroprotezione mette quindi in atto, oltre all’ipotermia, multipli interventi che ne potrebbero potenziare l’efficacia. Il razionale è quello di intervenire a più livelli lungo la cascata fisiopatologica del danno ipossico-ischemico, secondo il presupposto che, probabilmente, è alla base dell’efficacia del trattamento ipotermico7, 20. Durante l’ipotermia i neonati sono sottoposti a monitoraggio aEEG in continuo. La fase di riscaldamento avviene gradualmente (non superiore a 0,5 °C/ora), con una durata complessiva di 6-8 ore. Il riscaldamento è una fase delicata, in quanto possono manifestarsi crisi convulsive e la vasodilatazione correlata può determinare episodi ipotensivi. Il neuroimaging prevede studi ecografici seriati con la valutazione degli indici di resistenza dei vasi arteriosi cerebrali ed uno studio in risonanza magnetica entro i primi sette giorni di vita che includa protocolli di spettroscopia e diffusione. A questo si aggiungono tutti i provvedimenti terapeutici richiesti dalle insufficienze d’organo che possono essere correlate alla sofferenza anosso-ischemica: insufficienza respiratoria, ipertensione polmonare, insufficienza cardiaca, insufficienza renale acuta, ecc. Tutti i bambini sono sottoposti ad uno stretto follow-up neurologico che verrà esteso sino all’età scolare. Vengono effettuate valutazioni con scale di Griffiths e Bayleys ed almeno una risonanza magnetica dell’encefalo a circa un mese dall’evento ipossico.
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Rete Hub & Spoke La centralizzazione, costuisce un criterio fondamentale per l’efficace trattamento di neonati con encefalopatia ipossico-ischemica. Si tratta, infatti, di una patologia relativamente rara, che richiede un trattamento complesso ed è spesso associata a condizioni patologiche appannaggio esclusivo di centri di III livello (ipertensione polmonare, grave disfunzione micardica, ARDS, disfunzione multiorgano). Disperdere i casi in molti centri ha il solo effetto di non consentire lo sviluppo ed il mantenimento di competenze adeguate. L’ILCOR raccomanda che l’EII del neonato venga centralizzata presso terapie intensive di III livello di riferimento17, 21. Dal 2008, la regione Liguria è dotata di una rete hub & spoke per il trattamento dell’EII del neonato. Tutti i pazienti vengono centalizzati presso la U.O.S. Rianimazione Neonatale e Pedistrica dell’U.O.C. Anestesia e Rianimazione dell’Istituto Giannina Gaslini. Ad oggi sono stati trattati oltre 40 pazienti e valutati per ipotermia circa il doppio. L’outcome neurologico è sovrapponibile a quello riportato in letteratura e si avvicina a quello del neo.nEURO.network trial, maggiori informazioni saranno possibili dopo il follow-up neurologico in età scolare, ancora in corso.
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Trauma Induced Coagulopathy (TIC): time for a changing G. NARDI1, V. AGOSTINI2, B. RONDINELLI3, E. CINGOLANI1
Trauma is the leading cause of death under 44 years of age resulting in the annual worldwide death of more than 5 million people. Haemorrhage is the principle cause of death in the first few hours following a severe injury. Coagulopathy is a frequent complication in patients in hemorrhagic shock, and may occur in as many as 25% of the patients even before hospital admission. The early aggressive management of Trauma Induced Coagulopathy (TIC) may improve survival in trauma victims. However the timely identification of patients who need aggressive hemostatic resuscitation remains challenging. In a recent paper Brockamp analyzed the predictive values for massive transfusion (MT) of six different scoring algorithms using the German Trauma Society database. Although the weighted and more complex systems such as the Trauma Associated Severe Hemorrhage (TASH) score had the highest overall accuracy, more simple score as the one proposed by Vandromme, performed almost as well. Vandromme-score is based on 5 parameters four of which immediately available by clinical examination or by generally available point of care devices: blood lactate ≥ 5 mmol/l, heart rate > 105 bpm, INR >1.5, haemoglobin ≤ 11g/l and systolic blood pressure 4 units RBC). Borgman 20 used a different approach and identified patients who would need a high FPP:RBC ratio on the basis of a TASH score ≥ 15. A time interval of 24 hours to estimate the total amount of blood products transfused, was used by the majority of the Authors, but a few studies focused on a different time span. A significant heterogeneity among these studies is therefore present. Because of that all the Authors who performed a systematic review of the available studies but one, felt that the quality of the data was insufficient to allow for a met analysis. The single met analysis29 available at the moment, shows a significant reduction in the risk of death (OR 0.38, CI 0.240.60) for trauma patients undergoing massive transfusion with a plasma:PRBC ratio in a range between 1:2.5 to 1:1, but the Authors caution against the very low level of supporting evidence. Most of the systematic reviews reached a similar conclusion, suggesting an improved mortality with higher level of plasma, though emphasising that an optimal and consistent FFP:RBC ratio has not yet been identified and there is insufficient evidence to support the use of a fixed 1:1 ratio. In contrast, the review by Kozek27 states that there is inconsistent and contradictory eviden-
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NARDI
TRAUMA INDUCED COAGULOPATHY (TIC): TIME FOR A CHANGING
ce concerning the efficacy of FFP, and suggests that fibrinogen might offer some alternative advantage. All the Authors agree on the strong need for high-quality prospective studies to allow for a solid conclusion to be drawn. But, although such a study has been planned it has not been performed jet. Transfusion of plasma and platelets is independently associated with the development of multiple organ failure in critically injured patients. In a retrospective study on a large number of transfused patients requiring less than 10 Units of PRBC within 12 hours of admission, Inaba30 observed a higher rate of complication in the patients receiving plasma, if compared to those who did not. Patients receiving more than 6 Units of plasma had a 12-fold increase in ARDS, 6fold increase in MODS and 4-fold increase in pneumonia and sepsis with non significant improve in survival. The rate of all complications increased as the amount of plasma these patients received increased. According to the Author, for patients not requiring massive transfusion the complications associated with transfusion of plasma outweigh any potential benefit to survival. In a different study Johnson31 confirmed these findings, but demonstrated that the deleterious effect associated with plasma transfusion outweighed the survival benefits of plasma only among patients receiving fewer than 6 Units of blood (PRBC). These results underline the need to reexamine the protocols for empirical transfusion of plasma and to review the transfusion triggers as well as the practice of delivering plasma in a fixed ratio to the Units of PRBCs transfused. In the recent years international guidelines 32 have been developed aimed to prevent and treat trauma induced coagulopathy. However, due to the heterogeneous availability of hemocomponents and clotting factors among the different countries and to the lack of sound data in the literature, there is no consensus jet on a management strategy that might be widely adopted in the clinical practice. Moreover as nowadays a significant percentage of trauma occur in elderly people with cardiovascular comorbidities, who are often on antiplatelets agents or antithrombotic prophylaxis, a comprehensive protocol to treat the bleeding patients should also include strategies to quickly antagonized the effect of these drugs. Bleeding control strategies aim to rapidly address acute traumatic coagulopathy through the early replacement of clotting factors. Haemostasis is critically dependent on fibrinogen as a substrate for clot formation. Many bleeding trauma patients with TIC present with an established fibrinogen depletion below levels currently recommended for therapeutic supplementation In a recent study hypotension, increasing shock severity (as measured by the base deficit) and high degree of injury (ISS ≥25), were all associated with a reduction in fibrinogen levels. Fibrinogen depletion is associated with poor outcomes. Plasma has been traditionally used as a source of fibrinogen, however since few years ago plasma transfusion was not recommended unless a pathologic prolongation of PT or INR was demonstrated or fibrinogen was lower than 1.5 gr/L. There are several limitations in the use of plasma to prevent and treat TIC. Both Fresh Frozen Plasma (FFP) and pathogen-inactivated plasma (industrial purified plasma) need to be group matched, thawed and 410
armed before administration. Therefore unless prethawed plasma is available plasma transfusion cannot be started at the same time as universal PRBC. A delay of 93’ has been reported by Snyder et al33 explaining why the expected high plasma/RBCS ratio is reached only a few hours after starting treatment. During this time span fibrinogen level might be lower than desired.The balance between the need for a rapid intervention to treat or prevent TIC and the risk related to unnecessary transfusion of plasma, is difficult to achieve. Fibrinogen concentrate has been proposed as the first line treatment by the Austrian guidelines. A few studies,35,36 reported a better survival for massively bleeding patients with a goal directed therapy based on early coagulation monitoring with ROTEM and administration of fibrinogen concentrates plus factors when needed. Although very attractive, this strategy need further confirmation. In his study Schöchl36 was able to reduce significantly the use of plasma. However a rather high amount of fibrinogen was used to achieve this result, with non negligible related costs. Moreover in Italy, only few hospitals are organized in a way to be able to start thromboelastometry just on patient’s admission, thus allowing to guide treatment since the very early step.With the aim to improve and homogenize the early treatment of trauma patients with significant bleeding at high risk of massive transfusion, the Steering Committee of the Italian Trauma Update Network (TUN) recently developed a comprehensive treating protocol (Stop Bleeding). The rationale for this protocol is to be affordable with the resources currently available in the majority Italian Trauma Centres. Beside ensuring the best standard of care, the main objective of the protocol is to limit the use of plasma in patients who might not need it, in order to reduce plasma related adverse effects. Fibrinogen concentrate has been considered as the first treatment step, aiming to reduce the risk of fibrinogen depletion and support the clotting process34. However, due to the high cost of fibrinogen, a relatively low dosage (2 grams) is scheduled for the first “blind” shot. Some Authors suggested to start treatment based on the results of thromboelastometry.35 However this strategy was considered not always feasible without significant modifications in the current organization of the majority of the Institutions, bringing to excessive additional costs. Therefore, according to the protocol, the decision to start the treatment is based on clinical data ( including lactate and base excess), while the further management should be guided on the data from the clotting monitoring obtained through thromboelastometry. References 1- Brohi K, Singh J, Heron M, Coats T. Acute traumatic coagulopathy. The Journal of Trauma.2003;54:1127-30. Epub 2003/06/19. 2. Brockamp T, Nienaber U, Mutschler M et al. Predicting ongoing hemorrhage and transfusion requirement after severe trauma: a validation of six scoring systems and algorithms on the Trauma Register DGU(R). Crit Care 2012; 16:R129 doi:10.1186/cc11432. 3- Vandromme MJ, Griffin RL, McGwin G et al. Prospective identification of patients at risk for massive transfusion: an imprecise endeavour. The American Surgeon 2011,77;155-61. 4. Duchesne JC, Hunt JP, Wahl G, Marr AB, Wang YZ, Wein-
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TRAUMA INDUCED COAGULOPATHY (TIC): TIME FOR A CHANGING.
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NARDI
TRAUMA INDUCED COAGULOPATHY (TIC): TIME FOR A CHANGING
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Ottobre 2012
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):413-4
Il problema delle infusioni in Terapia Intensiva: quale ruolo per il PICC? C. OLIVIERI
I pazienti ricoverati in Terapia Intensiva necessitano dell’infusione di liquidi e farmaci. Le caratteristiche delle sostanze da infondere condizionano la via di accesso che può essere utilizzata. Le infusioni di soluzioni fisiologiche, glucosate o elettrolitiche bilanciate e di farmaci diluiti in queste soluzioni possono essere somministrate attraverso vasi venosi di qualunque dimensione. Alcune sostanze invece, come le soluzioni per nutrizione parenterale e le soluzioni ipertoniche, sono lesive per le pareti delle vene, e necessitano quindi di essere somministrate in vasi di grosse dimensioni per poter essere diluite dal flusso ematico e non risultare lesive. La necessità di liquidi inoltre si modifica nel corso del ricovero. Le prime giornate di ricovero sono caratterizzate dall’infusione di elevate quantità, che necessitano spesso, soprattutto nei pazienti con problemi emorragici, di vie infusionali corte e di grosso calibro, mentre la somministrazione di liquidi si riduce progressivamente durante il proseguo del ricovero. I pazienti ricoverati nei reparti di Rianimazione e Terapia Intensiva in Italia ricevono nel 32% dei casi soluzioni nutritive parenterali. Il 6% dei pazienti inoltre viene ammesso per trauma cranico, e il 2% dei pazienti presenta monitoraggio della pressione endocranica; questa tipologia di pazienti può necessitare, durante il ricovero, del trattamento con soluzioni ipertoniche. In queste situazioni quindi, che rappresentano più di un terzo dei pazienti ricoverati in Italia in Terapia Intensiva, la presenza di un accesso vascolare con la punta in una vena centrale è necessaria per poter somministrare la terapia senza danneggiare le vene periferiche. Oltre alla necessità infusive alcuni pazienti ricoverati in Terapia Intensiva necessitano di un accesso venoso centrale in vena cava superiore come ausilio nel monitoraggio della situazione emodinamica. Farmaci vasoattivi infatti vengono somministrati nel 35% dei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva, e quasi 1% dei pazienti riceve un monitoraggio in continuo della saturazione venosa centrale di ossigeno (SvO2). In questi pazienti, che presentano instabilità emodinamica, l’accesso vascolare in vena cava superiore permette il monitoraggio della pressione venosa centrale e il campionamento venoso per la valutazione della SvO2. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Anestesia e Rianimazione, Dipartimento di Emergenza, AOU “Maggiore della Carità”, Novara
In Italia più della metà dei pazienti vengono dimessi dalla Terapia Intensiva con in sede un catetere venoso centrale (CVC), posizionato in vena giugulare interna, succlavia o femorale. La degenza media in ospedale, successiva alla dimissione dalla Terapia Intensiva, è di circa 20 giorni, e più del 2% dei pazienti vengono dimessi in strutture di lungodegenza o riabilitazione. La nutrizione parenterale, che rappresenta una indicazione alla permanenza di un accesso vascolare con la punta in una grossa vena centrale, viene continuata dopo la dimissione dalla Terapia Intensiva nel 18% dei pazienti. Nei casi quindi di ricoveri ospedalieri prolungati con indicazione a proseguire terapie che devono essere somministrate attraverso un accesso centrale, i pazienti necessitano, per poter ricevere la terapia, di un CVC o di un catetere centrale a inserzione periferica (PICC) oltre la durata del ricovero in Terapia Intensiva. Gli accessi venosi centrali inseriti in vena giugulare interna, succlavia o femorale vengono rimossi, a seconda della situazione clinica del paziente, dopo non più di 2 settimane dall’inserzione. Qualora la necessità di un accesso centrale dovesse durare oltre 2 settimane, l’utilizzo dei PICC, invece che dei CVC, può garantire un accesso venoso centrale riducendo i problemi legate ai CVC, come i rischi correlati all’inserzione e le problematiche infettive. L’utilizzo dei PICC al posto dei CVC può garantire le necessità infusionali e di monitoraggio durante il ricovero in Terapia Intensiva e le necessità infusionali durante la successiva permanenza nei reparti, lungodegenze o riabilitazioni. Sono necessari studi prospettici per valutare quanto l’utilizzo dei PICC durante il ricovero in Terapia Intensiva possa garantire le necessità infusionali e di monitoraggio evitando il posizionamento dei CVC e le relative complicanze, e quanto possa eventualmente facilitare la gestio-
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OLIVIERI
IL PROBLEMA DELLE INFUSIONI IN TERAPIA INTENSIVA: QUALE RUOLO PER IL PICC?
ne e ridurre i costi complessivi di assistenza nei pazienti che necessitano della permanenza prolungata di un accesso venoso centrale dopo la dimissione dalla Terapia Intensiva. Bibliografia GiViTI Gruppo italiano per la Valutazione degli interventi in Terapia Intensiva Progetto MARGHERITA, Anno 2010 Rapporto generale Terapie Intensive Polivalenti. Sestante Edizioni, Bergamo. GiViTI Gruppo Italiano per la Valutazione degli Interventi In Terapia Intensiva Rapporto Progetto PROSAFE, Anno 2011 Rapporto nazionale TI polivalenti Italia. Sestante Edizioni, Bergamo
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Pronovost P, Needham D, Berenholtz S, Sinopoli D, Chu H, Cosgrove S, Sexton B, Hyzy R, Welsh R, Roth G, Bander J, Kepros J, Goeschel C. An intervention to decrease catheter related bloodstream infections in the ICU. N Engl J Med 2006, 355:2725–2732. Jones AE, Shapiro NI,Trzeciak S, Ryan C. Arnold RC, Claremont HA, Kline JA. Lactate Clearance vs Central Venous Oxygen Saturation as Goals of Early Sepsis Therapy: A Randomized Clinical Trial JAMA. 2010;303:739-46. Rivers E, Nguyen B, Havstad S et al. Early Goal-Directed Therapy Collaborative Group. Early goaldirected therapy in the treatment of severe sepsis and septic shock. N Engl J Med. 2001;345:1368-77.
MINERVA ANESTESIOLOGICA
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):415-6
La diastole applicata all’anestesia ed alla terapia intensiva M. OPPIZZI
Come facciamo a diagnosticare uno scompenso diastolico nel perioperatorio? Date le difficoltà di una diagnosi certa di scompenso diastolico per prima cosa vanno escluse altre cause più frequenti e più facili da diagnosticare come l’ipovolemia, la disfunzione sistolica, una severa malattia valvolare, il tamponamento cardiaco. Lo scompenso a funzione sistolica conservata viene definito dalla presenza di 4 condizioni: 1) paziente a rischio, 2) substrato anatomico, 3) fattore scatenante, 4) aumento della pressione atriale sx/riduzione della gittata cardiaca, con funzione sistolica normale. 1) I soggetti a rischio sono gli anziani, soprattutto donne, ipertesi mal curati, diabetici, con insufficienza renale cronica; i pz con stenosi aortica, più raramente i soggetti con cardiomiopatia ipertrofica. 2) La disfunzione diastolica per arrivare a dare complicanze emodinamiche deve essere sorretta dalla presenza di una o entrambe queste alterazioni anatomiche: a) un’ipertrofia concentrica del ventricolo sx, soprattutto se severa, associata a riduzione della cavità ventricolare ed a dilatazione dell’atrio sx, oppure b) un’ostruzione dinamica all’efflusso sx.* 3) I fattori scatenanti sono solitamente i responsabili del passaggio da una condizione di disfunzione diastolica clinicamente silente, rilevabile solo con i dati strumentali, allo scompenso diastolico, caratterizzato dalla comparsa dell’instabilità emodinamica. I fattori che possono provocare l’instabilizzazione sono frequenti nel periodo perioperatorio: la tachicardia, la perdita della pompa atriale per un’aritmia (fibrillazione atriale e ritmo giunzionale), una crisi ipertensiva, un precarico inadeguato o eccessivo. L’individuazione del fattore scatenante è fondamentale per il trattamento. 4) Infine per validare il nesso causale tra scompenso diastolico ed instabilità emodinamica è necessario dimostrare almeno uno di questi fattori: a) un aumento della pressione atriale sx (che giustifichi lo scompenso), b) una riduzione della gittata (che giustifichi la bassa portata), c) un’ostruzione dinamica all’efflusso sx, tutti dati ottenibili con l’ecocardiografia. Una volta fatta la diagnosi di scompenso diastolico l’ecografia consente di individuare sottogruppi e scenari differenti che richiedono trattamenti specifici. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento Cardio-Toraco-Vascolare, Ospedale San Raffaele, Milano
1. La disfunzione diastolica viene definita pura quando non coesiste con un’alterata funzione sistolica. Per prevenire problemi emodinamici è sufficiente evitare: 1) un’errata valutazione delle condizioni di riempimento dovuta alla sovrastima del precarico ed il successivo circolo vizioso di impiego delle catecolamine, 2) crisi ipertensive, che portano ad un immediato peggioramento del riempimento diastolico, 3) gli eccessivi aumenti della frequenza cardiaca che possono compromettere il già rallentato riempimento diastolico (correzione fattori scatenanti, betabloccanti), 4) la perdita della pompa atriale, con un’adeguata profilassi (correzioni elettrolitiche, antiaritmici?) ed immediata terapia delle aritmie atriali (cardioversione) e con il posizionamento degli elettrodi epicardici (in cardiochirurgia) per la stimolazione sequenziale. 2. L’ostruzione dinamica all’efflusso sx * non è propria soltanto dei quadri di miocardiopatia ipertrofica ostruttiva ma può manifestarsi in pazienti anziani con ipertrofia del setto basale, cavità ventricolare ridotta e funzione sistolica normale o ipernormale, in presenza di condizioni scatenanti quali: un’importante ipovolemia, un’ipercinesia ventricolare (febbre, sepsi, ecc.), un uso improprio delle catecolamine. L’ostruzione dinamica all’efflusso sx è insidiosa perché non ci si pensa e perché senza il TEE non si arriva alla diagnosi. La sospensione delle catecolamine, se in corso, l’impiego del beta-bloccante, per ridurre l’ostruzione, eventualmente in associazione alla noradrenalina, allo scopo di aumentare rapidamente il precarico e nello stesso tempo evitare fenomeni ipotensivi, è solitamente effi* L’ostruzione dinamica all’efflusso sx non è propriamente una forma di scompenso diastolico ma più precisamente di scompenso con funzione sistolica normale.
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OPPIZZI
LA DIASTOLE APPLICATA ALL’ANESTESIA ED ALLA TERAPIA INTENSIVA
cace. L’espansione volemica va fatta con molta attenzione per il rischio di peggioramento degli scambi amplificato dalla presenza di insufficienza mitralica acuta. 3. La disfunzione diastolica associata a disfunzione sistolica è tipica dei soggetti con miocardiopatia ischemica o dilatativa. Il pattern di disfunzione diastolica di più frequente riscontro è quello restrittivo. La disfunzione diastolica è causata da vari fattori: asincronie di parete, ampie zone acinetiche (miocardio ibernato), estese aree fibrotiche, aneurismi apicali. Le peculiarità del trattamento di questa situazione rispetto alla disfunzione diastolica o sistolica isolate sono: a) al contrario che nella disfunzione diastolica pura nella disfunzione mista in acuto sono controindicati i betabloccanti o i calcio antagonisti; un’eccessiva riduzione della frequenza cardiaca è da proscrivere per il rischio di diminuzione della portata cardiaca; b) tra gli agenti inotropi sono preferibili rispetto alle catecolamine i PDE3-inibitori o i casensibilizzatori, per le favorevoli proprietà lusotrope; c) i diuretici, controindicati nella disfunzione diastolica pura, sono indicati nei casi di aumento della pressione atriale sx; d) la presenza di asincronia è frequente; in questi casi è utile (in cardiochi-
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rurgia) posizionare gli elettrodi anche sul ventricolo sx per la stimolazione multisede. 4. La sovrapposizione alla disfunzione diastolica del ventricolo sx di una disfunzione ventricolare dx rende molto difficoltosa la gestione di questi pz. La presenza o la comparsa di disfunzione ventricolare destra, insufficienza tricuspidalica, ipertensione polmonare, aggrava in maniera importante la disfunzione diastolica sx per riduzione del precarico sx (ridotta portata polmonare, shift del setto interventricolare verso sx). L’aumento delle pressioni nel circolo splancnico associato alla bassa portata favorisce la translocazione e l’insorgenza del danno multiorgano. Il trattamento è complesso ed avaro di soddisfazioni. L’identificazione della causa a volte consente una terapia eziologica che porta ad un rapido miglioramento emodinamico. Il riscontro di ipertensione polmonare suggerirebbe l’impiego di farmaci vasodilatatori polmonari che vanno usati con cautela, soprattutto in presenza di disfunzione sistolica sx associata, in quanto l’aumento del ritorno venoso polmonare in un ventricolo con ridotta compliance può portare ad edema polmonare. I farmaci inotropi hanno poca efficacia sul ventricolo dx, possono innescare aritmie atriali e peggiorare la risposta ventricolare alla fibrillazione atriale.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):417-8
I test preoperatori sono utili in chirurgia non cardiaca? Pros M. OPPIZZI
I test preoperatori sono utili nelle chirurgie maggiori quando comportano modifiche delle strategie perioperatorie. Nei pz con soffio cardiaco o malattia valvolare nota l’ecocardiogramma basale permette di: a) identificare il tipo di malattia valvolare, b) quantificarne la gravità e c) le ripercussioni sulla morfologia e funzione sisto/diastolica del ventricolo sx/dx, degli atri e sull’emodinamica (pressioni di riempimento, pressione polmonare, gittata sistolica). Da queste informazioni è possibile: a) identificare i pz che andranno sottoposti alla chirurgia valvolare prima della chirurgia non cardiaca (stenosi aortica o mitralica severa), b) individuare il sottogruppo passibile di trattamento trans catetere (valvuloplastica con palloncino, tavi, mitraclip), c) costruire una strategia di monitoraggio e trattamento perioperatorio: vasodilatatori ed evitare la bradicardia nei rigurgiti; ottimizzazione del precarico, prevenzione della fibrillazione atriale e dell’ischemia miocardica nella stenosi aortica; profilassi delle aritmie atriali, alcalosi ventilatoria ed in casi selezionati vasodilatatori polmonari nell’ipertensione polmonare della stenosi mitralica. Nei pz con disfunzione ventricolare / scompenso cardiaco è possibile: a) identificare i pz con asincronia o insufficienza mitralica funzionale di severa entità che si possono giovare della terapia di resincronizzazione (classe nyha 3-4, blocco di branca sx, ef < 35%, asincronia all’eco) o di plastica mitralica trans catetere (classe nyha 3-4 in terapia piena, rigurgito medio-severo, jet centrale, distanza di coaptazione < 10 mm, lunghezza di coaptazione > 2 mm), prima di essere sottoposti alla chirurgia non cardiaca, b) stimare il grado di disfunzione ventricolare, per scegliere la tecnica anestesiologica adeguata, l’indicazione al monitoraggio emodinamico (tipo ed intensità) ed all’impiego degli inotropi, c) quantificare le pressioni di riempimento e l’acqua extravascolare polmonare (linee B) e decidere se siano necessari alcuni giorni di trattamento diuretico intensivo per ottimizzare il compenso prima dell’intervento, d) conoscere, in casi selezionati, la riserva contrattile (eco-dobutamina), quindi la risposta della funzione ventricolare sx ai farmaci inotropi. Nei pz con cardiopatia ischemica nota è indicato: a) valutare la funzione ventricolare e l’eventuale interessamenVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento Cardio-Toraco-Vascolare, Ospedale San Raffaele Milano
to valvolare (insufficienza mitralica funzionale, stenosi aortica) con l’ecografia basale, b) conoscere la soglia ischemica con un test provocativo personalizzato in base alle caratteristiche del soggetto. La soglia ischemica indica sopra quali valori di frequenza cardiaca e di pressione arteriosa compare l’ischemia miocardica; permette quindi di modulare il trattamento intraoperatorio per ridurre al minimo i momenti in cui tale soglia venga superata. Il test provocativo stratifica la gravità dell’ischemia attraverso: il timing di insorgenza (più è precoce, più è grave e maggiori sono le possibilità che si manifesti nel perioperatorio), l’estensione tramite il numero di derivazioni interessate dal sottoslivellamento del tratto ST (alto rischio > 3 derivazioni), l’entità del sottoslivellamento (alto rischio > 2 mm), la sede ed il numero di segmenti asinergici o con difetti di perfusione (alto rischio: territorio della discendente anteriore, territori multipli, segmenti prossimali, aumento della captazione polmonare) e la loro reversibilità. Il test eseguito in terapia permette di stabilire l’efficacia del trattamento nella prevenzione / abolizione dell’ischemia.Tutte queste informazioni consentono di classificare il pz nelle categorie alto-medio-basso rischio ed unite alle copatologie ed al tipo di intervento costituiscono la base per decidere la strategia più opportuna: coronarografia e rivascolarizzazione nell’alto rischio, terapia medica con betabloccanti e statine nel medio rischio, nessun provvedimento nel basso rischio. Il problema diagnostico principale è rappresentato dai pz asintomatici ma potenzialmente a rischio di ischemia/infarto perioperatorio in attesa di un intervento vascolare. Nei soggetti con aneurisma dell’aorta che vengono sottoposti alla CT è razionale estendere lo studio anche alle coronarie. Soprattutto per gli aneurismi toraco-addominali una completa definizione della situazione cardiaca (ecocardiografia + coro TC) è necessaria dato l’impegno emodina-
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OPPIZZI
I TEST PREOPERATORI SONO UTILI IN CHIRURGIA NON CARDIACA? PROS
mico dell’intervento. Il riscontro di una cardiopatia ad alto rischio può far propendere per un trattamento endovascolare. Nei soggetti con malattia carotidea l’impiego dei test è più controverso anche se recenti esperienze ne dimostrano l’utilità (assenza di ischemia perioperatoria nei pz sottoposti a coronarografia e rivascolarizzazione miocardica). Nei pz con vasculopatia periferica l’incidenza di eventi ischemici perioperatori è significativa, nonostante lo scarso impegno emodinamico dell’intervento, ma i test provocativi sono limitati a quelli farmacologici e la coronarografia (con accesso femorale) è gravata da maggiori complicanze, per via della diffusione della malattia. Spesso l’estensione della malattia coronarica è severa, coinvolgente anche la periferia, quindi i risultati della rivascolarizzazione sono meno buoni. La valutazione bioumorale con la troponina ed il bnp si è dimostrata: a) predittiva di eventi maggiori sia intra-ospedalieri che a distanza, b) avere un effetto additivo, rispetto agli score di rischio, c) possedere le caratteristiche del gradiente biologico (maggiore è il valore, maggiore è il
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rischio). Il suo impiego in casi selezionati permette quindi di precisare meglio il rischio del singolo pz. In conclusione. Non credo che ci siano dubbi che i test pre-operatori siano utili nella maggior parte dei pz cardiopatici da sottoporre a chirurgia maggiore o ad alto rischio di complicanze ischemiche per consentire un approccio personalizzato ed evitare gli errori di un trattamento farmacologico generalizzato (v. POISE: riduzione degli infarti ma aumento della mortalità). I problemi che rimangono aperti per questo tipo di approccio sono 2: è fattibile? è sufficiente? Fattibile? Deve essere reso fattibile; i benefici immediati ed a distanza sono indubbi. Sufficiente ? No. Purtroppo alcuni eventi ischemici che avvengono per instabilizzazione di placche non critiche, per alterazioni della coagulazione o per motivi ancora poco conosciuti (apical balloooning), non sono prevedibili con la stratificazione di rischio routinaria. Le nuove tecniche di imaging della placca in un prossimo futuro probabilmente permetteranno un’identificazione più precisa.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):419-20
La valutazione preoperatoria del paziente adulto M.C. PACE
La valutazione preoperatoria del paziente adulto è da anni un argomento controbattuto, perché se da una parte si provano ad emanare linee guida e raccomandazioni, come hanno fatto 2 tra le principali società anestesiologiche, quella europea e quella americana, dall’altra non sempre ci sono evidenze sufficienti a collegare, la necessità di questa valutazione al periodo perioperatorio ed all’outcome del paziente. Anche il rapporto tra alcune caratteristiche preoperatorie del paziente asintomatico, come l’età e lo stato di salute e la morbidità e mortalità postoperatorie, riporta un livello di evidenza piuttosto scarso, 2B. Allo stesso modo si comporta l’associazione tra complicanze perioperatorie (cardiache, respiratorie, emorragiche) e condizioni cliniche preesistenti (diabete, ipertensione IMA)1. La valutazione preoperatoria, di cui l’unico responsabile è l’anestesista, può essere definita come il procedimento clinico che precede l’atto chirurgico e/o anestesiologico, con cui si approccia il paziente. Ma se allarghiamo l’angolo di visione, ci accorgiamo che il discorso si divide in tre campi di azione: i contenuti della valutazione preoperatoria, quando farla e se sono ancora necessari test preoperatori di routine, uguali per tutti i pazienti. Le linee guida, gli standards e le raccomandazioni, possono migliorare questo approccio, aiutare l’anestesista, offrire uno schema da cui partire e soprattutto stimolare nuove linee di ricerca. Infatti la visita anestesiologica, che ha avuto per anni esclusivamente un ruolo di valutazione e soprattutto di sicurezza nei confronti del paziente, in tempi più recenti, comincia a diventare anche una risorsa per la struttura ospedaliera, e così molti Autori evidenziano la riduzione di richieste di consulenze e di screening laboratoristici e strumentali preoperatori, e quindi anche dei tempi di ospedalizzazione, quando i pazienti vengono visitati dall’anestesista. Sempre in questa ottica di impatto finanziario, la valutazione preoperatoria riduce anche i casi di rinvio e di cancellazione degli interventi chirurgici2-3. La valutazione include tre momenti fondamentali: l’aspetto medico, l’intervista al paziente e l’esame fisico; ma c’è una variabile importante, rappresentata dal tempo. Quando farla? Nella maggior parte dei casi il fattore tempo è condizionato da una serie di variabili quali le condizioni Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Scienze anestesiologiche, Chirurgiche e dell’Emergenza, Seconda Università degli Studi di Napoli
cliniche del paziente, il tipo di chirurgia e l’invasività. I principali AA, chiamati ad esprimersi a riguardo, pensano che sia necessario effettuare la valutazione qualche giorno prima dell’intervento in caso di chirurgia maggiore o comunque ad invasività media o elevata o quando le condizioni cliniche del paziente lo richiedono. Nei casi di chirurgia poco invasiva e per i pazienti che non presentano particolari fattori di rischio, la tempistica della visita anestesiologica ha un’importanza relativa. A questo punto è chiaro che assume un’importanza basilare l’esame fisico del paziente, per il quale i criteri minimi da considerare sono una valutazione delle vie aeree e della funzionalità polmonare, nonché dell’apparato cardiovascolare, attraverso un esame obiettivo e l’ascultazione, con particolare attenzione ai segni vitali ed ai fattori di rischio (fumo, BPCO, obesità etc). Anche i responsabili dei reparti, in cui i pazienti sono ricoverati, sono tenuti ad informare l’anestesista in maniera dettagliata sulle condizioni cliniche del paziente e sul tipo di intervento da effettuare. L’ultimo punto da considerare sono gli esami ematochimici e strumentali da richiedere di routine. Nelle ultime linee guida e raccomandazioni, il concetto di screening preoperatorio di routine è assolutamente superato, tutte le richieste dovrebbero, pertanto, essere indicate da informazioni mediche, particolari condizioni cliniche ed in rapporto al previsto management perioperatorio. Quindi ad esempio un ECG andrebbe richiesto in caso di malattia cardiocircolatoria o respiratoria, in caso di chirurgia invasiva o in età avanzata, anche se, per alcuni AA l’età da sola non è più considerata di per sé un fattore di rischio; lo stesso discorso vale anche per la radiografia del torace e per lo screening emocoagulativo. Insomma alla luce delle nuove indicazioni la valutazione del paziente è sempre più clinica e sempre meno strumentale, con un ruolo di rilievo per il medico anestesista, ma è altrettanto chiaro che ogni Paese ha la sua organizzazione
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PACE
LA VALUTAZIONE PREOPERATORIA DEL PAZIENTE ADULTO
sanitaria con le sue regole che condizionano le raccomandazioni, per esempio uno studio su 4540 pazienti chirurgici adulti effettuato in Germania, suggerisce che gli infermieri specializzati sono perfettamente in grado di valutare lo stato di salute dei pazienti prima dell’intervento, anche quando confrontati con gli anestesisti. Ma in molti altri Paesi Europei gli infermieri, legalmente, non possono avere questo compito4.
2. Ferschl MB, Tung A, Sweitzer B, Huo D, Glick DB. Preoperative clinic visits reduce operating room cancellations and delays. Anesthesiology. 2005;103:855-9. 3. Farasatkish R, Aghdaii N, Azarfarin R, Yazdanian F. Can preoperative anesthesia consultation clinic help to reduce operating room cancellation rate of cardiac surgery on the day of surgery? Middle East J Anesthesiol. 2009;20:93-6. 4. De Hert S, Imberger G, Carlisle J, Diemunsch P, Fritsch G, Moppett I, Solca M, Staender S, Wappler F, Smith A. The Task Force on Preoperative evaluation of the adult patient undergoing non-cardiac surgery: guidelines from the European Society of Anaesthesiology. European Journal of Anesthesia, 2011;28.
Bibliografia 1. Practice Advisory for preanestesia Evaluation. An update Report by the American Society of Anesthesiologists Task Force on Preanesthesia Evaluation. Anesthesiology. 2012; 116:522-38.
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Il dolore cronico nell’ambulatorio di medicina del dolore S. PALERMO
Una ricerca su pubmed con tema l’incidenza del dolore cronico estrapola una serie di lavori che evidenziano come a livello mondiale l’incidenza del dolore cronico sia circa il 10% che corrisponde grossolanamente a 60 milioni di persone adulte. Se si affina la ricerca per scoprire quale sia l’incidenza nei singoli stati questa percentuale sale a valori che arrivano al 20-30%. Esistono infine un ridotto numero di lavori che fanno salire tale percentuale al 50%. Da questi numeri si capisce immediatamente perché il dolore cronico sia diventato uno dei più importanti problemi socio-sanitari in ordine anche ai costi che esso comporta. Numerose indagini hanno rilevato che il dolore cronico è ampiamente sotto trattato3-5 e che alla base di questo fenomeno c’è una carenza di conoscenze riguardo non solo al dolore ma soprattutto alle modalità del suo trattamento. Ogni paese ha tentato di affrontare questo problema con propri provvedimenti ed in Italia per far ciò è stata emanata una apposita legge (legge 38/2010) che prevede oltre alla formazione anche l’istituzione di una rete di cure che parte dall’assistenza offerta dal medico di medicina generale per arrivare passando per ambulatori specializzati (spoke) ai centri di alta specializzazione (Hub).Quale sono quindi le condizioni di dolore cronico che si presentano presso un centro di medicina del dolore. Nella realtà le tipologie di dolore cronico non differiscono da quelle che possono presentarsi presso qualsiasi altra specializzazione medica o MMG ovverosia le patologie osteoarticolari, le patologie che affliggono la colonna lombare complessivamente definite sotto la dicitura di low back pain, le forme di dolore neuropatico (nevralgie post-erpetiche, diabetiche, avulsione del plesso brachiale , crps ) le fibromialgie , le cefalee e ovviamente le sindromi dolorose collegate alla presenza di una patologia tumorale. Che cosa differenzia i pazienti che vengono inviati presso un centro di medicina del dolore . Le differenze principali apparentemente potrebbero essere: – la maggiore intensità e durata del dolore; – l’aspettativa del malato che vede il centro di medicina del dolore come ultima spiaggia per risolvere i suoi problemi; – è realmente così? Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
U.O.S. Centro di terapia antalgica e CP, U.O. Anestesia e Rianimazione, IRCCS Azienda Ospedaliera Universitaria, San Martino, IST, Genova
– è cambiato qualcosa da quando è entrata in vigore la legge 38? – cosa offre o potrebbe realmente offrire un centro di terapia del dolore ai malati cronici? – quali sono al momento le criticità presenti in un centro di medicina del dolore? A tutte queste domande si cercherà di dare una risposta partendo dalla valutazione da quello che è successo e sta succedendo negli ultimi anni presso la nostra struttura.I malati cronici che arrivano sono in prevalenza anziani con polipatologie e in politerapia con dolori prevalentemente osteoarticolari ove l’età e la presenza delle politerapie crea ovvie difficoltà di gestione ai MMG e che non essendo più sottoponibili a terapia interventistica non rientrano nelle competenze dei neurochirurghi o degli ortopedici. Gli altri sono malati affetti dalle patologie sopra elencate in cui per molteplici motivi le terapie non si sono mostrate efficaci.Che cosa può offrire o meglio deve offrire un centro di medicina del dolore a questi malati. – Valutazione per conferma o riformulazione di una corretta diagnosi algologica. Molto spesso la carenza di tempo associata ad una carenza di conoscenze limita la possibilità a volte di formulare una precisa diagnosi del dolore. Il tempo ci permette una più approfondita valutazione del paziente sia da un punto di vista anamnestico sia da un punto vista semeiologico. In caso di diagnosi incerta il trattamento del dolore deve comunque essere il primo obbiettivo in maniera che il paziente non debba soffrire inutilmente nell’attesa di una diagnosi più precisa. – Trattamento antalgico. Questo può essere farmacologico con ovviamente l’utilizzo di tutte le tipologie di farmaci a disposizione o può essere interventistico o ancora misto ovverosia la somma di un trattamento farmacologico e di quello interventistico. Non è da tralasciare il ricorso ad altri colleghi (psicologi, fisiatri)
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PALERMO
IL DOLORE CRONICO NELL’AMBULATORIO DI MEDICINA DEL DOLORE
per il prosieguo o la completezza dei trattamenti instaurati. – Controllo dei pazienti sotto terapie croniche con oppiacei. Quali sono le attuali criticità. – Difficile collocazione del terapista del dolore nell’iter terapeutico del malato con dolore cronico. La mancanza di riconoscimento di una specificità del medico terapista del dolore fa si che un paziente sofferente di dolore cronico arrivi quasi sempre con un enorme ritardo presso un centro di medicina del dolore. Un esempio su tutti il paziente con dolore cronico lombare gira tra ortopedici e neurochirurghi per mesi o anni e arriva alla terapia del dolore solo quando tutti gli specialisti concordano che ormai non è più possibile nessun intervento chirurgico. In realtà il paziente dovrebbe arrivare prima al centro di medicina del dolore, iniziare un corretto trattamento del dolore e poi essere inviato dallo specialista se necessario. Secondo uno studio recente il paziente arriva presso un centro di medicina del dolore in media dopo 4 anni e dopo essere stato visitato da almeno 7 specialisti con una spesa media di 650 €. – Mancanza di una rete della terapia del dolore. Non ostante la legge ne parli sono ancora poche le regioni in cui la rete della terapia del dolore è stata realmente costituita o sia pienamente funzionante. Rete vuol dire non solo costituzione dei centri Hub e Spoke dove avviare i pazienti ma anche una appropriatezza dei trattamenti ovverosia la condivisione di iter diagnostico terapeutici che accompagnino il malato dalla vista presso il MMG in avanti. – Chi fa. Molta è la confusione che regna su chi debba trattare alcune categorie di dolore. Dopo anni di indifferenza adesso si crea il problema della competenze. Esempio principale “il dolore neuropatico”. È una competenza del neurologo come sotto intende il nome o può e deve essere competenza anche del terapista del dolore. È indubbio che il neurologo possa avere nel suo bagaglio culturale maggiori capacità diagnostiche come è indubbio che alcune metodiche invasive sono ad esclusivo appannaggio dell’algologo (es. SCS). Spesso il risultato finale è una inappropriatezza del trattamento che può essere o troppo blando o esagerato. – Scarsità di EBM. La medicina va sempre più verso i trattamenti evidence based ma purtroppo rimane ancora molto da fare nel campo del trattamento del dolore cronico. Anche le tecniche più comuni ( es. la peridurale antalgica per la lombalgia cronica) sono ancor lungi da avere una univocità di vedute sia sul
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numero, sia sulle indicazioni, sia sui dosaggi e anche sulle modalità di esecuzione ( con o senza guida radiografica?). Per non parlare poi dei trattamenti innovativi che spesso vengono proposti dalle ditte ed attuati con un bagaglio sperimentale di poche decine di pazienti. – Formazione e Sperimentazione. Al centro di medicina del dolore spetterebbe anche un compito di ricerca e di formazione. Quest’ultimo pur essendo fondamentale si scontra con la carenza di fondi economici e di personale. In questo caso non ci viene neanche incontro la legge 38 che prevede molto spesso l’attuazione di una serie di provvedimenti a “isorisorse” In conclusione il dolore cronico è un problema importante di cui “ormai” siamo tutti a conoscenza ma esisterebbe una nuova visione sulla sua genesi che vedrebbe la partecipazione di fattori quali stress fisici e mentali nell’ambiente lavorativo, lo stato socioeconomico del paziente, stato occupazionale, luogo di vita e livello educazionale. Tutti questi fattori sarebbero in grado di attivare una risposta “ combatti e fuggi” di tipo continuativo. Di conseguenza il persistere dell’accumulo di ormoni da stress quali cortisolo potrebbe avere non solo una importanza fondamentale nella genesi del dolore cronico ma anche sull’esito negativo delle cure applicate. Se così fosse alla luce della situazione socio economica attuale. Bibliografia: 1. Ollila E. Global health priorities - priorities of the wealthy? Global Health 2005;1:6. 2. Gureje O, Von Korff M, Simon GE, Gater R. Persistent pain and well-being: a World Health Organization Study in Primary Care. JAMA 1998;280:147-51. 3. Harstall C, Ospina M: How prevalent is chronic pain? Pain Clinical Updates 2003;11:1-4. 4. Reid KJ, Harker J, Bala MM, Truyers C, Kellen E, Bekkering GE, Kleijnen J. Epidemiology of chronic non-cancer pain in Europe: narrative review of prevalence, pain treatments and pain impact. Curr Med Res Opin 2011;27:449-62. 5. Breivik H, Collett B, Ventafridda V, Cohen R, Gallacher D: Survey of chronic pain in Europe: prevalence, impact on daily life, and treatment. Eur JPain 2006;10:287-333. 6. Gureje O, Simon GE, Von Korff M. A cross-national study of the course of persistent pain in primary care. Pain 2001;9:195-200. 7. Taylor AL. Addressing the global tragedy of needless pain: rethinking the United Nations single convention on narcotic drugs. J Law Med Ethics 2007;35:556-70, 556. 8. Kato K, Sullivan PF, Evengård B, Pedersen NL. Chronic widespread pain and its comorbidities: a population-based study. Arch Intern Med 2006;166:1649-54. 9. Day MA, Thorn BE. The relationship of demographic and psychosocial variables to pain-related outcomes in a rural chronic pain population. Pain 2010;151:467-74.
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L’andamento del dolore nel setting ospedaliero R. PALOMBA, G. FARO, N. LOMBARDO, F. SALVATO, A. VINCIGUERRA
Introduzione Numerose indagini epidemiologiche effettuate nelle strutture di cura e sul territorio in questi anni hanno dimostrato uno scarso controllo del dolore acuto e cronico, sia nei pazienti ricoverati nelle strutture ospedaliere, che sul territorio. La legge n. 38 del 2010 ha sancito il diritto alla cura del dolore in tutte le sue forme e in tutte le persone e in tutti i luoghi di cura con l’obbligo di misurazione dello stesso. Dopo due anni dall’entrata in vigore la legge non è ancora stata attuata in tutti i suoi principi e in modo uniforme sul territorio nazionale, in particolare si è ancora lontani dalla creazione e attuazione di percorsi diagnostici terapeutici specifici algologici e dall’implementazione delle strutture dedicate alla diagnosi e cura delle sindromi dolorose complesse con un approccio multidisciplinare. La rete di terapia del dolore ha necessità di investimenti e di migliori e più proficue risposte in ambiti regionali e nazionali. Abbiamo voluto effettuare un monitoraggio della situazione in ambito ospedaliero per valutare se alcune delle criticità evidenziate fossero state migliorate. Materiali e metodi Questo studio retrospettivo è stato eseguito nell’Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II” nei vari reparti ivi presenti. Sono stati considerati eleggibili per lo studio tutti i pazienti presenti nei reparti di degenza nel mese di maggio 2012 e che hanno dato il loro consenso alla somministrazione del questionario. La partecipazione è stata volontaria e anonima. Le informazioni sono state raccolte utilizzando, oltre alle cartelle cliniche, un questionario composto da domande riguardanti: – la valutazione e localizzazione del dolore; – la terapia antalgica effettuata in reparto; – l’eventuale consulenza del terapista antalgico; – il grado di soddisfazione per il trattamento del dolore. L’intensità del dolore è stata misurata con una scala semplice da 0 a 10 (dove 0 indica assenza di dolore e 10 il peggior dolore possibile) che è stata suddivisa in quattro Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Anestesia e Rianimazione, A.F. di Anestesia Generale Specialistica di Terapia Antalgica e Cure Palliative, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università “Federico II”, Napoli
livelli : nessun dolore (0), dolore lieve (1-3), dolore moderato (4-6), dolore severo (7-10). Lo strumento è stato progettato per essere autocompilato, tuttavia ha previsto la possibilità di essere compilato anche con l’aiuto di un infermiere, o di un medico. Procedura Prima di iniziare l’indagine è stata inviata un’informativa Regionale sull’avvio dello studio alla Direzione Sanitaria e Direzione di Presidio; poi sono stati consegnati i questionari-scheda nei vari reparti e abbiamo valutato dopo un mese dalla data di consegna: 1) Quanti e quali reparti restituivano le schede (compilate completamente, in maniera incompleta, o dichiarate nulle) nel nostro ambulatorio di Terapia Antalgica 2) Se al sintomo dolore seguiva una terapia antalgica autonoma del reparto (in particolare con quali farmaci) o se si ricorreva alla consulenza del nostro ambulatorio 3) Se ci fosse stata la consulenza del terapista antalgico, quando e per quale motivo si ricorresse a tale figura specialistica 4) In quanti reparti di chirurgia l’analgesia post operatoria è effettuata di routine 5) Il grado di soddisfazione del paziente Analisi dei dati L’analisi statistica dei dati è stata effettuata utilizzando il programma SPSS. In particolare sono state effettuate analisi descrittive preliminari (frequenze, percentuali, medie, deviazione standard) per descrivere la popolazione in studio. Analisi inferenziali sono state eseguite per valutare associazioni significative e differenze tra le variabili studiate. È stata condotta anche un’analisi correlazionale per esaminare le relazioni tra le
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PALOMBA
L’ANDAMENTO DEL DOLORE NEL SETTING OSPEDALIERO
variabili indagate e il grado di soddisfazione per il trattamento del dolore ricevuto. I risultati sono stati considerati significativi a p del 50% dopo titolazione del farmaco intratecale con catetere temporaneo. La via intratecale oggi è da preferire alla via peridurale nella terapia a lungo termine per le minori complicanze dimostrate, 5% intratecale vs 55% peridura426
le; tra queste ricordiamo l’occlusione del catetere, la fibrosi della punta e la riduzione dell’efficacia analgesica. Pertanto la via peridurale trova indicazione solo nel trattamento del dolore a breve termine soprattutto che necessita di un blocco segmentario in cui si presupponga l’utilizzo di elevate quantità di anestetici locali. La morfina e la ziconotide sono gli unici farmaci approvati negli USA dalla FDA per l’utilizzo intratecale, mentre in Europa l’UE-EMA ha approvato solo la ziconotide; tuttavia fino ad oggi vengono somministrati per via intratecale un ampia gamma di farmaci e combinazioni che si basano sull’esperienza dell’operatore per mancanza di linee guida. Un gruppo multidisciplinare di esperti della Polyanalgesic Consensus Conference, prendendo in esame tutta la letteratura fino al 2007 ha stilato un algoritmo per la scelta dei farmaci per via intatecale e la combinazione tra essi14. Circa il 15-40% del dolore cronico da cancro ha una componente neuropatica che poco risponde alla tradizionale terapia analgesica ma che invece può rispondere bene al trattamento con elettrostimolatore midollare. Questa tecnica molto usata nel trattamento del dolore cronico non oncologico refrattario viene descritta in letteratura per il dolore oncologico con componente incident come quello della parete toracica, anche se sono presenti pochi studi e con numero esiguo di pazienti.Per i pazienti con dolore nocicettivo viscerale o somatico con controindicazioni alla neuro modulazione spinale può invece essere indicata la neurolisi intratecale con fenolo iperbarico o alcool ipobarico.Con il miglioramento delle conoscenze farmacologiche e il perfezionamento delle tecniche di neuromodulazione c’è stato un ridimensionamento dei trattamenti neurolesivi anche se con l’evoluzione delle metodiche di immaging risultano oggi trattamenti più sicuri, trovando tuttavia un loro selezionato ruolo. La cordotomia cervicale percutanea per esempio, trova principale indicazione nel dolore oncologico di tipo nocicettivo con forte componente incident e neurogenico (nerve trunk pain). Con l’interruzione del fascio spinotalamico laterale si determina una profonda analgesia da C4 a S5 dell’emisoma controlaterale. Questo intervento quando eseguito da operatori esperti determina una completa riduzione del dolore in più deel’80% dei pazienti con basse percentuali di complicanze (mortalità 0,3-0,5%)15,16 Tale trattamento non va riservato a pazienti terminali, a pazienti non collaboranti, con insufficienza respiratoria (possibile Sdr. Di Ondine) o con dolore bilaterale o neuropatico17. Un’altra tecnica neurolesiva che trova indicazione nel dolore viscerale pelvico e addominale intrattabile anche con componente incident è la Mielotomia con la quale si va a determinare una lesione puntiforme di una via localizzata nella colonna ventrodorsale mediale del midollo. In letteratura ci sono pochi studi a riguardo su un esiguo numero di pazienti.Nel tumore del pancreas e degli organi dell’addome superiore che sono gravati da una percentuale di dolore intrattabile che va dal 50% al 70% dei casi trova indicazione il blocco del plesso celiaco (CPB). Una review Cochrane 2011 ha analizzato 6 studi randomizzati e controllati comprendendo 358 pazienti per valutare l’efficacia e la sicurezza del blocco del plesso celiaco rispetto alla terapia farmacologica nel tumore del pancreas inoperabile. La riduzione del dolore mediante
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INCIDENT PAIN: TRATTAMENTO CONSERVATIVO O INVASIVO?
scala VAS è stata valutata a quattro settimane con una differenza media di -0,42 in favore del CPB (95% IC p=0,004 fixed-effect model) e a otto settimane con una differenza media di -0,44 (95% IC, random- effects model); a otto settimane vi è un’alta eterogeneità (89%). Il consumo di oppioidi è stato significativamente più basso nel gruppo sottoposto a CPB (p50%)29. In an effort to reduce the rate of postoperative morbidity, twenty years ago laparoscopic surgery was applied to the field of pancreatic surgery. Gagner et al in 1994 described the first laparoscopic pancreaticoduodenectomy (PD)30. However since that time the development of pancreatic surgery has been slow compared with other field of general surgery. Reasons for that are related to the inherent complexity of this operation which entails an extensive dissection around the superior mesenteric vessels followed by a complex reconstruction. These tasks are difficult to be performed laparoscopically due to the limited range of motion of laparoscopic instruments, the two 432
dimensional view and to the steep learning curve. The introduction of robotic surgery might challenge this concept and might increase the feasibility of a minimally invasive approach for pancreatic surgery. Robotics seems to improve some steps of this procedure, such as lymphadenectomy and uncinate process dissection, thereby improving the quality of the resection31. The microsurgical ability provided by the robotic surgical system also confers superior dexterity when performing biliary and pancreatic reconstruction31-33 Finally the use of robtic systems seems extend the indications for minimally invasive pancreaticoduodenectomy to more complex cases including vascular reconstructions34. In experienced centers, the rate of conversion decreased with the increasing experience of the team and all conversion were described as performed in conditions of safety. 31 Regarding the morbidity rate of robotic PD, it appears as comparable to that of the most recent open series. Few studies at the moment compared the open and robotic approach for PD35-37. Except for one study, two authors reported longer operative time with the robotic approach which consistently decreased over the time. The use of robotic approach was associated with decreased blood loss, transfusion rate, length of hospital stay and overall morbidity. However the rate and clinical gravity of pancreatic complications were similar to open surgery. As far as oncologic outcomes are concerned, scarce data are currently available to draw firm conclusion. Finally several points remains to be assessed for this new approach. Rectal surgery Laparoscopic anterior resection with total mesorectal excision (TME) is considered a safe treatment option for rectal cancer.38 38,39 However, dissection in a narrow pelvis – especially in presence of a bulky tumor – can be challenging with a minimally invasive approach. In recent studies, robotics seems to add some benefits to the surgeon and patient when a TME is required. Patriti et al. showed that longer operative times are reported for robot-assisted partial mesorectal excisions (PME) performed for high rectal tumors. However, when a TME is carried out for low and ultra-low rectal tumors an advantage in term of time sparing is highlighted.40 Intraoperative complication rate seems to be similar between the two approaches even though a trend toward a less conversion rate during robot-assisted surgery is delineating. In a multicentric study describing the larger series of robot-assisted rectal resection ever published, the rate of conversion is 4.9% and a significantly less conversion rate is also reported in the robotic arm of the comparative study carried out by Patriti et al..40,41 Two papers were specifically designed to investigate the appropriateness of the specimen. Baik et al. noted that the macroscopic grading of the specimen was complete in 17 out of 18 rectal resections and that this value was significantly higher than that of the laparoscopic arm of their study.42 The circumferential resection margin (CRM) was clear with a distance between the tumor and the fascia meso-
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SURGICAL PROFESSION BY A STORM: ADVANTAGES OF ROBOTIC SURGERY
rectalis ranging from 0.1 to 4.5 cm in 142 out of 143 patients.41 The mean number of harvested node compares favorably with that of the current literature in all the reports.40-42 Complications after robotic rectal resection are low with a rate of anastomotic failure ranging from 4.8 to10.5%, which compares favorably with that reported in previous large series of laparoscopic rectal resection. 38,39,43,44 In 143 patients the overall complication rate was 41.3% and a trend toward a shorter hospitalization is reported.41 In the same study the 3-year disease-free and overall survival rate were 77.6% and 97%, respectively. In conclusion, despite the limitations of the currently available studies, robotics is likely to improve laparoscopic mesorectal excision. Prospective controlled trials should be aimed to verify whether robotic surgery could improve local control of rectal cancer giving to patients a survival advantage and a lower post-operative morbidity rate. Conclusions Robotic surgery is safe and feasible for a variety of advanced digestive surgical procedures. This technology may widen the applications of minimally invasive surgery in the treatment of digestive cancers requiring complex surgeries. However, more clinical experience and further investigation are needed to determine improvement in quality of life and long-term survival. References 1. Giulianotti PC, Coratti A, Angelini M, et al. Robotics in general surgery: personal experience in a large community hospital. Arch Surg 2003;138:777-84. 2. Kitano S, Shiraishi N, Uyama I, Sugihara K, Tanigawa N. A multicenter study on oncologic outcome of laparoscopic gastrectomy for early cancer in Japan. Ann Surg 2007;245: 68-72. 3. Memon MA, Khan S, Yunus RM, Barr R, Memon B. Metaanalysis of laparoscopic and open distal gastrectomy for gastric carcinoma. Surgical endoscopy 2008;22:1781-9. 4. Strong VE, Devaud N, Allen PJ, Gonen M, Brennan MF, Coit D. Laparoscopic versus open subtotal gastrectomy for adenocarcinoma: a case-control study. Ann Surg Oncol 2009;16:1507-13. 5. Anderson C, Ellenhorn J, Hellan M, Pigazzi A. Pilot series of robot-assisted laparoscopic subtotal gastrectomy with extended lymphadenectomy for gastric cancer. Surg Endosc 2007;21:1662-6. 6. Kim MC, Heo GU, Jung GJ. Robotic gastrectomy for gastric cancer: surgical techniques and clinical merits. Surgical endoscopy 2010;24:610-5. 7. Pugliese R, Maggioni D, Sansonna F et al. Outcomes and survival after laparoscopic gastrectomy for adenocarcinoma. Analysis on 65 patients operated on by conventional or robot-assisted minimal access procedures. Eur J Surg Oncol 2009;35:281-8. 8. Song J, Kang WH, Oh SJ, Hyung WJ, Choi SH, Noh SH. Role of robotic gastrectomy using da Vinci system compared with laparoscopic gastrectomy: initial experience of 20 consecutive cases. Surg Endosc 2009;23:1204-11. 9. Buchs NC, Bucher P, Pugin F, Morel P. Robot-assisted gastrectomy for cancer. Minerva Gastroenterol Dietol 2011; 57:33-42. 10. Siewert JR, Bottcher K, Stein HJ, Roder JD. Relevant prognostic factors in gastric cancer: ten-year results of the German Gastric Cancer Study. Ann Surg 1998;228:449-61. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
PATRITI
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MINERVA ANESTESIOLOGICA
433
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 434
PATRITI
SURGICAL PROFESSION BY A STORM: ADVANTAGES OF ROBOTIC SURGERY
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434
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MINERVA ANESTESIOLOGICA
Ottobre 2012
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 05/10/12 09.18 Pagina 435
MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):435-43
Relazione sull’analgesia epidurale per il travaglio ed il parto in Italia S. PAVANELLO
I dati che presentero riguardano il progetto di ricerca promosso dal Gruppo di Studio per l’Analgesia e l’Anestesia in Ostetricia della Societa Italiana di Anestesiologia (SIAARTI) coordinato dal Prof. Giogio Capogna e supportato da una borsa di studio SIAARTI-O.N. Da erogata dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna nell’anno 2011. I dati presentati fanno riferimento all’anno 2010. Questo studio nasce dalla necessita di raccogliere dati rispetto alla diffusione dell’analgesia da travaglio in Italia, dati che , principalmente a causa della mancanza di un DRG o di un qualsiasi altro codice obbligatorio specifico a livello nazionale o regionale che possa identificare correttamente la procedura, erano carenti. Le statistiche pubblicate fino all’inizio di questo studio sia a livello istituzionale che di mass media si sono basate su report di fonte incerta non dichiarata o che riflettevano semplicemente l’esperienza clinica degli esperti del settore intervistati. In assenza completa di codici di riferimento e statistiche ufficiali dei singoli ospedali presenti sul territorio italiano, il metodo usato per questa ricerca e stato quello della somministrazione di un questionario a tutti i punti nascita italiani che hanno dichiarato di praticare l’AE. Gli elementi qualificanti l’indagine sono la scala nazionale a cui essa e rivolta, l’identificazione di un responsabile per ciascun punto nascita che ha autenticato i dati locali, l’elevato “response rate” al questionario (75%) che lo rende particolarmente attendibile e la presenza di domande chiave che hanno identificato non solo la frequenza della prestazione ma anche la qualita della stessa. Materiali e metodi Lo strumento scelto per questo studio e stato un questionario a scelta multipla costruito ad hoc per indagare la presenza del servizio di analgesia epidurale (AE) all’interno dei punti nascita intervistati e le modalita di erogazione dello stesso. Il questionario era composto di 12 domande. Con riferimento all’ elenco dei punti nascita presenti in Italia stilato dall’Ufficio di Direzione Statistica del Ministero della Salute, sono stati contattati tutti i punti nascita italiani (580 strutture) per verificare la presenza o meno di un servizio che erogasse l’AE da travaglio. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Pordenone
Una volta identificate le strutture in cui veniva praticata l’AE (239 punti nascita; per 44 non e stato possibile ottenere informazioni), si e identificato un referente all’interno delle stesse che potesse fornire tutte le informazioni necessarie alla compilazione del questionario: il direttore del Servizio di Anestesia, del Reparto di Ostetricia e Ginecologia o un referente per l’analgesia ostetrica all’interno dell’ospedale. Per questo disponiamo di una fonte precisa. Per quanto riguarda alcune Regioni, un referente si e reso disponibile per fornire i contatti degli intervistati (es. Sicilia) o si e assunto l’incarico di far recapitare i questionari e raccoglierli una volta compilati (es. Sardegna). Una volta identificate le strutture che praticavano l’AE e raccolti i contatti dei referenti, si e provveduto ad una presentazione telefonica o tramite posta elettronica dello studio, delle sue finalita e si e cercato di stimolare la motivazione alla partecipazione. Alla e-mail, faceva seguito il questionario da compilare. Successivamente all’invio del questionario a tutti i punti nascita dei quali e stato possibile avere notizie circa la presenza del servizio di AE e dei quali si e riuscito ad ottenere un contatto con un referente, periodicamente sono state inviate delle e-mail di promemoria per la compilazione a chi non avesse ancora risposto. In una ultima fase dello studio, sono state effettuate delle telefonate di promemoria a chi non aveva ancora spedito il questionario compilato (Figura 1). Il questionario ha indagato vari aspetti, di seguito riporto le domande: 1. Quanti parti avvengono all’anno nel punto nascita considerato? 2. Quanti dei parti vaginali avvengono in analgesia epidurale? 3. L’ospedale considerato ha portato avanti o e ad oggi impegnato in una campagna di informazione circa
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PAVANELLO
RELAZIONE SULL’ANALGESIA EPIDURALE PER IL TRAVAGLIO ED IL PARTO IN ITALIA
Figura 1.
l’analgesia epidurale (manifesti, opuscoli informativi ecc.)? 4. La paziente che decida di usufruire del servizio di analgesia epidurale viene sottoposta ad una visita anestesiologica durante la quale le vengono fornite tutte le informazioni necessarie sulla procedura che eseguira? 5. Durante la visita anestesiologica, la paziente firma un consenso informato? 6. Il servizio di analgesia epidurale e gratuito? 7. C’e la possibilita per la paziente di essere sottoposta ad analgesia epidurale 24 ore su 24? 8. Il servizio segue delle linee guida per l’organizzazione del protocollo di analgesia epidurale tese ad uniformare il trattamento della paziente, indipendentemente dal singolo operatore? 9. Il personale viene formato circa la tecnica di analgesia epidurale? 10.In che modo viene erogata l’analgesia epidurale? Su richiesta della partoriente, indipendentemente dalla dilatazione cervicale, non prima di un certo grado di dilatazione cervicale o seguendo un’altra modalita? 11.Nel corso del travaglio viene valutato il parametro di intensita di dolore della donna? 12.Dopo il parto vengono raccolte delle informazioni sulla soddisfazione delle pazienti? Analisi descrittiva dei punti nascita Sono pervenuti 180 questionari relativi 240 punti nascita che praticano l’AE distribuiti in 19 regioni, su un totale di 436
580 punti nascita presenti in Italia. Nessuno dei 5 punti nascita molisani pratica l’analgesia epidurale (Tabella I). I punti nascita possono essere suddivisi sulla base di una variabile dimensionale: il numero di parti all’anno. Il primo Cluster (A) raggruppa gli ospedali che registrano meno di 500 parti all’anno, il cluster B individua i centri con un numero di parti compreso tra 500 e 1000, il cluster C si riferisce ad un numero di parti tra 1000 e 2000, il cluster D comprende i punti nascita che registrano tra 2000 e 3000 parti all’anno ed l’ultimo gruppo (cluster E) si riferisce agli ospedali che espletano oltre 3000 parti all’anno (Tabella II).. I dati che seguono fanno riferimento alle strutture intervistate sul territorio, suddivise in base al numero di parti all’anno. 2a. – Strutture con meno di 500 parti all’anno Regione
Piemonte Lombardia Trentino Alto Adige Emilia Romagna Marche Lazio Campania Calabria Sicilia Sardegna Totale
MINERVA ANESTESIOLOGICA
Frequenza
Percentuale
1 3 5 1 1 1 1 1 1 3 18
5,6 16,7 27,8 5,6 5,6 5,6 5,6 5,6 5,6 16,7 100,00
Ottobre 2012
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RELAZIONE SULL’ANALGESIA EPIDURALE PER IL TRAVAGLIO ED IL PARTO IN ITALIA
PAVANELLO
Tabella I. Regione
N di punti nascita
N di punti nascita che praticano AE
% AE sul totale di punti nascita
Centri non pervenuti
Risposta al questionario
23 1 15 26 11 76 10 23 19 9 18 50 14 5 72 40 7 26 113 22
8 1 13 20 11 56 6 14 16 3 10 19 2 0 20 14 1 8 7 10
34,8% 100% 86,7% 76,9& 100% 74,6% 60% 60,9% 84,2% 33,3% 55,6% 38% 14,3% 0% 27,8% 35% 14,3% 30,8% 6,2% 45,4%
0 0 0 0 0 9 0 0 0 0 1 11 0 0 14 7 0 2 0 0
6 1 12 17 8 42 6 12 14 3 5 14 1 0 10 7 1 7 3 10
Piemonte Valle D’Aosta Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Lombardia Liguria Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna
Tabella II.
Piemonte Valle D’Aosta Trentino Alto Adige Veneto FVG Lombardia Liguria Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna
Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Cluster A (< 500) n %
Cluster B (500-1000) n %
Cluster C (1000-2000) n %
Cluster D (2000-3000) n %
Cluster E (>3000) n %
1 – 5 – – 3 – 1 – – 1 1 – 2 – – 1 1 3
1 – 4 6 4 12 2 2 4 1 3 1 – 5 2 – 4 – 3
4 1 3 11 4 18 4 4 9 1 1 6 1 4 4 1 2 1 4
– – – – – 6 – 3 – 1 – 3 – – – – – 1 –
– – – – – 4 – 2 1 – – 3 – – 1 – – – –
16,67 – 41,66 – – 7,14 – 8,33 – – 20 7,14 – 18,18 – – 14,29 33,33 30
16,67 – 33,34 35,50 50 28,57 33,33 16,67 28,57 33,33 60 7,14 – 45,45 28,57 – 57,14 – 30
66,66 100 25 64,70 50 42,86 66,67 33,33 64,29 33,33 20 42,86 100 36,37 57,14 100 28,57 33,33 40
MINERVA ANESTESIOLOGICA
– – – – – 14,29 – 25 – 33,33 – – – – – – – 33,33 –
– – – – – 7,14 – 16,67 7,14 – – – – – 14,29 – – – –
TOT 100%
6 1 12 17 8 42 6 12 14 3 5 14 1 10 7 1 7 3 10
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PAVANELLO
RELAZIONE SULL’ANALGESIA EPIDURALE PER IL TRAVAGLIO ED IL PARTO IN ITALIA
% di parti vaginali in AE
0-10% 10-20% 20-30% 30-50% 50-70% Oltre il 70% Totale
Frequenza
Percentuale
9 4 2 – 1 2 18
50 22,2 11,1 – 5,6 11,1 100,00
Campagna di informazioe
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
13 5 – 18
72,2 27,8 – 100,00
Visita anestrsiologica
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
16 2 – 18
88,9 11,1 – 100,00
Il servizio segue delle linee guida per l’organizzazione del protocollo di AE?
Sì No Non risponde Totale
Sì No Non risponde Totale
15 2 1 18
83,3 11,1 5,6 100,00
Frequenza
Percentuale
17 1 – 18
94,4 5,6 – 100,00
In che modo viene erogata l’AE?
A B C Totale
Frequenza
Percentuale
10 7 1 18
55,6 38,9 5,6 100,00
A: Su richiesta della partoriente, indipendentemente dalla dilatazione cervicale. B: Non prima di un certo grado di dilatazione cervicale. C: entrambe le modalita.
Durante il travaglio, viene valutato il parametro di intensità di dolore della donna?
Frequenza
Percentuale
17 1 – 18
94,4 5,6 – 100,00
Sì No Non risponde Totale
Il servizio di AE è gratuito?
Sì No Non risponde Totale
Percentuale
Il personale viene formato sulla tecnica di AE?
Consenso informato
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Frequenza
Percentuale
11 7 – 18
61,1 38,9 – 100,00
Frequenza
Percentuale
17 1 – 18
94,4 5,6 – 100,00
Dopo il parto, vengono raccolte informazioni sulla soddisfazione della paziente?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
14 4 – 18
94,4 5,6 – 100,00
L’AE viene praticata h 24?
Sì No Non risponde Totale
438
Frequenza
Percentuale
17 1 – 18
94,4 5,6 – 100,00
MINERVA ANESTESIOLOGICA
Ottobre 2012
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RELAZIONE SULL’ANALGESIA EPIDURALE PER IL TRAVAGLIO ED IL PARTO IN ITALIA
2b. – Strutture con un numero di parti all’anno compreso tra 500 e 1000 Regione
Piemonte Lombardia Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Liguria Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Campania Puglia Calabria Sardegna Totale
Frequenza
Percentuale
1 12 4 6 4 2 2 4 1 3 1 5 2 4 3 54
1,9 22,2 7,4 11,1 7,4 3,7 3,7 7,4 1,9 5,6 1,9 9,3 3,7 7,4 5,6 100,00
% di parti vaginali in AE
0-10% 10-20% 20-30% 30-50% 50-70% Oltre il 70% Totale
Frequenza
Percentuale
20 16 9 5 2 2 54
37,0 29,6 16,7 9,3 3,7 3,7 100,00
Campagna di informazioe
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
41 13 – 54
75,9 24,1 – 100,00 Visita anestrsiologica
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
50 4 – 54
92,6 7,5 – 100,00
Il servizio di AE è gratuito?
Sì No Non risponde Totale
Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Frequenza
Percentuale
47 6 1 54
87,0 11,1 1,9 100,00
L’AE viene praticata h 24?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
39 12 3 54
72,2 22,2 5,6 100,00
Il servizio segue delle linee guida per l’organizzazione del protocollo di AE?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
47 7 – 54
87 13 – 100,00
Il personale viene formato sulla tecnica di AE?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
51 3 – 54
94,4 5,6 – 100,00
In che modo viene erogata l’AE?
A B C Totale
Frequenza
Percentuale
20 32 2 54
37,0 59,3 3,7 100,00
A: Su richiesta della partoriente, indipendentemente dalla dilatazione cervicale. B: Non prima di un certo grado di dilatazione cervicale. C: entrambe le modalita.
Durante il travaglio, viene valutato il parametro di intensità di dolore della donna?
Consenso informato
Sì No Non risponde Totale
PAVANELLO
Frequenza
Percentuale
51 3 – 54
94,4 5,6 – 100,00
Sì No Non risponde Totale
MINERVA ANESTESIOLOGICA
Frequenza
Percentuale
46 7 1 54
85,2 13,0 1,9 100,00
439
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 440
PAVANELLO
RELAZIONE SULL’ANALGESIA EPIDURALE PER IL TRAVAGLIO ED IL PARTO IN ITALIA
Dopo il parto, vengono raccolte informazioni sulla soddisfazione della paziente?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
39 15 – 54
72,2 27,8 – 100,00
Visita anestrsiologica
Sì No Non risponde Totale
Piemonte Valle D’Aosta Lombardia Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Liguria Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale
Frequenza
Percentuale
4 1 18 3 11 4 4 4 9 1 1 6 1 4 4 1 2 1 4 83
4,8 1,2 21,7 3,6 13,3 4,8 4,8 4,8 10,8 1,2 1,2 7,2 1,2 4,8 4,8 1,2 2,4 1,2 4,8 100,00
Percentuale
81 2 – 83
97,6 2,4 – 100,00
Consenso informato
2c. – Strutture con un numero di parti all’anno compreso tra 1000 e 2000. Regione
Frequenza
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
78 4 1 83
94,0 4,8 1,2 100,00
Il servizio di AE è gratuito?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
78 3 2 83
94,0 3,6 2,4 100,00
L’AE viene praticata h 24?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
71 12 – 83
85,5 14,5 – 100,00
% di parti vaginali in AE
0-10% 10-20% 20-30% 30-50% 50-70% Oltre il 70% Totale
Frequenza
Percentuale
18 24 17 12 8 4 83
21,7 28,9 20,5 14,5 9,6 4,8 100,00
Il servizio segue delle linee guida per l’organizzazione del protocollo di AE?
Sì No Non risponde Totale
440
Percentuale
73 10 – 83
88 12 – 100,00
Il personale viene formato sulla tecnica di AE?
Campagna di informazioe
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Frequenza
Percentuale
65 16 2 83
78,3 19,3 2,4 100,00
Sì No Non risponde Totale
MINERVA ANESTESIOLOGICA
Frequenza
Percentuale
76 7 – 83
91,6 8,4 – 100,00
Ottobre 2012
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 441
RELAZIONE SULL’ANALGESIA EPIDURALE PER IL TRAVAGLIO ED IL PARTO IN ITALIA
In che modo viene erogata l’AE?
A B C Totale
Frequenza
Percentuale
43 33 7 83
51,8 39,8 8,4 100,00
Campagna di informazioe
Sì No Non risponde Totale
A: Su richiesta della partoriente, indipendentemente dalla dilatazione cervicale. B: Non prima di un certo grado di dilatazione cervicale. C: entrambe le modalita.
Durante il travaglio, viene valutato il parametro di intensità di dolore della donna?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
74 8 1 83
89,2 9,6 1,2 100,00
Dopo il parto, vengono raccolte informazioni sulla soddisfazione della paziente?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
55 27 1 83
66,3 32,5 1,2 100,00
2d. – Strutture con un numero di parti all’anno compreso tra 2000 e 3000. Regione
Lombardia Emilia Romagna Umbria Lazio Sicilia Totale
Frequenza
Percentuale
3 6 1 3 1 14
42,9 21,4 7,1 42,9 7,1 100,00
PAVANELLO
Frequenza
Percentuale
11 3 – 14
78,6 21,4 – 100,00
Visita anestrsiologica
Sì No – Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
14 – – 14
100 – 100,00
Consenso informato
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
13 1 – 14
92,9 7,1 – 100,00
Il servizio di AE è gratuito?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
13 1 – 14
92,9 7,1 – 100,00
L’AE viene praticata h 24?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
14 – – 14
100 – – 100,00
% di parti vaginali in AE
0-10% 10-20% 20-30% 30-50% 50-70% Oltre il 70% Totale
Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Frequenza
Percentuale
2 3 6 2 1 – 14
14,3 21,4 42,9 14,3 7,1 – 100,00
Il servizio segue delle linee guida per l’organizzazione del protocollo di AE?
Sì No Non risponde Totale
MINERVA ANESTESIOLOGICA
Frequenza
Percentuale
14 – – 14
100 – – 100,00
441
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 442
PAVANELLO
RELAZIONE SULL’ANALGESIA EPIDURALE PER IL TRAVAGLIO ED IL PARTO IN ITALIA
Il personale viene formato sulla tecnica di AE?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
14 – – 14
100 – – 100,00
In che modo viene erogata l’AE?
A B C Totale
Frequenza
Percentuale
7 6 1 14
50,0 42,9 7,1 100,00
A: Su richiesta della partoriente, indipendentemente dalla dilatazione cervicale. B: Non prima di un certo grado di dilatazione cervicale. C: entrambe le modalita.
Durante il travaglio, viene valutato il parametro di intensità di dolore della donna?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
13 1 – 14
92,9 7,1 – 100,00
Dopo il parto, vengono raccolte informazioni sulla soddisfazione della paziente?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
10 4 – 14
71,4 28,6 – 100,00
2e. – Strutture con un numero di parti all’anno superiore a 3000. Regione
Frequenza
Percentuale
3 2 1 3 1 10
30 20 10 30 10 100,00
% di parti vaginali in AE
0-10% 10-20% 20-30% 30-50% 50-70% Oltre il 70% Totale
Frequenza
Percentuale
1 2 – 4 1 2 10
10 20 – 40 10 20 100,00
Campagna di informazioe
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
8 2 – 10
80 20 – 100,00
Visita anestrsiologica
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
10 – – 10
100 – – 100,00
Consenso informato
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
10 – – 10
100 – – 100,00
Il servizio di AE è gratuito?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
9 1 – 10
90 10 – 100,00
L’AE viene praticata h 24?
Lombardia Emilia Romagna Toscana Lazio Puglia Totale
442
Sì No Non risponde Totale
MINERVA ANESTESIOLOGICA
Frequenza
Percentuale
9 1 – 10
90 10 – 100,00
Ottobre 2012
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 443
RELAZIONE SULL’ANALGESIA EPIDURALE PER IL TRAVAGLIO ED IL PARTO IN ITALIA
Il servizio segue delle linee guida per l’organizzazione del protocollo di AE?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
9 1 – 10
90 10 – 100,00
Il personale viene formato sulla tecnica di AE?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
10 – – 10
100 – – 100,00
In che modo viene erogata l’AE?
A B C Totale
Frequenza
Percentuale
6 4 – 10
60 40 – 100,00
A: Su richiesta della partoriente, indipendentemente dalla dilatazione cervicale. B: Non prima di un certo grado di dilatazione cervicale. C: entrambe le modalita.
Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
PAVANELLO
Durante il travaglio, viene valutato il parametro di intensità di dolore della donna?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
9 1 – 10
90 10 – 100,00
Dopo il parto, vengono raccolte informazioni sulla soddisfazione della paziente?
Sì No Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
8 1 1 10
80 10 10 100,00
Per i dati riguardanti la diffusione della AE nelle singole Regioni, Vi rimando a quanto pubblicato sul sito della SIAARTI, nella sezione in cui e pubblicato interamente questo studio.
MINERVA ANESTESIOLOGICA
443
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 444
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 445
MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):445-6
Infezioni fungine invasive nel paziente critico: applicazione dei principi pk-pd nella scelta ottimale terapeutica F. PEA
L’armamentario terapeutico delle infezioni fungine sistemiche si fonda sull’ impiego di farmaci di consolidata validità, ma caratterizzati da alcuni limiti (amfotericina B, fluconazolo, itraconazolo e flucitosina) e su alcuni nuovi farmaci (voriconazolo, posaconazolo, caspofungin, anidulafungin, micafungin). I limiti di tollerabilità propri dei polieni sono stati superati grazie alla tecnologia farmaceutica mediante la preparazione di formulazioni lipidiche dell’amfotericina B (liposomiale, complesso lipidico, dispersione colloidale). Tali preparazioni, modificando il comportamento farmacocinetico dell’amfotericina B, consentono di ottenere un valido effetto terapeutico senza che si verifichi un eccessivo accumulo di amfotericina B a livello delle cellule tubulari renali, solitamente causa di nefrotossicità. Tuttavia, esistono significative differenze farmacocinetiche tra le diverse preparazioni che ovviamente incidono sul comportamento farmacodinamico dell’amfotericina B. Le caratteristiche chimico-fisiche di voriconazolo sono tali da consentire da un lato il raggiungimento di concentrazioni terapeuticamente efficaci durante terapia sistemica anche in siti difficilmente accessibili perché protetti da barriere anatomiche, quali il SNC in corso di aspergillosi cerebrale o l’occhio in corso di endoftalmite da Candida, e, dall’altro l’applicazione di terapie sequenziali ev/os grazie all’ottima biodisponibilità orale. Per contro, l’elevata lipofilia ne condiziona la metabolizzazione ad opera del sistema microsomiale epatico del citocromo P450 (isoenzimi CYP2C9, CYP2C19, CYP3A4), cosicchè l’esposizione sistemica a tali farmaci può talvolta essere imprevedibile, in particolare in relazione al polimorfismo genetico del CYP2C19 e/o al cotrattamento con induttori )es. fenitoina) o inibitori (es. omeprazolo) di tale isoenzima. Inoltre, essendo i triazoli potenti inibitori di vari CYP, si potranno verificare interazioni farmacocinetiche clinicamente significative in corso di politerapie, in considerazione della loro attività inibitoria nei confronti di tali isoenzimi. Tale aspetto riveste particolare interesse nel caso dei pazienti sottoposti a trapianto di organo solido poiché l’aggiunta di triazoli più essere causa di un’aumentata esposizione a farmaci immunosoppressori quali ciclosporina, tacrolimus e sirolimus. Per tali ragioni riveste Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Istituto di Farmacologia Clinica, Azienda Ospedaliero Universitaria Santa Maria della Misericordia, Udine
particolare importanza considerare in tali circostanze sia una riduzione posologica dei farmaci immunosoppressori che un attento monitoraggio delle loro concentrazioni al fine di evitare il rischio di tossicità. Le caratteristiche delle echinocandine sono tali da garantire un’esposizione appropriata e mantenuta nel tempo a livello degli spazi interstiziali dei tessuti, ovvero laddove sono localizzati gli agenti causali dell’infezione micotica, con un comportamento farmacocinetico verosimilmente singolare caratterizzato da una sorta di accumulo tissutale e progressivo rilascio nel tempo. Tali farmaci sono caratterizzati da una rapida fungicidia verso Candida spp., da un basso potenziale di interazione farmacocinetica e da una buona tollerabilità nel paziente critico. Possioedono inoltre una valida azione anche in presenza di Candida indovata all’interno di biofilm e sono dotate di azione immunomodulatoria con verosimile capacità di ridurre il burden citochinico e chemochinico. Inoltre, è importante considerare che, particolarmente nelle infezioni aspergillari, l’efficacia antifungina potrebbe beneficiare in futuro dall’uso di terapie di combinazione come documentato dal sinergismo riscontrato in alcuni studi sperimentali, ove in tal senso le echinocandine appresentano il farmaco cardine dato il loro meccanismo d’azione innovativo e unico (inibitori della sintesi della parete cellulare micotica). Infine, per quanto riguarda le correlazioni farmacocinetico-farmacodinamiche (PK/PD), polieni ed echinocandine presentano attività concentrazione-dipendente, ovvero l’ attività antifungina sembra migliorare con l’aumentare della concentrazione plasmatica massima in rapporto alla minima concentrazione inibente dell’agente eziologico (Cmax/MIC). Al contrario, la flucitosina ed i triazoli esibiscono attività tempo-dipendente, ovvero la loro efficacia sembra essere correlata principalmente al tempo durante il quale le concentrazioni si mantengono al di sopra della MIC (t>MIC). Queste
MINERVA ANESTESIOLOGICA
445
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 446
PEA
INFEZIONI FUNGINE INVASIVE NEL PAZIENTE CRITICO: APPLICAZIONE DEI PRINCIPI PK-PD NELLA SCELTA OTTIMALE TERAPEUTICA
osservazioni suggeriscono che per i primi la modalità di somministrazione più idonea possa essere la monosomministrazione giornaliera, mentre per la flucitosina e i triazo-
446
li è invece da preferirsi la somministrazione frazionata in due o più dosi, specialmente per quelli ad emivita più breve.
MINERVA ANESTESIOLOGICA
Ottobre 2012
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 447
MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):447-9
Perioperative complications of percutaneous tracheostomies P. PELOSI, M. VARGAS, I. BRUNETTI
Percutaneous tracheostomy is more widely used in intensive care unit. Different percutaneous tracheostomy techniques have been proposed: 1) single step dilatational techniques [Ciaglia Blue-Rhino (CBR), Ciaglia BlueDolphin (CBD), PercuTwist (PT)]; 2) multiple step dilatational technique [Ciaglia multiple dilator]; 3) guide wire dilating forceps technique [Griggs technique – GWDF] and 4) retrograde translaryngeal tracheostomy [Fantoni technique – TLT]. In critical patients it has many potential advantages over endotracheal intubation including reduction of respiratory resistance, work of breathing, length of mechanical ventilation, laryngeal injury and a better clearance of airway secretions.1,2 Furthermore, tracheostomy has been reported to reduce the need of sedation, to improve patient comfort and communication as well as to facilitate nursing work. From a practical point of view percutaneous tracheostomy is a safe and cost-effective technique performed at bedside but it is not without risks and complications.3 Early complications of tracheostomy include bleeding, wound infection, false route or early tube displacement, subcutaneous emphysema and pneumothorax.4 Late complications include swallowing problem, tracheal stenosis, tracheo-innominate artery fistula.4 In the literature, there is no agreement on the definition of complications. Some authors divided complications in: 1) early or late complications if they occur respectively within or a week after tracheostomy placement; and 2) perioperative, or postoperative complications if they occur during the first 24 hours or after 24 hours from the procedure,5 in addition to intra-operative complications; 3) minor and major complications. Minor complications are defined as clinically irrelevant when no patient harm occurred, while major complications were classified as potentially life threatening or with the need of an intervention. According to different tracheostomies techniques developed during the last 30 years, many published studies compared different percutaneous tracheostomies each other or to surgical procedures. Four meta-analysis compared surgical to percutaneous multiple and/or single dilatational tracheostomy (PDT). In 1999, Dulgerov et al Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
IRCCS AOU San Martino-IST, Dipartimento di Scienze Chirurgiche e Diagnostiche Integrate, Università di Genova, Italia
performed a meta-analysis to compare percutaneous tracheostomy technique, introduced in 1985, with a historical control group of surgical tracheostomy performed from 1960 to 1996.6 In this study, 55 randomized clinical trials were included; perioperative and postoperative complications were further subdivided in serious, intermediate and minor subgroups according to the severity. Percutaneous technique was associated with more perioperative but less postoperative complications than surgical tracheostomy. Another meta-analysis of prospective clinical trials to compare PDT and surgical technique in critically ill patients was performed by Freeman et al., including 5 studies and 236 patients.7 In this study, PDT showed advantages compared to ST including ease of performance, lower incidence of peristomal bleeding and postoperative infection.7 In 2006, Delaney et al. performed a systematic review and meta-analysis comparing PDT and surgical tracheostomy, to investigate the possible differences in the incidence of wound infection, bleeding, perioperative and long-term complications as well as mortality.8 Seventeen randomized clinical trial, published between 1996 and 2005 involving 1212 ICU patients, were eligible for this meta-analysis. Clinically important wound infection occurred in 6,6% of patients, PDT was associated to less infection compared to surgical trachestomy. Overall Incidence of bleeding was 5,7%, mortality rate 37% and major complications 2,6% with no statistical difference in the subgroup analysis. These results showed that PDT was associated to a reduction of infection and was equivalent to surgical tracheostomy in the mortality, perioperative and long-term complications.4 Higgins et al performed another meta-analysis to compare complications rates of PDT versus surgical tracheostomy in mechanically ventilated patients involving 15 RCTs including 973 patients.9 Pooled analysis revealed
MINERVA ANESTESIOLOGICA
447
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 448
PELOSI
PERIOPERATIVE COMPLICATIONS OF PERCUTANEOUS TRACHEOSTOMIES
statistically significant results for PDT in wound infection, unfavorable scarring and overall trend of complications, but no difference in false passage, minor hemorrhage, major hemorrhage and subglottic stenosis.9 Information regarding long term complications of surgical or percutaneous tracheostomy are astonishingly scanty. This is likely due to difficulties to monitor patients who underwent tracheostomy because of high mortality and poor neurological outcome and patient collaboration which makes difficult planned post-procedural evaluation. In 2005, Antonelli et al. in a randomized clinical trial with one-year double-blind follow up assessed short-term and long-term complications of translaryngeal tracheostomy (TLT) and surgical technique.10 One hundred and thirty-nine patients were enrolled, 67 in TLT group and 72 in the surgical technique group, but only 31 patients were contacted for the follow-up. TLT showed many advantages compared to surgical technique, it was more rapid and associated to less perioperative bleeding, but infection complications and bacteremia were similar between the groups. Follow-up evaluation showed that stomatoplasty or evident tracheal stenosis occurred more frequently in the surgical group, but quality of life didn’t differ between them.10 Among long-term complications tracheal stenosis is the most serious and life threatening. Raughuraman found that tracheal stenosis caused by PDT was significantly closer to the vocal cord and associated with early onset and with more difficult surgical correction compared to surgical technique.11 Other studies compared different percutaneous techniques each others. Divisi et al. in a retrospective study reported similar complication rates in TLT and CBR12 but the latter was associated with fewer iatrogenic complication, less procedural time, and less complex execution.12 In a prospective randomized clinical trial, Cianchi et al. compared Ciaglia Blue-Rhino with Ciaglia Blue-Dolphin tracheostomy in ICU. Seventy patients with no difference in baseline characteristics were enrolled, 35 assigned to CBR group and 35 to CBD group. CBD was more frequently associated to a presence of blood drain on tracheal and bronchial mucosa, tracheal ring buckling and injury, cutaneous bleeding and resistance to tracheal tube passage.13 Fikkers et al. compared single step dilatational tracheostomy versus (SSDT) guide wire dilating forceps technique (GWDF) in a randomized clinical trial involving 120 patients.14 Overall complications were higher in the GWDF than in SSDT, in particular, minor o major blood loss, difficult cannula insertion, difficult dilation and conversion in another technique were more frequent in the guide wire forceps technique.14 GWDF was compared with PercuTwist (PT) in a prospective randomized trial by Montocriol et al. In this study 87 patients were enrolled, 45 randomized in PT group and 42 in the GWDF group.15 Whereas there was no statistical difference in complications, the authors identified two trends. Griggs technique was associated to more bleeding complication due to its dilatational procedure, probably in PT the rotational dilatation with the screw provided a tight closure of the stoma. The second trend concerned cannulation difficul448
ties, because PT technique required a more physical strength for a complete dilation so cannula placement is often difficult.15 Different percutaneous tracheostomies result in a different pattern of complications due to the main practical features of the technique. Cabrini et al. performed a meta-analysis of randomized clinical studies to evaluate if one PDT technique is superior to another with regard to minor and major intra-procedural complications.16 Thirteen randomized clinical studies were finally included in the review involving 1030 patients and six techniques. The main result of this study was that GWDF, SSDT and multiple dilatational technique were equivalent in safety and SSDT was superior to GWDF for mild complications. In conclusion, we believe that in critically ill patients: 1) percutaneous might be considered as the technique of choice for tracheostomy performed in ICU. Surgical tracheostomy should be reserved for patients when percutaneous tracheostomy is contraindicated; 2) Among different percutaneous dilatational techniques, single step dilatational tracheostomy was easy and safe to perform and associated to less complication than the other techniques. In our experience, minor bleeding is the most common complication with the Griggs technique, while puncture of endotracheal tube; cannula displacement or difficult dilatations are more frequently observed with the other commonly percutaneous tracheostomy techniques. References 1. De Lyen P. Bedert L. Tracheotomy: clinical review and guidelines. Europ J Cardio-thoracic Surg 2007;32:417-21. 2. King C, Moores L. Controversies in mechanical ventilation: when should a tracheotomy be placed? Clin Chest Med 2008;29: 253-63. 3. Kornblith LZ, Burlew CC et al. One thousand bedside percutaneous tracheostomies in the surgical intensive care unit: time to change the gold standard. J Am Coll Surg 2011, 212:164-70. 4. De Leyn P, Bedert L et al. Tracheostomy: clinical review and guidelines. Eur J Cardiothoracic Surg 2007;32:412-21. 5. Fikkers BG, Staatsen M, et al. Early and late after single step dilational tracheostomy versus the guide wire dilating forceps technique: a prospective randomized clinical trial. Intensive Care Med 2011;37:1103-09. 6. Dulgerov P, Perneger GC et al. Percutaneous or surgical tracheostomy: a meta-analysis. Crit Care Med 1999;27:161725. 7. Freeman BD, Isabella K et al. A meta-analysis of prospective trials comparing percutaneous and surgical tracheostomy in critically ill patients. Chest 2000, 118:1412-1418. 8. Delaney A, Bagshaw SM, Nalos M. Percutaneous dilational tracheostomy versus surgical tracheostomy in critically ill patients: a sistematic review and meta-analyses. Critical Care 2006;10:1-13. 9. Higgins KM, Punthake X. Meta-analysis comparison of open versus percutaneous tracheostomy. Laryngoscope 2007;117:447-54. 10. Antonelli M, Michetti V et al. Percutaneous translaryngeal versus surgical tracheostomy: a randomized trial with 1-yr double-blind follow-up. Crit Care Med 2005;33:1015-20. 11. Raghuraman G, Rajan S, Marzouk JK et al. Is tracheal stenosis caused by percutaneous tracheostomy different from that by surgical tracheostomy? Chest 2005;127:879-85. 12. Divisi D et al. Fantoni translaryngeal Tracheostomy Versus
MINERVA ANESTESIOLOGICA
Ottobre 2012
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 449
PERIOPERATIVE COMPLICATIONS OF PERCUTANEOUS TRACHEOSTOMIES
Ciaglia Blue Rhino Percutaneous Tracheostomy: A Retrospective Comparison. Surg Today 2009;39:387-92. 13. Cianchi G et al. Comparison between single-step and balloon dilatational tracheostomy in intensive care unit: a single-centre, randomized controlled study. Br J Anaesth 2010, 104:728-32. 14. Fikkers BG et al. Ealry and late complication after single step dilational tracheostomy versus the guide wire dilating
Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
PELOSI
forceps: a prospective clinical trial. Intensiv Care Med 2011; 37:1103-09. 15. Montcriol A et al. Bedside percutaneous tracheostomy: a prospective randomised comparison of PercuTwist® versus Griggs’ forceps dilational tracheostomy. Anaesth Intensive Care 2011;39:209-16. 16. Cabrini L, Monti G et al. Percutaneous Tracheostomy, a systematic review. Acta Cabrini L, 56:270-81.
MINERVA ANESTESIOLOGICA
449
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 450
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 451
MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):451-4
Artificial neural networks applications to mechanical ventilation M. PELLEGRINI, G. PERCHIAZZI
Background Le tecnologie basate sui microprocessori hanno rinnovato radicalmente l’interazione paziente-ventilatore permettendo modalità di ventilazione avanzate. In tempi recenti la ricerca nel campo della ventilazione meccanica sta mirando alla costruzione di macchine intelligenti capaci di interfacciare le variabili respiratorie del paziente con il ventilatore meccanico, adattando così la forma d’onda di pressione e flusso alle necessità fisiologiche del paziente1, 2. Al giorno d’oggi esistono diverse modalità di ventilazione, non tutte utilizzabili con semplicità nella pratica clinica: sia per la loro complessità, sia per la necessità di un background specifico da parte dell’operatore. Ne consegue che i clinici che realmente utilizzano queste sofisticate tecnologie sono una minoranza. La necessità di ottenere un’ottimale interfaccia tra ventilatore e paziente e la contemporanea necessità di una maggiore semplicità di utilizzo, stanno orientando la ricerca verso sistemi capaci di lavorare con un gran numero di variabili, ma allo stesso tempo potenti e flessibili. Si tratta di sistemi di controllo della ventilazione meccanica definibili a circuito chiuso. Di base c’è l’idea di riuscire ad elaborare segnali provenienti dai pazienti per controllare, individualmente e secondo le necessità, la ventilazione meccanica3. I maggiori punti critici da risolvere sono: la scelta della migliore modalità attraverso cui controllare il sistema e la necessità di decidere come elaborare il segnale. Qualsiasi sistema di interfaccia tra sensori e macchina, se sviluppato per lavorare nella vita reale (e non solo nell’ambito della ricerca scientifica) deve possedere due proprietà: robustezza e precisione. Un metodo è definito robusto se è in grado di lavorare non solo in condizioni ideali, ma anche in condizioni impreviste (vedi per esempio la presenza di rumori o il malfunzionamento dei sensori) che alterano inaspettatamente gli input al sistema. Metodi di controllo in ventilazione meccanica I metodi di controllo noti dalla letteratura possono essere distinti in due grandi classi: • I metodi a Feedback Positivo: Il feedback positivo punta a creare una differenza tra il target e il valore Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento delle Emergenze e dei Trapianti d’Organo, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Bari, Italia
misurato, agendo come amplificatore del sistema. E’ grazie a questo tipo di controllo che è nata la Ventilazione Proporzionale Assistita che permette al ventilatore di comportarsi come “muscolo respiratorio ausiliario”, amplificando l’attività di respirazione del paziente. Il maggiore svantaggio di questi sistemi di controllo è la loro intrinseca instabilità: essi sono difficilmente in grado di adattare la propria risposta ad eventuali disturbi del sistema. • I metodi a Feedback Negativo (metodo di controllo a circuito chiuso): Tutti i ventilatori moderni utilizzano metodi di controllo a circuito chiuso per mantenere costanti la pressione e le forme d’onda del flusso di fronte alle variazioni delle condizioni ambientali. Il controllo a circuito chiuso utilizza l’output come un segnale di feedback che viene confrontato col valore preimpostato dall’operatore. Altri sistemi di controllo della ventilazione meccanica a circuito chiuso e a feedback negativo sono stati finalizzati a regolare i parametri ventilatori (tra cui le pressioni e i volumi ventilatori, la PEEP, la FiO2) sulla base di segnali provenienti dal paziente (tra cui l’ETCO2, la PaCO2, il pH, la PaO2). La differenza tra output misurato e valore target preimpostato viene utilizzata per guidare il sistema verso l’output desiderato, puntando a ridurre a zero questa differenza. I primi studi su un ventilatore a circuito chiuso, condotti nel 1953, prevedevano un metodo di controllo basato sull’ETCO 2 e sulla conseguente regolazione della pressione inspiratoria. Il metodo fu definito già allora “un sostituto elettro-meccanico del centro respiratorio umano”. Esiste una gerarchia dei controlli a circuito chiuso per i sistemi di ventilazione, e man mano che si passa a controlli più avanzati, l’operatore viene in qualche modo “allontanato” dal controllo diretto dei parametri ventilatori.
MINERVA ANESTESIOLOGICA
451
siaarti relazioni 2012 3:siaarti relazioni 1 02/10/12 18.01 Pagina 452
PERCHIAZZI
ARTIFICIAL NEURAL NETWORKS APPLICATIONS TO MECHANICAL VENTILATION
Tra i più recenti ed evoluti metodi di controlli a circuito chiuso si annoverano: • Il Fuzzy Control: È l’evoluzione naturale dei sistemi esperti: i fuzzy controllers sono costituiti sulla base di un set di regole if-then e vengono pianificati sulla base delle conoscenze e dell’esperienza sul controllo della variabile in questione. • Le Reti Neurali Artificiali (ANNs) È uno dei metodi di controllo più evoluti, non avendo bisogno dell’impostazione di regole di base per funzionare: si basa su processi di addestramento, grazie ai quali la forza delle interconnessioni della rete viene automaticamente aggiustata finché le sue scelte corrispondono a quelle desiderate. Le Reti Neurali Artificiali Le Reti Neurali Artificiali (ANNs) sono un modello di reti nervose biologiche4. Esse appartengono alla nuova generazione di sistemi di intelligenza artificiale conosciuta con il termine di connessionismo. Un sistema connessionistico ha la possibilità di imparare ad eseguire un particolare compito senza la necessità di possederne una specifica conoscenza a priori. Sono sviluppati riproponendo la struttura e le modalità di funzionamento tipiche del Sistema Nervoso Centrale umano, ponendo alla base delle ANNs, così come per i sistemi neurali biologici, reti di connessione tra numerose unità semplici. Una rete neurale impara dall’esperienza, allo stesso modo di un cervello umano, immagazzinando conoscenza nelle forze delle connessioni internodali. Le ANNs sono composte da tre tipi di strati: lo strato di input, uno o più strati intermedi e lo strato di output. Le informazioni entrano nella rete attraverso lo strato di input e, dopo essersi propagate attraverso lo strato interno, arrivano allo strato di output. Le Reti Neurali Artificiali hanno la necessità di essere addestrate: le ANNs apprendono dall’addestramento e migliore è l’ addestramento, più robusta sarà la ANN. Una rete neurale, allo stesso modo di un cervello, è basata sull’interazione di singoli “neuroni”. I segnali (potenziali d’azione) appaiono all’input dell’unità (sinapsi). L’effetto che ogni segnale produce, è determinato moltiplicando il segnale per un valore (“peso”) che indica la “forza” della sinapsi. Il segnale “pesato” è poi sommato per produrre un’attivazione di unità complessiva. Se una connessione ha un peso basso, essa da sola potrebbe non permettere il raggiungimento della soglia di attivazione dell’unità posta a valle, per cui, al fine di attivare il neurone, altri stimoli devono raggiungerlo simultaneamente. Se lo stimolo globalmente raggiunge la soglia di attivazione, l’unità produce una risposta (output). I nodi rappresentano il processo di sommazione e trasferimento. Ogni nodo contiene informazioni provenienti da tutti i “neuroni”. Man mano che la rete si addestra, i pesi cambiano e così i valori dei nodi, influenzando l’output finale. Esistono diverse architetture per le ANNs e vari algoritmi di addestramento; secondo le necessità viene scelto l’algoritmo più appropriato e capace di fornire la migliore risposta.Un gran numero di unità semplici di base può essere necessario al fine di ottenere un alto livello di robustezza del sistema e di immunità dal rumore5, questo perché l’estrazione del452
l’informazione può essere eseguita su un’intera curva piuttosto che su un singolo punto scelto da un esperto. Dopo la fase di addestramento, durante la quale è possibile monitorare il processo di apprendimento, le ANNs acquisiscono la capacità di generalizzazione. Una ANN ha anche la capacità di adattarsi a situazioni non esperite a priori, essa è in grado di elaborare modalità di comportamento in situazioni che non le sono state presentate durante la fase di addestramento. C’è una stretta connessione tra la strategia di addestramento e la qualità delle prestazioni della rete. Così come nell’apprendimento umano, dopo che una ANN ha acquisito gli esempi paradigmatici, costruisce una rappresentazione interna delle regole generali che descrivono la realtà. Un’ulteriore importante proprietà delle ANNs è che l’apprendimento è “forte”. Se la rete perde un neurone, la prestazione globale è solo leggermente inficiata: la conoscenza è insita nella rete di connessione e non appartiene alla singola unità neuronale. Tutte queste peculiarità fanno la differenza tra le Reti Neurali Artificiali e le intelligenze artificiali classiche, basate invece sui sistemi esperti. In un sistema esperto, come prima discusso, è necessario risolvere analiticamente un problema, quindi trasformarlo in regole fisse al fine di ottenere un risultato. Queste proprietà rendono le Reti Neurali Artificiali adatte a diversi usi nel campo della Ventilazione Meccanica. Revisione della Letteratura Una revisione generale della letteratura scientifica sulle Reti Neurali Artificiali applicate all’analisi dei segnali respiratori mostra che, in questo campo di indagine, ancora poco lavoro è stato fatto. Leon e Lorini6 hanno studiato la capacità delle ANNs di distinguere, a partire da segnali respiratori, la modalità di ventilazione tipo Pressure Support dal respiro spontaneo. Wilks e English7, attraverso l’uso di ANNs, hanno classificato l’efficienza dei patterns respiratori, con lo scopo di predire cambiamenti nella saturazione di O2. Snowden et al.8 hanno addestrato una ANN con parametri emogasanalitici e con i corrispondenti pattern di ventilazione, al fine di poter definire il miglior setting in diverse contesti clinici. Bright et al.9 hanno descritto l’uso di una ANN per identificare l’ostruzione delle vie aeree a partire dal loop flusso-volume. Leon et al.10 hanno sviluppato un sistema basato sulle ANN in grado di riconoscere intubazioni esofagee a partire dai segnali di flusso e di pressione. Räsänen e León11, fornendo i tracciati ventilatori di cani sani e con danno polmonare da acido oleico, hanno addestrato una ANN nel riconoscimento della presenza di danno polmonare e nella stima della sua entità. Esperienze degli Autori Il nostro gruppo di ricerca ha condotto finora diversi studi con lo scopo di estrarre variabili della meccanica polmonare da tracciati ventilatori, sfruttando metodi basati sulle ANNs. Considerando le potenziali difficoltà nelle misurazioni dei parametri meccanici in corso di ventilazione artificiale, ci siamo proposti di studiare l’applicabilità delle ANNs al monitoraggio ventilatorio in unità di Terapia Intensiva.
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È stato valutato se le ANNs fossero in grado di descrivere il comportamento del sistema respiratorio in condizioni statiche. In un secondo momento, le ANNs sono state applicate a situazioni più vicine alla clinica: esse sono state testate in condizioni dinamiche e nel riconoscimento del fenomeno della PEEP intrinseca. È stato inizialmente testata e confermata12 l’ipotesi che le ANNs siano in grado si stimare le compliance e le resistenze del sistema respiratorio (CRS, RRS) a partire dai valori di pressione e flusso (PAW, FAW) durante manovra di fine-inspirazione dimostrando che la stima delle CRS e delle RRS è realizzabile. E’ stata applicata una pausa di fine-inspirazione (E-IHM) al fine di facilitare la stima delle pressioni di fine- inspirazione e in questo modo risalire ai valori di CRS e RRS. E’stato poi studiato se le ANN fossero in grado di stimare le compliance statiche del sistema respiratorio (CRS), anche in assenza di pause di fine-inspirazione, durante ventilazione meccanica ininterrotta13. Eliminare la manovra di E-IHM permette di monitorare la meccanica respiratoria senza interferire con l’effettivo pattern di ventilazione. In linea di principio, un intenzionale apnea prolungata può avere conseguenze potenzialmente dannose in pazienti emodinamicamente instabili. I risultati, anche in questo caso, hanno dimostrato che le ANNs sono capaci di estrarre valori di CRS del sistema, senza necessità di interrompere il flusso inspiratorio. Dato il grande impatto nella stabilità cardiovascolare e respiratoria della Pressione Positiva di Fine Espirazione Intrinseca (PEEP-i), in un terzo studio14 abbiamo dimostrato la capacità delle Reti Neurali Artificiali, addestrate con valori di pressioni e flussi inspiratori delle vie aeree, di stimare la PEEP intrinseca e quella totale durante ventilazione meccanica, senza la necessità di ricorrere a manovre di pausa di fine espirazione. Questo risultato apre nuove possibilità nel monitoraggio continuo della PEEP intrinseca. Abbiamo inoltre testato il grado di robustezza delle ANNs, comparandolo con il metodo del Multilinear Fitting (MLF) nella stima della compliance del sistema respiratorio15. Il metodo del MLF16 è ampiamente utilizzato nel monitoraggio respiratorio durante ventilazione meccanica. Il MLF si basa sul concetto che l’equazione di moto dei gas respiratori sia lineare; tale assunzione non è corretta in alcune condizioni patologiche durante le quali il polmone dimostra proprietà meccaniche disomogenee. Nel nostro studio abbiamo testato i due tipi di perturbazione che si possono incontrare con maggiore frequenza in ambito clinico: i rumori random e la disconnessione dei sensori. Dopo l’applicazione di un rumore random, ANN e MLF mantengono entrambi una performance stabile, anche se in queste condizioni il MLF ha dimostrato risultati migliori. L’ANN ha una performance più stabile e fornisce una più valida stima della CRS rispetto all’MLF nella situazione di transitoria disconnessione del sensore. Conclusioni e prospettive Le ANNs sono uno strumento sufficientemente robusto per poter essere applicato nella realtà clinica17. L’abilità nell’interfacciare variabili complesse e la robustezza delle Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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loro prestazioni, ci suggeriscono un possibile loro utilizzo in strategie di ventilazione meccanica a circuito chiuso in cui esse possono lavorare come strumento di integrazione tra la meccanica del paziente e la ventilazione artificiale. La vera sfida del controllo a circuito chiuso della ventilazione è definire quali segnali biologici devono essere integrati nel feedback. Una buona filosofia per decidere può essere l’imitazione della natura, tentando di riprodurre strettamente i circuiti neuronali della respirazione. Questo affascinante percorso richiederà certamente tempo, studi ed integrazione di informazioni da diversi campi di ricerca. All’orizzonte si intravede la possibilità di miniaturizzare sensori e circuiti, al fine di assistere la ventilazione dall’interno: questa è la promessa del nuovo sviluppo delle nanotecnologie biomediche. Bibliografia 1. Younes M. Proportional assist ventilation a new approach to ventilatory support -Theory. Am Rev Resp Dis 1992;145: 114-20. 2. Younes M, Puddy A, Roberts D et al. Proportional assist ventilation - Results of an initial clinical trial. Am Rev Resp Dis 1992;145:121-9. 3. Ranieri VM. Optimization of patient-ventilator interactions: closed-loop technology to turn the century. Intensive Care Med 1997;23:936-9. 4. Cross SS, Harrison RF, Kennedy RL. Introduction to neural networks. Lancet 1995;346:1075-9. 5. Rumelthart DE, Mcclelland JL. Parallel Distributed Processing. Cambridge, Mass,USA, MIT Press, 1986. 6. Leon MA, Lorini FL. Ventilation mode recognition using artificial neural networks. Comp Biomed Res 1997;30:373-8. 7. Wilks PAD, English MJ. A system for rapid identification of respiratory abnormalities using a neural network. Med Eng Phys 1995;17:551-5. 8. den S, Brownlee KG, Smye SW, Dear PRF. An advisory system for artificial ventilation of the newborn utilizing a neural network. Med Inform 1993;18:367-76. 9. Bright P, Miller MR, Franklin JA, and Sheppard MC. The use of a neural network to detect upper airway obstruction caused by goiter. Am J Respir Crit Care Med 1998;157:188591. 10. Leon MA, Rasanen J, Mangar D. Neural network-based detection of esophageal intubation. Anesth Analg 1994;78: 548-53. 11. Rasanen J, Leon M. Detection of lung injury with conventional and neural network-based analysis of continuous data. J Clin Monit 1998;14:433-9. 12. Perchiazzi G, Högman M, Rylander C, Giuliani R, Fiore T, Hedenstierna G. Assessment of respiratory system mechanics by artificial neural networks: an exploratory study. J Appl Physiol 2001;90:1817-24. 13. Perchiazzi G, Giuliani R, Ruggiero L, Fiore T, Hedenstierna G. Estimating respiratory system compliance during mechanical ventilation using artificial neural networks. Anaesth Analg 2003;97:1143-48. 14. Measurement of total positive end-expiratory pressure during mechanical ventilation by artificial neural networks. In Perchiazzi G. Artificial Neural Networks (ANN) in the assessment of respiratory mechanics. Acta Universitatis Upsaliensis, 2004. Comprehensive Summaries of Uppsala dissertations from the Faculty of Medicine 1389. Uppsala. ISSN 0282-7476 ISBN 91-554-6090-9. 15. Robustness of two different methods for estimating respiratory system compliance during mechanical ventilation. In Perchiazzi G. Artificial Neural Networks (ANN) in the assessment of respiratory mechanics. Acta Universitatis
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Problemi ed evidenze in area critica F. PETRINI1, G. MERLI2
Riassunto
1Anestesia,
Per migliorare la gestione del rischio clinico in Rianimazione e Terapia Intensiva (ICU), intesa come l’area critica, in cui opera lo specialista in Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva*, è necessario dare maggiore rilievo ai criteri di sicurezza nella gestione delle vie aeree (AM). Infatti questo approccio terapeutico, in area critica, espone il medico anestesista-rianimatore a sfide ancora più difficili e subdole di quelle affrontate in Sala Operatoria (OR), a cui sono dedicate specifiche Raccomandazioni comportamentali. La prevenzione dei rischi è resa ancora più ardua dall’impossibilità di basare le strategie e le tecniche, che stentano a cambiare da quando l’ICU è nata, oltre 50 anni fa, su consolidate evidenze scientifiche. Nonostante gli enormi progressi compiuti a vantaggio delle tecniche di sostegno delle funzioni vitali in ICU, le tecniche di isolamento, controllo e mantenimento delle vie aeree in sicurezza, fondamentali (integrate) per l’assistenza ventilatoria, non sono molto cambiate nel tempo. Al contrario, oggi si avverte tutta l’importanza delle buone pratiche cliniche per la gestione del rischio, con ricadute importanti anche in quest’ambito così critico. In sintesi per migliorare la sicurezza respiratoria e di gestione delle vie aeree in ICU si devono tenere in considerazione i seguenti punti: • Analisi dell’area critica: ICU e dintorni: livello di protezione/rischio vie aeree (ambiente e intensità di cura): – Epidemiologia degli eventi avversi o critici correlati all’AM in ICU. – Inquadramento fisiopatologico del pz critico e limiti di tolleranza all’ipossia. • Valutazione del paziente e delle difficoltà in area critica: – Limiti di valutazione del rischio vie aeree nel soggetto critico. – Score disponibili ed algoritmi comportamentali cui ispirarsi. • Ossigenazione e ruolo ventilazione non invasiva (NIV); • Materiali e devices: – Inquadramento e scelta dei devices. – Identificazione dei devices “in elezione” e “rescue”. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Rianimazione e Terapia Intensiva, Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara “Medicina Perioperatoria, Emergenza Intraospedaliera, Terapia del Dolore e Terapia Intensiva” ASL 2, Lanciano-Vasto-Chieti 2Anestesia e Rianimazione, Centro Cardiologico Monzino, Milano
– Organizzazione dei materiali (carrello, zaino emergenza…). – Scelte farmacologiche - RSI e tecniche nelle varie criticità. • Estubazione programmata e accidentale: – Estubazione protetta. – Eventi avversi per estubazione o decannulazione accidentale. – Sicurezza del follow-up pz.tracheotomizzato. – Alert form. • Competenze: – Skills (curriculum dello specialista e curva di apprendimento; skills di team). – ANTS. – Interazione del Team e tecniche educazionali. Searching for a safety strategy Airway management is more challenging in the ICU than in the OR1,2 . Every intervention on the airways can be associated with various complications both in the ICU or in the emergency department (ED). Many factors can be considered critical, including the limited physiologic reserve of the patients. As a consequence, the likelihood of difficult mask ventilation and difficult intubation are strongly increasing. The incidence of failed airway control and of cardiac arrest related to airway management (AM) in the ICU is really higher than in the Operatory Room (OR)3. Critically ill patients often receive a life-saving support and protection through airways devices, like tracheal tubes and tracheostomy cannulas. Otherwise, these devices are associated with significant risks, both during their positioning (tracheal intubation, tracheostomy procedu-
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re) and during their use. In 2009 the airway associated patient safety incidents were submitted to the UK National Patient Safety Agency (NPSA) from NHS (National Health Service) organisations, or ‘Trusts’ in England and Wales. These data, obtained from a two-years study of critical care units incidents, was helpful in recognizing the errors and the lack of safety strategies4. The aim of this study was to support evidence-based recommendations to strongly suggest the reporting of airway incidents and to improve the safe management of airway devices in critical care. The incidents can be variously classified; the taxonomy for classification of airway incidents by NAPSA cannot be considered inclusive of the whole body of the adverse events: a. Airway incidents associated with tracheal intubation: • Problem: – Failure to intubate, Delay in intubation, Neurological injury, Dental injury, Endobroncheal intubation, Oesophageal intubation, Aspiration of gastric contents, Other. • Contributing factors: – Patient problems, Operator skill, experience or availability, Lack of trained assistants, Lack of capnography, Lack of other functioning equipment, Other. b. Airway incidents associated with tracheostomy: • Type of procedure used: – Percutaneous device (single or serial dilator), Open tracheostomy, Other device. • Problem: – Equipment failure or non availability, Loss of airway, Unsuccessful, Bleeding, Damage to larynx, Damage to trachea, Damage to oesophagus, Damage to large vessel, Damage to lung or pleura, Hypoxia, Surgical emphysema, Delay, Other problem. • Contributing factors: – Patient problems, Operator skill, experience or availability, Lack of trained assistants, Lack of capnography, Lack of other functioning equipment, Other c. Airway incidents occurring after device placement: • Airway device: – Tracheal tube – oral, nasal or undefined, Tracheostomy tube – Inner sleeve yes ⁄ no, Cuffed yes ⁄ no or Tracheostomy tube undefined. Other airway device. • Problem: – Displaced from trachea and patient, Displaced from trachea into soft tissues, Displaced from trachea into pharynx, Displaced fromtrachea into oesophagus, Displaced from trachea into bronchus, Displaced within trachea, Blocked, air leak ⁄ cuff failure. d. For all incidents: • Complications: – Hypoxia, transient or not significant (less than 5 min or saturation remaining above 85%), Hypoxia, significant (more than 5 min or saturation below 85% unless normally hypoxic), 456
Bradycardia, Cardiac arrest or cardiopulmonary resuscitation, Haemorrhage requiring transfusion, Haemorrhage causing hypoxia, Pneumothorax, Dental injury, Oesophageal injury, Tracheal injury, Laryngeal injury, Large vessel injury, Neurological damage, Other complication. • Grade of incident: • Lower risk, Moderate risk, Major risk, Life threatening – Level of patient harm. – None or minor physiological change, Temporary harm, Temporary harm – increased length of critical care or hospital stay,Permanent harm, Intervention needed to sustain life, Reaction may have caused or contributed to death. • Patient age group: – Neonate ⁄ baby under 18 months old, Adult ⁄ older child ⁄ age could not be determined. As for every incident reporting system, these data cannot be considered complete: staff will have decided whether or not to report incidents for many reasons, including the reporting system provided, the fear of legal consequences after reporting incidents and the perceptions of how incidents would be used to improve patient care. Moreover, previous studies suggest that incidents are more likely to be reported by nursing staff than by medical staff. Nevertheless, these data must be considered to improve the airway safety culture. Reasons for adverse outcome include: progressive illness, requiring rapid intubation; reduced time for preparation; hypoxaemia despite preoxygenation; increased risk of profound hypotension or cardiac arrest at anaesthetic induction; risk of aspiration, due to a full stomach; associated injuries, making intubation difficult (e.g. maxillofacial trauma, potential cervical injury, etc.); challenges related to the location (e.g. limited availability of difficult intubation equipment, less experienced assistance, lack of capnography, limited access to the patient). Moreover, waking up the patient is frequently impossible and the ICU practitioners may have limited experience in airway strategies (which are well known in the anaesthesia field)5. Otherwise, the implementation of an airway management protocol could reduce the incidence of severe and lifethreatening complications associated with intubation in ICU patients. A ten-point care bundle management of intubation in the ICU was the strategy suggested by Jaber et al. The bundles included fluid loading, preoxygenation with non invasive positive pressure ventilation, rapid sequence induction and capnography, in order to check the correct position of the tracheal tube, to decrease the rate of severe hypoxemia and to reduce the hemodynamic collapse occurring within the first hour following intubation6. However, further factors can be considered as causes of errors and adverse events. Major complications related to airway management over a 12-month period in the United Kingdom were recently reported and examined by an expert panel of the Royal College of Anaesthetists in the fourth National Audit Project (NAP4). Thirty-six reports were related to the
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ICU, just less than 20% of all reports, but amounting to the 60% of deaths or severe neurological injuries among all the examined cases7,8. These cases could be divided into: – failed or unrecognised oesophageal intubation; – airway displacement; – haemorrhage; – airway problems during patient transfer; – other. The panel of experts found some critical points and made some recommendations to improve the airway management in the intensive care environment9. Capnography was not routinely used and this factor contributed to delayed recognition of airway problems. Staff physicians, managing difficult airways, were not always experts with advanced airway skills. Equipment and back-up planning were frequently inadequate. It was suggested that a difficult airway trolley should have been immediately available in every ICU. It should have been composed of a wide range of devices and regularly checked. The necessary devices should have included different kinds of supraglottic airways (including the IInd generation ones), a variety of laryngoscopes and blades, airway conduits (including video devices), airway intubating catheters and airway exchange catheters, and equipment to access an emergent airway (both needle cricothyroidotomy and surgical airway.) An intubating bronchoscope (adequate diameters) should have been readily available (and cleaned). In a recent survey about all the ICUs in the UK (90% answers rate) only 50% of ICUs had a dedicated difficult airway trolley. Following the NAP4 recommendations, it is likely that this number will increase10. The proposals made to reduce the airway-related complications in the ICU include the use of an ‘intubation bundle’ containing an intubation checklist and difficult airway trolley, the use of continuous capnography, the recognition of difficulty, back-up planning and training, including simulation and education in human factors6-8. Finally, the human factors (Non-Technical Skills) can be defined as cognitive and social skills that reduce human error, improve human performance and enhance safety. They have been studied both in anaesthesia, and in intensive care settings, in a framework known as Anaesthetic Non-Technical Skills (ANTS). The situation awareness is one of the four domains described by the ANTS framework. It can be defined as one skill for developing and maintaining an overall awareness of the work setting and thinking ahead about what could soon happen. The loss of situation awareness is a common cause of human error in critical incidents. Accordingly to these risk management strategies, the NAP4 panel identified the root of human errors for airway management in ICU as including a list of: Factors Positive Contributory Causal: a) Communication (includes verbal, written and non-verbal: between individuals, teams and/or organisations). b) Education and training (i.e. availability of training). c) Equipment/resource factors (i.e. clear machine displays, poor working order, size, placement, ease of use). Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
d) Medication (where one or more drugs directly contributed to the incident). e) Organisation and strategic (i.e. organisational structure, contractor/agency use, culture). f) Patient (i.e. clinical condition, social/physical/psychological factors, relationships). g) Task (including work guidelines/procedures/policies, availability of decision-making aids). h) Team and social (including role definitions, leadership, support and cultural factors). i) Work and environment (i.e. poor/excess administration, physical environment, work load and hours of work, time pressures). j) Others. A thorough working knowledge of the available devices for the management of the difficult airway and recommended rescue strategies is paramount in avoiding adverse patient outcomes11. Future studies should, however, investigate whether a decrease in immediate life-threatening complications can lead to the improvement of outcomes upon ICU discharge. Despite the well-known risks of critical illness, the physicians, managing the airways of a critically ill patient, particularly out of hours or out of high dependency care area, may be relatively inexperienced to solve the crisis. Solutions to the challenging airway problems include: recognition of the patients with a potential airway problem; implementation of a plan to deal with their airway; immediate availability of a difficult airway trolley; use of continuous capnography for every airway intervention; appropriate training of all intensive care unit staff (doctors and nurses), including the use of simulation as a strategy to improve the Non Technical Skills. Checklists, like those in NAP4 and other intubation bundles, have been proposed as a method of preventing loss of situation awareness during airway interventions in critically ill patients. A core competencies curriculum should consider to improve the training in Anaesthesiology, Pain and Intensive Care Medicine: the Competency-Based Training in Intensive Care in Europe (CoBaTrICE) project and training programme (www.cobatrice.org), defined the core (minimum) competencies required to a specialist in Intensive Care12. Nevertheless, the NTS role is better emphasized in the Postgraduate Training Program from the Standing Committee on Education and Training of the Section and Board of Anaesthesiology (UEMS/EBA Guidelines and Syllabus). The specialist in “Anaesthesiology”* can be considered an expert for the airway management, but something can be improved, moreover in ICU13.
*In Italia il Macrosettore - CLINICA ANESTESIOLOGICA è così definito dal Decreto 12 giugno 2012 “Rideterminazione dei settori concorsuali, ai sensi dell’articolo 5 del decreto 29 luglio 2011”: “Il settore si interessa dell’attività scientifica e didatticoformativa, nonché dell’attività assistenziale a essa congrua nel campo della anestesia, rianimazione e terapia intensiva. Sono specifici ambiti di competenza: l’anestesia, la medicina peri-operatoria, la rianimazione, la terapia intensiva, la medicina del dolore, le cure palliative, la medicina dell’emergenza, la medicina dei disastri, la medicina subacquea ed iperbarica”.
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Avere consapevolezza della situazione F. PETRINI
“Viste da un’altezza di 30.000 piedi, i sistemi medico e aeronautico sono davvero simili. Tutti noi dobbiamo riuscire a far funzionare insieme un gruppo piuttosto ampio di professionisti con competenze avanzate ma diverse con strumentazioni e tecnologie molto complesse, il tutto in un ambiente dove le condizioni e le variabili che si possono prospettare sono infinite, ma dove fallire, anche una sola volta, non è una opzione contemplata”. Questa frase pronunciata di fronte ad una platea di medici da Jeff Skiles, Co-pilota dello stupefacente atterraggio sul fiume Hudson, sono profondamente vere. La consapevolezza del rischio e la situation awareness sono considerate parte integrante di entrambe le professioni; tuttavia, nonostante il tema della sicurezza clinica sia entrato sia nella formazione specialistica che nei programmi di aggiornamento clinico ritenuti fondamentali dal Sistema Sanitario, la nostra formazione, a differenza di quella dei piloti d’aereo, non è altrettanto specifica e rigorosa. Ciononostante, anche in assenza di una formazione specifica, tutti noi abbiamo compreso che ogni volta che si affronta l’ambito clinico e si devono fronteggiare situazioni critiche, tutti gli algoritmi comportamentali che adottiamo raccomandano di procedere per step: “percepire, comprendere, agire”, le tre componenti strutturali fondamentali per la situation awareness (S.A.)secondo Endsley. Per ognuno di questi tre livelli sono possibili “avarie” e dunque errori. Il “percepire” ha a che fare col sistema sensoriale e le sue molteplici fallibilità. Anche la gestione dell’attenzione (e le sue diverse suddivisioni: attenzione canalizzata, diffusa, selettiva, ecc) gioca un ruolo importante nella acquisizione delle informazioni. Di cosa quindi bisogna “essere consapevoli”? Se consideriamo il nostro lavoro quotidiano, in qualsiasi settore si sia sviluppata la competenza specifica acquisita dalla specializzazione (si riporta la definizione delle competenze contemplate per il settore scientifico disciplinare (G.U. serie generale n.137 del 14/6/2012) per l’Anestesiologia “Il settore si interessa dell’attività scientifica e didatticoformativa, nonché dell’attività assistenziale a essa congrua nel campo della anestesia, rianimazione e terapia intensiva. Sono specifici ambiti di competenza: l’anestesia, la Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva, Università G.D’Annunzio, Chieti-Pescara “Medicina Perioperatoria, Emergenza Intraospedaliera, Terapia del Dolore e Terapia Intensiva” ASL 2, Lanciano-Vasto-Chieti
medicina peri-operatoria, la rianimazione, la terapia intensiva, la medicina del dolore, le cure palliative, la medicina dell’emergenza, la medicina dei disastri, la medicina subacquea ed iperbarica”), si può considerare che, lavorando in seistemi ad alta complessità ed in team con specilaisti e professionisti di estrazione diversa, sia necessario sviluppare situation awareness: – del Sistema: monitor, apparecchiature di sala, tecnologie di monitoraggio… tutte quelle tecnologie che “dialogano” con l’operatore; – del Paziente: stato fisico, non solo delle copatologie, ma anche dello stato psicologico e suoi mutamenti; – del Tempo: affrontando anche l’interessante distinzione che corre tra tempo interno e tempo esterno (cronologico); – dello Stato proprio personale: emotivo, fisico, con la mutevolezza umana condizionata dal livello di stress, dal carico di lavoro, dalla consapevolezza più o meno precisa della personale preparazione professionale, ecc. – dei Compiti/Responsabilità degli altri operatori del sistema: acquisendo la capacità di effettuare il monitoraggio reciproco coi componenti del Team indispensabile a migliorare le barriere da ergere per prevenire l’errore che una sorveglianza incrociata può consentire; – della necessità di Anticipare gli eventi: sapendo intraprendere le azioni necessarie a contenere effetti indesiderati. I fenomeni che minano la sicurezza, rendendo critica la Situation Awareness, possono essere molti: – focalizzazione eccessiva su un singolo dato sensoriale con esclusione di altri percetti esterni (effetto tunnel); – filtraggio delle informazioni o dei dati sensoriali, dovuto per esempio ad elevato sovraccarico cognitivo o mancanza di risorse mentali per stress, fatica, demotivazione;
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PETRINI
AVERE CONSAPEVOLEZZA DELLA SITUAZIONE
– omissione di dati sensibili e loro esclusione dai processi di ragionamento (per motivi simili a quelli precedenti); – semplificazione nei processi mentali di analisi dei dati con effetti deleteri sulla qualità delle decisioni adottate. Il classico motto che definisce la nostra condizione lavorativa (Lunghe ore di noia con alcuni secondi di terrore) ben rappresenta il tipico di abbassamento della S.A. dovuto agli effetti della routine del lavoro, unita alla scarsa capacità della mente umana di cogliere il cambiamento di un dato, di un parametro quando il cambiamento è microscopico ma costante nella sua evoluzione. Il cervello umano (al contrario del computer) rende meglio e reagisce più prontamente nell’osservazione dei cambiamenti grandi ed improvvisi, non è adatto per vincere la monotonia e cogliere le sfumature. Da qui la necessità, imposta dai sistemi che formano alla gestione del rischio, di implementare un ricco sistema di avvisi, richiami, forced functions, ecc per allertare e tenere nel loop situazionale l’operatore umano. Di riflesso, il pericolo della noia e ripetitività anche di questi avvisi con ulteriore rischio di perdita della S.A. Per le strutture sanitarie introdurre sistemi di Clinical Risk Management significa comporre un “puzzle” di azioni utili a creare le condizioni lavorative più sicure possibili, ma anche in grado di minimizzare le conseguenze degli eventi. Per preparare meglio gli specialisti ed i team di operatori sanitari in generale, è necessario introdurre elementi di didattica su questi temi sin dai primi anni della formazione universitaria, utilizzando maggiormente le tecniche di simulazione, sempre più spesso raccomandate perchè permettono di sbagliare senza alcuna conseguenza, di discutere tranquillamente dell’errore e di acquisire l’abilità di applicare le conoscenze teoriche alle condizioni lavorative della realtà clinica. La formazione deve prevedere sia l’insegnamento delle competenze tecniche che delle cosiddette abilità non tecniche (“non technical skills”), in quanto gli operatori devono saper gestire sia i fattori tecnici legati alla propria professione, che le problematiche organizzative e gestionali che concorrono al determinismo dell’errore. Gli operatori devono infatti comprendere che qualità ed esito del loro lavoro e sicurezza del paziente dipendono dall’interazione di molti fattori e che è necessario acquisire la capacità di: – discutere e analizzare l’errore; – identificare e segnalare i rischi; – applicare strumenti sia proattivi che reattivi di gestione del rischio; – riconoscere l’importanza di fattori organizzativi, ambientali, tecnologici, umani (caratteristiche dei pazienti, della professionalità individuale e del team); – lavorare in èquipe e in team; – comunicare in forma efficace; – saper riconoscere le situazioni a rischio e assumere decisioni e leadership; – coinvolgere ed educare pazienti, familiari, altri operatori formali o volontari. La ricerca sulle applicazioni della simulazione condotta da singoli e da istituzioni negli ultimi 25 anni, ha favorito questa evoluzione ed oggi i sistemi di simulazione posso460
no essere così sofisticati da rendere altamente realistiche le simulazione “full-scale”, scenari clinici credibili da permettere quella “sospensione dell’incredulità” alla base dell’efficacia della metodica. Il percorso mentale che viene innescato nei partecipanti di una sessione di simulazione è un requisito fondamentale per determinare azioni e reazioni di risposta analoghe a quelle che si determinano nella realtà fisiologica. Seguendo i principi del team-training adottati dagli HROs, l’anestesiologia è stata innovatrice nell’applicare il paradigma del Crew (originariamente “Cockpit”) Resource Management (CRM) alle tecniche formative, adottate del resto sistematicamente in aviazione. I principi del CRM sono: 1. Conosci l’ambiente. 2. Prevedi, anticipa e pianifica. 3. Richiedi aiuto in tempi utili. 4. Comunica efficacemente. 5. Esercita con sicurezza la leadership e il ruolo di team member. 6. Utilizza tutte le informazioni e gli strumenti cognitivi (risorse) disponibili. 7. Assegna compiti e lavora in team. 8. Concentra la tua attenzione in modo saggio e rivaluta periodicamente (10 secondi per 10 minuti). 9. Utilizza tutte le informazioni disponibili. 10. Programma le priorità in modo dinamico. 11. Evita e gestisci gli errori di fissazione. 12. Ricontrolla e usa controlli incrociati e doppi (non dare nulla per scontato). 13. Utilizza una buona squadra: coordina e supportare gli altri. Interessante notare che la stessa aviazione, nonostante l’istituzionalizzazione del training su simulatore ripetuto nel tempo e l’applicazione della CRM, manchi di evidenza di Livello 1A per sostenere l’efficacia ai fini dell’outcome. Indiscutibile tuttavia che in questo settore la sicurezza sia enormemente aumentata anche per la capacità dell’equipaggio di affrontare situazioni di emergenza rare se non uniche: anche far riconoscere questo diritto formativo in fondo rientra nel concetto generale di “Situation Awareness”. Bibliografia 1. Buljac-Samardzic M, Dekker-van Doorn CM, van Wijngaarden JDH, van Wijk KP. Interventions to improve team effectiveness: A systematic review. Health Policy 2010;94:183-95 2. Byrne A. What is simulation for? Anaesthesia 2012;67:21325. 3. Gaba D.Crisis resource management and teamwork training in anaesthesia. British Journal of Anaesthesia 2010; 105 (1): 3–6 4. McIlvaine WB. Situational awareness in the operating room: a primer for the anesthesiologist. Seminars in Anesthesia, Perioperative Medicine and Pain 2007;26:167-72 5. Østergard D, Dirckmann P, Lippert A. Simulation and CRM. Best Practice and Clinical Anaesteshiology 2011; 25:239-49. 6. Wright MC, Taekman JM, Endsley MR. Objective measures of situation awareness in a simulated medical environment. Qual Saf Health Care 2004;13(Suppl 1):i65-i71.
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Stato Nutrizionale e Chirurgia. Gestione postoperatoria: l’Intensivista M. PEZZA1, P. CARIDEO2, C. MAZZELLA2
Nonostante la letteratura Internazionale indichi una prevalenza di malnutrizione maggiore del 50% fra i pazienti sottoposti a chirurgia gastrointestinale maggiore e una evidenza netta che la malnutrizione postoperatoria sia associata ad un aumento di morbilità e mortalità1,2 è ancora prassi comune gestire, dal punto di vista nutrizionale, il periodo postoperatorio in modo tradizionale (digiuno pre e postoperatorio). Nella moderna pratica chirurgica la maggior parte dei pazienti torna ad una alimentazione naturale sufficiente in 1-3 giorni; solo una minoranza dei pazienti necessita della Nutrizione Artificiale2,3. Il ricovero, poi, in Terapia Intensiva (TI) diventa necessario solo in presenza di: seria deiscenza della ferita, insufficienza respiratoria, ARDS, polmonite da aspirazione, insufficienza renale, shock settico e Multiple Organ Failure (MOF). Fra l’altro, sembra che, una volta ricoverati in TI, i pazienti chirurgici ricevano meno nutrizione artificiale dei pazienti medici; addirittura, i pazienti, dopo chirurgia cardiovascolare e gastrointestinale, sono ad alto rischio di malnutrizione iatrogena4. Come ha affermato il Prof. Luciano Gattinoni nel Corso “La Nutrizione Clinica incontra la Terapia Intensiva” svoltosi a Roma nel maggio 2011: La Terapia Intensiva è la cura di un insufficienza di energia. Il deficit energetico accumulato nel paziente durante i primi giorni di ricovero in Terapia Intensiva può giocare un ruolo fondamentale sui tempi di degenza e sulla prognosi del paziente5. La chirurgia, da un punto di vista metabolico, causa la cosiddetta reazione al trauma e/o allo stress caratterizzata dal rilascio degli ormoni dello stress e dei mediatori dell’infiammazione che determinano uno stato di insulino resistenza proporzionale al tipo di chirurgia effettuata; la resistenza all’insulina nel postoperatorio contribuisce al mantenimento di uno stato di iperglicemia ed è associata ad un netto catabolismo proteico6. Il catabolismo proteico è proporzionale al tipo di intervento: le perdite azotate sono maggiori negli interventi più demolitivi (R. Dionigi). Per minimizzare gli effetti dello stress chirurgico e favorire la ripresa è stato impostato un programma ERAS (Enhanced Recovery After Surgery) che prevede: medicaVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1U.O.C.
Anestesia e Rianimazione Centro di Nutrizione Artificiale Domiciliare, P.O. San Gennaro ASL Napoli 1 Centro 2U.O.C. Anestesia e Rianimazione, U.O.S. di Nutrizione Artificiale, A.O.R.N. Sant’Anna e San Sebastiano Caserta
zioni e preparazione preoperatoria, controllo attento del bilancio dei liquidi, anestesia e, successivamente, analgesia postoperatoria, nutrizione perioperatoria e mobilizzazione2. Anche una nutrizione ben condotta può, quindi, rappresentare un momento fondamentale per passare dalla fase catabolica alla fase anabolica. Secondo il protocollo ERAS7 dopo chirurgia colo-rettale i pazienti possono mangiare in modo normale 4 ore dopo l’intervento; alcuni Autori hanno dimostrato, dopo gastrectomia, che l’assunzione di cibo entro il primo giorno postoperatorio garantiva la stessa sicurezza della nutrizione attraverso una digiunostomia8; oramai, ci sono ben pochi dubbi sulla superiorità, laddove possibile, della nutrizione enterale sulla parenterale. La fisiopatologia gastrointestinale ci suggerisce quattro elementi che ci devono guidare nel trattamento. 1) La mucosa del piccolo intestino assorbe il 50% del suo nutrimento dal lume intestinale, mentre quella del grosso intestino l’80%; è evidente che l’assenza prolungata di nutrienti nel lume intestinale determina problemi di trofismo. 2) Il flusso ematico splancnico, in condizioni di digiuno, costituisce il 20-25% della gittata cardiaca; in seguito alla ingestione di un pasto il flusso aumenta del 200%, quindi, il 40-50% della gittata cardiaca9; è necessario, pertanto, valutare se il cuore ed il circolo del paziente che stiamo esaminando sono in grado di fronteggiare questa richiesta. 3) Ogni giorno 5-8 litri di succhi ricchi di enzimi ristagnano/transitano sulle suture. Il volume di Nutrizione Enterale non costituisce, pertanto, un danno, ma tampona gli enzimi e mantiene il trofismo dell’intestino e della microflora favorendo la tenuta delle suture10.
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PEZZA
STATO NUTRIZIONALE E CHIRURGIA. GESTIONE POSTOPERATORIA: L’INTENSIVISTA
4) È fondamentale evitare di escludere tratti gastrointestinali dal transito di nutrienti; in tal modo si può contrastare la crescita incontrollata di microflora e il deterioramento del trofismo della mucosa con alterazioni della permeabilità intestinale e l’instaurarsi di fenomeni traslocativi. La Nutrizione Enterale nel perioperatorio è indicata nei pazienti con severo rischio nutrizionale; in tal caso deve essere realizzata per 10-14 giorni prima dell’intervento di chirurgia maggiore che nel caso va ritardato. Esiste un severo rischio nutrizionale se è presente almeno uno di questi fattori11: – perdita di peso > 10-15% negli ultimi 6 mesi; – BMI < 18,5 kg/m2; – Subjective Global Assessment grado C; – albumina sierica < 30 g/l (con nessuna evidenza di disfunzione epatica o renale). Nel periodo perioperatorio le necessità energetiche sono di 25 kcal/kg (peso ideale) che possono arrivare a 30 kcal/kg in presenza di condizioni di severo stress (livello B). L’ideale, comunque, sarebbe l’utilizzazione in Terapia Intensiva della calorimetria indiretta, che come dimostrato da Singer e coll, consente una maggiore precisione di erogazione di calorie e di proteine ed un miglioramento della mortalità12. Le necessità giornaliere di proteine sono di 1,5 gr/kg (peso ideale) che, in genere, riescono a limitare le perdite azotate (livello B)2. Una volta stabilita la necessità di effettuare un intervento nutrizionale bisogna tenere presenti alcuni principi generali di Nutrizione Artificiale in Terapia Intensiva: 1) ripristinare l’equilibrio idro-elettrolitico; 2) raggiungere progressivamente la copertura dei fabbisogni calorico-proteici; 3) utilizzare preferibilmente la via di accesso più fisiologica13; 4) effettuare uno stretto controllo della glicemia. Riguardo al primo punto la Letteratura recente evidenzia l’importanza di uno stretto controllo del bilancio idroelettrolitico in quanto un eventuale sovraccarico di liquidi e/o di sali è associato ad una aumentata frequenza di complicazioni postoperatorie14. Le Linee Guida ESPEN sulla Nutrizione Enterale nel postoperatorio del paziente chirurgico evidenziano come controindicazioni: ostruzione intestinale, ileo, shock severo, ischemia intestinale11. Anche nei pazienti con traumi chiusi o penetranti dell’addome la nutrizione, quando possibile, dovrebbe essere effettuata per via enterale in quanto questa via di somministrazione determina una minore incidenza di complicazioni settiche rispetto alla parenterale15. Nello stesso tempo, le Linee Guida ESPEN indicano con buon livello di evidenza: – iniziare l’introito di cibo per os o la nutrizione enterale precocemente dopo chirurgia gastrointestinale (livello A); – nel caso di anastomosi dell’intestino prossimale la Nutrizione Enterale può essere effettuata attraverso una sonda piazzata distalmente all’anastomosi (livello B); 462
– l’introito di cibo per via orale, incluso i liquidi chiari, può essere iniziato entro poche ore dall’evento chirurgico nella maggior parte dei pazienti sottoposti a chirurgia colo rettale. L’utilizzazione del programma ERAS ha portato alcuni Chirurghi Olandesi al notevole risultato che il gruppo ERAS si nutriva in modo naturale, in media, 3 giorni prima del gruppo trattato in modo tradizionale; inoltre, due giorni dopo l’intervento il 65% del gruppo ERAS si nutriva per os, mentre nel gruppo tradizionale solo il 7%16. Queste esperienze, nei Paesi Bassi, hanno portato alla quasi eradicazione dell’utilizzazione del sondino naso-gastrico a scopo decompressivo nella chirurgia elettiva del colon17; in effetti, l’assenza del sondino naso gastrico promuove il ritorno alla alimentazione naturale. Ci sono evidenze da trials randomizzati18 e meta analisi19 che indicano che evitando l’uso routinario del sondino naso gastrico a scopo decompressivo nella chirurgia addominale si riduce significativamente l’incidenza di febbre, atelettasia e polmonite. La Nutrizione Enterale precoce (entro le 24 ore) è indicata nei pazienti che non possono essere nutriti per via orale sottoposti per tumore a chirurgia maggiore della testa, del collo, dello stomaco e dell’intestino (livello A); in questi pazienti, a maggior ragione è indicata la Nutrizione Enterale se si sono presentati malnutriti al momento dell’intervento (livello A). Sempre in questi pazienti si è notato un notevole beneficio con l’utilizzo delle cosiddette formule immunomodulanti (arricchite con arginina, acidi grassi omega-3 e nucleotidi); laddove possibile queste formule dovrebbero essere usate anche prima della chirurgia20 (livello A). In una recentissima review Marik e coll. hanno riportato i risultati dell’utilizzo di formule immunomodulanti in tutta la chirurgia addominale maggiore: hanno ottenuto una significativa riduzione sia delle infezioni acquisite che delle complicazioni della ferita addominale21. Le diete arricchite con arginina hanno determinato meno infezioni e una ridotta durata della degenza; questo effetto è maggiore se la dieta è stata utilizzata sia nel pre che nel postoperatorio22. Nei pazienti con severe lesioni cerebrali intolleranti alla nutrizione enterale per via nasogastrica per 48 ore si deve, senza indugio, iniziare la nutrizione postpilorica. Nei pazienti traumatizzati addominali sottoposti a laparotomia deve essere realizzato nel corso dell’intervento un accesso diretto al piccolo intestino in modo da partire subito con la nutrizione enterale non appena le condizioni cardiocircolatorie lo consentano15. Un aspetto particolare riguarda gli anziani sottoposti a chirurgia ortopedica, generalmente per frattura di femore: in questo caso, sia nei pazienti mediamente malnutriti che nei normonutriti, si sono dimostrati particolarmente utili i Supplementi Nutrizionali Orali (SNO) in quanto associati ad un più alto introito proteico e, quindi, ad una riduzione delle complicazioni postoperatorie23. La Nutrizione Parenterale preoperatoria per 7-10 giorni in pazienti con severa malnutrizione che non possono essere adeguatamente nutriti per via orale/enterale migliora l’outcome postoperatorio24; invece il suo uso in pazienti ben nutriti o con media malnutrizione è associato a nessun beneficio e ad un aumento di morbilità2.
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STATO NUTRIZIONALE E CHIRURGIA. GESTIONE POSTOPERATORIA: L’INTENSIVISTA
La Nutrizione Parenterale postoperatoria2 è indicata nei pazienti malnutriti nei quali la Nutrizione Enterale non è attuabile o non è tollerata (livello A); è indicata anche nei pazienti con complicazioni postoperatorie che alterano la funzione intestinale e che non sono in grado di ricevere ed assorbire un adeguato ammontare di nutrienti per via orale/enterale per almeno 7 giorni (livello A). La Nutrizione Parenterale deve essere presa in considerazione quando per altre vie non si riesce a dare al paziente almeno il 60% del suo fabbisogno (esempio: fistola enterocutanea ad alta portata) o quando lesioni gastrointestinali ostruttive benigne o maligne non consentono una rialimentazione enterale (livello C). La Nutrizione Parenterale è indicata ed è salvavita nelle insufficienze gastrointestinali (livello C). Il migliore risparmio azotato viene ottenuto quando tutti i nutrienti sono somministrati contemporaneamente nell’arco delle 24 ore (livello A). Nei pazienti non in grado di nutrirsi per via orale e sottoposti a Nutrizione Parenterale postoperatoria è necessario supplementare la sacca ogni giorno con vitamine ed oligoelementi (livello C). Non è necessario un periodo di svezzamento dalla Nutrizione Parenterale (livello A). È stata, anche, studiata la combinazione di nutrizione parenterale e nutrizione enterale precoce senza ravvisare particolari benefici nei soggetti non malnutriti25. Bibliografia 1. Schiesser M, Kirchhoff P, Muller MK et al. The correlation of nutrition risk index, nutrition risk score, and bioimpedance analysis with postoperative complications in patients undergoing gastrointestinal surgery. Surgery 2009;145:51926. 2. Braga M, Ljungqvist O, Soeters P et al. ESPEN guidelines on parenteral nutrition: surgery. Clin Nutr 2009;28:378-86. 3. Lewis SJ, Egger M, Sylvester PA et al. Early enteral feeding versus “nil by mouth” after gastrointestinal surgery: systematic review and meta-analysis of controlled trials. BMJ 2000; 323:773-6. 4. Drover JW, Cahill NE, Kutsogiannis J et al. Nutrition Therapy for the Critically Ill Surgical Patient: We Need To Do Better! JPEN 2010;34:644-52. 5. Singer P, Pichard C, Heidegger CP et al. Considering energy deficit in the intensive care unit. Curr Opin Clin Nutr Metab Care 2010;13:170-6. 6. Ljungqvist O, Dardai E, Allison SP. Basics in Clinical Nutrition: Perioperative nutrition. e-SPEN, the European e-Journal of Clinical Nutrition and Metabolism 2010;5:e93-e96. 7. Lassen K, Soop M, Nygren J et al. Consensus review of optimal perioperative care in colorectal surgery: Enhanced recovery After Surgery (ERAS) Group recommendations. Arch Surg 2009;144:961-9.
Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
PEZZA
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):465-8
Complessità tecnologica e sicurezza in anestesia Q. PIACEVOLI
Introduzione La Sanità moderna si serve delle più avanzate e complesse tecnologie esistenti. Inoltre la complessità di queste tecnologie è in continua espansione. Le misure di sicurezza nella Sanità, però, non sono state al passo di questa crescente complessità ed alcuni aspetti della pratica medica sono rimasti invariati per molti decenni. Anche se l’Anestesia è generalmente considerata leader nel miglioramento della sicurezza del paziente devono essere trovate e impiegate strategie di sicurezza più efficaci. Da un’analisi delle caratteristiche del sistema, l’industria nucleare si propone come un’analoga alternativa per la sicurezza in anestesia per cui è stato sviluppato un nuovo approccio sistematico per la concettualizzazione degli obiettivi di sicurezza. L’industria nucleare ha dedicato molto tempo e molto più denaro di quanto disponga l’assistenza sanitaria nello sviluppo della sicurezza. Per migliorare quest’ultima in anestesia è necessario rielaborare sistemi conosciuti e abbassare la soglia di “incident reporting” per includere fatti che precedano l’evento avverso in modo da identificare sistemi pericolosi prima che gli incidenti si verifichino. Sommario Definizione di complessità: • Modelli di complessità e applicazioni: – descrizione dell’attività di Perrow; – attività di routine; – descrizione di tecnologia di Perrow; – l’industria nucleare come modello. Viene definita come tecnologia il processo in base al quale un’organizzazione trasforma il lavoro, il capitale, i materiali, l’insieme delle competenze, delle conoscenze in prodotti e servizi di valore. La complessità è caratterizzata da due aspetti : il primo la profondità e il secondo è l’ampiezza. La prima caratterizza un sistema che può essere considerato complesso se il suo comportamento è inesplicabile o difficile da predire con le conoscenze in possesso. La Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Presidente Società Scientifica “Clinical Risk Management”, Capo Dipartimento di Emergenza e Accettazione, ACO San Filippo Neri, Roma
seconda è dimensione della complessità, se il numero delle parti comprensibili supera la capacità cognitiva di un individuo o sistema. Molti sistemi critici in sanità sono complessi in questo senso, in particolare quelli che includono i pazienti.L’anestesia è generalmente considerata leader per la promozione della sicurezza in medicina e negli ultimi anni ha cominciato ad adottare la “safety culture” dell’aviazione. La sicurezza in aviazione non è stata costituita sulla base dell’evidenza che certe pratiche riducano gli incidenti ma sulla diffusa implementazione di centinaia di piccoli cambiamenti nelle procedure, nelle attrezzature e nell’organizzazione che ha prodotto una cultura della sicurezza molto solida e procedure sorprendentemente efficaci. In anestesia abbiamo già le procedure ma raramente sono sviluppate, formalizzate o rese esplicite come in aviazione e ciò porta ad incidenti inevitabili. L’analogia tra l’anestesista come pilota del proprio paziente è chiara: sebbene tale analogia risulti calzante resta il fatto che un aereo è meno complesso di un paziente sottoposto ad anestesia e rapportare i canoni di sicurezza dell’anestesia e quelli dell’aviazione è più difficile. È necessaria quindi in anestesia e più in generale in medicina una comprensione migliore di come i sistemi clinici possano fallire e come migliorare la loro sicurezza senza introdurre nuovi rischi o pericoli. Un’analisi di molti sistemi tecnologici differenti dimostra che certe caratteristiche generali possono rendere i sistemi più sicuri o più pericolosi.Secondo il sociologo americano Charles Perrow la complessità tecnologica deriva in maniera diretta dalla complessità dell’attività che vi è associata. Le attività di routine sono attività semplici, attività non di routine sono grandi attività complesse. Questa differenza dipende da due fattori: • Variabilità: riguarda il numero delle possibili eccezioni che si possono incontrare nello svolgimento di un’atti-
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COMPLESSITÀ TECNOLOGICA E SICUREZZA IN ANESTESIA
vità. E’ elevata, quando nello svolgimento di un’attività è facile incorrere in eventi, problemi o condizioni particolari non attesi o non pianificati. E’ bassa, quando le attività da eseguire sono abbastanza ripetitive, altamente standardizzate e con poche eccezioni. • Analizzabilità: riguarda il ciclo di risoluzione di problemi che è necessario mettere in pratica per poter fronteggiare situazioni inattese nell’esecuzione di un’ attività. Le attività sono analizzabili, cioè affrontabili con processi di ricerca logici o studiati, o non sono analizzabili, affrontabili invece con l’intuizione, l’esperienza e l’identificazione di una soluzione ad hoc. L’attività di routine basata sulla tecnologia e sul training fa risparmiare tempo e diminuisce le complicanze. Per esempio l’impiego degli ultrasuoni nel posizionamento dei cateteri venosi centrali ha consentito più del 99% di successo, solo 18 insuccessi in 1978 tentativi e nessuna complicazione come il pneumotorace. L’impiego del video laringoscopio come tecnica primaria di intubazione ha riportato il 98% di successi su 1755 casi e il 94% di successi dopo il fallimento della laringoscopia diretta. Perrow propone un’analisi dei sistemi complessi secondo due dimensioni: • l’interactivness, l’interattività; • il coupling, il grado di integrazione tra le componenti del sistema. Le interazioni delle componenti di un sistema possono essere lineari o complesse.Le interazioni lineari avvengono in una sequenza attesa e conosciuta nel corso del ciclo produttivo o della manutenzione; sono ben visibili anche se non pianificate. Esempio di interazione lineare è la linea di assemblaggio di automobili. Anche in situazioni impreviste le interazioni lineari sono ben gestibili perché gli operatori hanno il controllo su tutte le componenti del processo che, nella maggior parte dei casi, è direttamente visibile e manipolabile. Le interazioni complesse sono tipiche di sequenze inattese, non pianificate né conosciute dagli operatori, che di solito non sono visibili oppure sono difficili da comprendere perché alcune componenti svolgono fasi di una funzione interagendo con altre componenti che a loro volta svolgono altre funzioni dando luogo, a un numero esponenziale di stati del sistema. Il problema principale delle interazioni complesse è la difficoltà di comprendere le dinamiche di evoluzione del processo. La comprensione di una interazione complessa nel migliore dei casi richiede tempo, nel peggiore è impossibile perché il processo evolve in maniera caotica. Il grado di integrazione tra le componenti può essere contenuto (loose coupling) o elevato (tight coupling). Se il grado di integrazione è elevato tra due parti di un sistema non c’è spazio per variazioni impreviste, quello che succede a una parte viene trasmesso anche all’altra; quando una componente fallisce mette in crisi il funzionamento del sistema. Una conseguenza di sistemi con alto grado di integrazione è la necessità di inserire nel progetto dei tamponi e delle ridondanze per evitare che il sistema si blocchi ogni volta che una componente fallisce. 466
Nel caso opposto, in sistemi con grado di integrazione contenuto, le componenti sono in grado di assorbire sbalzi, cadute e pressioni al cambiamento senza provocare una destabilizzazione dell’intero sistema; in questi sistemi c’è l’opportunità che le cose funzionino anche se c’è un problema, perché le ridondanze e le sostituzioni di componenti possono essere trovate, anche se non sono state progettate visto che il fallimento di una componente non determina la caduta del sistema. Per esempio una lettera passa attraverso un numero fisso di passaggi indipendenti prima di essere spedita e ci sono quindi molteplici possibilità per correggere gli eventuali errori nel processo prima che la lettera arrivi al destinatario. Comparato ad un ufficio postale, un impianto nucleare risulta di gran lunga più pericoloso perché non solo presenta un’interazione altamente complessa ma presenta anche una stretta associazione. Gli errori che si possono verificare nel compimento di un’operazione in un impianto nucleare possono rapidamente portare a conseguenze pericolose, inoltre, l’interazione complessa fa sì che tali sistemi risultino più difficili da controllare perché il sistema può scivolare da uno stato conosciuto ad uno sconosciuto, perciò diventa particolarmente difficile trovare le ragioni dell’eventuale errore. Il comportamento del paziente sottoposto ad anestesia per quanto riguarda complessità e stretta associazione è molto più simile ad un impianto nucleare che a un aereo.La fisiologia del paziente potrebbe associarsi strettamente a sistemi esterni come i ventilatori e ai sistemi di infusione di farmaci emodinamicamente attivi.L’anestesista ha il ruolo di controllore di un sistema imprevedibile e altamente complesso paragonabile a quello dell’impianto nucleare: il paziente. Il comportamento di un sistema complesso come il paziente sottoposto ad anestesia può essere compreso in relazione ad un approccio “state-space”. Il sistema rappresenta il paziente sottoposto ad anestesia e tutti i farmaci e i supporti associati all’anestesia. Il set di tutti i possibili stati del sistema è molto più grande del sottoinsieme degli stati conosciuti. I “desired states”, ad esempio, dove un paziente è anestetizzato senza complicazioni, è una parte compresa in un quadro di “states” conosciuti. Alcuni stati conosciuti possono condurre al disastro e soltanto questa relativamente piccola parte può essere specificamente protetta con l’uso di “devices” di sicurezza e procedure. Tuttavia anche una parte più ampia di “states system sconosciuti” può portare anch’essa al disastro, sebbene in questo caso l’individuazione dei meccanismi dannosi risulta più difficile e questo rappresenta un punto cieco, una lacuna nel sistema di sicurezza. Per esempio, il blocco imprevedibile perché raro e mai segnalato di un filtro del respiratore fa sì che lo stato del sistema si sposti nel punto C e da qui verso il punto D, provocando il disastro. Tornare da D ad A o B è difficile con gli attuali “devices” e procedure impiegati in anestesia. Il passaggio da C a D è la lacuna della sicurezza del sistema. Riportare il paziente al “desired state” da un punto qualsiasi dello stato di sistema sconosciuto richiede come minimo un tipo di ragionamento capillare, a partire dai principi generali poiché non esistono regole specifiche o algoritmi per misurarsi con gli stati sconosciuti. Il com-
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portamento a partire dai principi generali è chiamato “knowlegde based” o ragionamento deduttivo e rappresenta un modo valido per la risoluzione dei problemi se il tempo lo consentisse e ci fossero le possibilità di provare e di sbagliare. Tuttavia a causa dei tempi ristretti e dello stress emotivo di una situazione critica, ragionare partendo dai principi generali è praticamente arduo e difficilmente realizzabile. Nel caso dell’imprevisto blocco del filtro, il “reporting” sulle circostanze del “disastro” espande l’insieme dello stato conosciuto includendo il punto C, pertanto dovrebbe essere possibile servirsi di un più ampio numero di stati conosciuti per affrontare in futuro simili problemi, consentendo quindi il ritorno al “desired state” prima che il disastro si verifichi. Ciò dovrebbe essere possibile mediante l’uso di ragionamenti più immediati, basati su regole, senza servirsi di processi lenti e laboriosi che partono dai principi di base. L’incident reporting e la revisione di protocolli sulla gestione della crisi rappresentano un’importante strategia di sicurezza in anestesia in caso di eventi gravi. Impiegando un sistema avanzato rimodellato si permetterà la creazione di sistemi dove solo stati sconosciuti possono portare al disastro, in modo tale da rimuovere l’intersezione tra stati conosciuti e disastro e creando un più ampio margine di sicurezza per operare routinariamente. In conclusione la soglia degli incident reporting deve essere abbassata in modo da includere anche molti eventi precursori di incidenti; oggi nel campo del nucleare la soglia del “reporting” di precursori di incidenti significativi è definita come quell’incidente che ha una probabilità inferiore di 1 su 1 milione di causare danni al nucleo del reattore. L’insieme dei dati di eventi precursori può portare ad un continuo aumento dei sistemi e procedure di sicurezza, prima che si verifichi l’evento. L’industria nucleare statunitense ha effettuato numerosi cambiamenti al fine di migliorare sempre di più la sicurezza degli impianti nucleari impiegando tempo e denaro. La documentazione degli incidenti e delle cause è ampia nel campo del nucleare, mentre nel campo dell’anestesia è scarsa e focalizza l’attenzione sugli errori individuali piuttosto che sull’analisi del sistema. Le strategie di sicurezza sviluppate nell’industria nucleare sin dal 1940 possono essere riassunte in cinque fasi, ciascuna delle quali può essere applicata all’anestesia.Le fasi sono: • Elaborazione a priori di strumenti atti ad evitare l’insuccesso. • Valutazione dell’accaduto e sviluppo di procedure. • Addestramento mediante simulatore per migliorare le prestazioni dell’operatore. • Valutazione capillare e approfondita dell’intero sistema basata sull’analisi dei precedenti insuccessi. • Diminuzione della soglia riguardante l’ “incident reporting”. Sebbene l’ “incident reporting” sia più o meno usato in anestesia, il reporting resta principalmente una risposta ad un evento (fase 2). E’necessario migliorare la qualità e la quantità dell’ “incident reporting” ampliando l’informazione sull’evento avverso attraverso l’abbassamento della soglia per la segnalazione degli incidenti, includendo Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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anche i fatti che precedono l’evento. Pertanto è necessario migliorare la qualità e la quantità dell’“incident reporting” in modo tale da ampliare i sistemi conosciuti con un’analisi approfondita degli errori precedenti e includere nella segnalazione degli incidenti anche i fatti che precedono l’evento avverso. Tutto ciò contribuirà a costruire validi sistemi di sicurezza in anestesia in misura maggiore più che nuove procedure o training simulati, permettendo l’identificazione di sistemi pericolosi prima che si verifichino incidenti. Nella sua ricerca di sicurezza la disciplina dell’anestesia è arrivata alla fase 3. Tuttavia, sebbene l’anestesia sia considerata una delle branche più sicure della medicina, essa è progredita molto più lentamente rispetto all’industria nucleare, basti pensare che l’anestesia esiste da oltre 150 anni, mentre il nucleare è stato scoperto solo negli ultimi sessanta anni. La lentezza dei progressi sulla sicurezza in anestesia è sicuramente legata al fatto che in anestesia la concezione di fallimento è strettamente legata alla colpa individuale e al fatto che i fallimenti colpiscono un individuo alla volta, mentre la risonanza di un disastro nucleare è di gran lunga maggiore. Inoltre i manager delle aziende sanitarie generalmente vedono l’efficienza in relazione al risparmio dei costi, senza preoccuparsi del lunghissimo termine. Se l’anestesia e la medicina vogliono superare le cinque fasi sarà necessario effettuare investimenti sulla sicurezza, occupandosi principalmente della prevenzione degli effetti dannosi, piuttosto che del risparmio sui costi. Conclusioni • La complessità ha due dimensioni. • L’aviazione non è più un modello valido per l’anestesia. • La tecnologia aumenta la sicurezza del paziente mediante. • Aumenta la routine. • Diminuisce il rapporto tra complessità/associazione. • Diminuisce il rapporto tra spazio conosciuto/spazio sconosciuto. L’industria nucleare è un migliore modello di sicurezza per l’anestesia. Bibliografia Aziz, MF et al. Routine clinical practice effectiveness of the Glidescope in difficult airway management: An analysis of 2,004 Glidescope intubations, complications, and failures from two institutions. Anesthesiology 2011;114: 34. Brown, EN, R. Lydic, ND. Schiff. General Anesthesia, Sleep, and Coma. N Engl J Med 2010;363:2638-50. Cavanna, L et al. Ultrasound-guided central venous catheterization in cancer patients improves the success rate of cannulation and reduces mechanical complications: A prospective observational study of 1, 978 consecutive catheterizations. World Journal of Surgical Oncology 2010;8:91. Gaba, DM et al. Differences in safety climate between hospital personnel and naval aviators. Human Factors: The Journal of the Human Factors and Ergonomics Society 2003;45.2: 173. Gawande A. Checklist Manifesto. Profile Books, 2010. Haynes AB et al. A surgical safety checklist to reduce morbidity and mortality in a global population. New England Journal of Medicine 2009;360:491-9.
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Terlipressin (triglycil-lysine vasopressin), a long-acting synthetic analogue of vasopressin, is a prodrug converted to lysine vasopressin in the circulation after the N-triglycyl residue is cleaved by endothelial peptidases. This results in a “slow release” of the vasoactive lysine vasopressin.1.ì Terlipressin is characterized by greater selectivity for the V1 receptor than vasopressin.2 The vasopressor (V1 receptor-mediated) to antidiuretic (V2 receptormediated) ratios of vasopressin and terlipressin are 1 and 2.2, respectively.3 The elimination half-life of terlipressin is longer than that of vasopressin (50 vs. 6 min).4 As a prodrug, terlipressin is cleaved by endopeptidases, resulting in retarded release of the active metabolite lysine vasopressin (LVP). Data on terlipressin plasma concentrations after bolus injection of the drug are limited, and unfortunately no data on plasma levels after continuous terlipressin infusion are currently available. Following bolus injection of 10 µg/kg terlipressin in 14 healthy volunteers (equivalent to 0.7 mg in a 70-kg subject), Nilsson et al.4. reported a peak plasma level of approx. 52,000 pg/ml within 5 min and a decline to approx. 2,750 pg/ml within 1 hour after administration. Notably, the very high terlipressin peak plasma levels measured at this time point may have occurred because levels were determined during the distribution half-life of the drug. With respect to the different preparations (prodrug vs. active agent) the pharmacokinetics of terlipressin and vasopressin are difficult to compare. Following enzyme kinetics the organism degrades Terlipressin into diglycyl-, monoglycyl-lysine vasopressin, and LVP. In the same study Nilsson et al. determined LVP plasma levels after bolus injection of 5 µg/kg terlipressin (equivalent to 0.35 mg in a 70-kg subject). Peak LVP plasma concentrations were detected 60 min after Terlipressin bolus and averaged 106 pg/ml, thus plasma concentrations of the main bioactive component LVP after 5 µg/kg Terlipressin bolus injection (i.e., 106 pg/ml) are comparable to plasma levels reached by continuous infusion of 1.8-2.4U/h vasopressin (i.e., 100–300 pg/ml). Forsling et al.5 reported that LVP plasma levels in healthy humans increased 40-60 min after intravenous bolus administration of 7.5 µg/kg terlipressin and reached its Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Salerno
peak after 60-120 min. Whereas the onset of antidiuretic effects after terlipressin infusion were observed approximately after 120 min, the onset of vasopressor effects was detected after only 3 min. These observations indicate that the renal V2 receptor-mediated effects after terlipressin injection are dependent on the release of LVP, while terlipressin exerts intrinsic effects on V1 receptors. The fact that the effective half-life of terlipressin is markedly longer than that of vasopressin (4-6 h vs. 6-20 min) provides a theoretical rationale for administering terlipressin as intermittent bolus infusion of 0.5-–1 mg (–2) in patients with septic shock.6 The first clinical trial of the efficacy of terlipressin in septic shock was performed in a small case series of eight patients.7 Terlipressin was administered as a single bolus of 1 mg (the dosage used in gastroenterological practice) in patients with septic shock refractory to catecholamine–hydrocortisone–methylene blue. A significant improvement in blood pressure was obtained in these patients during the first 5 hours; partial or total weaning from catecholamines was possible but cardiac output decreased. Terlipressin was also used in children 8 in a short case series of four patients with catecholamine-resistant shock. MAP increased, allowing reduction or withdrawal of noradrenaline but nevertheless two children died. A peculiar case of shock is vasogenic shock of brain death. During brain death the pituitary gland is damaged, and its hormone secretion (vasopressin) rapidly ceases. However, the vasopressin serum levels could always be detected in these patients and the values were similar to those of normal individuals. Sugimoto et al.9 tried to clarify this finding in a study conducted on 28 brain-dead patients. They assessed the morphological and functional alterations of the hypothalamus and posterior pituitary in 12 of these patients. Microscopic alterations in the hypothala-
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TERLIPRESSIN IN VASOGENIC SHOCK
mus could only be assessed in four cases due to extensive cerebral necrosis and lack of adequate material for microscopy. An analysis of this material revealed that the nerve tissue was totally necrotic, with edematous cells, loose of the nucleus and not a single positive vasopressin granule was present. The Authors, therefore, reached the conclusion that vasopressin synthesis was totally affected by brain-dead. Nevertheless, a microscopic analysis of the posterior pituitary lobe revealed hardly an alteration. Positive vasopressin granules were observed in the posterior lobe and in the infundibolar stem of all the specimens, which in some cases continued for up to 20 days after brain dead, and this could explain the fact that serum vasopressin remained detectable in these patients. Previous studies have demonstrated that low-dose vasopressin increases systemic blood pressure and decreases the need for catecholamines in brain dead organ donors. Chen et al have studied vasopressin deficiency and pressor hypersensitivity in hemodynamically unstable organ donors. In this study fifty organ donors were evaluated for hemodynamic instability (mean arterial pressure [MAP] < 70 mmHg despite the use of catecholamine vasopressors), and in those unstable donors who were not already receiving exogenous vasopressin, low-dose vasopressin was administered as a continuous infusion (0,04 to 0,1 U/min). MAP, catecholamine requirements, serum vasopressin were obtained before and after vasopressin administration. Ten patients received vasopressin and MAP increased from 72,2±3,5 to 89,8±4,2 mmHg, allowing for complete discontinuation of catecholamine in 4 patients and a decrement in vasopressor dose in 4. So they concluded that in these patients low-dose vasopressin significantly increases blood pressure with a vasopressor response sufficient to reduce catecholamine administration.10 These results were confirmed by Katz et al in critically ill children during evaluation of brain death. In this study vasopressin treated patients were 7,3 times more likely to wean from alpha agonists than comparably managed age matched controls, without adverse affect on transplant organ function.11 Metabolic management of brain-dead patients includes correction of the hormonal perturbations that occur after brain death and that impair circulatory function. In a retrospective analysis of 4,543 recipients of hearts recovered from brain-dead donors, Rosendale JD et al examined the quality of hearts recovered from donors treated with hormonal resuscitation (3HR). Hormonal resuscitation consisted of a methylprednisolone bolus and infusions of vasopressin and either triiodothyronine or L-thriroxine. Hearts from 3HR donors demonstrated a 1-month survival rate of 96,2% compared with a 92,1% survival rate
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for non-3HR donor hearts. Early graft dysfunction occurred in 5.6% of 3HR donor hearts and 11,6% of non-3HR donor hearts. They concluded that 3HR treatment of brain-dead donors results in increased numbers of transplanted hearts, with improved short-term graft function.12 However, Vasopressin is not available in many countries including Italy, where instead terlipressin is licensed to treat esophageal varices. Data regarding the efficacy of terlipressin in brain death patients are few and even the therapeutic range cannot yet be suggested, even if the rational for its use is promising. References 1. Rodríguez-Pérez F, Groszmann RJ. Pharmacologic treatment of portal hypertension. Gastroenterol. Clin. North Am. 1992;21:15-40. 2. Pesaturo AB, Jennings HR, Voils SA. Terlipressin: vasopressin analog and novel drug for septic shock. Ann Pharmacother. 2006;40:2170-7. 3. Bernadich C, Bandi JC, Melin P, Bosch J. Effects of F-180, a new selective vasoconstrictor peptide, compared with terlipressin and vasopressin on systemic and splanchnic hemodynamics in a rat model of portal hypertension. Hepatology. 1998;27:351-6. 4. Nilsson G, Lindblom P, Ohlin M, Berling R, Vernersson E. Pharmacokinetics of terlipressin after single i.v. doses to healthy volunteers. Drugs Exp Clin Res. 1990;16:307-14. 5. Forsling ML, Aziz LA, Miller M, Davies R, Donovan B. Conversion of triglycylvasopressin to lysine-vasopressin in man. J. Endocrinol. 1980;85:237-44. 6. Leone M, Albanèse J, Delmas A et al. Terlipressin in catecholamine-resistant septic shock patients. Shock. 2004;22: 314-9. 7. O’Brien A, Clapp L, Singer M. Terlipressin for norepinephrine-resistant septic shock. Lancet. 2002;359:1209-10. 8. Rodríguez-Núñez A, Fernández-Sanmartín M, MartinónTorres F, González-Alonso N, Martinón-Sánchez JM. Terlipressin for catecholamine-resistant septic shock in children. Intensive Care Med. 2004;30:477-80. 9. Sugimoto T, Sakano T, Kinoshita Y, Masui M, Yoshioka T. Morphological and functional alterations of the hypothalamic-pituitary system in brain death with long-term bodily living. Acta Neurochir (Wien). 1992;115:31-36. 10. Chen JM, Cullinane S, Spanier TB et al. Vasopressin deficiency and pressor hypersensitivity in hemodynamically unstable organ donors. Circulation. 1999;100(19 Suppl): II244-6. 11. Katz K, Lawler J, Wax J, O’Connor R, Nadkarni V. Vasopressin pressor effects in critically ill children during evaluation for brain death and organ recovery. Resuscitation. 2000;47:33-40. 12. Rosendale JD, Kauffman HM, McBride MA, et al. Hormonal resuscitation yields more transplanted hearts, with improved early function. Transplantation. 2003;75:1336-41.
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Inotropi si, inotropi no: alla fine tutti li usiamo? E. POLATI, V. SCHWEIGER, M. SANDRI, S. ZAMPIERI, A. LIBERTO, L. GOTTIN
L’instabilità emodinamica del paziente critico si associa a riduzione della perfusione periferica e conseguente danno d’organo. La normalizzazione della perfusione tissutale e del metabolismo cellulare prevede il ripristino della volemia1 e, nel caso in cui questo non fosse efficace, la somministrazione di farmaci vasoattivi, vasopressori e inotropi. I farmaci vasoattivi presentano un’attività sia inotropa che vasopressoria, ma in funzione del loro meccanismo d’azione il loro effetto sul sistema cardiocircolatorio è differente. L’attivazione dei recettori α-adrenergici determina vasocostrizione, quella dei β1-adrenergici aumenta la contrattilità miocardica e infine la stimolazione dei recettori β2-adrenergici determina vasodilatazione in alcuni distretti come ad esempio nel muscolo scheletrico. I farmaci vasopressori (norepinefrina, dopamina, epinefrina, fenilefrina e vasopressina) sono utilizzati per ripristinare la pressione arteriosa e la perfusione d’organo e sono usati soprattutto in caso di insufficienza circolatoria come nello shock settico. Possono tuttavia essere necessari anche nello shock cardiogeno in cui l’ipotensione può determinare riduzione del flusso coronarico favorendo l’ischemia miocardica. La norepinefrina è un potente agonista α-adrenergico con una minima attività β1-adrenergica che porta ad un lieve aumento (10-15%) della gittata cardiaca e della frazione di eiezione2. La dopamina ha un controverso meccanismo dose-dipendente3. A dosi inferiori a 2 mcg/kg/min agisce sui recettori periferici causando vasodilatazione a livello renale, splancnico, coronarico e cerebrale; a dosi intermedie (2-5 mcg/kg/min) stimola i recettori β1-adrenergici cardiaci ed induce il rilascio di norepinefrina da parte dei neuroni simpatici a livello vasale; infine a dosi elevate (5-15 mcg/kg/min) stimola anche i recettori β1-adrenergici aumentando la pressione sanguigna ed inducendo vasocostrizione4. La dopamina è indicata nei pazienti con una compromissione della funzione e della riserva cardiaca che non rispondono alla terapia volemica. L’epinefrina è un potente α e β1-adrenergico che aumenta la pressione arteriosa incrementando l’indice cardiaco e il tono vascolare periferico, ed è indicata nei pazienti non responsivi ad altri farmaci vasoattivi. L’epinefrina aumenta il rilascio di ossigeno a livello tissutale, ma ne aumenta anche il consumo miocarVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Chirurgia, Sezione di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica, Università degli Studi di Verona
dico5. Tra i farmaci vasopressori vi sono infine la fenilefrina, che non ha un’azione inotropa essendo un farmaco αagonista selettivo, e la vasopressina, che permette il mantenimento della pressione arteriosa aumentando il riassorbimento renale di acqua e sodio con aumento della volemia e favorendo la vasocostrizione grazie all’inibizione della produzione di ossido nitrico6. I farmaci inotropi (dobutamina, inibitori delle fosfodiesterasi e levosimendan) sono utilizzati per migliorare la contrattilità miocardica ed incrementare la gittata cardiaca. Sono indicati soprattutto nello shock cardiogeno ma anche nella fase di scompenso dello shock settico, in cui si ha una compromissione della funzione cardiaca. La dobutamina è formata da due isomeri, un D-isomero con effetto β1 e β2-adrenergico e un L-isomero con effetto β1 e α1-adrenergico. Secondo le linee guida ACC/AHA per il management dell’infarto miocardico7, la dobutamina, grazie alla sua azione inotropa positiva e alla sua lieve azione vasopressoria, è il farmaco di prima scelta da utilizzare quando la pressione arteriosa sistolica (PAS) è compresa tra 70 e 100 mmHg. Gli inibitori delle fosfodisterasi, enoximone e milnirone, a livello cardiaco bloccano la degradazione dell’AMP ciclico incrementandone la concentrazione intracellulare. Questo attiva la protein-chinasi A che fosforila i canali per il calcio aumentandone la disponibilità per la contrazione cardiaca. Questi farmaci hanno dunque un effetto inotropo positivo indipendente dall’attivazione dei recettori β-adrenergici, ma non esistono in letteratura dati che ne supportino la superiorità in termini di sicurezza e di efficacia rispetto alle catecolamine 8 . Gli inibitori delle fosfodiesterasi possono inoltre causare ipotensione poiché a livello vasale bloccano la degradazione del GMP ciclico aumentandone la concentrazione intracellulare con blocco dell’ingresso di calcio nelle cellule e conseguente vasodilatazione9.
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PAOLETTI
INOTROPI SI, INOTROPI NO: ALLA FINE TUTTI LI USIAMO?
Il levosimendan aumenta la responsività dei miocardiociti al calcio con un effetto inotropo ed apre canali ATPdipendenti per il potassio inducendo vasodilatazione10. A differenza degli altri farmaci vasoattivi, il levosimendan non incrementa il consumo di ossigeno miocardico ed è per questo indicato negli stati di shock in cui si abbia una compromissione cardiaca. È stato inoltre dimostrato che il levosimendan aumenta la frazione di filtrazione glomerulare11, la cui riduzione è uno dei maggiori problemi nei pazienti con scompenso cardiaco. Questo farmaco può tuttavia causare ipotensione, soprattutto se somministrato in bolo, anche se studi recenti hanno dimostrato che il rischio di ipotensione con levosimendan non è maggiore rispetto a quello che si ha con dobutamina12. I farmaci da somministrare in un paziente emodinamicamente instabile vengono scelti dal clinico a seconda della presenza di una disfunzione di pompa (FE LMA > maschera facciale); – il grado di esperienza dell’anestesista in campo pediatrico può costituire un fattore di rischio. La letteratura individua alcuni fattori di rischio per complicanze respiratorie particolarmente specifici per i bambini. Di questi, non tutti questi sono sempre facilmente riscontrabili se l’anamnesi e l’esame obiettivo non sono più che accurati. Infezioni delle vie aeree superiori Numerosi studi hanno dimostrato come i bambini affetti da infezioni respiratorie in atto o recenti siano soggetti a un rischio aumentato di complicanze respiratorie perioperatorie, quali gravi desaturazioni, laringospasmo, broncospasmo, croup, atelettasie e polmoniti. Questo è vero soprattutto nei lattanti e nell’età prescolare 8 . Recentemente è stato dimostrato che il rischio di eventi avversi respiratori perioperatori sia nettamente aumentato soprattutto nei primi quindici giorni dall’attacco acuto8. Per questo motivo, molte linee guida consigliano di rinviare l’intervento di due-tre settimane. Nel decidere se postporre una chirurgia elettiva, si devono tenere in considerazione altri elementi, quali ad esempio il numero di precedenti episodi di condizioni analoghe, la loro frequenza e la presenza di patologie associate. Ogni caso va valutato singolarmente con buon senso, ma qualora si non fosse possibile posticipare l’intervento, occorre informare accuratamente i genitori, raccogliere l’apposito consenso scritto e riservare un posto in terapia intensiva in caso di necessità. Allergie L’allergia è un importante e comune fattore scatenante numerose complicanze respiratorie e non solo; per questo motivo è essenziale valutare sempre nella fase preoperatoria le eventuali precedenti reazioni a farmaci, alimenti, fattori ambientali e lattice5. La gestione anestesiologica prevede il proseguimento della terapia domiciliare sino al giorno dell’intervento, eventualmente aggiungendo una premedicazione a base di steroidi endovenosi e antistaminici (l’uso di questi ultimi è controverso). Ricordarsi sempre che l’allergia al lattice è comune nei bambini plurioperati e nei gravi prematuri.
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COMPLICANZE RESPIRATORIE IN ANESTESIA PEDIATRICA
Tabella IV. - Differenze nei parametri respiratori. Parametro
FR (c/min) CFR (ml) VA (ml/min) VD (ml) Resist. Resp (cmH2O/sec)
Neonato Lattante Bambino Adulto
30 75 380 7 30
24 16-20 260 600 -1700 1250 1800 20 50 13 5-8
12-15 3000 3000 150 3-5
Modificata da Salvo et al. Memo Book di anestesia pediatrica. Ed System 1988.
Tabella V. - complicanze respiratorie perioperatorie. Complicanze resapiratorie
Desaturazione > mioglobina; – urine scure da mioglobinuria; – aritmie cardiache severe (tachicardia e fibrillazione ventricolare); – coagulazione intravasale disseminata. Bisogna quindi considerare che pochi sono i segni specifici ( rigidità muscolare , >> ETCO2 ) e che bisogna sempre considerare una ceck-list delle diagnosi differenziali in tempo reale: piano insufficiente di anestesia e/o analgesia,presenza di infezione o setticemia, insufficiente ventilazione da malfunzionamenti del circuito chiuso o dell’apparecchio di anestesia , reazioni anafilattiche, feocromocitoma, tempesta tiroidea, ischemia cerebrale, disordini neuromuscolari, elevazione della CO2 in corso di chirurgia laparoscopica, utilizzo contemporaneo di ecstasy o altre droghe con effetti neuro comportamentali , sindrome maligna da neurolettici. Un recente caso clinico educazionale pone le seguenti condizioni nella diagnosi differenziale della brusca elevazione della CO2 di fine espirazione , distinguendo tra cause esterne ed interne: tra le cause esterne la terapia con alcool delle malformazioni artero-venose, tossicità da droghe, >> temperatura ambientale, l’ipertermia da esercizio estremo, l’heat stroke, i problemi di ventilazione,le malfunzioni dell’attrezzatura, il trattamento dell’acidosi metabolica con bicarbonato,il rilascio di tourniquet, la sindrome maligna da neurolettici, l’insufflazione di CO2 in corso di laparoscopia; tra le cause interne legate a malattie del paziente vanno considerate la cistinosi, la paralisi periodica ipopotassiemica, l’accumulo di sangue libero intracerebrale, la
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SAVOIA
DALLA DIAGNOSI AL TRATTAMENTO DELLA IPERTERMIA MALIGNA
distrofia muscolare, la central core disease, la miotonia, il coma diabetico, l’ipertiroidismo, il feocromocitoma, l’osteogenesi imperfetta, la rabdomiolisi, la sepsi, la ipercpkemia ed, infine, la ipertermia maligna. Altri aspetti da considerare approfonditamente sono il tempo di comparsa della sintomatologia a breve o lunga distanza dall’esposizione agli anestetici alogenati; la gravità del corteo sintomatologico con graduazione da forme fruste a forme rapidamente mortali, tanto che si parla attualmente di recrudescenza dell’ipertermia maligna nel nuovo secolo; la possibilità di forme tardive nel postoperatorio nelle prime 24-48 ore, che preclude nei soggetti a rischio l’utilizzazione del regime di ricovero in day-surgery. Una volta fatta la diagnosi occorre tempestivamente mettere in atto il protocollo terapeutico , come da linee guida internazionali. Immediatamente occorre: - stoppare gli agenti triggeranti , continuando se necessario l’anestesia con agenti endovenosi; - iperventilare con ossigeno 100% ad alti flussi, cambiando apparecchio di anestesia se possibile e/o disconnettendo il vaporizzatore; - dichiarare lo stato di emergenza , chiamando aiuto e chiedendo al chirurgo di mettere fine, se possibile, all’intervento chirurgico, onde affrettare i tempi di un rapido risveglio; - somministrare dantrolene alla dose iniziale di 2 mg/kg, diluendo ciascuna ampolla di 20 mg con 60 ml di acqua sterile; - procurare per ciascun evento non meno di 36-50 ampolle; - continuare la somministrazione di dantrolene fino alla stabilizzazione cardiocircolatoria, eventualmente superando la dose massima prevista di 10 mg / kg; - implementare il monitoraggio di base, misurando in continuo la temperatura centrale, incannulare una grossa vena anche centrale, incannulare arteria; - prelievi seriati per emogasanalisi, elettroliti, CPK, mioglobina e glucosio; - check x funzione epato-renale e per segni di sindrome compartimentale;
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- monitorare il paziente in terapia intensiva per 24-48 ore; - trattare sintomaticamente l’ipertermia con 2-3 litri di salina a 4° e raffreddamento artificiale a 2 ml/kg pc /ora con cristalloidi e, se necessario, con furosemide e mannitolo; - contattare il centro di riferimento per ipertermia maligna più vicino. La somministrazione di dantrolene non è esente da rischi , come dimostrato da un recente report4, che cita in un data base di 368 pazienti una incidenza di debolezza muscolare pari al 21,7%, flebite del 9%, segni gastrointestinali pari al 4,1%, depressione respiratoria nel 3,8%; maggior è la dose di dantrolene impiegata , più alta risulta la % di complicanze; ma, evidentemente, è un prezzo da pagare perché la mortalità da ipertermia maligna dipende strettamente dall’impiego tempestivo o meno del dantrolene, indipendentemente dalle altre misure terapeutiche adottate. Anche se la mortalità a sindrome conclamata è scesa dall’80% al 5% negli ultimi 20 anni, l’ipertermia maligna continua ad essere l’unica sindrome potenzialmente letale legata esclusivamente agli agenti anestetici. Bibliografia 1. Malignant Hypertermia H. Rosemberg et al. Orphanet journal of rare deseases 2007;2:21-35. 2: Recognizing and managing a malignant hyperthermia crisis : guidelines from European Malignant Hyperthermia Group . K.P.E. Glahn et al. British journal of anaesthesia 2010;105: 417-20. 3. Case scenario :increased end tidal carbon dioxide D. J. Tautze et al. Anestesiology 2010;112:440-6. 4: Complications associated with the administration of dantrolene 1987 to 2006. B. W. Brandom et al. Aneth analg 2011; 112:1115-23.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):531-9
Rationale and Study Design of PROVHILO: a Worldwide Multicenter Randomized Controlled Trial on Protective Ventilation During General Anesthesia for Abdominal Surgery S.N.T. HEMMES1, P. SEVERGNINI2, S. JABER3, J. CANET4, H. WRIGGE5, M. HIESMAYR6, E. TSCHERNKO6, M.W. HOLLMANN1, J.M. BINNEKADE1, G. HEDENSTIERNA7, C. PUTENSEN9, M. GAMA DE ABREU8, P. PELOSI2, M.J. SCHULTZ1
Abstract
1Department
Background Post-operative pulmonary complications add to the morbidity and mortality of surgical patients, in particular after general anesthesia >2 hours for abdominal surgery. Whether an open lung mechanical ventilation strategy with higher levels of positive end-expiratory pressure (PEEP) and repeated recruitment maneuvers protects against post-operative pulmonary complications is uncertain. The present study aims at comparing an open lung mechanical ventilation strategy with a conventional mechanical ventilation strategy during general anesthesia for abdominal non-laparoscopic surgery. Methods and design The PROtective Ventilation using HIgh versus LOw positive end-expiratory pressure (“PROVHILO”) trial is a worldwide investigator-initiated multicenter randomized controlled two-arm study. Nine hundred patients scheduled for non-laparoscopic abdominal surgery at high or intermediate risk for post-operative pulmonary complications are randomized to mechanical ventilation with the level of PEEP at maximum 12 cmH2O with recruitment maneuvers (the lung-protective strategy) or mechanical ventilation with the level of PEEP at maximum 2 cmH2O without recruitment maneuvers (the conventional strategy). The primary endpoint is any post-operative pulmonary complication.
Key words Mechanical ventilation; lung injury; PEEP; recruitment maneuvers; non-laparoscopic abdominal surgery; general anesthesia Background
Discussion The PROVHILO trial is the first randomized controlled trial powered to investigate whether an open lung mechanical ventilation strategy in short-term mechanical ventilation prevents against postoperative pulmonary complications. Trial registration Current Controlled Trials: trial ID ISRCTN70332574; ClinicalTrials.gov: trial ID NCT01441791. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
of Intensive Care Medicine & Laboratory of Experimental Intensive Care and Anesthesiology, University of Insubria, Varese, Italy 2Department of Environment, Health and Safety Saint Eloi University Hospital, Montpellier, France 3Department of Critical Care Medicine and Anesthesiology (SAR B) Hospital Universitari Germans Trias I Pujol, Barcelona, Spain 4Department of Anesthesiology, University of Leipzig, Germany 5Department of Anesthesiology and Intensive Care Medicine Medical University, Vienna, Austria 6Division Cardiac-, Thoracic-, Vascular Anesthesia and Intensive Care, University Hospital, Uppsala, Sweden 7Department of Medical Sciences, Section of Clinical Physiology University Hospital Carl Gustav Carus, Dresden, Germany 8Department of Anesthesiology and Intensive Care Medicine, University of Bonn, Bonn, Germany 9Department of Anesthesiology
Mechanical ventilation is a life-saving strategy in patients with respiratory failure. There is unequivocal evidence that mechanical ventilation in critically ill patients has the potential to aggravate or even initiate lung injury-1, 2 Patients with acute lung injury (ALI) could benefit from measures that prevent repeated collapse and re-expansion of alveoli, including the so-called open lung mechanical ventilation strategy with the use of higher levels of positive end-expiratory pressure (PEEP) and recruitment maneuvers3. Meta-analysis suggest this approach to pre-
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vent need for rescue therapies for life-threatening hypoxemia1, and even to prevent death of patients with more severe ALI4. Mechanical ventilation is frequently mandatory in patients who undergo surgery. The effects of short-term intra-operative mechanical ventilation on pulmonary integrity are less well defined5. In addition, it is uncertain whether ventilation strategies that use higher levels of PEEP and recruitment maneuvers during the intra-operative period are beneficial in these patients6, 7. However, higher levels of PEEP could prevent intra-operative atelectasis, preventing repetitive collapse and re-expansion of dependent lung parts, and thereby attenuating pulmonary inflammation and coagulation8, 9. Use of recruitment maneuvers to open the lungs has been found to improve the effectiveness of PEEP with regard to gas exchange during general anesthesia10. Intra-operative use of PEEP is not routinely used. Indeed, an observational study conducted in 28 centers in France revealed that most patients undergoing general surgery were ventilated without PEEP11. Thus, the intra-operative use of PEEP cannot be seen as clinical standard. Post-operative pulmonary complications, in particular after general anesthesia > 2 hours for abdominal surgery, add to the morbidity and mortality of surgical patients12, 13. We hypothesize that a lung-protective mechanical ventilation strategy with higher levels of PEEP and repeated recruitment maneuvers attenuates post-operative pulmonary complications. PROVHILO aims at comparing this protective strategy with a conventional mechanical ventilation strategy during abdominal non-laparoscopic surgery, to determine the effect on post-operative pulmonary complications, extra-pulmonary complications and length of hospital stay. In addition, the effect of lung-protective mechanical ventilation will be monitored by highly specific biomarkers of lung injury. Methods Objectives and design The PROtective Ventilation using HIgh versus LOw positive end-expiratory pressure (“PROVHILO”) trial is a worldwide investigator-initiated multicenter randomized controlled two-arm trial. The Institutional Review Board of the Academic Medical Center, University of Amsterdam, Amsterdam, The Netherlands, approved the trial. The PROVHILO trial is conducted in accordance with the declaration of Helsinki. The PROVHILO trial is registered on September 16 2010 at www.trialregister.nl with trial identification number NTR2517. CONSORT diagram Figure 1 shows the CONSORT diagram of the PROVHILO trial. Study population Local investigators screen consecutive patients scheduled for non-laparoscopic abdominal surgery in participating centers worldwide. Demographic data on screened 532
patients regardless of meeting enrollment criteria are recorded. A total of 900 patients are randomized to the 2 different mechanical ventilation strategies. Patients with high or intermediate risk for post-operative pulmonary complications following non-laparoscopic abdominal surgery with general anesthesia are eligible for participation. To identify such patients the ARISCAT risk score (see appendix i) will be used14. This predictive risk index is developed by the ARISCAT Group to assess the individual pre-operative risk for post-operative pulmonary complications. An ARISCAT risk score ≥ 26 is associated with an intermediate to high risk for post-operative pulmonary complications. Patients planned for laparoscopic surgery are excluded from participation, as are non-adult patients (age 40 kg/m2, pregnant patients (excluded by laboratory analysis), and patients who consent for another interventional study. In addition, patients who were on mechanical ventilation > 30 minutes (e.g., because of general anesthesia for surgery) within last 30 days, are excluded. Other important exclusion criteria include: any previous lung surgery, history of previous severe chronic obstructive pulmonary disease (COPD) with (non-invasive) ventilation and/or oxygen therapy at home and/or repeated systemic corticosteroid therapy for acute exacerbations of COPD, ALI or acute respiratory distress syndrome expected to require prolonged post-operative mechanical ventilation, persistent hemodynamic instability or intractable shock (considered hemodynamic unsuitable for the study by the patient’s managing physician), severe cardiac disease (New York Heart Association class III or IV, or acute coronary syndrome, or persistent ventricular tachyarrhythmia’s), and recent immunosuppressive medication (receiving chemotherapy or radiation therapy within last 2 months). All patients are asked for signed informed consent, as required by the institutional review board in accordance with the Declaration of Helsinki. Randomization and intervention Randomization is performed using a dedicated website. Randomization is balanced per center. Patients are randomly assigned to mechanical ventilation with levels of PEEP at maximum 12 cmH2O with the use of recruitment maneuvers (the lung-protective strategy) or mechanical ventilation with levels of PEEP at maximum 2 cmH2O without recruitment maneuvers (the conventional strategy). The PEEP level with the protective strategy is chosen to be 12 cmH2O, to achieve maximal interventional effect without causing harm to participating patients and to make the intervention acceptable for the participating clinicians. The conventional strategy is chosen based on a national survey in France that showed >90% of responding anesthetists to use levels of PEEP of 0-4 cmH2O without recruitment maneuvers11. Since not all available anesthesia ventilators can apply levels of PEEP < 2 cmH2O, the level of PEEP is set at a maximum of 2 cmH2O with the conventional strategy. However the lowest possible level of PEEP is always chosen.
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Figure 1. – CONSORT diagram of PROVHILO. PEEP = positive end-expiratory pressure. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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Table I. – Rescue therapies with the protective and the conventional strategy. Protective
Conventional
Step
FiO2
PEEP
Step
FiO2
PEEP
1 2 3 4 5 6 7 8
0.5 0.5 0.5 0.5 0.6 0.7 0.8 0.8
12 10 8 6 6 6 6 4 or lower
1 2 3 4 5 6 7 8 9
0.5 0.6 0.6 0.6 0.6 0.7 0.8 0.8 RM
2 2 3 4 5 5 5 6 6
See text for details. Abbreviations: PEEP = positive end-expiratory pressure; FiO2 = fractional inspired oxygen; RM, recruitment maneuver.
Mechanical ventilation
Protocol drop-out
Patients are ventilated with a volume-controlled mechanical ventilation strategy. Although it is left to the discretion of the attending anesthesiologist to use different fractions of inspired oxygen, it is advised to use at least 0.4, with the lowest oxygen fraction to maintain oxygen saturation ≥ 92%. The inspiratory to expiratory time ratio (I:E) is set at 1:2, and the respiratory rate is adjusted to reach normocapnia (end-tidal carbon dioxide partial pressure between 35 and 45 mmHg). Tidal volumes of < 8 ml/kg predicted body weight (PBW) are advised to be used15. PBW is calculated according to a predefined formula: 50+0.91 x (centimeters of height - 152.4) for males and 45.5+0.91 x (centimeters of height - 152.4) for females16, 17. Tidal volumes throughout this protocol refer to the actual inspired tidal volume in the ventilator circuit.
Anesthesiologists are allowed to change the ventilation protocol at any time point upon the surgeon’s request, or if there is any concern about patient’s safety. The level of PEEP can be modified according to the anesthesiologist in charge if the systolic arterial pressure drops 21% (Hb > 7 mg/dl), or if there is a surgical complication determining life-threatening situations.
Recruitment maneuver Recruitment maneuvers, as part of the lung-protective strategy, are performed directly after induction of anesthesia, after any disconnection from the mechanical ventilator, and directly before tracheal extubation. Recruitment maneuvers should not be performed when patients are hemodynamic unstable, as judged by the attending physician. Recruitment maneuvers are not easily applied with available anesthesia ventilators since not all machines have an inspiratory hold function or other adequate facilities. To obtain standardization among centers, recruitment maneuvers are performed as follows: 1. peak inspiratory pressure limit is set at 45 cmH2O; 2. tidal volume is set at 8 ml/kg PBW and respiratory rate at 6-8 breaths/min (or lowest respiratory rate that anesthesia ventilator allows), while PEEP is set at 12 cmH2O; 3. inspiratory to expiratory ratio (I:E) is set at 1:2; 4. tidal volumes are increased in steps of 4 ml/kg PBW until a plateau pressure of 30-35 cmH2O; 5. 3 breaths are administered with a plateau pressure of 30-35 cmH2O; 6. peak inspiratory pressure limit, respiratory rate, I:E, and tidal volume are set back to settings preceding each recruitment maneuver, while maintaining PEEP at 12 cmH2O. 534
Rescue therapy In both study groups, in case of desaturation (SpO2 < 90%), after excluding airway problems, severe hemodynamic impairment and ventilator malfunction, a rescue strategy is proposed, which improves oxygenation with respectively a decreasing level of PEEP with increasing FiO2 in the lung-protective strategy group, and increasing levels of PEEP and FiO2 in the conventional group (see table I). Standard procedures The study protocol stresses that routine general anesthesia, post-operative pain management, physiotherapeutic procedures and fluid management must be used in the intra-operative as well as the post-operative period according to each centers specific expertise and routine clinical use, to minimize interference with the trial intervention. However, it is suggested to perform post-operative pain management in order to achieve a visual analogue scale (VAS) pain score 80 Pre-operative (SpO2, %) ≥ 96 91 - 95 ≤ 90 Respiratory infection in the last month Pre-operative anemia (≤ 10 g/dl) Surgical incision Peripheral Upper abdominal Intra-thoracic Duration of surgery (hours) ≤2 2-3 >3 Emergency procedure
β Coefficient
Risk Score†
1 1.4 (0.6-3.3) 5.1 (1.9-13.3)
0.331 1.619
3 16
1 2.2 (1.2-4.2) 10.7 (4.1-28.1) 5.5 (2.6-11.5)
0.802 2.375 1.698
8 24 17
3.0 (1.4-6.5)
1.105
11
1 4.4 (2.3-8.5) 11.4 (4.9-26.0)
1.480 2.431
15 24
1 4.9 (2.4-10.1) 9.7 (4.7-19.9) 2.2 (1.0-4.5)
1.593 2.268 0.768
16 23 8
High or intermediate risk for postoperative pulmonary complications following abdominal surgery: risk score ≥ 26 Abbreviations: CI, confidence interval; OR, odds ratio; SpO2, oxyhemoglobin saturation by pulse oximetry breathing air in supine position; g/dl, gram per decilitre † The simplified risk score was the sum of each logistic regression coefficient multiplied by 10, after rounding off its value.
tidal volumes and PEEP for protecting the lungs during the intra-operative period in patients without previous lung injury has been questioned6, 7. The PROVHILO trial is the first randomized controlled study powered to investigate whether protective mechanical ventilation using higher levels of PEEP complemented by recruitment maneuvers attenuates post-operative pulmonary complications. The two ventilation strategies used in the PROVHILO trial are composed to match as many clinically applied anesthesia ventilators as possible. With these standardized ventilation strategies, we aim to minimize variation between ventilation strategies used in the participating centers. The power calculation of the trial is based on the results of the above- mentioned ARISCAT trial14. The primary endpoint of this trial is a composed endpoint (post-operative pulmonary complications). This could be seen as a shortcoming, since the effect of the intervention on one post-operative pulmonary complication could be diluted if other post-operative pulmonary complications are not affected, or affected to a lesser content. However, since we collect and report on all postoperative pulmonary complications, it may still be possible to determine the effects on separate complications. The spectrum of ventilator-associated lung injury does not only include pulmonary inflammation, but also an increase in systemic inflammatory mediators2, 41-43. The lung has been suggested as an important causative part of Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
the inflammation-induced systemic disease state that can evolve to multi-organ failure, rather than merely a pulmonary disease process. Alveolar collapse during mechanical ventilation can lead to activation of an inflammatory response both locally and systemically, which could play a role in modulating the individual patient’s outcome3, 28, 44. To determine this possible effect on patients in this trial, secondary endpoints on extra-pulmonary complications are collected and reported, as well as blood samples for the determination of specific markers of distal organ injury. Several confounding factors can be suggested. Post-operative pain is a commonly acknowledged contributor to post-operative atelectasis45, 46. Respiratory chest physiotherapy has been shown to decrease postoperative respiratory complications in cardiac surgery, when performed before surgery47. It is still uncertain if post-operative physiotherapeutic procedures are beneficial, although there is some evidence in favor of physiotherapy46. Excessive intra-operative fluid administration is another possible contributing factor to the development of respiratory failure 48 . These factors are not protocolized by the PROVHILO trial. The protocol stresses that general anesthesia, post-operative pain management, physiotherapeutic procedures, fluid management and all other perioperative procedures are to be performed according to the centers’ specific expertise and routine clinical use. The reason for this is our aim to minimize interference
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with the effect of PEEP and recruitment maneuvers on post-operative pulmonary complications. Suggestions on the abovementioned peri-operative procedures are made in the protocol, so to keep the variability as small as possible. No suggestions are made on type of anesthesia to use, to make the trial as accessible as possible for the anesthesiologists. It is known, however, that several anesthetic drugs affect lung capacity during surgery49, 50. Since we collect and report on all commonly known risk factors for post-operative pulmonary complications and intra-operative administered drugs, it may still be possible to determine the effect on the primary and secondary outcomes. In conclusion, the PROVHILO trial is a worldwide investigator-initiated randomized controlled trial powered to test the hypothesis that an open lung mechanical ventilation strategy using higher levels of PEEP and recruitment maneuvers during short-term intra-operative mechanical ventilation prevents against post-operative pulmonary complications. The PROVHILO trial also determines the effect of an open lung approach on post-operative extrapulmonary complications. Finally, in the PROVHILO trial the effect of lung-protective mechanical ventilation is monitored by highly specific biomarkers of lung injury.
7.
8.
9.
10. 11. 12.
Competing interests None. Authors’ contributions
13.
SH: preparation of the initial drafts of the manuscript and preparation of the final version. All: review of the initial drafts of the manuscript. JB: planned the statistical analysis and revised the manuscript. MS, MGdA, PP designed the study, reviewed the initial drafts of the manuscript. All authors approved the final version of the manuscript.
14.
Acknowledgements Funding Source This study is an investigator-initiated trial, funded by the Academic Medical Center at the University of Amsterdam, Amsterdam, The Netherlands, and the European Society of Anesthesiology (ESA).
15.
16. 17.
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19.
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RATIONALE AND STUDY DESIGN OF PROVHILO: A WORLDWIDE MULTICENTER RANDOMIZED CONTROLLED TRIAL ON PROTECTIVE VENTILATION DURING GENERAL ANESTHESIA FOR ABDOMINAL SURGERY
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Il quality CPR feedback come strumento per migliorare la qualità delle compressioni toraciche in clinica e nella formazione F. SEMERARO1, A. FRISOLI2, C. LOCONSOLE2, F. BANNÒ2, G. TAMMARO1, G. IMBRIACO1, L. FARABEGOLI1, L. GIUNTOLI1, E.L. CERCHIARI1
Il quality CPR feedback come strumento per migliorare la qualità delle compressioni toraciche in clinica e nella formazione La rianimazione cardiopolmonare (RCP) è ormai riconosciuta come uno dei fattori determinanti la sopravvivenza dei pazienti durante l’arresto cardiaco (AC) e la qualità della RCP è stato dimostrato condizionare anche gli esiti e la sopravvivenza dei pazienti rianimati1-4. Diversi studi hanno evidenziato che la qualità della RCP durante l’adedstramento e nella pratica clinica è spesso sub-ottimale, con profondità di compressione inadeguata, interruzioni delle compressione toraciche, un prolungata pausa pre-e post-shock e frequenti episodi di iperventilazione 5-8. Negli ultimi sono stati sviluppati diversi dispositivi in grado di fornire indicazioni sulla qualità delle performance durante la RCP. Tali dispositivi sono stati utilizzati sia nel campo dell’addestramento sia in ambito clinico. Il range di complessità di questi strumenti di feedback varia dall’utilizzo di un semplice metronomo che guida attraverso un feedback acustico la frequenza di compressione toracica a dispositivi molto piú complessi in grado di fornire un feedback audio-visivo durante RCP. Il metodo di addestramento oramai standardizzato in tutto il mondo per insegnare la rianimazione cardiopolmonare di base utilizza il corso Basic Life Support (BLS) condotto da istruttori qualificati e aggiornati secondo linee guida internazionali ILCOR. Una recente revisione di letteratura ha dimostrato come metodi alternativi di addestramento, compreso l’uso di istruttori non sanitari, tecniche di auto-apprendimento e utilizzo di strumenti di CPR feedback, permettono di raggiungere gli stessi obiettivi dei corsi tradizionali con istruttore9. Gli strumenti di analisi delle compressioni toraciche e delle ventilazioni sono in grado di fornire un feedback all’operatore in modo che sia in grado di eseguire una RCP di alta qualità dimostrando di migliorarne le prestazioni10. Un recente articolo ha suggerito inoltre l’introduzione in ambito intraospedaliero di un programma di qualità della RCP utilizzando dispositivi di CPR feedback in real-time combinato con l’effetuazione di debriefing post-evento. Questo approccio si è rivelato più efficace nel migliorare la quaVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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Anestesia-Terapia Intensiva, Ospedale Maggiore, Bologna 2PERCRO, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa
lità della RCP rispetto allo stadard attuale 11. Diverse simulazioni su manichini hanno dimostrato che la qualità della RCP eseguita da laici e da operatori sanitari tende a deteriorarsi in maniera significativa nel giro di pochi mesi dopo un corso di addestramento12-13. La qualità della RCP è spesso scarsa anche in ambiente clinico, anche se il beneficio sulla sopravvivenza è stata ben documentata6,14. Le linee guida European Resuscitation Council (ERC)15 sottolineano l’importanza di RCP di alta qualità, senza interruzioni e specifica un target da raggiungere che prevede una profondità di compressione di 50-60 mm e frequenza di 100-120 compressioni al minuto e per quanto le ventilazioni tra 10-12 atti/min. Per questo motivo, un gran numero di dispositivi sono stati sviluppati per fornire una guida durante la RCP16-19 e sono stati testati sia in ambito di addestramento che clinico. Quality CPR in addestramento Una recente revisione di letteratura ha analizzato l’uso dei CPR feedback durante l’addestramento nella RCP. L’obiettivo della review era analizzare se esisteva differenza sia per i laici che per gli operatori sanitari per quanto riguarda l’acquisizione e la ritenzione delle abilità di rianimazione cardiopolmonare (CPR) e le prestazioni nella vita reale con e senza l’utilizzo di CPR feedback20. Sono stati analizzate le banche dati Cochrane, Medline (1950Dec 2008), EMBASE (1988-dicembre 2008) e PsychInfo (1988-Dic 2008) utilizzando la stringa di ricerca “Prompt” e “Feedback” come parole di testo e “Rianimazione Cardiopolmonare” e “arresto cardiaco” come termini Mesh. I criteri di inclusione includevano effetto di feedback audio o visivo correlate con l’acquisizione di competenze RCP, il mantenimento o la misura delle prestazioni. Sono stati analizzati 509 articoli di cui 33 sono stati ritenuti pertinenti. Nell’analisi degli articoli che sup-
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portavano l’uso di CPR feedback gli studi disponibili erano: nessuno studio randomizzato controllato sull’uomo (LOE 1); due studi non-randomizzati cross-over (LOE 2), quattro studi retrospettivi (LOE 3) sull’uomo e 20 studi su animali/manichino (LOE 5). Due studi (LOE 5) sono stati considerati neutrali. Sei studi (LOE 5) su manichino non supportavano l’utilizzo di CPR feedback. Gli autori della review concludevano che esistevano buone evidenze a sostegno dell’uso di CPR feedback durante l’addestramento per migliorare l’acquisizione di abilità RCP e la loro ritenzione; inoltre indicavano come utile nella pratica clinica come parte di una strategia globale per migliorare la qualità della RCP. Gli autori precisavano inoltre che i dispositivi per misurare la profondità di compressione devono essere calibrati per tener conto della rigidezza della superficie di supporto su cui viene eseguita RCP (ad esempio: piano rigido/materasso). Le conclusioni suggerivano ulteriori studi per determinare se questi dispositivi migliorano la sopravvivenza dei paziente. Il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato rispettivamente nel 2009 e nel 2012 due dispositivi innovativi dedicati all’addestramento RCP di alta qualità. Il primo utilizzava l’accelerometro in dotazione all’iPhone per il quale abbiamo sviluppato un applicazione dedicata alla RCP (iCPR) testandola in uno studio randomizzato su manichino19. L’obiettivo dello studio era valutare se iCPR migliorasse le prestazioni per quanto riguarda la frequenza di compressione toracica testandolo durante uno scenario simulato di arresto cardiaco. E’ stato arruolato un campione di 50 volontari e i partecipanti sono stati assegnati in modo casuale ad uno dei gruppi di studio. Veniva richiesto ai volontari di eseguire 2 minuti di compressioni toraciche (CC), rispondere a un insieme predefinito di domande e quindi eseguire altri 2 minuti di CC. Il primo gruppo eseguiva 2 minuti di CC con iCPR, rispondeva alle domande ed infine eseguiva CC senza feedback; il secondo gruppo eseguiva CC senza feedback, rispondeva alle domande e infine eseguiva CC con iCPR. La frequenza di compressione è stata di 101±2.8 min-1 quando le CC sono state effettuate con iCPR e 107.8 ± 20.5 min-1, quando eseguite senza iCPR (p 80/min erano associate con un migliore ripristino della circolazione spontanea (ROSC). Uno studio osservazionale su 506 pazienti in arresto cardiaco extra-ospedaliero ha dimostrato un aumento della sopravvivenza alla dimissione dall’ospedale con l’aumento della frazione di compressione del torace (CCF cioè la percentuale di tempo nella quale venivano eseguite compressioni toraciche sul totale del tempo della rianimazione) e i risultati miglioravano quando si aveva un CCF > 0.60. Quando la frequenza di compressione é tra 100 e 127 al minuto si raggiunge un CCF > 60 in un minuto, tuttavia non é stata trovata un’associazione tra frequenza di compressione e sopravvivenza22. Per quanto riguarda la profondità sono stati pub-
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blicati tre studi sull’uomo5,6,23 che hano dimostrato che la profondità di compressione durante la rianimazione adulto è spesso meno di 4 cm. Non ci sono studi sull’uomo che confrontino l’efficacia di una profondità di compressione 4-5cm con profondità di compressione alternativi. Una serie di studi suggeriscono che le compressioni di 5 cm o piú possono migliorare il ROSC e il successo della defibrillazione (1 studio sull’uomo (LOE 4), 74 studi sull’uomo con gruppi di controllo retrospettivi (LOE) e uno studio (LOE 5)). Questi risultati sono confermati anche da tre studi su maiali (LOE 5) che mostrano una migliore sopravvivenza con profondità di compressione più profonde e uno studio sull’uomo (LOE 4) dimostrando che una maggiore forza applicata sul torace produce un aumento lineare della pressione sistolica. Tuttavia, un studio su maiale (LOE 5) non ha riportato alcun miglioramento del flusso coronarico del miocardio con profondità di compressione maggiore da 4 a 5 cm, sebbene la pressione di perfusione coronarica (CPP) fosse migliorata da 7 a 14 mmHg. Un recente lavoro pubblicato su BMJ nel 2011 ha analizzato, in pazienti in arresto cardiaco extraospedaliero, se l’utilizzo di un feedback audio-visivo in real-time durante la rianimazione cardiopolmonare aumentasse la proporzione di soggetti con un ritorno della circolazione spontanea preospedaliero10. Per tale motivo sono stati arruolati attraverso un cluster randomizzato 1586 persone con un arresto cardiaco extra-ospedaliero nel quale era stata iniziata dai servizi medici di emergenza la rianimazione cardiopolmonare (771 RCP senza feedback, 815 con feedback): nei pazienti arruolati non sono state osservate differenze tra i gruppi per quanto riguarda le caratteristiche di base. I servizi di emergenza hanno disattivato il feedback acustico nel 14% dei casi durante il periodo con feedback. Nei due gruppi rispetto al cluster RCP senza feedback, i gruppi che ricevevano feedback sono stati associati ad una maggiore proporzione di tempo in cui sono state fornite le compressioni toraciche (64% v 66%, cluster-adjusted difference di 1,9 (IC 95% 0,4-3,4)), una profondità di compressione aumentata (38 v 40 mm, adjusted difference 1,6 (0,5-2,7)) e la diminuzione della percentuale delle compressioni con rilascio incompleto (15% versus 10%, v -3,4 (-5,2 a -1,5)). Nonostante questo, la frequenza preospedaliera di ripristino della circolazione spontanea non ha mostrato differenze rispetto all’utilizzo del feedback (45% versus 44%, adjusted difference 0,1% (-4,4% al 4,6%)), né la presenza di un polso all’arrivo ospedale (32% versus 32%, adjusted difference -0,8 (-4,9 a 3,4)), la sopravvivenza alla dimissione (12% vs 11%, adjusted difference -1,5 (-3,9 per 0,9)) o sveglio alla dimissione ospedaliera (10% versus 10%, adjusted difference -0,2 (da -2,5 a 2,1)). Per tale motivo gli autori concludevano che il feedback audio-visivo durante l’esecuzione di RCP migliora le performance anche se questi cambiamenti nelle prestazioni della RCP non sono stati associati ad una differenza significativa nel ripristino della circolazione spontanea, sulla sopravvivenza alla dimissione dall’ospdeale e sugli esiti neurologici. È ragionevole per tutti i soccorittori professionali e laci migliorare la qualità dell’RCP, garantendo profondità e frequenza di compressione e la corretta frequenza di venVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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tilazione in conformità a quanto stabilito nelle linee guida. Gli strumenti di CPR feedback possono fornire informazioni valide e indispensabili durante la rianimazione cardiopolmonare anche se al momento non è stata ancora dimostrata una differenza significativa nella sopravvivenza nonostante le migliori performance ottenibili. Bibliografia 1. Van Hoeyweghen RJ, Bossaert LL, Mullie A et al. Quality and efficiency of bystander CPR. Belgian Cerebral Resuscitation Study Group. Resuscitation 1993;26:47-52. 2. Wik L, Steen PA, Bircher NG. Quality of bystander cardiopulmonary resuscitation influences outcome after pre-hospital cardiac arrest. Resuscitation 1994;28:195-203. 3. Gallagher EJ, Lombardi G, Gennis P. Effectiveness of bystander cardiopulmonary resuscitation and survival following out-ofhospital cardiac arrest. JAMA 1995;274:1922-5. 4. Ko PC, Chen WJ, Lin CH, Ma MH, Lin FY. Evaluating the quality of prehospital cardiopulmonary resuscitation by reviewing automated external defibrillator records and survival for out of-hospital witnessed arrests. Resuscitation 2005;64:163-9. 5. Abella BS, Alvarado JP, Myklebust H et al. Quality of cardiopulmonary resuscitation during in-hospital cardiac arrest. JAMA 2005;293:305-10. 6. Wik L, Kramer-Johansen J, Myklebust H et al. Quality of cardiopulmonary resuscitation during out-of-hospital cardiac arrest. JAMA 2005;293:299-304. 7. Perkins GD, BoyleW, Bridgestock H et al. Quality of CPR during advanced resuscitation training. Resuscitation 2008; 77:69-74. 8. LearyM, Abella BS. The challenge of CPR quality: improvement in the real world. Resuscitation 2008;77:1-3. 9. Yeung J, Okamoto D, Soar J, Perkins GD. AED training and its impact on skill acquisition, retention and performance. A systematic review of alternative training methods.. Resuscitation. 2011;82:657-64. 10. Hostler D, Everson-Stewart S, Rea TD, Stiell IG, Callaway CW, Kudenchuk PJ, Sears GK, Emerson SS, Nichol G; Resuscitation Outcomes Consortium Investigators. Effect of real-time feedback during cardiopulmonary resuscitation outside hospital: prospective, cluster-randomised trial. BMJ. 2011 Feb 4;342:d512. doi: 10.1136/bmj.d512 11. Perkins GD, Davies RP, Quinton S, Woolley S, Gao F, Abella B, Stallard N, Cooke MW; Quality of CPR Project Collaborators. The effect of real-time CPR feedback and post event debriefing on patient and processes focused outcomes: A cohort study: trial protocol. Scand J Trauma Resusc Emerg Med. 2011;19:58. 12. Stross JK. Maintaining competency in advanced cardiac life support skills. JAMA 1983;249:3339-41. 13. Su E, Schmidt TA, Mann NC, Zechnich AD. A randomized controlled trial to assess decay in acquired knowledge among paramedics completing a pediatric resuscitation course. Acad Emerg Med 2000;7(7):779-86. 14. Abella BS, Sandbo N, Vassilatos P et al. Chest compression rates during cardiopulmonary resuscitation are suboptimal: a prospective study during in-hospital cardiac arrest. Circulation 2005;111:428-34. 15. Koster RW, Baubin MA, Bossaert LL, Caballero A, Cassan P, Castrén M, Granja C, Handley AJ, Monsieurs KG, Perkins GD, Raffay V, Sandroni C. European Resuscitation Council Guidelines for Resuscitation 2010 Section 2. Adult basic life support and use of automated external defibrillators. Resuscitation. 2010;81:1277-92. 16. Perkins GD, Augre C, Rogers H, Allan M, Thickett DR. CPREzyTM: an evaluation during simulated cardiac arrest on a hospital bed. Resuscitation 2005;64:103-8.
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Sindrome da encefalopatia posteriore reversibile: meccanismi patogenetici e diagnosi differenziale G. SERVILLO, P. BUONANNO, C. PALUMBO, M. VARGAS
La sindrome da encefalopatia posteriore reversibile (PRES) è un quadro clinico acuto caratterizzato da convulsioni, disturbi del visus, cefalea, alterazioni dello stato mentale, confusione ed, occasionalmente, segni neurologici focali1, 2. Il quadro neuroradiologico caratteristico di tale sindrome mostra una distribuzione simmetrica/ asimmetrica di aree di edema vasogenico localizzate in maniera preponderante nel contesto della sostanza bianca e della corteccia delle regioni parieto-occipitali (da cui l’aggettivo “posteriore” attribuito al quadro radiologico) e con minore frequenza ai lobi frontali, alla giunzione occipito-temporale inferiore e il cervelletto. La caratteristica localizzazione delle aree edematose sottolinea un ruolo fondamentale nella genesi delle lesioni osservate, dei rami di secondo ordine o dei rami emisferici distali della circolazione cerebrale. Le caratteristiche cliniche e neuroradiologiche della PRES sono state inizialmente evidenziate in pazienti affette da preeclampsia/eclampsia/ HELLP3, attualmente tale sindrome riconosce un pattern eziologico molto ampio. Secondo Azoulay, la condizione più frequentemente associata alla PRES è la terapia con chemioterapici, seguita da ipertensione, sepsi/shock settico, preeclampsia/eclampsia/HELLP e patologie autoimmuni4. Fisiopatologia dell’edema vasogenico nella sindrome da encefalopatia posteriore reversibile Il meccanismo fisiopatologico della PRES è ancora oggetto di discussione. Due teorie contrapposte sono state proposte: la prima teoria individua, quali cause principali dell’edema, l’ipertensione e l’iperperfusione conseguente al superamento del limite superiore dell’autoregolazione del flusso ematico cerebrale5, 6, mentre la seconda prevede un meccanismo di vasocostrizione con conseguente ipoperfusione ed ischemia dei territori oggetto delle lezioni osservate. Nella prima teoria, i maccanismi di autoregolazione del circolo cerebrale rivestono un ruolo di primaria importanza nella determinazione della sindrome. L’autoregolazione è una proprietà del circolo ematico cerebrale che, attraverso la modulazione del tono muscolare delle arteriole, è in grado di mantenere pressoché costante il flusso di sangue all’encefalo in risposta ad ampie variazioni della pressione arteriosa media (50-160 mmHg)7, 8. Mentre un incremento Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Anestesiologiche, Rianimatorie e dell’Emergenza, Università degli Studi “Federico II”, Napoli
pressorio provocherà una vasocostrizione arteriolare, una riduzione di questi valori determinerà vasodilatazione. I mediatori responsabili della variazione del tono vasale sono sia agenti vasocostrittori (trombossano A2 ed endotelina) che vasodilatatori (ossido nitrico) prodotti dallo stesso endotelio proprio in risposta alle fluttuazioni pressorie. Il superamento del limite superiore dell’autoregolazione cerebrale provoca un aumento della pressione nelle arteriole e nei capillari cerebrali con conseguente stravaso di fluidi e formazione di aree edematose extravascolari. Tale teoria sembra essere responsabile di quei casi di PRES associati a ipertensione arteriosa, che si verificano nel 5070% dei pazienti, e che prontamente migliorano con un adeguato trattamento antipertensivo. La teoria dell’iperperfusione, che individua nell’ipertensione e nell’alterazione dell’autoregolazione cerebrale il meccanismo patogenetico della PRES, non riesce a spiegare quei casi in cui il verificarsi dell’edema cerebrale non è associato a fenomeni ipertensivi ma bensì normo o addirittura ipotensivi. Tale condizione, può essere senz’altro meglio giustificata dalla teoria della vasocostrizione, ipoperfusione, ischemia. Informazioni derivanti da esami arteriografici e di risonanza magnetica cerebrale9 eseguiti in pazienti affetti da PRES, hanno evidenziato la presenza di una vasocostrizione diffusa nelle aree di edema cerebrale interessate dalla sindrome. Proprio la presenza di ipoperfusione o ischemia in tali aree sembra essere responsabile dell’alterazioni delle pressioni intravascolari e del conseguente edema nei territori interessati. Teoria del danno endoteliale: alla ricerca di un comune denominatore nei diversi casi di sindrome da encefalopatia posteriore reversibile La sindrome da encefalopatia posteriore reversibile è associata a differenti condizioni cliniche caratterizzate da attivazione o danno endoteliale. Attivazione del sistema
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SERVILLO
SINDROME DA ENCEFALOPATIA POSTERIORE REVERSIBILE: MECCANISMI PATOGENETICI E DIAGNOSI DIFFERENZIALE
immunitario, della cascata citochinica e del complemento sono responsabili di un’alterazione endoteliale sistemica con coinvolgimento dei vasi cerebrali nei casi di PRES. L’attivazione/danno endoteliale è, inoltre, responsabile del consumo o della distruzione dei globuli rossi circolanti e del successivo rilascio da parte di questi di LDH (Llattato deidrogenasi) nel compartimento vascolare. Il link patogenetico tra danno endoteliale, aumento del LDH e PRES è stato studiato soprattutto nelle pazienti preeclamptiche/eclamptiche, visto lo spiccato trofismo endoteliale della risposta infiammatoria/immunitaria maternoplacentare. Sia Schwartz che Demirtas hanno sottolineato nei loro studi la presenza di aumentati valori di LDH nel pazienti eclamptiche con RMN suggestiva di encefalopatia posteriore reversibile10, 11. Anche la nostra recente esperienza riguardo il possibile coinvolgimento endoteliale nei casi di PRES ha dimostrato un aumento dei valori di LDH già tre giorni prima dell’esordio della sintomatologia cerebrale12. L’aumento precoce di LDH rispetto alla presentazione dei sintomi cerebrali suggerisce la presenza di una disfunzione/danno endoteliale subclinico, responsabile dei casi di PRES associati o meno ad ipertensione arteriosa. Difatti, il danno endoteliale probabilmente altera i meccanismi di rilassamento vascolare, responsabili della vasodilatazione o vasocostrizione dei capillari cerebrali, provocando così un’alterazione/danno nella barriera ematoencefalica ed edema cerebrale. Nonostante ci sia ancora un profondo dibattito sulla possibile patogenesi della sindrome da encefalopatia posteriore, sembra ormai possibile che proprio il danno endoteliale possa essere responsabile di entrambe le teorie di iperperfusione/ipoperfusione associate a tale sindrome. Bibliografia 1. Hinchey J, Chaves C, Appignani B et al. A reversible posterior leukoencephalopathy syndrome. N Engl J Med 1996; 334:494-500.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):547-50
Facciamo ordine sul problema del PONV A. MARRA, G. SCOGNAMIGLIO, G.G. SICA
Nel corso degli ultimi decenni, con la riduzione della mortalità correlata all’anestesia, l’attenzione si è spostata su altri fattori che possono influenzare negativamente la morbilità del paziente e la sua “soddisfazione”, come ad esempio la nausea e il vomito postoperatorio(PONV)1. Nonostante i continui sforzi per il trattamento e la prevenzione, la nausea e il vomito postoperatorio continuano ad essere una delle complicanze più frequenti dopo anestesia e si verificano in più del 30% degli interventi chirurgici, o fino al 70% o 80% in alcuni gruppi di pazienti ad alto rischio 1. Le conseguenze del PONV possono includere lacerazione delle suture chirurgiche, dei tessuti esofagei, aumento della pressione endooculare e endocranica, oltre che disordini metabolici dovuti alla disidratazione e agli squilibri elettrolitici 2,3. In casi severi di PONV, sebbene rari, può verificarsi l’aspirazione di contenuto gastrico che può causare sequele polmonari, come polmoniti o pneumotorace4,5. Ci sono inoltre da considerare i fattori economici. L’insorgenza di PONV, infatti, allunga i tempi di dimissione, allunga i tempi di permanenza nell’unità di day surgery e aumenta il numero di ricoveri non programmati dopo chirurgia ambulatoriale. L’insorgenza di PONV rappresenta, per il paziente, fonte di enorme preoccupazione. Alcuni studi hanno evidenziato che i pazienti erano più preoccupati per il PONV che per il dolore nel postoperatorio6,7 . Da tutto questo si evince come le strategie per il trattamento e soprattutto per la prevenzione del PONV siano diventate un punto fondamentale. Si definisce PONV l’insorgenza di nausea e vomito entro 24h dall’intervento chirurgico, mentre definiamo Post Discharge (PDNV) l’insorgenza di nausea e vomito dopo la dimissione ma entro le 24 h dall’intervento chirurgico e Delayed PDNV la nausea e il vomito che insorgono oltre le 24 h dall’intervento chirurgico8. La valutazione del paziente e l’individuazione dei fattori di rischio sono un elemento fondamentale per mettere in atto le strategie di gestione e prevenzione del PONV. Molti fattori correlati al paziente, all’anestesia e al tipo di chirurgia sono stati indagati come possibili fattori di rischio per PONV. In accordo con le linee guida per la gestione del PONV pubblicate nel 2007 dalla Società per l’anestesia Ambulatriale (SAMBA) solo pochi fattori di Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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rischio si verificano con costanza sufficiente per essere convalidati come predittori indipendenti di PONV9. Diversi modelli predittivi sono stati sviluppati per stratificare il rischio per PONV, ma un sistema di valutazione a punti , sviluppato da Apfel et al, continua ad essere uno dei più utlizzati1 . Apfel et al.10 hanno identificato quattro fattori fortemente predittivi per PONV: il sesso femminile, storia di chinetosi o di precedenti episodi di PONV, pazienti non fumatori, ed utilizzo perioperatorio degli oppioidi. La presenza di 0,1,2,3 o 4 di questi fattori corrisponde ad una incidenza di PONV del 10%, 21%, 39%, 61% e 79 % rispettivamente. Il sesso femminile è considerato un fattore di rischio indipendente di PONV. Le donne sono soggette allo sviluppo di PONV due o tre volte più frequentemente degli uomini. Questa differenza tra i due sessi non è evidente sino alla pubertà. Sulla base di queste evidenze è stato ipotizzato che il centro del vomito nelle donne sia influenzato dall’attività endocrina ed ormonale11. I non fumatori sono più soggetti a questa complicanza rispetto ai fumatori probabilmente perché le sostanze chimiche contenute nelle sigarette determinano un aumentata attività degli enzimi epatici con conseguente aumentato metabolismo di alcuni farmaci utilizzati nel corso dell’anestesia riducendo in questo modo l’incidenza di PONV. Generalmente l’aumento dell’età è correlato ad una diminuzione dell’incidenza di PONV: nonostante questa correlazione, però, il valore predittivo dell’età non è stato dimostrato11. Altri fattori correlati al paziente sono stati indagati come possibili indicatori di rischio tra cui una classe ASA tra I e II 12,13 e anamnesi positiva per emicrania13. L’associazione tra ansia preoperatoria e lo sviluppo di PONV è risultata debole e non predittiva14 . L’obesità è stato per molto tempo considerato un fattore di rischio per PONV per molti fattori, tra cui la difficoltà di ventilazione in maschera e l’accumulo dei farmaci nel tessuto adiposo, ma studi più recenti non hanno confermato questa associazione.
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FACCIAMO ORDINE SUL PROBLEMA DEL PONV
Altri fattori di rischio implicati nello sviluppo di PONV sono correlati alla tecnica anestesiologica utilizzata. L’uso degli anestetici volatili è uno dei fattori di rischio più forti per l’insorgenza d PONV. Gli effetti degli anestetici volatili sono ristretti alle prime ore del periodo postoperatorio (0-2h) e dipendono dal grado di esposizione e quindi dalla durata dell’anestesia15. Apfel et al hanno evidenziato che non c’è differenza clinicamente rilevante tra i differenti anestetici volatili impiegati nella pratica clinica e il sevoflurane non è associato ad una più basa incidenza di PONV rispetto agli altri anestetici inalatori15. Anche l’utilizzo perioperatorio degli oppioidi è strettamente correlato all’insorgenza di PONV12. Studi più recenti hanno ridimensionato il potenziale emetico del protossido d’azoto12 . L’utilizzo di alte dosi di neostigmina (>2,5 mg) sembra essere associato ad un’aumentata incidenza di PONV16 ma la sua reale portata è stata messa in discussione17. È stato evidenziato che alcuni tipi di chirurgia (maxillofaciale, urologica, ginecologica, addominale, strabismo etc..) sono associati ad una più alta incidenza di PONV. Numerosi studi suggeriscono che la più alta incidenza sia dovuta a fattori di rischio associati con alcuni tipi di chirurgia, per altri invece il tipo di intervento chirurgico costituisce un fattore di rischio indipendente9. Per sviluppare una efficace strategia di prevenzione di PONV è importante conoscere i meccanismi che sottendono al vomito e i neurotrasmettitori coinvolti. Il vomito è un processo complicato, mediato a livello centrale dal “centro del vomito”, che si ritiene allocato nel tronco cerebrale vicino al Nucleo del Tratto Solitario Chiamato Formazione Reticolare Parvicellulare o Centro del Vomito. Riceve afferenze da: faringe, tratto gastrointestinale, mediastino, centri corticali più alti (per es. i centri ottici, del gusto, dell’olfatto e del vestibolo) e dalla Zona Trigger Chemorecettoriale (Chemoreceptor Trigger Zone=CTZ). La CTZ si trova all’interno del tronco cerebrale, nell’Area Postrema. Poichè la CTZ non è protetta dalla barriera emato-encefalica, risulta esposta alle sostanze presenti nel sangue e trasmette queste informazioni al centro del vomito. L’attività della CTZ è modulata da vari recettori, comprendenti i dopaminergici, gli istaminici, i muscarinici e i serotoninergici18. Allo stato attuale non esiste un singolo intervento che possa prevenire e trattare il PONV, data la sua eziologia multifattoriale e i numerosi fattori di rischio coinvolti; è quindi importante sviluppare degli approcci multimodali che massimizzino l’efficacia e riducano i rischi. Una strategia efficace deve considerare 1) la valutazione dl rischio 2) il rapporto costi benefici della profilassi 3) terapie di associazione e 4) terapie rescue. Come indicato precedentemente l’Apfel score è un utile strumento per la valutazione del rischio di PONV. Dopo aver preso in considerazione i fattori di rischio correlati al paziente insieme a quelli correlati alla tecnica chirurgica si determina il rischio globale del paziente e la scelta della tecnica chirurgica dovrebbe cadere su quella in grado di minimizzare il rischio di base del paziente1. Sinclair et al.19 hanno evidenziato che il rischio di PONV è 9 volte inferiore tra i pazienti che avevano ricevuto una tecnica di anestesia loco regionale. Quando è necessaria l’anestesia generale, nei pazienti ad alto rischio di PONV, l’utilizzo di propofol per l’induzione e il mantenimento dell’anestesia riduce l’incidenza di questo fenomeno. Lo studio IMPACT 20 ha riportato un’ incidenza di PONV del 59% in pazienti trat548
tati con anestetici inalatori e protossido. L’utilizzo di propofol ha ridotto il rischio di PONV del 19%. Un’anestesia totalmente endovenosa (TIVA) ha ridotto il rischio di circa il 25%. Il rischio di PONV può essere ridotto anche minimizzando l’utilizzo di oppioidi intra e post operatorio. Metanalisi e studi randomizzati controllati hanno mostrato che l’utilizzo perioperatorio di farmaci antinfiammatori non steroidei e di inibitori della ciclossigenasi 2 determinano un ridotto uso di morfina nel postoperatorio. Questo ridotto uso di oppioidi potrebbe ridurre l’insorgenza di nausea e vomito. Altri studi hanno mostrato che l’utilizzo di ossigeno supplementare può ridurre l’insorgenza di PONV precoce dal 44% al 22% in pazienti trattati con ondansetron 8 mg e nessun supplemento di ossigeno21. La somministrazione di dosi supplementari di cristalloidi ha mostrato di ridurre l’insorgenza complessiva di PONV e soprattutto del PONV ad insorgenza tardiva22. Le linee guida della Società di Anestesia Ambulatoriale suggeriscono la profilassi con antiemetici da modulare in base al rischio del paziente9. I farmaci antiemetici di prima e seconda linea per la profilassi nei pazienti adulti includono gli antagonisti del recettore 5HT3 (ondansetron,dolasetron, granisetron, palonsetron), gli steroidi (desametasone), le fenotiazine (proclorperazina e prometazina), i butirrofenoni (droperidolo e aloperidolo), gli antistaminici e gli anticolinergici (scopolamina trans dermica). Nello studio IMPACT la somministrazione di ondansetron 4 mg, droperidolo 1,25 mg e desametasone 4 mg si è dimostrata egualmente efficace20. Gli antagonisti del recettore della serotonina sono una pietra miliare per il trattamento e la profilassi della nausea e del vomito. I diversi farmaci di questa classe si sono dimostrati ugualmente efficaci. Zarate et al.23 hanno paragonato ondansetron 4 e 8 mg, dolasetron 12,5 e 25 mg in pazienti sottoposti a chirurgia otorinolaringoiatrica ambulatoriale. Dallo studio non sono emerse differenze nell’efficacia, necessità di terapie rescue e nel numero di ospedalizzazioni non previste. Gli antagonisti del recettore della serotonina risultano essere più efficaci quando somministrati alla fine dell’intervento chirurgico24-25-26 . La maggior parte degli studi su questa classe di farmaci riguarda l’ondansetron che ha dimostrato avere una maggiore efficacia antiemetica che anti nausea27. La dose raccomandata di ondansetron è 4 mg, per il dolasetron 12,5 mg9. Il Granisetron in dosaggi compresi tra 0,35 e 1,5 mg si è dimostrato efficace per la profilassi di PONV9 . Il Tropisetron, 2 mg ev, ha dimostrato significatva efficacia nel ridurre il rischio di nausea e vomito ed è raccomandato per la profilassi 9. Il Palonosetron è stato recentemente approvato dalla FDA per la profilassi del PONV1. Candiotti et al28 hanno valutato l’efficacia e la sicurezza di tre diverse dosi palonosetron, rispetto al placebo, sull’incidenza e la gravità PONV per 72 h dopo l’intervento chirurgico. Una singola dose di 0,075 mg IV di palonosetron ha significativamente aumentato il tasso di risposta completa (nessun episodio di emesi e nessuna terapia di salvataggio) da 0 a 24 h e diminuzione della gravità della nausea. In un altro studio europeo Kovac et al.29 hanno raggiunto riultati simili e hanno anche notato che l’effetto antiemetico di una singola dose si prolungava per 24-72 h dopo la somministrazione29. Questo effetto potrebbe rivelarsi molto utile per minimizzare l’insorgenza di PDNV nella chirurgia ambulatoriale.
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FACCIAMO ORDINE SUL PROBLEMA DEL PONV
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Un campo di ricerca emergente è quello della farmacogenomica. Gli antagonisti del recettore della serotonina sono metabolizzati dal citocromo P450 nel fegato e differenze nell’attività o nei livelli dell’isoforma CYP2D6 dell’enzima sembrano essere responsabili del diverso profilo farmacocinetico e dei diversi effetti clinici che questi farmaci possono avere in alcuni individui30. Candiotti et al31 hanno evidenziato che pazienti con tre copie del gene CYP2D6, o un particolare polimorfismo genetico del gene CYP2D6, sono metabolizzatori ultrarapidi dell’ondansetron, ed hanno una maggiore incidenza di fallimento del trattamento con ondansetron per la prevenzione del vomito post-operatorio. Il Desametasone ha mostrato notevole efficacia nelle prevenzione e nella gestione di PONV. IL suo preciso meccanismo d’azione non è conosciuto ma sembra agire inibendo la sintesi di prostaglandine e controllando il rilascio di endorfine32. Henzi et al.33 hanno evidenziato che una singola dose profilattica di desametasone è antiemetico rispetto al placebo, senza evidenza di tossicità clinicamente rilevante in pazienti altrimenti sani. È molto probabile che la migliore profilassi di nausea postoperatoria e vomito attualmente disponibili si ottiene combinando desametasone con un antagonista del recettore 5-HT3. Le linee guida SAMBA raccomandano una dose di desametasone di 4 o 5 mg ev all’induzione dell’anestesia9 . I butirrofenoni sono un gruppo di farmaci antagonisti dei recettori dopaminergici e degli α recettori. Quest’ultima attività è responsabile degli effetti avversi di questa classe di farmaci come la sedazione e i sintomi extrapiramidali. I principali membri di questa classi di farmaci sono l’aloperidolo e il droperidolo. Lo studio IMPACT20 ha evidenziato che la somministrazione di droperidolo 1,25 mg, di ondansetron 4 mg e di desametasone 4 mg sono ugualmente efficaci nel ridurre il rischio di PONV di circa il 25%. Nel 2001 la FDA ha posto l’attenzione sui possibili effetti pro aritmici del droperidolo raccomandando di non usare il farmaco come prima linea di trattamento e inoltre raccomanda che prima di somministrare il farmaco sia instaurato un monitoraggio elettrocardiografico e che questo sia continuato per 2-3 h dopo. Questo ne ha limitato l’uso in ambito ambulatoriale.Le fenotiazine sono una classe di farmaci antagonisti dei recettori dopaminergici e includono la prometazina,la clorpromazina, la prorclorperazina, la perfenazina e la tietilperazina. A causa dei loro effetti collaterali, come sedazione, agitazione, depressione del SNC e più raramente sintomi extrapiramidali, il oro utilizzo è diminuito. Altro farmaco ampiamente utilizzato nella pratica clinica per la profilassi di PONV è la metoclopramide, antagonista dei recettori dopaminergici sia a livello centrale (chemoreceptor trigger zone e area postrema) che a livello periferico nel tratto gastrointestinale. Domino et al.34 hanno rilevato che la metoclopramide è meno efficace dell’ondansetron e del droperidolo nel ridurre l’incidenza di PONV. Le proprietà antiemetiche degli antistaminici derivano dalla loro capacità di bloccare i recettori istaminergici nel nucleo del tratto solitario, nel centro del vomito e nell’apparato vestibolare. Kranke et al.35 hanno evidenziato che la somministrazione profilattica di dimenidrinato riduce l’insorgenza di PONV negli adulti e nei bambini fino a 48 h dopo l’intervento chirurgico ad una dose di 1 mg/k ev. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Ci sono pochi studi che hanno confrontato il dimenidrinato con altri farmaci antiemetici. Gli agenti anticolinergici sono tra i più vecchi farmaci antiemetici utilizzati. Molti studi si sono concentrati sull’utilizzo della scopolamina somministrata per via trans dermica. Pergolizzi et al.36 hanno riscontrato che la scopolamina transdermica è efficace nella prevenzione della PONV rispetto al placebo nel prime 24 ore dopo l’inizio dell’anestesia.Una nuova classe di antiemetici è rappresentata dagli antagonisti del recettore della neurokinina 1 (NK1 Ras) che inibiscono il legame della sostanza P, una molecola rilasciata dalle cellule enterocromaffini che svolge un ruolo importante nella genesi del vomito. La prima molecola di questa classe di farmaci approvata dall’FDA è l’Aprepitant per il trattamento della nausea e del vomito indotto dai chemioterapici. Gan et al.37 hanno valutato l’efficacia dell’aprepitant nella prevenzione del PONV in uno studio multicentrico coinvolgente 805 pazienti. L’apepritant si è dimostrato superiore all’ondansetron nella prevenzione del vomito nelle prime 24-48 h dopo l’intervento chirurgico ma non sono state osservate differenze significative tra l’apepritant e l’ondansetron per il controllo della nausea e l’utilizzo di terapie rescue. Studi successivi hanno confermato questi risultati. La dose raccomandata per la profilassi è di 40 mg. In conclusione adulti a rischio moderato di sviluppare PONV dovrebbero ricevere una terapia combinata con uno o più farmaci profilattici con e meccanismo d’azione. Gli antagonisti del recettore della serotonina, che hanno dimostrato una maggiore attività anti vomito che antinausea, dovrebbero essere utilizzati in associazione al drperidolo che ha una maggiore azione protettiva nei confronti del vomito38. Anche l’associazione tra antagonisti del recettore della serotonina e desametasone ha dimostrato ottima efficacia33. Per i pazienti a rischio elevato la gestione prevede un approccio multimodale con l’applicazione di strategie farmacologiche e non farmacologiche mirate a ridurre il rischio. Scuderi et al.39 hanno valutato l’efficacia di un approccio multimodale che prevedeva: ansiolisi preoperatoria; somministrazione supplementare di ossigeno e liquidi; somministrazione di droperidolo e desametasone all’induzione dell’anestesia e di ondansetron al termine dell’intervento chirurgico; utilizzo della TIVA con propofol e remifentanil; somministrazione di ketololac per l’analgesia; non impiego di anestetici inalatori, protossido d’azoto e bloccanti neuromuscolari. Con questo approccio gli autori hanno notato una risposta completa (assenza di vomito e necessità di farmaci rescue) nel 98% dei pazienti. Habib et al.40 hanno confrontato tre diversi regimi terapeutici: una strategia multimodale che prevedeva l’utilizzo della TIVA con propofol e la somministrazione di ondansetron e droperidolo; una terapia di associazione con ondansetron e droperidolo con una tecnica di anestesia bilanciata con isoflurane e protossido; TIVA solo con propofol. La risposta completa a 24 h (assenza di vomito e necessità di farmaci rescue) è stata dell’80% nel gruppo trattato con una strategia multimodale, 63% nel gruppo con terapia combinata e 43% nell’ultimo gruppo. Nonostante una buona profilassi alcuni pazienti possono comunque andare incontro allo sviluppo di PONV o PDNV. Prima di somministrare farmaci antiemetici devono essere presi in considerazione, ed eventualmente corrette, le altre possibili cause di nausea e vomito come il
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SICA
FACCIAMO ORDINE SUL PROBLEMA DEL PONV
dolore, l’utilizzo di oppioidi etc. Per i pazienti che non hanno ricevuto profilassi la prima linea di trattamento dovrebbe essere rappresetata da un antagonista del recettore della serotonina. I pazienti che hanno già ricevuto in profilassi un agente di questa classe di farmaci dovrebbero essere trattati con una molecola con differente meccanismo d’azione come il desametasone o il droperidolo. Bibliografia 1. Le TP et al. Update on the management of postoperative nausea and vomiting and postdischarge nausea and vomiting in ambulatory surgery. Anesthesiol Clin. 2010;28:225-49. 2. Golembiewski J et al. Prevention and treatment of postoperative nausea ad vomiting. Am J Health- Syst Pharm 2005; 62:1247-1262. 3. Gan TJ et al. Risk Factors for postoperative nausea and vomiting. Anesth Analg 2006;102:1884-98. 4. Scuderi et al. Postoperative nausea ad vomiting outcome. Int Anesthesiol Clin 2003;41:164-174. 5. Bremner WG et al. Delayed surgical emphysema, pneumomediastinum, and bilateral pneumothoraces ater postoperative vomiting. Br. J Anaesth 1992;71:296-7. 6. Macario A et al. Which clinical anesthesia outcomes are important to avoid? Anesth Analg 1999;89:652-8. 7. Gan TJ et al. How much are patients willing to pay to avoid postoperative nausea and vomiting? Anesth Analg 2001;92: 393-400. 8. Mc Cracken G et al. Guideline for the Management of postoperative nausea and vomiting. 2008;209:600-7. 9. Gan TJ et al. Society for Ambulatory Anesthesia Guidelines for the management of postoperative nausea and vomiting. Ambulatory Anesthesiology 2007;105:1615-128. 10. Apfel CC et al. A simplified risk score for predicting postoperative nausea and vomiting: conclusions from cross validations between two centres. Anesthesiology 1999;91:693-700. 11. Murphy MJ et al. Identification of risk factors for postoperative nausea and vomiting in the perianesthesia adult patient. .J Perianesth Nurs. 2006;21:377-84. 12. Apfel CC et al. Risk assessment of postoperative nausea and vomiting. Int Anesthesiol Clin 2003;41:13-32. 13. Gan Tj et al. Risk Factrs for postoperative nausea and vomiting Analg 2006;102:1884-98. 14. Van de Bosch JE et al. Does measurement of preoperative anxiety have added value or predicting postoperative nausea and vomiting? Anesth Analg 2005;100:1525-32. 15. Apfel CC et al. Volatile anaesthetics may be the main cause of early but not delayed postoperative nausea and vomiting: a randomized controlled trial of factoral design. Br. J Anaesth 2002;88:659-68. 16. Tramer MR et al. Omitting antagonism of neuromuscular blockade: effect on for postoperative nausea and vomiting and risk f residual paralysis. A systematic review. Br J Anaesth 1999;82:379-86. 17. Kranke P et al. A qualitative systematic review on supplemental perioperative oxygen doses to reduce the incidence for postoperative nausea and vomiting. Eur J Anaesthesiol 2005;22(suppl 34):4-A14. 18. Golembiewski J et al. A systematic approach to the Management of postoperative nausea and vomiting. J Perianesth Nurs 2002;17:364-76. 19. Carroll NV et al. Postoperative nausea and vomiting after discharge from outpatient surgery centres. Anesth Analg 1995;80:903-9. 20. Apfel CC et al. IMPACT Investigators. A factorial trial of six interventions for the prevention of postoperative nausea and vomiting.N Engl J Med 2004;350:2441-51. 21. Goll V et al. Ondansetron is no more effective than supplemental intraoperative oxygen for prevention of postoperative nausea and vomiting. Anesth Analg 2001;92:112-7. 550
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):551-2
Il paziente scoagulato M. B. SILVI, E. FABBI, F. TURRIZIANI, M. DAURI
Negli ultimi anni è andato progressivamente aumentando il numero di pazienti in terapia con anticoagulanti (ACT), che vengono sottoposti ad interventi chirurgici in regime di day surgery. In questo setting assistenziale la gestione perioperatoria della ACT può presentare difficoltà di tipo organizzativo e culturale anche in considerazione della scarsa aderenza alle Linee Guida dell’American College of Cardiology1, recentemente rielaborate dall’American College of Chest Physicians (ACCP)2-3. La letteratura sull’argomento riguarda soprattutto le procedure odontoiatriche nelle quali il problema principale è lo stabilire una corretta valutazione del rischio di sanguinamento, qualora si continui la ACT e il rischio tromboembolico, se quest’ultima viene sospesa4-6. A tal fine è fondamentale: identificare le ragioni per le quali il paziente assume ACT, conoscere gli esami di laboratorio più idonei a verificare i livelli di anticoagulazione, avere familiarità con le tecniche chirurgiche più idonee a realizzare l’emostasi. La gestione perioperatoria della ACT in day surgery deve essere individualizzata e prevede un approccio multidisciplinare con il coinvolgimento del medico curante, del chirurgo, dell’anestesista e del personale infermieristico che svolge un ruolo importante nell’istruire il paziente circa l’eventuale sospensione/sostituzione e riassunzione nel postoperatorio della terapia7. Per quanto concerne le procedure odontoiatriche l’analisi della letteratura non evidenzia aumento delle complicanze emorragiche nei pazienti sottoposti a procedure odontoiatriche minori (estrazioni, impianti) nei quali non è stata sospesa l’ACT8-9. Analoghi risultati sono stati ottenuti per diverse procedure chirurgiche minori effettuate in regime di day surgery10-11. La decisione di sospendere o discontinuare la ACT dipende dal rischio tromboembolico del paziente e dal rischio emorragico dell’intervento. I farmaci più frequentemente utilizzati sono il Warfarin (emivita 24-36 ore) e l’acenocumarolo (emivita 12 ore) che agiscono mediante il blocco a livello epatico della sintesi dei fattori della coagulazione II, VII, IX, e X vitamina k-dipendenti. I livelli di anticoagulazione vengono monitorizzati mediante la determinazione dell’International Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Cattedra di Anestesiologia e Rianimazione, Università degli Studi “Tor Vergata”, Roma
Normalized Ratio (INR). Si considerano ad elevato rischio i pazienti con anamnesi positiva per recente tromboembolia (TE) venosa (< 3 mesi), recente tromboembolia (TE) arteriosa ( 120 min) associata ad un prolungato tempo di flusso non pulsato, emolisi, attivazione del sistema infiammatorio, anticolagulazione e ipotermia che deve quindi portare ad una accurata scelta dell’indicazione e della strategia operatoria considerando che nei pazienti ad alto rischio, il meglio è spesso nemico del bene. Nei pazienti ad alto rischio aterosclerotico il management intra e perioperatorio deve ancor più essere finalizzato al mantenimento di un’ ottima perfusione d’organo (pressione di perfusione > 70 mmHg) e di un adeguato ematocrito16. Attenzione particolare deve essere posta alle manovre di incannulazione aortica considerando inoltre che una cannulazione dell’arteria ascellare, e non femorale, nei casi di dissezioni dell’arco e dell’aorta ascendente, evitando una perfusione retrogada, riduce il rischio di ateroembolia e consensuale ipoperfusione. Bisogna inoltre considerare che i pazienti con complicanze gastrointestinali di tipo ischemico hanno un corredo sintomatologico estremamente sfumato con segni e sintomi aspecifici il piu’ delle volte mascherati da una ventilazione meccanica prolungata e dall’analgesia postoperatoria18. La sintomatologia non si presenta mai con quadri acuti, se non nei casi di perforazione, ma un addome ancora trattabile e dolente solo a palpazione profonda è di frequente riscontro nel postoperatorio dei pazienti cardiochirurgici. Molto più precoci sono invece
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COMPLICANZE EXTRACARDIACHE NEL PERIODO POST-OPERATORIO. ASPETTI ANESTESIOLOGICI
segni di alterazione dell’equilibrio acido-base con una certa tendenza all’acidosi metabolica ed una persistenza di lattati al di fuori della norma. Infatti la gravita’ dell’acidosi metabolica al momento della diagnosi di ischemia intestinale come misura di una negativizzazione di base excess è risultata un predittore negativo di mortalità insieme al punteggio EUROSCORE19. In questi pazienti allettati e non mobilizzabili diventa di scarsa utilità l’esame radiologico diretto dell’addome e l’ecodoppler addominale, spesso ostacolato dalla presenza di un pacchetto intestinale dilatato dall’ileo paralitico postoperatorio. Più utile risulta la TAC, anche senza mezzo di contrasto, che può rilevare alterazioni della struttura di parete delle anse e contribuire alla diagnosi20. Alterazioni di alcuni esami di laboratorio come PCR, CK, amilasi, LDH, leucocitosi spesso sono aspecifici e difficilmente da soli consentono una diagnosi di certezza. In conclusione la diagnosi è la conseguenza di un insieme di segni e sintomi piuttosto aspecifici presi singolarmente, ma che considerati in un contesto di pazienti a rischio aiutano ad indirizzare i sospetti. Una laparotomia precoce guidata quindi da uno scenario clinico subdolo può risultare utile per una valutazione diagnostica certa21; l’endoscopia in genere è ben tollerata da questi pazienti e dovrebbe perciò essere eseguita senza esitazione, così come anche la chirurgia precoce è utile nel migliorare gli outcomes22. Bibliografia 1. Chertow GM, Lazarus JM et al. Circulation 1997;95:878. 2. Metha LR, Kellum JA et al. Critical Care 2007;11:R31.
Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
SISILLO
3. Parolari A, Pesce LL et al Ann Thorac Surg 2012;93:584-91. 4. Sarah C, Huen MD, Chirag RP. Ann Thorac Surg 2012;93: 337-47. 5. Thakar CV, Arrigain S et al. J Am Soc Nephrol 2005; 16:162-8. 6. Wijesundera DN, Karkouti K et al. JAMA 2007;297:1801-9. 7. Metha LR, Honeycutt E et al. Circulation 2011; 124(suppl1) S149-S155. 8. Gilman S. N Engl J Med 1965;272:489-98. 9. Tarakji KG, Sabik JF et al. JAMA 2011; 305:381-90. 10. Raja SG, Berg GA. J Card Surg 2007;22:445-55. 11. Sisillo E, Marino MR et al. Eur J Cadiothorac Surg 2007; 31:1076-80. 12. Bouchard D, Carrier M et al. Ann Thorac Surg 2011; 91:654-9. 13. Durand DJ, Perler BA et al. Ann Thorac Surg 2004;78:159-66. 14. Venkateswaran R.V., Charman SC et al. Eur J Cardiothor Surg 2002;22:534-8. 15. D’Ancona G, Bailot R, Poirier B. Tex Heart Inst J 2003;30: 280-5. 16. Filsoufi F, Rachmanian PB et al. Ann Surg 2007;246:323-9. 17. Mangi AA,Christison-Lagay ER et al. Ann Surg 2005;241: 895-904. 18. Andersson B, Nilsson J, Brandt J. British J of Surg 2005;92: 326-33. 19. Khan J, Lambert A, Habib J.Ann Thorac Surg 2006;82: 1796-801. 20. Kougias P, Lau D, Sayed H. J Vasc Surg 2007;46:467-74. 21. Mangi A, Christison-Lagay E, Torchiana D et al. Ann Surg 2005;241: 895-904. 22. Pang P, Kong Sin Y, Lim C et al. Int Cardiovasc Thorac Surg 2012;0:1-4.
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Le linee guida europee e nazionali: contestualizzare, riassumere, ampliare? M. SOLCA
Nel 1998, all’interno delle Raccomandazioni per la Valutazione Anestesiologica in previsione di Procedure Diagnostiche – Terapeutiche in Elezione la SIAARTI, attraverso il suo Gruppo di Studio sulla Sicurezza, scriveva: “Linee guida elaborate da una Società Scientifica, suggerendo al medico anestesista in modo autorevole, in quanto documentato e chiaro, le modalità di comportamento più appropriate, mirano da una parte a giovare al paziente riducendo i rischi collegati a comportamenti soggettivi di non documentata efficacia, dall’altra a fornire al medico una difesa razionale nei confronti di una pretesa irragionevole di sottoporsi solo a inesistenti trattamenti del tutto scevri di rischi ... Una completa adesione alle linee guida non esclude che il medico anestesista possa essere chiamato a rispondere della correttezza del suo operato, nel singolo caso concreto. Non è quindi inutile ribadire che in ogni occasione non ci si deve limitare ad applicare pedissequamente quanto suggerito da linee guida o elencato in un qualsivoglia protocollo standardizzato. Nella fattispecie, potrebbe essere considerata colpa il non aver prospettato ulteriori approfondimenti che, sotto il profilo clinico, apparivano indicate. Ma una applicazione delle linee guida corretta, nel senso più sopra indicato, può senz’altro ridurre per il medico anestesista il rischio di essere individuato come colpevole, in quanto sempre egli potrà invocare, a sostegno del suo comportamento, quanto previsto e correttamente applicato, nel caso concreto, dalle linee guida sulle quali ha basato la propria decisione”.
Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento Emergenza e Accettazione, Azienda Ospedaliera Ospedale di Circolo di Melegnano
Le linee guida sono quindi essenziali per una pratica moderna della medicina basata sull’evidenza, ed è per questo che Società Scientifiche Nazionali ed Internazionali le producono e le rinnovano periodicamente. Quelle internazionali hanno il pregio di avere un orizzonte più ampio e, spesso, meno settoriale di quelle nazionali; tuttavia, per loro stessa natura, mancano delle caratteristiche di contestualizzazione negli aspetti normativi e/o di consuetudine della pratica medica in uno specifico paese, oltre ad essere, in genere, disponibili in lingua inglese. È quindi necessario, in caso di adozione di linee guida internazionali, procedere alla loro fedele traduzione, onde permettere il libero e completo accesso da parte di tutti, me è anche raccomandabile procedere al loro adattamento alla realtà nazionale. Questo è ciò che sta attualmente intraprendendo la SIAARTI nei confronti delle linee guida che la European Society of Anaesthesiology ha cominciato da circa due anni a produrre, sotto la spinta di una richiesta chiara e forte da parte di moltissimi paesi europei.
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La selezione del ricevente L. SOLLAZZI, C. MODESTI
Introduzione Il trapianto di fegato rappresenta la soluzione più efficace e definitiva nel trattamento dell’insufficienza epatica allo stadio terminale. L’aumento del numero di procedure eseguite in tutto il mondo, cui si è assistito nelle ultime due decadi, ha consentito di verificare l’impatto favorevole del trapianto nella riduzione della mortalità causata dalla patologia epatica terminale1. Le indicazioni acute e croniche al trapianto di fegato sono ormai standardizzate2, mentre non c’è uniformità di opinioni circa i criteri di selezione dei potenziali candidati e gli iter diagnostici cui debbono essere sottoposti tali pazienti. Il punteggio di Child-Turcotte-Pugh CTP, sviluppato come modello per la valutazione del rischio nei pazienti sottoposti a shunt porto-cavale3, ed il MELD, (Model for End Stage Liver Disease) originariamente utilizzato per stimare la prognosi a breve termine del confezionamento di TIPS (shunt porto sistemico trans giugulare intraepatico)4, rappresentano ancora oggi dei validi indici di gravità della patologia cirrotica e definiscono la condizione clinica generale con cui un ricevente giunge al trapianto; inoltre rappresentano indici utili per la stratificazione del rischio perioperatorio in senso lato e dopo il trapianto5-8. Ovviamente ci sono delle evenienze che hanno uno specifico impatto sulla prognosi dei pazienti cirrotici: in particolare lo sviluppo rapido di ascite, sanguinamento da varici esofagee, peritoniti batteriche spontanee e la sindrome epatorenale: nei pazienti che hanno presentato una di queste complicanze, la sopravvivenza a 5 anni si riduce notevolmente (9). La storia naturale della malattia va perciò confrontata con la reale aspettativa di vita in seguito a trapianto. I dati forniti dal registro USA mostrano sopravvivenze a 1, 3 e 5 anni rispettivamente dell’88%, 80% e 75 %: quindi si può predire che nei pazienti con MELD ≥ 15 e CPT ≥ 7 o che presentino una delle complicanze suddette il trapianto di fegato aumenta la probabilità di sopravvivenza7,8. Valutazione clinica del ricevente La selezione del ricevente, oltre alla stadiazione dell’epatopatia, richiede un’attenta valutazione delle eventuali comorbilità che possono compromettere la sopravvivenza del graft e l’outcome del paziente a medio e lungo termiVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Istituto di Anestesiologia e Rianimazione, U.C.S.C., Roma
ne. Tra le comorbilità che hanno maggior interesse anestesiologico sicuramente la patologia coronarica (CAD), la sindrome epatopolmonare (HPS), l’ipertensione porto polmonare (POPH) e l’insufficienza renale sono quelle che hanno il maggior impatto sulla mortalità e morbilità posttrapianto. La valutazione pre-trapianto della CAD rappresenta uno step fondamentale ed ha priorità clinica, considerando che recenti studi suggeriscono che nell’insufficienza epatica terminale la CAD ha un’incidenza maggiore che nella popolazione generale e spesso è misconosciuta10,11. Addirittura specifiche patologie epatiche allo stadio terminale si associano ad aumentato rischio di patologia coronarica. La metà dei pazienti affetti da steatosi epatica non alcolica, cirrosi potus-relata e cirrosi criptogenetica si configurano nell’ambito della sindrome metabolica e di conseguenza sono ad aumentato rischio di coronaropatia12. Inoltre pazienti cirrotici con più di uno dei fattori di rischio cardiovascolare (sesso maschile, età >50 anni, tabagismo, ipercolesterolemia, ipertensione e diabete mellito) hanno un’alta probabilità di una concomitante CAD, spesso asintomatica. In particolare la combinazione di diabete e CAD può essere particolarmente sfavorevole per l’outcome del paziente trapiantato. Va anche tenuto presente che dopo il trapianto si può verificare un ulteriore deterioramento dei profili di rischio a causa degli effetti metabolici della terapia immunosoppressiva (diabete, ipertensione, ipercolesterolemia, aumento BMI)13. Benchè l’efficacia dello screening per CAD nei candidati al trapianto di fegato non trovi unanimi consensi, le linee guida lo raccomandano in pazienti selezionati. La valutazione cardiaca con l’ECG e l’ecocardiogramma sono gli esami base che routinariamente vengono effettuati nella maggior parte dei Centri. L’esecuzione di ulteriori indagini diagnostiche dipende dalla individuazione dei fattori di rischio cardiovascolare e può variare nei diversi centri. Comunque è difficile stabilire, nella pratica clinica, controindicazioni cardiologiche assolute o relative al trapianto
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SOLLAZZI
LA SELEZIONE DEL RICEVENTE
di fegato e anche queste possono differire tra i vari centri. L’associazione Americana per lo Studio delle Patologie Epatiche (AASLD) raccomanda nei candidati a trapianto la valutazione per CAD mediante stress tests in presenza di CAD nota, diabete mellito o di un numero ≥ 2 di fattori di rischio cardiovascolare diversi dal diabete (10,2). Lo studio funzionale cardiovascolare con la SPECT nei pazienti cirrotici non è stato validato in termini di capacità diagnostica e di predittività dell’outcome perioperatorio14. Infatti la riduzione delle resistenze vascolari, tipica del cirrotico, determina una mal distribuzione del flusso coronarico e può rendere la vasodilatazione indotta da Adenosina o Dipiridamolo insufficiente a determinare l’aumento necessario del flusso coronarico. Di contro l’ecostress con Dobutamina15, che determina stimolo inotropico diretto, è considerato da alcuni studi l’esame di scelta in questi pazienti, ma altri mettono in dubbio la sua validità nell’evidenziare una ischemia inducibile16. Va ricordato, infatti, che per l’ incompetenza cronotropica ed il frequente impiego di betabloccanti per il trattamento dell’ipertensione portale, l’ecostress con Dobutamina può risultare inconcludente ai fini diagnostici perché difficilmente vengono raggiunti i valori target della frequenza cardiaca e del prodotto frequenza-pressione. Nuove opportunità diagnostiche non invasive sono rappresentate dalla RMN cardiaca e dalla coroTC che consentono la valutazione, mediante opportuni scores, del grado di calcificazione delle coronarie e dell’anatomia delle stesse17,18. Considerata la limitata validità dei tests non invasivi, la coronarografia rimane il Gold Standard per la valutazione dell’estensione e della severità della CAD nei pazienti cirrotici selezionati. La rivascolarizzazione coronarica deve essere presa in considerazione nei pazienti candidati che presentino una CAD ostruttiva che controindica il trapianto. Al posizionamento di stents medicali, che richiedono la doppia antiaggregazione piastrinica con maggior rischio di sanguinamento, vengono preferiti gli stents metallici10. Sindrome epatopolmonare (HPS) è caratterizzata da abnorme dilatazione vascolare intrapolmonare con conseguente mismatch ventilazione-perfusione e ipossiemia; può essere reversibile dopo il trapianto e rappresenta, talora, un’indicazione anche ad un trapianto urgente. La valutazione pre trapianto richiede un EAB con valutazione della paO2, ecocardiografia trans toracica con contrasto e risposta alla somministrazione di O2 al 100%, nonché la quantificazione dello shunt intrapolmonare. I pazienti con ipossie severe sono ad alto rischio di mortalità perioperatoria. PaO2 < 50 mmHg, associate a frazioni di shunt di più del 20%, sono indici predittivi di elevata mortalità post-operatoria19. L’ipertensione porto polmonare (POPH) ha un’incidenza variabile dal 5 al 10% dei pazienti cirrotici candidati al trapianto di fegato ed è caratterizzata da elevate resistenze vascolari polmonari per vasocostrizione e progressivo rimodellamento vascolare. A differenza della HPS, l’ipossiemia si manifesta tardivamente e la POPH moderatasevera (mPAP ≥ 35 mmHg) può essere una controindicazione al trapianto se non risponde alla terapia con vasodilatatori20. Una diagnosi accurata della POPH è, pertanto, fondamentale nella selezione del paziente e nel management perioperatorio. L’ecocardiografia doppler è la metodica più sensibile per la diagnosi di POPH ma, poiché il 560
valore predittivo positivo è basso, in presenza di valori elevati di PAPs e/o di disfunzione ventricolare dx è necessario completare lo studio con il cateterismo del cuore destro. Insufficienza renale. Diversi studi hanno evidenziato che l’aumento di creatinina, è un fattore di rischio indipendente di sviluppo di insufficienza renale e di ridotta sopravvivenza dopo trapianto21. L’insufficienza renale acuta per sindrome epatorenale (tipo I) di solito migliora dopo il trapianto e non sembra avere un impatto negativo sull’outcome post-trapianto, anzi, poiché la sopravvivenza media dei pazienti con sindrome epatorenale di tipo 1 è minore di 2 settimane, quest’ultima può costituire un’indicazione all’anticipo della procedura trapiantologica22. Al contrario, l’insufficienza renale cronica ha un impatto negativo sulla sopravvivenza ed aumenta il rischio di dialisi dopo il trapianto, tanto che il trapianto combinato di fegato e rene può essere preso in considerazione in pazienti selezionati con insufficienza renale preesistente e sviluppo di insufficienza epatica. Vi sono poi delle specifiche condizioni che vanno tenute presenti tra cui ricordiamo l’età che pur non costituendo un obstat al trapianto, è una condizione associata ad un numero maggiore di comorbidità e ad una maggiore incidenza di patologie neoplastiche. I pazienti anziani, in particolare oltre i 60 anni, candidati a trapianto di fegato hanno perciò una ridotta probabilità di sopravvivenza a lungo termine rispetto alla popolazione giovane adulta23,24. Altre due problematiche che condizionano la buona riuscita di un trapianto sono l’obesità ed il tabagismo. E’ noto che i pazienti candidati a trapianto di fegato, in particolare con BMI > di 40 presentano una ridotta sopravvivenza postoperatoria a 30 giorni e ad 1 e 2 anni rispetto ai pazienti normopeso e che la sopravvivenza a 5 anni è ridotta in tutti i pazienti con BMI >3525. Il tabagismo è associato ad un aumento dell’incidenza di trombosi dell’arteria epatica, effetto che si riduce sensibilmente fino a scomparire se si sospende il fumo per due anni prima del trapianto26. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26.
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La cardiomiopatia del cirrotico e gli indici biochimici: pro L. SOLLAZZI, M.T. CAZZATO, N. MARTELLA, F. VITALE
Cardiomiopatia cirrotica è un termine che designa una disfunzione cardiaca cronica caratterizzata da alterato lusitropismo, disfunzione sistolica specialmente in situazioni di stress, associate ad anomalie elettrofisiologiche come il prolungamento del QT e incompetenza cronotropica, in assenza di altra patologia cardiaca1,2. Tale disfunzione cardiaca può influenzare la prognosi dei pazienti e condizionare il corso di procedure invasive come la chirurgia, l’inserimento di shunts porto sistemici trans giugulari (TIPS) e il trapianto di fegato3. D’altra parte alcuni studi hanno evidenziato che il trapianto di fegato può migliorare le alterazioni cardiocircolatorie tipiche del paziente cirrotico, ivi compresa la cardiomiopatia4. Alla base di questa entità vi sono anomalie fisiologiche e biochimiche che influenzano negativamente la funzione cardiaca sul piano della contrattilità, conduzione e ripolarizzazione. Tali alterazioni sono estremamente complesse ed ancora non completamente chiarite e comprendono disregolazioni autonomiche, down regolazione recettoriale, cambiamenti nella fluidità della membrana cellulare con alterazione dei flussi ionici, attivazione dei cannabinoidi endogeni, del sistema delle citochine e della via dell’ossido nitrico (NO) ed anomalie dei miofilamenti2. Per il clinico è pertanto molto importante poter valutare e monitorare l’andamento della performance cardiaca, dato che questa ovviamente influenza la prognosi del paziente che debba andar incontro a situazioni di stress fisico come la chirurgia ed il trapianto. Durante il processo di valutazione vengono eseguiti vari tests clinici della funzione cardiaca, come l’ecocardiografia e la miocardioscintigrafia, ma entrambi hanno, nel paziente cirrotico, valori predittivi ancora oggi discutibili. Sebbene in tali pazienti lo stress test alla dobutamina viene comunemente usato per rivelare una eventuale disfunzione miocardica, tuttavia un ecocardio o scinti miocardica condotta con questa metodica possono rivelare nel preoperatorio una disfunzione ventricolare solo nel 10% dei casi, soprattutto nel caso di cirrosi meno avanzate3. In quest’ottica si inserisce la ricerca di markers biochimici che permettano di seguire proprio l’andamento della disfunzione cardiaca in modo semplice, rapido, facilmente riproducibile, operatore indipendente, non invasivo e Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Istituto di Anestesiologia e Rianimazione, U.C.S.C., Roma
pertanto anche potenzialmente frequente e a basso costo. Da anni ormai è noto che la concentrazione di peptidi atriali come il peptide natriuretico atriale (ANP) e il peptide natriuretico cerebrale (BNP), nel sangue periferico, possa predire la funzione cardiaca con un elevato livello di sensibilità e specificità5,6. ANP e BNP sono secreti dagli atri e dai ventricoli rispettivamente7. I livelli di ANP sono stati sempre considerati markers di sovraccarico di volume associati con l’insufficienza cardiaca anche in fase molto precoce8. Il BNP, indicatore di sovraccarico di volume e di pressione tele diastolica ventricolare sinistro, è considerato un indicatore più attendibile (85%) e specifico (74%) rispetto agli altri peptidi natriuretici di disfunzione ventricolare diastolica e sistolica5,9. Dal momento che elevati livelli di BNP possono identificare pazienti asintomatici con disfunzione diastolica, il BNP è diventato un utile parametro di screening di disfunzione cardiaca. Vari studi hanno suggerito che il suo precursore proBNP, per l’emivita più lunga e la maggiore stabilità nel plasma rispetto all’ormone biologicamente attivo, possa essere un indice migliore per evidenziarne un aumentato rilascio dai miociti. Diversi studi hanno rilevato livelli elevati di ANP e BNP nei pazienti cirrotici. Tali peptidi sembrano correlare con la gravità della cirrosi, con il grado di disfunzione cardiaca e di ipertrofia miocardica, ma non con il grado di circolazione iperdinamica6,10. Valori elevati di ANP sono correlati con il sovraccarico di volume più che con il grado di disfunzione cardiaca nella cirrosi e i livelli del suo pro ormone NTproANP, che in alcuni studi è associato con la disfunzione ventricolare sinistra7, non sono stati determinati nei pazienti cirrotici. Per l’iperattività del sistema renina angiotensina aldosterone (RAAS), i pazienti cirrotici hanno un sovraccarico di volume che coesiste con un volume centrale che può esse-
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SOLLAZZI
LA CARDIOMIOPATIA DEL CIRROTICO E GLI INDICI BIOCHIMICI: PRO
re normale o addirittura ridotto. Pertanto l’aumento della concentrazione di tali peptidi potrebbe non essere causato da un sovraccarico del volume centrale, anche se nei pazienti con ridotto volume centrale si possono avere sub compartimenti localmente sovraccarichi come può accadere per il ventricolo sinistro. L’aumento di ANP in alcuni pazienti cirrotici può riflettere, infatti, la distensione o distorsione degli atrii, un reperto che può coesistere con l’effettiva ipovolemia di tali pazienti2. Anche per il BNP, diversi studi evidenziano livelli elevati sia nella cirrosi scompensata9 che compensata, anche se in quest’ultima i valori possono risultare anche normali11. Il sovraccarico di volume del paziente cirrotico porta ad una ipertrofia e fibrosi cardiaca con rimodellamento strutturale per deposizione di collagene interstiziale e aumentato spessore del ventricolo sinistro5. L’aumentata tensione della parete ventricolare sinistra, a sua volta, attiva il rilascio di BNP che, per il suo potente effetto diuretico, natriuretico e vasodilatatore, potrebbe rappresentare una risposta compensatoria atta a ridurre l’ipertrofia ventricolare. In diversi studi l’aumento dei livelli circolanti di NTproBNP correla con lo spessore settale e col diametro telediastolico ventricolare sinistro10,12. A differenza dell’ecocardiografia doppler convenzionale che ha mostrato limitazioni nell’indagare la capacità lusitropa del cuore3, la sensibilità e la specificità dell’NTproBNP nel rivelare la disfunzione diastolica ventricolare sinistra arrivano addirittura al 90% e 100% rispettivamente, se associate al parametro ecocardiografico E/A trans mitralico13. D’altra parte gli indici ecocardiografici standard di funzione sistolica e diastolica sono condizionati da variazioni del precarico. Pertanto nel contesto della cirrosi, l’interpretazione delle immagini ecocardiografiche può essere difficoltosa considerando le progressive modificazioni emodinamiche che portano a differenti condizioni di carico. La troponina I è un altro indice biochimico valutato da alcuni autori per lo screening della cardiomiopatia cirrotica2,11. Pateron riscontra elevati livelli sierici di troponina I nei pazienti con cirrosi, specialmente in quelli con cirrosi alcolica11. Tali valori non correlano con il grado di ipertensione portale, né con le modificazioni del circolo pol-
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monare o i tests di funzionalità epatica, suggerendo, pertanto, l’indipendenza di questo biomarker dalla severità della malattia epatica di base. Al contrario veniva osservata un’associazione con alcuni indici di funzione cardiaca, quali il ridotto stroke volume e l’aumento della frequenza finalizzata a mantenere valori elevati di indice cardiaco; ciò in conseguenza dell’incremento dell’attività simpatica e quindi del maggior livello di catecolamine circolanti che possono slatentizzare un’ischemia subendocardica14. A differenza della cardiomiopatia alcolica, una delle caratteristiche della cardiomiopatia cirrotica è l’ipertrofia ventricolare sinistra, in particolare del setto5, che di per sé determina una riduzione della riserva coronarica e quindi può predisporre ad un’ischemia subendocardica2,5. C’è inoltre da considerare che la vasodilatazione estrema, tipica dell’iperdinamismo del cirrotico, può determinare una maldistribuzione del flusso coronarico con zone a rischio potenziale di ischemia. Pertanto lo studio dell’andamento della troponina potrebbe risultare valido per evidenziare un eventuale insulto miocardico ischemico prima che si evidenzino alterazioni elettrocardiografiche e/o ecocardiografiche. In conclusione, nonostante numerosi studi abbiano dimostrato la potenziale validità dei suddetti biomarkers nel diagnosticare precocemente la cardiomiopatia cirrotica, tuttavia l’effettivo ruolo, come markers prognostici, in questo scenario non è stato ancora sufficientemente esplorato e rimane a livello speculativo. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.
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Il ruolo dell’ecografia nella gestione delle vie aeree. Role uf echography in airway management M. SORBELLO1, A. ANILE1, L. PARRINELLO2, S. NICOSIA2
Diagnostic and interventional ultrasounds (US) have a now well established role in many areas of Medicine, and day after day they become more and more used by Anaesthetists too.It was oonly in 1999 that Hatfield and Bodenham predictively affirmed that “[US represent] a developing area which is likely to expand rapidly when clinicians appreciate the true potential of such technique” (), but probably they could not imagine that less than 15 years later, US technology would have been so represented in Anaesthetists’ practice. Central and peripheral lines, arterial lines, peripheral and central blocks, FAST protocols for emergency abdominal exploration, lungs echo exploration and fast echocardiography represents some of the common and widespread applications of US to Anaesthesia and Intensive Care; last but not least, use of US for airway management represents an attractive and pluripotential field of application for this easy, safe, low cost and low skill (at least for basic use) technology. The first ultrasound instrument was introduced in the early 1950s, but it was only in the 1960s that similar units became available for limited, primarily experimental use. In the early 1980s, there had been significant improvement in the technology to the extent that real-time ultrasound was developed, and real-time scanning was one of the most significant factors conditioning applications and large use of US. The American College of Emergency Physicians (ACEP) offered its first course specifically dedicated to emergency applications of ultrasound in 1990, and in 2001, ACEP published the Emergency Ultrasound Guidelines, which pertain to the scope of practice and clinical indications for emergency ultrasonography. Nevertheless, despite such earliest reports dealing with US applications in clinical medicine include the description of soft-tissue imaging of the pretracheal structures and anterior tracheal wall, the first detailed reports of using US to assist in various applications in airway management date from only a few years ago, that is why this peculiar field of US application is still to be well studied and established, and it probably represents the future for development of such a technique. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1Anestesia
e Rianimazione, AOU Policlinico Vittorio Emanuele Catania, PO Vittorio Emanuele, Catania, Italy 2Anestesia e Rianimazione,PO Lentini (Siracusa), Italy
Basics and physics of US for Airway Management This is not a paper to discuss US physics and basics; we thus recommend further readings, including those recent paper which higlight potentiality of biological US side effects which are normally underestimated by the largest majority of physicians. Nevertheless, it is important to remember that selected probes are required for airway study, such as Linear 7-12 MHz and Convex 2-6 MHz probes; generally, vascular-type probes with high frequencies (> 7.5 MHz) and high resolution are used. The main concern for use of US in the airway is represented by limited view that can be obtained: some structures such as larynx, trachea, epiglottis, cricoid cartilage, which are clearly echoic, result in a good and detailed view on echo screen, while reflectance of US at tissue-air interface (which is mostly represented in normal airways) produces a very poor view of whatever is in the background. Due to the very high acoustic impedence of air, US cannot directly depict the inside of any air-filled organ. On the other hand, due to their superficial position, the frontal and lateral walls of nearly all upper airway segments are visible either partially or completely. For the same reason, to give an example, the cuff of an endotracheal tube is hardly detected, if not inflated with fluid to reduce this limitation. Airway sonoanatomy regards different structures: US can image the floor of the oral cavity and its lateral wall with vertical and diagonal scansions; the lateral walls of the nasal cavity are only rarely visible (only if if the maxillary sinuses are filled with liquid), while the larynx is a musculocartilaginous structure situated below the hyoid bone which remains very clearly visible by US as hyperechoic structures (cartilages) reciprocally connected by isoechoic membranaceous ligaments with visible air below. Tracheal rings, down from the cricoid cartilage,
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are easily visible by US in vertical or transversal section together with the differently echoic pretracheal tissue. US for Airway assessment US approach might represent an interesting, low cost and noninvasive test for routine second level study of the airway, meaning in all cases in which some suspects arise after an inspective clinical study of the patient. A recent study compares clinical and ultrasonographic airway examination, concluding that Sonography of the upper airway is capable of providing detailed anatomic information and has numerous potential clinical applications. An interesting paper by Sustic underlines a number of attractive advantages for US compared with competitive imaging techniques or endoscopy, as it is widely available, portable, repeatable, relatively inexpensive, pain-free, and safe. Ezri and Coworkers confirmed role of obesity as independent predictor of difficult intubation with an elegant US-based study, providing a neck circumference cutoff value and confirming that US better than increased body mass index predict difficult laryngoscopy. On this pathway, US have been used for diagnosis of airway masses, anatomical distortion and not least for Obstructive Sleep Apnoea Syndrome diagnosis and airway implications. US for difficult airways: ET tube position Accordingly to different airway management guidelines, including SIAARTI, after insertion of any endotracheal tube, position confirmation procedure is mandatory to exclude esophageal or endobronchial intubation; due to poor effectiveness of simple chest auscultation, exhaled CO 2 detection or direct fiberoptic view through the endotracheal tube remain the gold standard techniques for this procedure. On this point of view, US, despite their technical limitations, might represent a simple and low cost alternative, probably in non operative room settings (with ICU at first place) where both CO2 and fiberoptic scopes are not always available. For this purpose, if direct view of the inflated cuff might be difficult if not impossible due to limitations of the technique itself, inflation with fluid together with bubbles or leaving a malleable stylet in the tube might provide the direct view of tube cuff inside the trachea (below tracheal rings image). At same time, US provide a reliable and specific method to assess correct endotracheal intubation by observation of correct expansion of both pleura, lungs (lung sliding sign) and diaphragm, thus resulting in indirect quantitative and qualitative indicators of lung expansion and specific confirmation of correct intubation. This approach might also help in excluding bronchial intubation (pleuropulmonary and diaphragmatic movements remain unilateral) or using US to assess correct selective intubation during one lung ventilation and adequate tube choice to perform selective or superselective procedures. At same time US might also result safe and effective in case of non operative room intubation or during patients transport or external interventions. New and recent studies are cur564
rently performed to assess in an evidence based manner the effectiveness and the potential role for US for correct endotracheal assessment, whereas actual informations seem very promising. US for emergency cricothyrotomy The opportunity to “see the unseen” offered by US was really appreciated by Anaesthetists with central venous lines placement; following this line, it was almost natural thinking of using US guided approach to identify cricothyroid membrane and to address correct puncture site for emergency cricothyrotomy. Different papers have studied this opportunity on realistic models, but probably US are not yet so promptly and commonly available to allow a full setup in useful time lags to allow a safe and effective emergency airway access, where the best option always remains correct and prudential preprocedural identification of potential cannot ventilate - cannot intubate situations. On this point of view, preliminary US-supported airway evaluation, including preliminary identification of landmarks, including cricothyroid membrane, could be a great tool to practice and to increase procedural safety.US for Percutaneous TracheostomyDifferently from emergency tracheal access, preprocedural US represent a well known and very functional and interesting technique for elective (percutaneous) tracheotomy, whereas they allow correct puncture site identification, preliminary recognition of aberrant neck masses or longitudinal vessels (which might result in critical emhorrage) and correct approach in relationship to a physiological (isthmus) or pathological thyroid gland. US might also be used to check bilateral and regular lung expansion during ventilation to the inserted tracheostomic cannula. In any case, it is important to underline that, especially in case of percutaneous techniques, use of US should not encourage abandon of fiberoptic periprocedural control, either before, during and after tracheotomy is performed. US for pre- and post-extubation evaluation Larger diffusion of US in the ICU setting has allowed interesting airway uses for this technique when facing long time intubated patients scheduled for weaning and extubation. US approach, in fact, has been used to assess readiness for extubation and to try to prevent post-extubation complications. In the first case, US have been used starting from the principle that respiratory movements and excursions of the diaphragm, liver, and spleen directly correlate with respiratory muscular strength, and that extubation outcome is in direct correlation with such muscles performance and endurance. So, considering that US can easily explore respiratory muscles activity, they can be used to assess weaning performance during spontaneous/supported breathing trials and to follow-up postextubation performance, as elegantly demonstrated in a recent paper. US might also be used during extubation to assess laryngeal structures conditions, with particular reference to airway caliber and evenctual swelling/edema at vocal cords level, which might translate in stridor and
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IL RUOLO DELL’ECOGRAFIA NELLA GESTIONE DELLE VIE AEREE. ROLE UF ECHOGRAPHY IN AIRWAY MANAGEMENT
respiratory distress after extubation. A study by Lakhal and Coworkers showed a good correlation between magnetic resonance and US airway caliber studies, and this might represent an interesting approach for easy and non-invasive assessment of airways at extubation, aimed to increase periprocedural safety. US for fasting extimation, airway local anaesthesia delivery, LMA cuff placement Other interesting applications for US in the field of airway management might regard correct placement and cuff pressure monitoring with LMA or other extraglottic devices once in position, and to allow safe jugular vein cannulation with these devices in position. They can also be used to perform US-guided airway anaesthesia techniques for the approach to superior laryngeal nerve close to thyroid cartilage and very interestingly to assess gastric content, which could be extremely used when facing full stomach patient or patients suspected for risk of aspiration, with important potential implications on anaesthesia technique to be performed.
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Future directions Considering easeness of US approach, costs, instruments diffusion and lack of (known) side effects, we can easily hypothesize larger use of US techniques in many fields. As in other technology applications a hidden risk might be represented by loss of “blind” approach techniques because of ability to perform only “US revealed” procedures; this means maintainance of traditional skills together with oriented and targeted learning of new techniques, including US approach. At the moment, probably, one of the greatest challenges faced by critical care physicians in widely adopting ultrasound is the requirement for wide- spread ultrasound education in order to reach proficiency and ensure safety; this can be (easily) obtained implementing an ultrasound curriculum in the course of training for residents, and, more challenging, education of those already in practice, who could not be prone to accept new techniques or, even worse, to be taught on something which, easy in the appearence, requires anyway a learning curve and a suffuicient practice.In the end, we might say that US, they sound really good!
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Preparazione del paziente critico C. SPENA, A. GRATAROLA
La gestione di una seduta di ossigeno terapia iperbarica richiede, nel caso dei pazienti d’area critica, una pianificazione accurata che tenga conto sia delle caratteristiche cliniche del soggetto candidato al trattamento, sia delle peculiarità di un impianto iperbarico. In particolare debbono essere considerate le caratteristiche dell’ambiente fisico, le dotazioni biomedicali disponibili all’interno della camera iperbarica, i protocolli operativi specifici per l’OTI, il tipo di equipe dedicata a questa attività. Innanzitutto occorre valutare le conseguenze delle sollecitazioni peculiari a cui è sottoposto l’organismo del paziente durante la permanenza in camera iperbarica (aumento della pressione ambientale, aumento della densità dei gas, aumento della pressione parziale dell’ossigeno) su un soggetto degente in terapia intensiva. Si tratta spesso di pazienti sottoposti a ventilazione invasiva; per evitare variazioni di volume della cuffia tracheale occorrerà sostituire l’aria normalmente utilizzata con acqua bidistillata. Per quanto riguarda gli effetti della pressione ambientale sulle cavità aeree del cranio, i pazienti sottoposti a ventilazione invasiva possono essere soggetti alla mancata compensazione attiva delle variazioni pressorie che si ripercuote sull’orecchio medio. La tecnica della la miringotomia profilattica viene adottata nella maggioranza dei centri iperbarici, eventualmente completata dal posizionamento di una valvola timpanostomica qualora il programma terapeutico abbia una durata significativa. Un recente studio osservazionale ha messo in discussione la necessità di ricorrere sistematicamente alla miringotomia nei pazienti intubati, in quanto non vi sarebbe una maggior incidenza di barotrauma dell’orecchio medio nei soggetti ventilati meccanicamente, rispetto ai soggetti coscienti in grado di compensare attivamente. Ciò viene spiegato con il rilassamento della muscolatura peristafilina dovuto alla sedazione farmacologica nei soggetti ventilati. Un paziente degente presso un centro di terapia intensiva, specie se proveniente dall’area chirurgica, riceve frequenti medicazioni con prodotti e presidi dalle caratteristiche quanto mai eterogenee. Le peculiarità dell’ambiente iperbarico richiedono una valutazione del rischio, in un’ottica antincendio, connesso all’introduzione in Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Unità Operativa Anestesia e Rianimazione, Dipartimento d’Emergenza ed Accettazione, IRCCS AOU San Martino IST, Genova
camera iperbarica di tali materiali. I parametri fondamentali su cui basare il giudizio in merito alle sostanze utilizzate per la medicazione sono la temperatura di autoignizione, il potere calorifico (heat of combustion) e l’oxygen index test. La temperatura di autoignizione definisce la tendenza alla combustione di una determinata sostanza; con l’aumento della percentuale e della pressione parziale d’ossigeno questo valore si riduce. Il potere calorifico è l’energia rilasciata durante la combustione completa di un materiale in condizioni standard; essendo una caratteristica intrinseca di una sostanza, ne definisce la potenziale pericolosità in caso di incendio. L’oxygen index (o limited oxygen index) è la minima percentuale d’ossigeno in grado di sostenere la combustione di un materiale. In linea generale, i prodotti basati su materiali siliconici e privi di derivati del petrolio hanno dimostrato sperimentalmente caratteristiche di maggior sicurezza in ambiente iperbarico. Le variazioni della pressione idrostatica, che si verificano durante una seduta di ossigeno terapia iperbarica, obbligano a specifiche cautele nei pazienti sottoposti a drenaggio pleurico. Viene raccomandato l’ inserimento nel tubo di drenaggio di una valvola di non ritorno di tipo Heimlich. Nel caso fosse necessaria l’ aspirazione continua dal cavo pleurico occorrerà tener presente che la depressione realmente imposta al tubo di drenaggio dal sistema d’evacuazione risulta superiore, aumentando la pressione ambientale, a quanto impostato sul regolatore. Questa cautela è necessaria al fine di prevenire lesioni ex-vacuo al parenchima polmonare. Utili indicazioni provengono da un approfondito studio sulle performance dei sistemi monouso di drenaggio toracico a tre camere in ambiente iperbarico. I parametri valutati sono stati la capacità d’aspirazione ed i flussi d’evacuazione, sia in fase di compressione e decompressione, sia in fase di pressione stabile. Viene confermata la neces-
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SPENA
PREPARAZIONE DEL PAZIENTE CRITICO
sità di adattare l’aspirazione imposta al cavo pleurico in base alla pressione idrostatica dell’ambiente. Il flusso d’evacuazione massimo ottenibile si riduce con l’aumentare della pressione ambientale ed aumenta con l’applicazione di pressioni d’aspirazione crescenti. In fase decompressiva la limitazione del flusso impone un rateo di depressurizzazione di 10 kPa/minuto o meno; in caso di depressurizzazione rapida, per evitare sovrappressioni nel cavo pleurico, è necessario applicare un pressione d’aspirazione al sistema di drenaggio di almeno 10 cm H2O. La presenza di dispositivi impiantabili quali pacemaker, defibrillatori o stimolatori midollari deve essere nota ai responsabili del trattamento iperbarico. I principali produttori dichiarano il grado di compatibilità dei propri dispositivi con l’ambiente pressurizzato. Appare buona norma una verifica preventiva dell’integrità di tali apparati, in particolare dei defibrillatori impiantabili, considerando la criticità della defibrillazione esterna in ambiente iperbarico. La presenza di numerosi accessi vascolari, venosi ed arteriosi, nei pazienti di terapia intensiva impone un accurato lavoro di verifica dell’integrità delle linee infusionali, al fine di prevenire embolizzazioni iatrogene; le soluzioni debbono essere contenute in sacche comprimibili. La camera iperbarica differisce notevolmente, dal punto di vista degli spazi, dai consueti teatri operativi della terapia intensiva; si tratta di un ambiente confinato, con superfici limitate e che non consente rapidi accessi o uscite. Anche la disponibilità di tecnologie è spesso condizionata dal tipo di contesto. Deve pertanto essere enfatizzata la necessità di un accurato lavoro preparatorio sullo staff (medico, infermieristico e tecnico) destinato alla gestione del trattamento iperbarico sul paziente critico. In conclusione, occorre affermare l’importanza di un’accurata pianificazione del trattamento iperbarico per i pazienti d’area critica. La complessità clinico-assistenziale che si realizza in questo particolare contesto costituisce un significativo banco di prova per l’organizzazione dei centri iperbarici.
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I monitoraggi neurofisiologici in neurochirurgia R. STEFANI
Introduzione Il moderno approccio neurochirurgico grazie all’ausilio combinato di sofisticate tecniche di neuroimaging e del monitoraggio inttraoperatorio permette un’invasività mirata dei tessuti, il risparmio delle aree vicine, l’estensione delle procedure chirurgiche anche in casi estremamente complessi con il raggiungimento di risultati sempre più incoraggianti in termini di qualità di vita e di aumentata sopravvivenza (Duffau et al., 2008). Le strategie decisionali perioperatorie, tuttavia, per quanto pianificate accuratamente , richiedono risposte affidabili in tempo reale circa la funzione che può risultarne compromessa o che deve essere salvaguardata. Il ruolo dello IOM esprime in tale contesto tutta la sua potenzialità (Deletis, 2002), offrendo la possibilità di valutare l’integrità funzionale delle strutture nervose che possono essere coinvolte nella procedura chirurgica. L’anestesia in corso di monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio, a causa delle significative interferenze della maggior parte dei farmaci sulla registrazione e interpretazione dei dati diventa una variabile discriminante (Sloan, 2002), e partecipa attivamente alla realizzazione di un processo di cura altamente articolato e complesso . L’anestesia in corso di IOM richiede una precisa strategia farmacologica e gestionale (Gds IOM NeuroSIAARTISINC-SINCH, in preparazione). Lo scopo di questa relazione è quello di illustrare brevemente le tecniche e il significato del monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio, comprenderne il valore ed i limiti, illustrare le tecniche di anestesia compatibili ed esaminare questioni irrisolte nella pratica clinica quotidiana. I monitoraggi neurofisiologici : overview e stato dell’arte Il sistema nervoso ha la proprietà di scambiare informazioni attraverso la generazione chimica di attività elettrica. Il monitoraggio dell’attività elettrica cerebrale permette la valutazione dell’integrità funzionale del sistema nervoso anche durante gli stati alterati di coscienza come lo stato di coma e la condizione di anestesia generale. Il lungo percorso che ha reso oggi possibile la disponibilità di un monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio inizia negli Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Neuroanestesia, Neurorianimazione, UOC Anestesia e Rianimazione, Azienda Ospedaliera Sant’Andrea, Roma
anni 30 del XX° secolo per la cura chirurgica dell’epilessia farmaco-resistente: utilizzando l’elettrocorticografia (EcoG) vari autori identificarono aree epilettogene , registrando direttamente dalla corteccia esposta e solo successivamente attraverso un elettrodo che registrava in profondità (Jasper, 1949; Marshall 1949). Penfield (1937) utilizzò la stimolazione corticale diretta (DSE) per definire l’homunculus della corteccia sensoriale e motoria. I successivi progressi clinici si verificarono nel corso di parecchi decenni e consistettero nell’introduzione dei potenziali evocati somatosensoriali, motori, uditivi e visivi, in sofisticati e numerosi accorgimenti tecnici per migliorare la qualità e l’affidabilità della registrazione in sala operatoria, in innumerevoli dibattiti e controversie di cui si ha ancora traccia relativamente alla standardizzazione delle procedure e alla scelta delle combinazioni più appropriate (Grundy, 1982; Nuwer e Dawson, 1984; Tumaki,1974 Hicks, 1991; Moller,1985; Nuwer, 1986). Queste tecniche di monitoraggio intraoperatorie venivano condotte con set di strumentazione destinate a valutazioni elettrofisiologiche ambulatoriali applicate a pazienti svegli e quindi senza l’inteferenza dell’anestesia . Soltanto agli inizi degli anni 80 si è giunti alla commercializzazione di una strumentazione progettata per l’impiego in sala operatoria. Il primo servizio di IOM fu costituito alla UCLA nel 1979 e offrì una varietà di tecniche di neuro monitoraggio per ogni tipo di necessità chirurgica; soltanto dalla fine degli anni 80 IOM divenne una tecnica standardizzata di vasto impiego. Attualmente sono disponibili sistemi computerizzati a 32 canali che permettono l’analisi simultanea dei molteplici parametri esaminati. Il monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio si basa sull’applicazione combinata delle tecniche di cui dispone la elettrofisiologia clinica; viene definito monitoraggio multiparametrico e multimodale.
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STEFANI
I MONITORAGGI NEUROFISIOLOGICI IN NEUROCHIRURGIA
Le tecniche di monitoraggio neurologico intraoperatorio sono le seguenti: 1. Potenziali evocati motori (Tce MEPs) da stimolazione elettrica transcranica e diretta (DSE); 2. Potenziali evocati somato-sensoriali (SSEPs); 3. Potenziali evocati acustici (BAEP); 4. Potenziali evocati visivi (VEP); 5. EEG ed Elettroencefalografia corticale (EcoG); 8. Elettromiografia spontanea ( EMG free-run) e triggerata (tr EMG).
ed è inversamente proporzionale alla risposta metabolica tissutale: questo sta a significare che quando compare l’alterazione della risposta evocata , il livello di flusso ematico è ancora superiore al livello che può provocare un danno irreversibile. Quando invece la perdita di ampiezza si instaura progressivamente e la latenza aumenta il problema può essere dovuto ad ischemia diffusa. Per quanto riguarda i potenziali somatosensitivi ed acustici, ome principio generale è considerata significativa (allarme per il neurochirurgo) una riduzione dell’ampiezza del 50% e/o un aumento del 10% della latenza. Per quanto riguarda i potenziali evocati motori da stimolo elettrico non vi è accordo unanime sui criteri di allarme, è sicuramente ritenuto un segnale di allarme la scomparsa del potenziale motorio, ma deve essere prestata particolare attenzione alle modificazioni nell’intensità di stimolazione che si deve erogare per ottenere la medesima risposta o ad una instabilità della risposta motoria.
Vengono eseguite attraverso elettrodi di stimolazione e di registrazione, posizionati sul corpo del paziente in aree codificate in relazione alle funzioni da esaminare. L’attività funzionale in esame risulta leggibile sottoforma di segnali elettrici caratteristici e specifici a seconda della sede di registrazione e della tipologia di stimolazione . Gli elettrodi vengono applicati dopo l’induzione dell’anestesia: il loro posizionamento richiede circa 15-30 minuta a seconda della complessità del monitoraggio prescelto e la prima registrazione, che costituisce il riferimento di base alla successive valutazioni, viene effettuata dopo l’induzione dell’anestesia, quando il livello di anestesia risulta costante e stabile. La variabile combinazione di queste tecniche consente la sorveglianza dell’integrità funzionale delle aree a rischio per una specifica patologia e sede di intervento chirurgico e nel rispetto dell’organizzazione cerebrale individuale (De Benedictis e Duffau, 2011). Il monitoraggio prevede la registrazione “operativa” dell’attività elettrica spontanea ed indotta in continuo dopo l’esposizione dell’encefalo o del midollo spinale o di un nervo periferico, la stimolazione e la registrazione delle risposte evocate, in un regime anestesiologico stabile e costante e in una condizione di appropriata omeostasi locale e sistemica, durante la definizione dei confini chirurgici della lesione e della exeresi o durante il clampaggio di un vaso arterioso. Il significato e l’efficacia del monitoraggio neurofisiologico La normalità e la preservazione dei segnali registrati nel tempo indicano l’integrità dei tratti funzionali esaminati. L’insorgenza di modificazioni dei segnali costituisce un indicatore in tempo reale di un danno funzionale della via esplorata in un fase ancora, il più delle volte , reversibile e consente di identificare quale specifico gesto chirurgico induce l’insorgenza di tali variazioni. La modificazione del potenziale evocato indotta da cause chirurgiche è estremamente sensibile all’ischemia e la rilevazione precocissima della sua comparsa, caratterizzata da una rapida perdita dell’ampiezza del segnale con minime variazioni della latenza, permette una modificazione tempestiva (fino anche alla sospensione temporanea) dell’atto chirurgico prima che il danno diventi irreversibile, favorendo spesso il recupero funzionale pressoché completo e quindi in gran parte la riduzione della disabilità post-operatoria o, almeno, permette di prevederne e valutarne l’entità. L’ischemia produce una perdita di risposta rapida se sono coinvolte le componenti sinaptiche; la tolleranza all’ischemia è direttamente correlata al flusso ematico residuo 570
Campi di applicazione in neurochirurgia: 1. Chirurgia intracranica sovratentoriale, per patologie neoplastiche soprattutto i gliomi a basso grado di malignità la cui ampia exeresi risulta il fattore maggiormente condizionante la sopravvivenza. È previsto anche il monitoraggio ed il mappaggio di aree critiche quali Corteccia Motoria, Area del linguaggio e Insula, Corteccia Visiva, Corteccia Uditiva, alcuni Nervi Cranici. È possibile effettuare un monitoraggio accurato utilizzando una combinazione di tecniche neurofisiologiche in base alla sede, all’estensione ed ai confini della lesione ed alla integrazione dei dati fMRI. Il mappaggio corticale e sottocorticale è fondamentale per ottenere una resezione il più completa possibile soprattutto se la lesione interessa o è in prossimità di aree eloquenti. Altre metodiche di cui ci si avvale sono: EEG o Elettrocorticografia (EcoG), potenziali evocati somato-sensoriali (SSEPs), potenziali evocati motori (MEP), potenziali evocati acustici, potenziali evocati visivi e l’analisi dell’attività muscolare spontanea o triggerata (EMG). 2. La chirurgia del tronco encefalico richiede un monitoraggio accurato dei nervi cranici motori (VII°, porzione motoria del V°, III° IV° ,VI° , XI°, XII°) con i potenziali evocati motori da stimolo elettrico trancranico (monitoraggio) e diretto (mappaggio) , l’analisi dell’attività EMGrafica dell’VII° nc e della via acustica con i potenziali acustici (BAEP) oltre al monitoraggio delle vie sensitive e motorie con i potenziali somatosensoriali (SSEPs) e potenziali evocati motori (MEP) (Moller, A. 2002, Bricolo e Sala, 2002) 3. La chirurgia spinale dei tumori o di lesioni vascolari intramidollari richiede modalità il monitoraggio continuo della via motoria e somatosensitiva, mediante il monitoraggio dei potenziali evocati motori (MEP), dell’onda D dell’elettromiografia spontanea e triggerata (EMG e trEMG) e dei potenziaali evocati somatosensoriali (SSEP). In base al livello nel quale è localizzata la lesione spinale (cervicale, dorsale, lombare o cono-cauda) verranno monitorati i distretti motori più a rischio. 4. Patologia vascolare: aneurismi e malformazioni arterovenose.
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I MONITORAGGI NEUROFISIOLOGICI IN NEUROCHIRURGIA
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In caso di malattia vascolare cerebrale le strutture anatomiche a rischio sono le arterie del poligono del Willis, il circolo vertebrale, strutture corticali le vie somatosensoriali e motorie del tronco. Le modalità di monitoraggio applicabili consistono nei SSEP, MEP, EEG, potenziali evocati acustici e /o visivi ed eventualmente doppler transcranico.
cure prestate.Per quanto attiene alle aree della cognizione, della memoria e del linguaggio inesplorabili direttamente in stato di anestesia, ma non meno importanti per la qualità della vita del soggetto, si possono privilegiare strategie chirurgiche ed anestesiologiche che consentono il monitoraggio neurologico a paziente sveglio (awake craniotomy) utilizzando metodiche di stimolazione corticale diretta per il mappaggio corticale.
Efficacia e limiti L’obiettivo del monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio è quello di identificare rapidamente la compromissione introperatoria di aree e vie sensibili ed evitare il costituirsi di un danno irreversibile. L’efficacia del monitoraggio intraoperatorio richiede la registrazione di risposte che inferiscono la funzionalità dei tratti funzionali coinvolti, cioè questo tipo di monitoraggio è sensibile e sufficientemente affidabile solo in relazione ai parametri esaminati. Ciò significa che non è possibile ovviamente la sorveglianza di “tutte” le funzioni neurologiche, ma occorre selezionare prima dell’ intervento le funzioni a rischio di compromissione durante la manipolazione chirurgica e sorvegliarne costantemente l’integrità funzionale. Perché sia efficace deve essere molto accurato, molto ben costruito e devono essere eliminate tutte le possibili interferenze in grado di compromettere la rilevazione ottimale dei segnali esaminati: in questo contesto l’esperienza del team di monitoraggio, la comunicazione costante con l’equipe chirurgica ed anestesiologica diventano determinanti essenziali per condurre con successo la procedura. È stato dimostrato che in molte procedure chirurgiche questo metodo di monitoraggio ha ridotto la morbilità post-operatoria (Sala F, 2006 …….). Tuttavia non è una procedura perfetta, presenta dei limiti che vanno considerati e conosciuti: si possono registrare dei falsi positivi , che possono essere dovuti seppur raramente a problemi legati alla tecnica stessa, alla difficoltà di ottenere una traccia di buona qualità in alcuni pazienti e in questo specifico caso non deve essere considerato un vero allarme, ma un segnale non monitorabile, o come risultato di interferenze anestesiologiche o modificazioni importanti dei parametri vitali, che devono sempre essere verificati ed esclusi prima di dare un allarme. Nella maggior parte dei casi vi è una stretta relazione fra le modificazioni del segnale monitorato ed il deficit neurologico post-operatorio transitorio o definitivo. Non sono mai stati mai stati riscontrati dei falsi negativi: si possono avere delle sequele neurologiche non prevedibili dai segnali IOM o perché insorti come immediato deterioramento post-operatorio quando il monitoraggio è stato rimosso o perché risulta da lesioni di vie o strutture non monitorizzate e questi limiti tecnici devono essere noti all’equipe neurochirurgica.occasionalmente sono dovuti ad errori del team di monitoraggio che non riconosce i cambiamenti del segnale, quando questi si verificano. Sebbene a tutt’oggi non sia possibile sorvegliare compiutamente ogni funzione cerebrale in un paziente in anestesia, l’impiego diffuso e corretto di queste metodiche di monitoraggio ha acquisito importanza crescente, non solo ai fini di controversie medico-legati, ma a tutela della qualità di vita del paziente e della qualità dell’offerta delle Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Implicazioni anestesiologiche Nella scelta della strategia anestesiologica durante chirurgia con monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio, occorre tener presente che maggior parte dei segnali neurofisiologici sono altamente sensibili alle tecniche anestesiologiche (Kalman, 1991) e, seppure in misura minore, sono sensibili anche alle possibili variazioni dell’omeostasi corporea, in particolare all’ipotensione arteriosa, ad un abbassamento della temperatura corporea, all’ipossia, alle variazione della paCO2, ad alterazioni dell’equilibrio acido-basico, che devono pertanto essere mantenuti perfettamente controllati (Browing, 1992) I farmaci dell’anestesia, sia endovenosi che inalatori, interferiscono con la registrazione e l’intrepretazione del segnale. In teoria il tipo di interazione è predicibile , basato sul meccanismo d’azione dei farmaci coinvolti. I meccanismi dell’anestesia non sono completamente chiariti ma si ritiene che il principale bersaglio dei farmaci anestetici sia a livello dei recettori sinaptici GABA e NMDA, compromettendo la trasmissione sinaptica. Inoltre gli agenti inalatori alogenati e la ketamina sembrano anche ostacolare la conduzione assonale. Ne risulta che il maggiore impatto dell’anestesia sulle vie neurologiche utilizzate per il monitoraggio sembra essere a livello della conduzione sinaptica , con un minore addizionale componente legato alla lunghezza delle fibre (Sloan, 2002). Di tutti i farmaci studiati, il propofol è quello possiede caratteristiche farmacocinetiche più favorevoli all’impiego durante il monitoraggio neurofisiologico: è rapidamente metabolizzato così che le concentrazioni del farmaco possono essere titolate e mantenute a livelli compatibili con una adeguata anestesia endovenosa (TIVA o TCI) e la registrazione dei potenziali evocati (Scheufler, 2002) Gli effetti del propofol sui segnali neurofisiologici sono dose-dipendenti potendo arrivare, ad alti dosaggi, a produrre burst suppression e indurre silenzio elettrico cerebrale. Gli effetti degli oppioidi sembrano essere correlati alla loro concentrazione plasmatica: è stato osservato che le modificazioni provocate sui dei segnali evocati sono maggiori al picco di concentrazione del farmaco, dopo somministrazione di bolo endovenoso, mentre risultano minimali sui potenziali evocati motori e sensoriali se somministrati in infusione continua (Thees, 1999). I muscolo -rilassanti sono utilizzabili solo per l’intubazione, per il resto sono da evitare impedendo la esecuzione dei potenziali evocati motori e la registrazione dell’attività muscolare spontanea; possono essere utilizzati a basso dosaggio nella esecuzione di SSEP, per smorzare rumori di fondo che si sovrappongono al segnale. In conclusione la tecnica anestesiologica compatibile con l’esecuzione di monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio in neurochirurgia è abbastanza restrittiva e consiste
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STEFANI
I MONITORAGGI NEUROFISIOLOGICI IN NEUROCHIRURGIA
sostanzialmente in TIVA o TCI con impiego quasi esclusivo di propofol e fra gli oppioidi, di remifentanil; deve comunque soddisfare tutti i criteri di sicurezza e comfort per la gestione del paziente ed in particolare deve garantire: 1. un livello costante e stabile di anestesia e di analgesia: 2. la tolleranza alla ventilazione meccanica in assenza di curarizzazione , che assicura scambi gassosi appropriati; 3. l’ ottimizzazione dei parametri vitali e dell’ipertensione intracranica.
Conclusioni
La modalità TIVA durante il monitoraggio neurofisiologico (che viene condotto in condizioni basali e durante l’esposizione dell’encefalo o del midollo) consiste nella infusione continua di propofol al dosaggio 6 mg/kg/min e di remifentanil 0,05-0,08 mcg/kg/min in durante nelle fasi più algogene della procedura chirurgica e cioè durante il posizionamento della testiera e dall’ incisione dello scalpo fino all’apertura della madre e la successiva loro chiusura, deve essere assicurata una adeguata copertura analgesica, associata eventualmente all’ impiego di adiuvanti come la clonidina al dosaggio di 1,5 mcg/kg e da boli endovenosi di fentanyl, possibile perché in queste fasi il monitoraggio non è attivo. La modalità TCI durante monitoraggio neurofisiologico consiste nel mantenimento dell’anestesia con propofol Cef 3,5-4 mcg/ml secondo la classe ASA, ridotta negli anziani, associato a remifentanil 5-9 ng/ml all’effettore. Nella popolazione pediatrica, cui si deve applicare il monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio, può essere concessa l’induzione dell’anestesia con alogenati ed il mantenimento con TIVA/TCI con propofol e remifentanil (Weber , 2005). La stabilità del piano di anestesia può essere controllata dal monitoraggio con EEG intracranico , dei potenziali evocati uditivi (BAEP) e con modalità bispectral index (BIS), quest’ultimo più facilmente applicabile in chirurgia non neurologica (Mashour, 2008). Con queste accortezze di gestione anestesiologica, il monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio è stato reso possibile con successo nella quasi totalità dei casi esaminati, tuttavia rimangono ancora alcuni problemi da chiarire e da affrontare per migliorare la sicurezza del paziente e l’affidabilità delle tecnologie di cui disponiamo. Una delle problematiche ancora aperte riguarda il fatto che gli effetti dell’anestesia sullo IOM sono spesso più marcati nei pazienti con malattie neurologiche sottostanti e con pre-esistenti alterazioni dei potenziali evocati, accrescendo le difficoltà a realizzare un monitoraggio accurato ed attendibile proprio dei pazienti nei quali può essere più necessario. Un’altra problematica riguarda l’impiego dei farmaci anticomiziali (AED) e le loro aggiuntive possibili interferenze sul monitoraggio neurofisiologico in corso di anestesia ; sulla base del loro meccanismo d’azione possono esercitare a priori interferenze sulle risposte evocate, probabilmente dosaggio-dipoendente. Gli AED di vecchia generazione poi, a causa della induzione del sistema metabolico epatico, potrebbero influenzare la affidabilità della tecnica TCI, nel mantenere la stabilità del livello di anestesia, poiché nessun programma tiene conto di questa variabile. 572
Il continuo avanzamento tecnologico ci offre straordinarie opportunità oramai ampiamente convalidate e standardizzate, applicabili in ogni contesto che disponga di adeguate apparecchiature , ma occorre poter guidare singolarmente la scelta di procedure basate sull’evidenza clinica ritagliate sulle caratteristiche di ogni singolo paziente. Bibliografia Duffau H. Surgery of gliomas in eloquent areas: from brain hodotpy and pasticity to functional neurooncology Neurosurg Focus 2010;28(2) i. Sloan T. Anesthesia and Motor Evoked Potential Monitoring cap .17 in Neurophysiology in Neurosurgery, Academic Press, USA, 2002. Jasper HH. Electtrocorticograms in man . Electroenephalogr. Clin Neurophysiol 1949;(Suppl 2):16-29. Marshall C, Walker AE. Electrocorticography. Bull John Hopkins Hosp 1949;85:344-59. Penfield, Boldrey. Somatic motor and sensory representation in in the cerebral cortex of man as studied studied by electrical stimulation Brain 1937;37:389-443. Nuwer MR, Dawson EC. Intraoperative evoked ppotential monitoring of the spinal cord:enhanced stability of cortical recordings. Electroencephalogr. Clin. Neurophysiol. 1984; 59:318-27. Moller MB and Moller AR. Loss of auditory function in microvascular decompression for hemifacial spasm. Result in 143 consecutive cases. J Neurosurg 1985;63:17-20. Moller AR. Monitoring and mapping the cranial nerves and the brainstem Cap. 13 In Deletis and Shils, Neurophysyology in Neurosurgery, New York Academic press, 2002. De Benedictis A and Duffau H. Brain hodotopy: from esoteric concept to practical surgical application, Neurosurgery 2011;68:1709-23. Bricolo A, Sala F. Surgery of Brain stem lesion Cap 12 In Deletis and Shils, Neurophysyology in Neurosurgery, New York Academic press, 2002. Sala F, Palandri G, Basso E et al. Motor evoked potential improve outcome after surgery for intramedullary spinal cord tumors: an historical control study Neurosurgery 2006;58: 1129. Kalkman C, Drummond J, Ribberink A. Low concentration of isoflurane abolished evoked responses to transcranial electrical stimulation during nitrous oxide/opioid anestesia in humans. Anesth. Analg. 1991;73:410-5. Zentner J. Motor evoked potential in in operations of the brainstem and posterior fossa In “Intraoperative neurophyisiol monitoring “ (J. Schramm, AR Moller eds) 1991;95-105. Springer-Verlag, Berlin. Browing JL, Heizer MR, Baskin DS. Variations in corticomotors and somatosensory evoked potentials:Effects of temperature, halotane anestesia , and arterial partial pressure of CO2. Anesth Analg. 1992:74:643-8. Thees C, Scheufler KM, Nadstawek J et al. Influence of fentanyl, alfentanil and sufentanil on motor evoked potential . J Neurosurg Anesthesiol 1999;11-112. Per approfondimenti 1. Deletis V, Shils JL Neurophysiology in neurosurgery; a modern inttraatoperative approach, New York, Acaademic Press, 2002. 2. Daube JR, Mauguiere F. Handbook of Clinical Neurophysiology, Intraoperative Monitoringof Neural Function - Elsevier, 2008;8.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):573-82
Analgesia e soddisfazione materna S. STIRPARO
La soddisfazione può essere definita come l’esperienza che deriva da una valutazione soggettiva della distinzione tra ciò che accade realmente e ciò che l’individuo ritiene di dover ricevere1. La soddisfazione materna viene richiesta infrequentemente e ottenuta con questionari semplici o con domande che in genere elicitano risposte positive, perché generiche e poste dall’operatore stesso. Virtualmente, infatti, tutti gli studi che esaminano la soddisfazione materna riportano che più dell’80% delle partorienti sono soddisfatte delle tecniche di analgesia ricevute. Si assume in genere che una buona analgesia sia un prerequisito per una buona soddisfazione post-partum, ma non tutte le tecniche di analgesia sono associate o permettono di sviluppare quelle caratteristiche che sono considerate importanti per ottenere una buona soddisfazione2-4. In più, i questionari di soddisfazione “Home made” tendono a sovrastimare il senso di soddisfazione, così come quelli in cui la soddisfazione è valutata in termini generali. La soddisfazione materna, poi, è influenzata da molte determinanti, non soltanto dal dolore percepito o dalla sua assenza durante il travaglio ed il parto, dall’analgesia epidurale, ma anche dal senso di sicurezza e controllo della situazione, dal supporto del partner, dalle cure ostetriche, dall’esperienza di parti precedenti, dalle informazioni ricevute ed dal coinvolgimento nelle decisioni da prendere5-13. Questo significa che la donna può essere soddisfatta con alcuni di questi aspetti, ma non soddisfatta per altri10. Una review della letteratura indica quattro grandi categorie che influenzano la soddisfazione materna durante il travaglio ed il parto: 1. il dolore del travaglio e parto11, 14-17; 2. il senso di controllo11, 15-19; 3. l’auto-efficacia20-21 e 4. le aspettative materne sul travaglio ed il parto14-15. La conoscenza dei fattori che influenzano la soddisfazione materna è quindi fondamentale al fine di migliorare la qualità dell’assistenza dell’evento nascita. Il livello e il tipo di dolore Gli studi volti ad esaminare le aspettative delle donne in gravidanza circa il livello e il tipo di dolore variano nei loro risultati. Dalla letteratura emergono sostanzialmente Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Anestesia e Rianimazione, CdC Città di Roma, Roma
due punti chiave: il primo è che la percezione del dolore può essere considerata come un fatto positivo o negativo ed il secondo che il concetto che il dolore durante il travaglio è diverso dal dolore di una malattia. In un ampio studio qualitativo australiano le aspettative sul dolore venivano descritte come negative. Le donne intervistate percepivano la nascita come un’esperienza potenzialmente negativa ed avevano plasmato la loro paura prenatale e le loro maggiori preoccupazioni sulla severità del dolore22. Secondo un altro studio condotto in Giordania, il 92% delle donne coinvolte considerava il parto come un’esperienza negativa, probabilmente molto lunga (63%), difficile (66%), dolorosa (78%) o un evento di cui aver paura (66%)23. Ovviamente i risultati di tali studi hanno una valenza limitata sia per le differenze culturali sia per i differenti livelli di assistenza sanitaria. Al contrario, secondo uno studio svedese, le donne avevano aspettative positive sul travaglio e sul parto, riferendosi al dolore in termini contraddittori: “Penso che sia un dolore felice, sebbene possa essere un inferno”, attribuendo un significato positivo al dolore, perché letto come il passaggio indispensabile per diventare madri24. Tali atteggiamenti positivi rispetto al dolore, tuttavia, rappresentano probabilmente l’espressione della soddisfazione di aver saputo fronteggiare il dolore, piuttosto che la soddisfazione del dolore in sé25. Il dolore legato al travaglio è diverso da qualunque altro tipo di dolore, ma esiste il rischio di trattarlo come il dolore di una malattia da parte degli operatori sanitari, cioè, un effetto collaterale che deve essere eliminato24, 26; sebbene alcune donne siano d’accordo con il concetto che il dolore del travaglio non sia diverso dal dolore di una malattia, e pertanto lo percepiscano allo stesso modo26.
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L’ultima questione riguarda le aspettative in merito alla gravità del dolore; ed è importante riconoscere l’impatto potenziale che queste differenze potrebbero avere sulle aspettative. Le scelte che vengono compiute durante il travaglio sono effettuate sulla base di come le donne immaginano il dolore del travaglio22. Ad esempio, se una donna ritiene che il travaglio sia una condizione medica con dei rischi, è più probabile che intenda il dolore come qualcosa da sradicare. Se, tuttavia, il travaglio è ritenuto come un processo normale e naturale, la donna può essere maggiormente in grado di fronteggiare il dolore. Uno studio ha dimostrato che le aspettative per quanto riguarda il livello di dolore previsto influenzano la percezione della donna o la soddisfazione con l’esperienza della nascita, sia negativamente (sentirsi un fallimento se il dolore era maggiore del previsto) che positivamente (se il dolore era inferiore al previsto)27. Moltissimi studi dimostrano che le donne sottovalutano l’intensità del dolore che sperimenteranno; e se le donne non sono in grado di avere aspettative più accurate o realistiche sul dolore in travaglio non saranno in grado di prepararsi adeguatamente al travaglio. Dolore del travaglio e del parto Gli studi in merito alla relazione tra l’intensità del dolore e la soddisfazione materna hanno riportato risultati discordanti. Alcuni risultati attestano che le esperienze dolorose comportano una ridotta soddisfazione14, 28-31. altre ricerche hanno riferito che alti livelli di dolore non necessariamente comportano una totale assenza di soddisfazione32. In generale, però, si può facilmente comprendere che il dolore riduce la qualità dell’esperienza materna, anche se “mantenere il controllo della situazione” potrebbe permettere alla donna di non considerare completamente negativa l’esperienza del dolore del travaglio e del parto. Analgesia per il travaglio ed il parto Le donne desiderano un’analgesia efficace, e ciò emerge con chiarezza da tutti gli studi sulle aspettative delle donne in merito all’analgesia durante il travaglio ed il parto. Le donne in gravidanza, sono attualmente ben informate e si aspettano di avere un’analgesia adeguata e sono deluse se i loro desideri non vengono soddisfatti. È stato dimostrato, invece, che le donne che non si aspettano di ricevere un’analgesia epidurale durante travaglio e parto o non ne hanno ricevuto alcuna informazione durante il corso pre-parto possono sentirsi deluse nel caso se ne avvalgano33. In merito all’analgesia alcune donne richiedono la quantità minima di farmaci per rendere gestibile il dolore, mentre altre desiderano avere la maggior quantità di farmaci possibile14. Ma anche nel caso in cui le donne non erano sicure di cosa aspettarsi in merito al dolore durante il travaglio, hanno sperato che fosse gestibile, con o senza analgesia34. La letteratura sull’esperienza dell’analgesia si è focalizzata sul modo in cui le aspettative possono o meno influenzarne la valutazione nel post-partum. 574
Non vi è alcuna differenza rilevante tra i tipi di tecniche analgesiche che le donne avevano previsto di usare prima della nascita e ciò che è stato realmente utilizzato durante il travaglio35. Inoltre, è stato evidenziato che le donne che avevano previsto un travaglio più doloroso hanno avuto una maggior probabilità di richiedere una maggior quantità di farmaci14. I livelli di conoscenza dei diversi metodi per l’analgesia durante il travaglio ed il parto possono variare grandemente. Ad esempio,in uno studio multicentrico europeo, solo il 47% delle donne italiane e il 64% di quelle portoghesi erano consapevoli della possibilità di avvalersi dell’epidurale, rispetto al 94-100% delle donne britanniche, belghe o finlandesi. Si potrebbe sostenere che questo è più un riflesso dell’approccio alla disponibilità della tecnica e della scelta dell’analgesia in questi paesi, piuttosto che dell’istruzione36. Indipendentemente dalla scelta, è importante che le donne siano soddisfatte dell’analgesia. Uno studio finlandese ha dimostrato che la maggioranza delle donne ha avuto un atteggiamento positivo nei confronti dell’approccio farmacologico al trattamento del dolore dopo la nascita, quando circa l’88% delle donne avevano pianificato tale richiesta33. È stato identificato un notevole disparità tra l’aspettativa sul dolore e la realtà del dolore stesso nelle donne che avevano immaginato di avere un travaglio ed un parto senza dolore ma che non hanno potuto realizzare tale aspettativa33, in particolare se il travaglio è stato lungo37. Tale gap è stato identificato anche nelle donne che dicevano che non avrebbero mai utilizzato alcun tipo di analgesia, e che invece l’hanno effettivamente utilizzata (38), dimostrando una discrepanza tra speranze, aspettative e decisioni effettivamente prese in travaglio. Il coinvolgimento nel processo decisionale Una delle domande che è auspicabile porsi è: “Qual è il coinvolgimento delle donne nel processo decisionale?” Le donne si aspettano sempre più frequentemente di partecipare alle decisioni da prendere in merito alla loro salute, anche e soprattutto durante la gravidanza e il parto39-41. Quando ci sono scelte da fare è auspicabile il coinvolgimento della partoriente al fine di compiere decisioni più informate, comunque basate su evidenze scientifiche, valutando le scelte in termini di rischio-beneficio, efficienza, disponibilità e accettabilità. Questo coinvolgimento dovrebbe consentire alla donna di compiere decisioni più informate e consapevoli. Tale coinvolgimento, tuttavia, può non essere sempre appropriato o addiritturafattibile per tutte le donne durante il travaglio. Inoltre, secondo alcuni studi il coinvolgimento del paziente nel processo decisionale ha scarso effetto sulla soddisfazione e un effetto variabile sulle decisioni effettivi fatti42. Sebbene le donne si trovino all’interno del processo decisionale, le donne si riferiscono raramente e in modo esplicito a loro stesse nel processo decisionale. Ciò che influenza le donne nel loro processo decisionale è determinato dai discorsi sentiti o letti sui media, piuttosto che i corsi di preparazione al parto, molto più influenti, o
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discorsi privati con amici e familiari, anche questi considerati molto autorevoli22. Il grado di coinvolgimento al processo decisionale può essere diverso: le multipare desiderano essere pienamente informate, mentre è stato riportato che le primipare si concentrano maggiormente sul controllo delle emozioni piuttosto che sul coinvolgimento nei processi decisionali43. La preparazione al parto, inoltre, aiuta le donne ad affrontare fisicamente e psicologicamente il loro travaglio nel modo migliore e la conoscenza del dolore e del tipo di analgesia le ha aiutate a compiere scelte informate34, 44. In conclusione, le donne hanno maggiori probabilità di essere soddisfatte se sono coinvolte nelle decisioni circa la gestione della loro del lavoro, piuttosto che se le decisioni sono prese da qualcun altro43, 45. Controllo personale e auto-efficacia Esistono diversi tipi di controllo: interni ed esterni9. Il controllo esterno riguarda ciò che viene subito, spesso identificato con coinvolgimento nel processo decisionale; mentre il controllo interno riguarda il controllo sul proprio corpo o il proprio comportamento. Alcune donne danno un peso maggiore ad una forma di controllo piuttosto che ad un’altra; mentre altre vogliono avere un controllo totale, sia interno che esterno, al fine di avere un travaglio ed un parto soddisfacenti46. L’esperienza del controllo comprende il controllo del proprio comportamento, la gestione del dolore, la modalità di somministrazione dell’analgesia ed il livello di coinvolgimento. In uno studio è stato esaminato il controllo del personale, il comportamento e le contrazioni ed è stato riportato che solo il 21% delle donne si è sentita in controllo di tutti e tre i settori, mentre il 20% si è sentito fuori controllo per tutti e tre, mentre prima della nascita il 66% si aspettava di essere in controllo del personale, il 37% di essere in controllo del comportamento e il 54% di essere in controllo delle loro contrazioni14. Il controllo del personale è legato a variabili interpersonali, per esempio, godere del sostegno di tutto il personale comporta un aumento dei livelli di controllo personale. Il dolore ed il suo trattamento sono fattori primari per sentirsi in controllo del proprio comportamento. Infatti il controllo del dolore è associati ad un aumento di sensazione di auto- controllo. Infine, il controllo delle contrazioni è importante poiché offre la capacità di stare nelle posizioni più comode9, 14. Il controllo personale sembra essere il più forte predittore di soddisfazione per il parto47. Uno studio europeo focalizzato sul controllo effettivo del dolore durante il travaglio ha dimostrato che coloro che avevano previsto di essere in grado di controllare il dolore fossero effettivamente in grado di controllare e sopportare maggiormente il dolore prima di ricevere l’analgesia48. La letteratura sulla gestione del dolore sostiene che le donne hanno ritenuto di avere il controllo di come il loro dolore veniva gestito,piuttosto che avere il reale controllo del dolore. Pertanto il controllo va al di là del processo decisionale ed include anche le don ne che utilizzano una loro personale strategia per affrontare la situazione. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Data l’importanza di questo senso di controllo, i corsi di preparazione al partosono fondamentali per consentire alla donna di sentire di avere il controllo, pertantonon dovrebbe essere lasciato alle ultime settimane di gravidanza43. La sensazione di essere in controllo della gestione del travaglio include la sensazione di controllo del dolore. Secondo molti autori la percezione del controllo durante il parto è essenziale per sentirsi soddisfatto e con il potere che si ha sulla situazione, anche nel caso in cui le aspettative vengano violate14,15, 34, 49. Sebbene la gestione del dolore rappresenti la migliore soluzione a breve termine per aiutare la donna a far fronte al travaglio e al parto, il controllo personale potrebbe fornire un beneficio a lungo termine32. La partecipazione attiva fornisce alla donna un potere che deriva dall’essere stata in grado di fronteggiare la situazione50, e tale esperienza ha un effetto cumulativo, aumentando l’auto-efficacia per un eventuale parto futuro15. Il senso di controllo percepito e l’auto-efficacia sono distinti. Quest’ultima riflette una caratteristica dellapersonalità che significa fiducia nella propria capacità di far fronte a qualsiasi situazione di stress51, che vede il parto come esperienza positiva52. L’auto-efficacia è anche legata alla riduzione del dolore53 e al tipo di parto54. Il senso di controllo percepito è l’esatto opposto di impotenza,che è un tipo di alienazione. Il senso di perdita di controllo potrebbe essere una conseguenza della perdita della centralità delle donna, che può variare a seconda del luogo di nascita55 o del sistema di assistenza56. Sfortunatamente le aspettative relative al senso di controllo trovano scarsa rispondenza nella realtà; anche se, secondo alcuni autori, ciò non è sempre una cosa negativa. Infatti, anche se il parto non è stato naturale come previsto, le donne erano ancora soddisfatte dell’esperienza, se si sono sentite di aver avuto il controllo delle decisioni prese57. Questa dà sostegno alla tesi secondo cui è importante chiarire quali sono le questioni più importanti per ogni donna durante il travaglio: il senso di controllo, una adeguata analgesia o il coinvolgimento nelle decisioni da prendere. Chiarire ciò che è importante per ogni singola partoriente permette al personale di sostenere pienamente ogni decisione materna durante tutto il travaglio ed il parto. Aspettative materne Le aspettative rappresentano un fattore determinante della soddisfazione e quando ci si riferisce alle aspettative si intende anche quelle create dalla famiglia (58) e quelle che la società crea come ruolo. Il ruolo di una donna in travaglio comporta una serie di aspettative riguardanti il suo comportamento e delle persone in altri ruoli, come l’ostetrica, il partner, o il medico. La violazione delle aspettative disturba questo ordine e minaccia sia l’autovalutazione che le relazioni con gli altri. In altre parole, la deviazione dalla normalità o dal previsto crea distress59. Infatti, gli interventi non previsti durante il travaglio, come per esempio l’uso dell’ossitocina, un parto cesareo o
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un parto operativo, complicanze intrapartum o cure intensive neonatali comportano una notevole riduzione della soddisfazione materna12,13, 60-63. Le primipare sono particolarmente vulnerabili alle esperienze negative, poiché è sulla base della prima esperienza durante il primo travaglio e parto che si creano le basi per le aspettative future. Le esperienze negative, infatti, aumentano il rischio di depressione materna postpartum e possono interferire negativamente sulle gravidanze successive, sul parto e possono indurre la donna alla richiesta di un parto cesareo64. La soddisfazione è uno stato mentale che riflette la valutazione dell’esperienza nascita come un tutto rispetto ai diversi valori prenatali e alle aspettative. Se le aspettative vengono soddisfatte, i corrispondenti valori e le credenze si affermano. In caso contrario, sorgono conflitti, che possono provocare disagio. Tuttavia, la mediazione dei diversi fattori può fare da cuscinetto tra la discrepanza e la reazione ad essa65. Il controllo personale rappresenta uno di questi mediatori. È stato dimostrato che le donne le cui aspettative per sul parto sono state soddisfatte sono più soddisfatti di quelle le cui aspettative non lo sono state14,15, 66. Sono state studiate le aspettative relative ai diversi aspetti del travaglio e del parto, come le emozioni, la necessità di interventi14, 67, la lunghezza del travaglio, la condizione del bambino34, il supporto del partner e il personale medico67. Conclusione Se le donne sono ben informate durante la gravidanza, avranno poi maggiori probabilità di avere aspettative realistiche sul travaglio e parto, avranno speranze meno disattese e una maggiore fiducia nel tipo di assistenza che riceveranno; tutto questo può far sì che tale esperienza possa essere vissuta nel modo più positivo e soddisfacente con maggiore probabilità. Le donne possono avere speranze ideali di quello che accadrà, ma hanno bisogno di essere istruite e informate affinché siano pronte a quello che potrebbe realmente accadere ed in modo tale che possano utilizzare tutti gli strumenti che hanno a disposizione per affrontare la situazione. Le donne dovrebbero mantenere le loro aspettative in merito a come vorrebbero che il loro travaglio fosse, mantenendo al contempo una visione reale di ciò che potrebbe realmente accadere. Distinguendo tra i due, le donne possono dire quello che vorrebbero idealmente che accadesse,considerando e riconoscendo che le cose non possono andare sempre secondo i piani e, se questo è il caso, essere pienamente consapevoli e pronte a prendere le decisioni necessarie. Si verifica troppo spesso una mancata corrispondenza tra le aspettative materne e le loro esperienze reali, tra il dolore che le donne si aspettavano di avere e ciò che hanno realmente provato, sulla durata del travaglio, sull’analgesia e su ciò che l’esperienza realmente è. Se vogliamo migliorare la soddisfazione materna, sarebbe opportuno guardare alle aspettative delle donne e a come riportarle più in linea con la loro esperienza reale. 576
È indispensabile focalizzare la nostra attenzione sul controllo personale, l’auto-efficacia e le aspettative circa il parto, se lo scopo è quello di fornire prestazioni mediche che siano volte non solo a garantire la migliore prestazione come professionisti-tecnici, ma anche e soprattutto come professionisti-umani. I corsi di preparazione al parto potrebbero migliorare la soddisfazione materna, fornendo le tecniche per mantenere il controllo, per la valorizzazione dell’auto-efficacia e per fornireinformazioni realistiche in merito alle aspettative sul travaglio ed il parto. Strumenti di valutazione attualmente esistenti La soddisfazione materna è multidimensionale in quanto è influenzata da diversi fattori. Per questo motivo le scale di valutazione unidimensionali (ad esempio il VAS) non sono assolutamente adatte a valutare la soddisfazione materna. Esistono diversi strumenti per la valutazione delle esperienze materne, ma nessuno di essi è realmente multidimensionale. Il Labor Agentry Scale (LAS) è dedicato esclusivamente alla dimensione del parto, ma non del travaglio68. Il questionario di Lavender, pur valutando diversi aspetti, si esprime però con un unico punteggio globale69. Allo stesso modo il Wijma Delivery Expectancy/Experience Questionnaire (W-DEQ) valuta solo la paura del parto70. Il Childbirth Self-efficacy Inventory (CBSEI) è anch’esso unidimensionale e valuta l’autoefficacia e la capacità di affrontare il parto20. Un’eccezione è rappresentata dal Quality from the Patient’s Perspective Intrapartal (QPP-I) che, però, valuta le percezioni materne dell’assistenza durante il parto attraverso un unico fattore generale e 10 sotto-fattori. Tale questionario è stato sviluppato per valutare la qualità dell’assistenza, le richieste materne e la performance delle diverse figure professionali71. Il Childbirth Experience Questionnaire (CEQ) esplora 4 dimensioni (capacità personale, supporto professionale, sicurezza percepita e partecipazione) che riflettono la multidimensionalità del parto, ma il fine di tale questionario è esclusivamente quello identificare le primipare con esperienze negative72. È quindi evidente la carenza di strumenti che diano la possibilità di valutare gli aspetti multidimensionali della percezione materna dell’evento travaglio e parto, in particolare quelli utilizzabili per valutare la relazione tra soddisfazione materna generale e soddisfazione dell’analgesia ricevuta. In letteratura anestesiologica, sfortunatamente, vi sono pochissimi esempi di questionari validati che aiutino il clinico pratico a valutare la soddisfazione dell’anestesia eseguita e nessuno di essi è relativo alla partoriente. Per questo motivo il nostro gruppo di ricerca (Città di Roma), avvalendosi della collaborazione di un team di esperti del settore, ha costruito un questionario sulla soddisfazione post-partum nelle donne che hanno effettuato l’analgesia epidurale. Il processo di costruzione di un questionario di questo tipo ha previsto sei diverse fasi.
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Durante la I fase si è proceduto ad una review ragionata della bibliografia internazionale in merito alla costruzione dei questionari concernenti la soddisfazione del parto e la soddisfazione dopo anestesia in generale ed epidurale in particolare e alle variabili affettive, cognitive, temperamentali (e anche di età e socio-culturali) prese in considerazione e misurate in letteratura. Si è proseguito poi al reperimento di questionari già disponibili e validati sui temi sopra-indicati, al fine di estrapolare tutti i fattori fino ad oggi individuati e tutti gli item già creati. Successivamente sono state create tre interviste semistrutturate per: – ginecologi, anestesisti, ostetriche, infermiere, neonatologi; – mamme che hanno usufruito di analgesia epidurale: – mamme che non hanno usufruito di epidurale (per libera scelta). In un secondo tempo si è passati alla II fase, articolata in più passaggi. Si è iniziato con la somministrazione dell’intervista durante la degenza in ospedale (entro 24 ore) e in qualsiasi momento per il personale ospedaliero (in due/tre ospedali diversi), le cui risposte sono state registrate su file audio (i soggetti sono spinti a parlare liberamente) e valutate qualitativamente con analisi delle frequenze (quante volte una dimensione è emersa). In seguito sono state definite le dimensioni più rappresentate (frequenze più alte), confrontate con le dimensioni emerse dalla letteratura. Si è proseguito poi alla operazionalizzazione degli item (scelta degli item già esistenti) e alla creazione di nuovi item. Individuati tutti gli item, è stata elaborata una prima versione del questionario (scala Likert a 6 punti numero massimo di item =30). Questa II fase è stata molto delicata ed è stata necessaria infatti una particolare cura della dinamica psicologica propria della relazione che si è venuta a creare tra intervistata ed intervistatore, secondo le nozioni basilari della comunicazione interpersonale. Il ricercatore si è impegnato a “mettere a proprio agio” l’intervistata, onde creare le condizioni ideali affinché ella potesse fornire il maggior numero di informazioni attendibili, tenendo conto degli aspetti comunicativi e relazionali del colloquio e soprattutto delle variabili psicologiche, motivazionali, comportamentali e socioculturali che possono condizionare la propria interlocutrice. In seguito si è passati alla fase IV, in cui il questionario è stato somministrato in via preliminare a 50 mamme, al fine di eliminare o ridefinire gli item non discriminanti (punteggi estremi con calcolo media). La difficoltà era costituita dalla scelta delle domande da utilizzare per ottenere uno specifico tipo di risposta e di informazioni. Le domande di cui un questionario si può avvalere possono essere classificate o sulla base dello scambio domandarisposta che generano oppure sulla base del contenuto e degli obiettivi che si propongono di raggiungere. In funzione della loro forma tecnica, le domande possono essere classificate in: – domande aperte: non prevedono risposte predefinite dal ricercatore e che consentono piena libertà espressiva al soggetto intervistato; – domande chiuse: prevedono un ventaglio di risposte definite a priori dal ricercatore; Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
– domande a scala: prevedono l’utilizzo di scale di misurazione di vario tipo (scale Likert, differenziale semantico, ecc.) per la misurazione di atteggiamenti o opinioni. La scelta tra domande aperte, chiuse o a scala deve essere fatta sulla base di ciò che si cerca di conoscere ed indagare, bilanciando tra vantaggi e svantaggi. In funzione del contenuto, invece, le domande possono essere: – domande di base: quesiti sulle caratteristiche anagrafiche, genere, professione, reddito, ecc. dell’intervistato); – domande filtro: quesiti che permettono di decidere i temi/problematiche da sottoporre all’intervistato; – domande strutturali: quesiti che riguardano attributi fondamentali dell’intervistato in relazione alla ricerca; – domande di comportamento: quesiti che riguardano fatti, esperienze concrete dell’intervistato, Durante la V fase è avvenuta l’elaborazione di una seconda versione del questionario (scala Likert a 6 punti numero massimo di item =30) che è stato somministrato preliminarmente ad un campione di mamme (numerosità = numero item x 3 come da criteri internazionali). Si è proceduto, poi, all’analisi fattoriale esplorativa (per individuazione dei fattori che spiegano la maggior parte della varianza), alla valutazione preliminare dell’attendibilità (Calcolo del coefficiente alfa di Cronbach per valutare la coerenza tra gli item) e all’interpretazione dei dati. La costruzione del questionario è terminata con la fase VI, in cui è stata realizzata l’eliminazione degli item con saturazione fattoriale non accettabile o mista e l’elaborazione di una versione definitiva del questionario (scala Likert a 6 punti numero massimo di item =30). La versione definitiva è stata somministrata ad un altro campione di mamme (numerosità = numero item x 3 come da criteri internazionali) a cui è seguita l’analisi fattoriale confermativa, l’analisi della consistenza interna (calcolo del coefficiente alfa di Cronbach per valutare la coerenza tra gli item), l’analisi della validità di costrutto (correlazione tra il questionario e un altro strumento già validato in Italia)e l’analisi della reliability (la stabilità del test verrà valutata attraverso una somministrazione successiva del test ad un sottocampione di 50 mamme a distanza di una settimana dalla prima somministrazione). In allegato è riportato il questionario originale comprendente 76 items, originariamente strutturato per la ricerca. È allo studio una forma ridotta per l’uso clinico corrente. Questionario sulla soddisfazione post-partum nelle donne che hanno effettuato analgesia epidurale. Di seguito troverà una serie di affermazioni che riguardano la sua esperienza del travaglio e del parto. Siamo soprattutto interessati ad avere informazioni riguardo all’analgesia epidurale alla quale lei si è sottoposta. Per ciascuna delle seguenti domande faccia un cerchio intorno al numero che meglio descrive il modo in cui lei ha vissuto questa esperienza (faccia un cerchio intorno a un solo numero per ogni domanda). Non esistono risposte giuste o sbagliate, è importante che lei esprima il suo parere in maniera spontanea.
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1 assolutamente falso 1) Il dolore del parto mi spaventa 2) Ho fiducia nelle mie capacità di tollerare il dolore 3) Sopportare il dolore per tutta la durata del travaglio è molto difficile 4) Pur di non sentire dolore farei l’analgesia epidurale dall’inizio del travaglio 5) Un parto senza dolore non è un parto naturale 6) L’analgesia epidurale (EA) ti permette di vivere in maniera più rilassata il parto 7) L’analgesia epidurale poterebbe impedirmi di sentire le contrazioni 8) L’analgesia epidurale potrebbe impedirmi di spingere nella fase espulsiva 9) Ho creduto che l’EA potesse far male al bambino 10) L’analgesia epidurale può ostacolare l’allattamento al seno 11) Credevo che l’iniezione dell’analgesia epidurale fosse dolorosa 12) L’ analgesia epidurale è spesso applicata senza eccessivi effetti collaterali 13) Credevo che l’ analgesia epidurale potesse essere utilizzata solo in alcune fasi del travaglio 14) Ho scelto di fare l’EA perché mi è stato consigliato (ginecologa, ostetrica, corso pre-parto, amiche) 15) Mi aspettavo che il travaglio durasse di meno 16) Il mio travaglio è stato un’esperienza che non cambierei 17) Il mio parto è stato un’esperienza che non cambierei 18) Durante il travaglio ho sentito che le cose erano sotto controllo 19) Durante il parto ho sentito che le cose erano sotto controllo 20) Durante il parto sentivo di non poter andare avanti per il troppo dolore 21) Ho aspettato di richiedere l’analgesia epidurale fino a quando il dolore non era insopportabile 22) Ho chiesto subito l’ analgesia epidurale appena è incominciato il dolore 23) Avevo paura che il dolore sarebbe tornato anche sotto l’effetto dell’analgesia epidurale 24) Durante il travaglio ero consapevole di cosa sarebbe successo 25) Durante il parto ero consapevole di cosa sarebbe successo 26) Durante il travaglio ero preoccupata per il bambino 27) Durante il parto ero preoccupata per il bambino 28) Durante il travaglio mi sono sentita sola e impreparata 29) Durante il parto mi sono sentita sola e impreparata 30) Nonostante il dolore durante il travaglio ho provato sentimenti piacevoli 31) Nonostante il dolore durante il parto ho provato sentimenti piacevoli 32) La sala parto mi è sembrata fredda e impersonale 33) Le mie aspettative sul dolore del parto erano realistiche 34) Non sono riuscita a tollerare il dolore come avrei voluto 35) Durante il travaglio non ci sono state complicazioni per la mia salute
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1 assolutamente falso 36) Durante il parto non ci sono state complicazioni per la mia salute 37) Durante il travaglio non ci sono state complicazioni per la salute del bambino 38) Durante il parto non ci sono state complicazioni per la salute del bambino 39) L’analgesia epidurale ha reso il mio travaglio più sopportabile 40) Avrei voluto ricevere prima l’analgesia epidurale 41) Penso che l’analgesia epidurale abbia prolungato i tempi del mio travaglio 42) L’analgesia epidurale mi ha permesso di vivere il parto più intensamente 43) Ho potuto scegliere la posizione più comoda per il parto anche con l’analgesia epidurale 44) L’uso dell’analgesia epidurale mi ha permesso di condividere intensamente con il mio partner l’esperienza della nascita 45) Appena ho richiesto l’analgesia epidurale me la hanno somministrata 46) Il tempo di iniezione dell’analgesia epidurale è stato lungo 47) Ho sentito dolore durante l’iniezione dell’analgesia epidurale 48) Nonostante l’analgesia epidurale ho avuto momenti di dolore durante il travaglio 49) Nonostante l’analgesia epidurale ho avuto momenti di dolore durante il parto 50) Dopo aver fatto l’analgesia epidurale ho avuto effetti collaterali 51) L’inserimento dell’ago per l’analgesia epidurale è stato doloroso 52) Sono soddisfatta della gestione del dolore attraverso l’uso dell’analgesia epidurale 53) Non ci sono state complicazioni legate all’uso dell’analgesia epidurale 54) Lo staff medico ha gestito con attenzione ed efficacia gli effetti collaterali dell’analgesia epidurale che ho avuto 55) Ritengo di aver avuto informazioni adeguate rispetto all’analgesia epidurale 56) Sono stata aggiornata costantemente dallo staff medico sull’andamento del parto 57) In sala parto tutto si è svolto in maniera organizzata ed ordinata 58) Lo staff medico mi ha aiutata a sentirmi tranquilla 59) I membri dello staff medico erano collaborativi tra loro 60) Lo staff medico era attento alle mie esigenze 61) Sono stata coinvolta nelle scelte legate al parto 62) Sono soddisfatta delle scelte che il personale medico ha preso durante il parto 63) La mia privacy è stata rispettata 64) Durante la visita preoperatoria con l’anestesista sono stato in grado di porre le domande che volevo 65) Durante la visita preoperatoria con l’anestesista mi sono sentita rassicurata, rilassata, sicura di me Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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assolutamente falso 66) Durante la somministrazione dell’EA l’anestesista è stato attento e gentile 67) Durante il travaglio e il parto l’anestesista comprendeva le mie preoccupazioni, mi incoraggiava a comunicarle e rispondeva alle mie domande 68) L’anestesista era preparato e professionale 69) Il mio partner mi è stato di grande aiuto durante il travaglio e il parto 70) Durante il travaglio ed il parto sono stata in grado di parlare e condividere con il mio partner l’esperienza 71) Avrei voluto che ci fosse il mio partner durante la somministrazione dell’EA 72) Ho allattato mio figlio al seno qualche ora dopo il parto 73) La salute del mio bambino alla nascita era buona 74) Dopo il parto ho avuto difficoltà a ricominciare autonomamente le attività quotidiane: muovermi, mangiare, lavarmi, andare in bagno 75) Anche ora non riesco a smettere di pensare al dolore del parto 76) Sono riuscita subito dopo il parto ad avere un contatto con il mio bambino
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Su una scala da 1 a 5, quanto è soddisfatta degli effetti dell’analgesia epidurale? 1 2 Per niente soddisfatta
Pensi al DOLORE che ha provato durante il travaglio, PRIMA DELLA SOMMINISTRAZIONE DELL’ANALGESIA EPIDURALE, e segni con una X il grado di dolore provato sulla seguente linea. Nessun dolore Massimo del dolore Pensi al DOLORE che ha provato durante il travaglio, DOPO LA SOMMINISTRAZIONE DELL’ANALGESIA EPIDURALE, e segni con una X il grado di dolore provato sulla seguente linea. Nessun dolore Massimo del dolore Pensi al DOLORE che ha provato DURANTE LA FASE ESPULSIVA DEL PARTO e segni con una X il grado di dolore provato sulla seguente linea. Nessun dolore Massimo del dolore
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ANALGESIA E SODDISFAZIONE MATERNA
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Stato di male epilettico: il ruolo del neurologo S. STRIANO
Nel suo Dizionario dell’Epilessia (1973) Gastaut definisce lo stato di male epilettico come uno “stato caratterizzato da una crisi epilettica che si protrae abbastanza a lungo (crisi prolungata) o si ripete ad intervalli tanto brevi da dar luogo ad una condizione epilettica fissa e duratura … Gli stati di male possono presentarsi sotto tanti aspetti semiologici quante sono le varietà di crisi epilettiche esistenti. Si distinguono pertanto: stati di male generalizzati… convulsivo e non convulsivo, unilaterali, parziali… “. Vengono così messe insieme condizioni eterogenee, con espressioni cliniche molto diverse, con diversi connotati di gravità e di prognosi, e con differenti necessità di intervento. In questa sede verranno affrontati soprattutto i problemi correlati allo stato epilettico convulsivo (tonic-clonic status epilepticus, SE) che costituisce una grave emergenza medica con una significativa mortalità e morbilità. In considerazione del fatto che una singola crisi convulsiva raramente dura più di due minuti si può considerare uno SE incombente od iniziale (impending SE) se una crisi continua o due o più crisi distinte, tra le quali non vi sia completo recupero della coscienza, si manifestano per più di 5 minuti. Sul piano operativo, tutti i protocolli prevedono un approccio al trattamento basato sullo stadio dello SE. Scopo di un trattamento tempestivo è quello di interrompere rapidamente le crisi per evitare danni cerebrali ed altre morbilità. In pazienti in cui è nota la propensione a fare crisi in cluster un approccio frequente è la somministrazione di clobazam per via orale. Nel primo stadio, e cioè nei primi 30 minuti (early SE), il trattamento si basa soprattutto sulla somministrazione di benzodiazepine. Sono disponibili alcuni studi comparativi tra diazepam (DZP) e lorazepam e.v., midazolam per via non venosa (buccale, intramuscolare o intranasale) versus DZP rettale e midazolam i.m. versus DZP e.v. (review in Shorvon, Epileptic disorder 2012; 14 (2): 138-147). Se lo SE si prolunga tra i 30 e i 120 minuti si configura uno SE conclamato (established SE). In questo caso la terapia standard preve-
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Centro dell’Epilessia, Dipartimento di Scienze Neurologiche, Università “Federico II”, Napoli
de la fenitoina (e dove disponibile la fosfofenitoina) spesso associata al DZP o il fenobarbitale e.v.. Altri farmaci sono peraltro almeno altrettanto efficaci e più sicuri, in particolare valproato, levetiracetam e, probabilmente, lacosamide; nonostante robuste evidenze cliniche studi controllati con questi farmaci sono ancora carenti. Se lo SE epilettico non si risolve con questi due primi approcci si configura uno SE refrattario (refractory SE) e la gestione diventa essenzialmente del rianimatore prevedendosi un terapia con anestesia generale. Gli anestetici più frequentemente utilizzati sono il thiopental, il midazolam ed il propofol. Comprensibilmente gli studi comparativi in questa condizione sono carenti. Lo SE refrattario è una condizione molto grave con una mortalità dell’ordine del 35%. Se lo SE persiste per oltre 24 ore nonostante l’anestesia generale si configura un super-refractory SE. Comunque, anche se la gestione di queste condizioni è del Rianimatore, il ruolo del Neurologo ed il monitoraggio EEG restano fondamentali. L’EEG, oltre che confermare la natura epilettica della condizione, permette di evidenziare le aree cerebrali coinvolte nell’attività parossistica e può contribuire alla diagnosi eziologica; permette di rilevare crisi apparentemente infracliniche (subtle SE, evenienza frequente nel paziente con SE refrattario e sotto anestesia generale) e di valutare l’attività di fondo fra una crisi e l’altra e al termine dello SE, confermando l’effettiva scomparsa dell’attività epilettica o, per contro, segnalando la sua ripresa. L’EEG è poi indispensabile nel documentare lo stato di burst-suppression, pattern EEG che definisce il grado di anestesia efficace da raggiungere in caso di trattamento con anestetici.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):585-7
Percorso diagnostico dell’ipertermia maligna V. TEGAZZIN
L’Ipertermia Maligna (IM) è una sindrome farmaco-genetica scatenata da alcuni farmaci di uso anestesiologico (gas alogenati e depolarizzanti muscolari) ma anche da situazioni estranee all’anestesia quali alte temperature, febbre elevata, colpo di calore, abuso di alcool, droghe come cocaina ed ecstasy. L’IM è considerata una canalopatia del calcio e l’organo interessato è il muscolo scheletrico (MS) che rappresenta il 40% del peso corporeo. Il MS, pur non essendo un organo nobile, ha una massa che lo rende estremamente importante se si altera il suo equilibrio omeostatico. Alterazioni del metabolismo che coinvolgono la cellula muscolare scheletrica possono diventare elementi quantitativamente disastrosi per una forte alterazione dell’equilibrio acido base con conseguenze per cuore, rene e coagulazione. Il paziente Ipertermico puro, senza miopatie correlate, è un paziente “sano” e può svolgere uno stile di vita normale, sia nel lavoro che nell’attività sportiva non estrema. La presenza di mutazioni, principalmente localizzate sul cromosoma 19q, recettore ryanodinico, diventano importanti solo in caso di esposizione a farmaci anestesiologici trigger o a situazioni ambientali stressanti. L’aspetto epigenetico dell’IM è però più complesso perché possono esistere espressioni fenotipiche molto diverse pur con la presenza identificata della stessa mutazione. Troviamo così pazienti Ipertermici con alterazioni del CK basale ( 40% circa), con presenza di fatica muscolare dopo sforzi non particolarmente intensi, con presenza di dolori muscolari e crampi. Esistono poi pazienti Ipertermici, perchè tali risultano dopo il test in vitro, che sono portatori di miopatie congenite altamente correlate alla IM quali la CCD o correlate al 50% come le MmC. La correlazione con altre forme miopatiche quali distrofie, miotonie, distrofie miotoniche, miopatie metaboliche sono state descritte in letteratura ma mai confermate con la genetica o con una suscettibilità anche nei famigliari. Esiste invece una buona correlazione fra King Denbourugh syndrome e l’IM. Questa breve introduzione per spiegare la complessità di questa sindrome che, a parte le prime descrizioni fatte da Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Laboratorio di Ipertermia Maligna, Ospedale S. Antonio, ASL 16, Padova
Beverly Britt nel 1970 e che descrivevano il paziente IM con tratti antropometrici caratteristici (brachitipo, apparato muscolare possente etc) presenta individui fenotipicamente sani ma geneticamente predisposti con una variabile epigenetica che caratterizza la sindrome come eterogenetica (locus hetherogenety and allelic heterogeneity) e multifattoriale ed un’incidenza che varia da 1/15000-1/50000 secondo i reports anestesiologici a 1/2000 secondo la predisposizione genetica. Se poi consideriamo gli aspetti molecolari che sono implicati nel meccanismo contrattile del muscolo scheletrico vediamo che, oltre al recettore rianodinico (RYR1) e Diidropiridinico (DHPR) (volt sensibile), dove sono state individuate mutazioni genetiche, la regolazione del calcio avviene anche con la partecipazione di altre proteine quali l’FK12, calmodulina e la calsequestrina per citare le più importanti. Non ultimo l’importanza dell’ATP che fornisce energia per il reuptake del calcio nel RS. La sindrome Ipertermica Maligna presenta quindi tre percorsi diagnostici: 1) Clinico: diagnosi della reazione all’anestesia generale effettuata con sostanze trigger in base ad almeno tre segni maggiori tra i quali aumento dell’ETCO2, rigidità, alte temperature, tachiarritmia, acidosi mista, elevati valori di CK nel postoperatorio con un Clinical Grading Scale molto elevato; 2) Di laboratorio con test di contrattura caffeina-alotano (CHCT o IVCT), supportato da indagine istopatologica; 3) Genetico. IVCT Il Test di Contrattura in Vitro (IVCT), usato in tutti i centri Europei, Repubblica Sudafricana, Brasile, Australia, Israele e Nuova Zelanda è molto invasivo, costoso e sofi-
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PERCORSO DIAGNOSTICO DELL’IPERTERMIA MALIGNA
sticato al punto tale da non poter essere usato come test di routine preoperatorio. Solo alcune categorie di soggetti, definiti a rischio operatorio, vengono sottoposte all’IVCT. Esse sono: – Soggetti sopravvissuti a una crisi ipertermica (Probands), – Parenti di primo grado di soggetti suscettibili, – Persone appartenenti a famiglie in cui siano stati individuati dei soggetti suscettibili, – I membri di quelle famiglie in cui si è verificato un episodio clinico correlabile all’I.M. – Persone affette da miopatie associabili all’I.M. – Soggetti che hanno avuto rabdomiolisi dopo sforzo intenso e/o elevazione della CK sine materia, Quale dovrà essere quindi il percorso diagnostico in un paziente sospetto di Ipertermia Maligna: 1) Contatto; 2) Visita; 3) Biopsia Muscolare; 4) Test di contrattura Caffena-Alotano più eventuali test complementari; 5) Esame istoenzimatico ed immunopatologico; 6) Prelievo di sangue per indagine genetica; 7) Dimissione del paziente con referto del test e consigli terapeutici per l’intervento subito. Il Contatto avviene quasi sempre telefonicamente o con il medico curante o con il collega specialista (Anestesista, Chirurgo) che ha in cura il paziente o con il paziente stesso. La Visita ha la funzione di : a) eseguire un esame obiettivo e soggettivo del paziente, b) raccogliere una attenta anamnesi anestesiologica sia personale che famigliare; c) controllare gli esami ematochimici, elettrofisiologici, radiologici ed i reports delle precedenti ricoveri; d) Informare il paziente, se ritenuto idoneo alla biopsia, dell’iter diagnostico e terapeutico; e) Rilasciare al paziente una documentazione che, in attesa di essere studiato, è ritenuto suscettibile per le seguenti cause: proband, famigliare, con alterati valori di CK sine materia, con miopatia correlata. Nella documentazione sono inserite lenee guida dell’anestesia sicura edite dalla SIAARTI. Il giorno della biopsia il paziente si dovrà presentare al DS alle ore 7.00 a digiuno per eseguire l’anestesia spinale selettiva o il blocco del femorale dopo il posizionamento di vena periferica, monitoraggio di PA, ECG, e Sat O2 e sedazione endovena con midazolam. La biopsia consiste nel prelievo di 6-7 banderelle muscolari per il CHCT ed indagine istologica. Dopo un’attenta emostasi si sutura per strati la fascia, il sottocute e la cute in continua o con punti staccati. Medicazione compressiva e fasciatura contenitiva L’iter diagnostico in laboratorio segue il protocollo Europeo di studio dell’Ipertermia Maligna. IVCT (In vitro contracture test) Vari ricercatori hanno cercato d’individuare un metodo per determinare la suscettibilità all’I.M., e allo stato attua586
le il test di contrattura delle biopsie muscolari si è dimostrato il test diagnostico più sensibile e specifico. Nel 1970 Kalow ed Ellis, idearono un test di contrattura con caffeina ed alotano che si dimostrò valido. Durante questi tests dei preparati muscolari venivano stimolati direttamente in vitro in presenza di tali sostanze, che risultano essere noti attivatori del rilascio del calcio. Mettendo a confronto la reazione della fibra muscolare ipertermica con quella di controllo i risultati ottenuti erano nettamente diversi. Nel 1983 anestesisti e fisiologi di otto nazioni europee si incontrarono a Lund (Svezia) e costituirono il “Gruppo Europeo di studio dell’Ipertermia Maligna” (EMHG). Il loro intento era quello di standardizzare i tests di identificazione della patologia organizzando, nel contempo, un centro comune di dati. In tale sede fu costituito un protocollo da seguire per i tests di identificazione della miopatia, in base al quale lo studio del meccanismo contrattile analizza l’influenza della caffeina e dell’alotano sulle singole scosse e sul tono di base della muscolatura scheletrica. Le regole standard previste dal protocollo rivisionato nel maggio 1997 sono: 1. la biospia dev’essere eseguita su muscolo quadricipite (muscolo vasto laterale e vasto mediale); 2. i campioni di biopsia per il test in vitro vengono misurati con un calibro e devono avere una lunghezza tra i due lacci e alla tensione zero di 15-25 mm ed uno spessore di 2-3 mm; 3. il muscolo dev’essere immediatamente posto in una soluzione di Krebs-Ringer precarbossigenata. La concentrazione di ioni della soluzione K.R. dev’essere fissata con deviazione massima ± 10%; con pH dev’essere compreso fra 7,35 e 7,45 a 37°C; 4. il muscolo dev’essere trasportato in laboratorio all’interno della soluzione di K.R. alla temperatura ambiente e carbossigenata; 5. il tempo trascorso dal prelievo bioptico alla conclusione del test non deve superare le cinque ore; 6. i tests devono essere svolti nel bagnetto perfuso intermittentemente o continuamente con una soluzione di K.R. a 37°C e costantemente carbossigenato; 7. il muscolo va stimolato elettricamente con un impulso sovramassimale alla frequenza di 0,2 Hertz; 8. devono essere eseguiti almeno quattro tests, che includono due tests statici con caffeina e due tests con alotano. Questi ultimi possono comprendere un test statico ed uno dinamico o due test statici; 9. per i tests statici la tensione muscolare deve essere aumentata fino a produrre una contrazione massimale in quanto il test deve essere eseguito a questa lunghezza. La linea di base non deve variare più di 200 mg in 10 minuti prima di aggiungere il farmaco; 10. “TEST STATICO CON CAFFEINA”: le concentrazioni di caffeina come base libera nel bagno devono essere gradualmente aumentate come segue: 0,5-11,5-2--4-32 mmol/l. Per passare alla concentrazione successiva di caffeina è necessario aspettare almeno tre minuti o il raggiungimento della contrazione massimale alla precedente concentrazione. Il muscolo non viene lavato tra le successive aggiunte;
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PERCORSO DIAGNOSTICO DELL’IPERTERMIA MALIGNA
TEGAZZIN
11. “TEST STATICO CON ALOTANO”: le concentrazioni devono essere aumentate gradualmente come segue: 0,5-1-2% V/V. Tutti i laboratori hanno concordato che le concentrazioni di alotano nel bagno devono essere 0,11-0,22-0,44 mM, che corrispondono alle suddette percentuali. Si deve passare alla concentrazione successiva del gas alogenato dopo almeno 5 minuti o dopo il raggiungimento della contrazione massimale alla precedente concentrazione. Come per la caffeina, anche qui il muscolo non viene lavato tra le successive aggiunte. 12. “TEST DINAMICO CON ALOTANO”: dopo 3 minuti d’esposizione all’alotano, il muscolo viene allungato di 4 mm/min per un tempo di 1,5 minuti e tenuto a questa lunghezza per 1 minuto. Il processo viene poi eseguito al contrario. Ad ogni ciclo la concentrazione di alotano viene aumentata utilizzando le stesse concentrazioni del test statico.
matica, istochimica ed immunopatologica al fine di individuare eventuali miopatie
Criteri Diagnostici
Le risposte dell’istologia e della genetica concludono l’iter diagnostico del paziente Ipertermico o sospetto di Ipertermia Maligna e vengono riassunte in una risposta definitiva ed il tutto viene inviato al paziente e per conoscenza al medico che lo ha inviato al centro. Considerata l’eterogenicità della Sindrome ipertermica la genetica non rappresenta ancora un percorso diagnostico sicuro se non per quelle mutazioni “Causative” che sono state validate in vitro su culture cellulari. La presenza di una di queste mutazioni “Causative” pone diagnosi di suscettibilità ma l’assenza deve essere confermata dall’IVCT. Anche l’istopatologia fornisce informazioni importanti ma non diagnostiche per l’IM. Considerati tutti questi fattori H. Rosenberg ha proposto di classificare l’IM in: MH Syndrome caratterizzata da due tipi: – Tipo 1 Con mutazioni (più di 200 individuate) sul RYR1 e sul DHPR che si manifesta per esposizione a farmaci trigger ed in questa forma sono anche da considerare le CCD e MmC disesase – Tipo 2 con mutazioni sugli stessi recettori che si manifesta senza esposizione a farmaci trigger ma scatenata da fattori ambientali come le alte temperature, alcol, droghe e che indica come Britt syndrome.
Nel dicembre 1983 vennero analizzati i risultati di oltre 200 tests e si deliberò che i pazienti fossero classificati in 3 gruppi secondo il seguente criterio: a. MHS (individui suscettibili all’I.M.): sono identificabili nei soggetti in cui almeno un muscolo testato con caffeina presenta un’elevazione del tono di base maggiore o uguale a 200 mg (2mN) alla concentrazione di 2 mM o meno, e almeno uno di quelli trattati con alotano presenta un’elevazione del tono di base maggiore o uguale a 200 mg (2mN) alla concentrazione di 0,44 mM (2%) o meno; b. MNH (normali): in tale circostanza i muscoli possono mostrare un’elevazione del tono di base a concentrazione di caffeina 3mM o più, e a concentrazione di alotano superiori a 0,44 mM (cioè al 3% V/V); c. MHE (equivoci): identificabili nei soggetti che presentano risposte diverse da quelle sopracitate, cioè pazienti che rispondono o alla caffeina (MHEc) o all’alotano (MHEh), ma non ad entrambi. Validità del test La validità dei muscoli dev’essere dimostrata da un twitch maggiore o uguale a 1g (all’inizio del test) o da una risposta alla caffeina 32 mM maggiore di 5 g (alla fine del test). La concentrazione effettiva di alotano e di caffeina nei bagni dev’essere controllata almeno ogni tre mesi. La massima deviazione accettabile per le concentrazioni è di ± 10%. Il vaporizzatore dell’alotano dev’essere revisionato e calibrato annualmente. Istologico Un frustolo di muscolo viene sempre inviato al centro di malattie neuromuscolari per eseguire l’indagine istoenzi-
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Genetico Il sangue dei pazienti suscettibili (MHS- MHE) è inviato ad un centro di genetica medica (Siena o Custozza-Vicenza) per la ricerca di eventuali mutazioni genetiche sul RYR1. Se dalle analisi emergono difetti genetici si procede allo studio dei familiari dei pazienti esaminati. La ricerca delle mutazioni è fatta su più di 40 dei 106 esoni che costituiscono il RYR1. La procedura seguita prevede molteplici operazioni di seguito elencate: a) Estrazione del DNA da sangue periferico. b) Purificazione del DNA. c) Amplificazione del DNA con PCR. d) DHPLC. e) Sequenziamento usando sia the Sanger sequencing o Next Generation Sequencing (NGS) technology.
Esistono poi le forme MH-Like che distingue in tre sottoclassi: a) Senza mutazioni ma ugualmente scatenate da agenti quali caffeina-alotano, calore b) Senza mutazioni ma con aumentato rilascio di calcio dal RS per alterazioni della calsequestrina c) Senza mutazioni in pazienti con miopatie che, esposte ad agenti che rilasciano calcio, manifestano segni clinici simil ipertermici (Distrofia di Duchenne e di Becker).
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La day surgery in chirurgia pediatrica: aspetti organizzativi e pratici S. TESORO, L. MARCHESINI, M. BROZZI, M. NERI
L’attuale necessità di razionalizzare ed ottimizzare le risorse sanitarie ha individuato nella Day Surgery un campo strategico al fine di utilizzare in maniera più efficiente i finanziamenti per il SSN in ambito chirurgico. La maggior parte degli interventi in ambito pediatrico vengono attualmente svolti in regime di Day Surgery, perché rivolti ad una popolazione che viene sottoposta ad interventi di chirurgia minore e che generalmente gode di buona salute. Fu James Nicoll. agli inizi del 1900, nel Sick Children’s Hospital and Dyspensary di Glasgow in Scozia, il primo ad istituire un servizio di day surgery pediatrica, sostenendo che questo approccio diagnostico-terapeutico si adattasse particolarmente al paziente pediatrico, essendo quest’ultimo un paziente tipicamente “sano”1. La crescente consapevolezza che l’atto chirurgico ed anestesiologico devono essere intesi come processi a rischio, porta alla creazione di un percorso chirurgico volto ad erogare prestazioni di elevata qualità, garantendo la massima sicurezza e al contempo la riduzione dei costi. Il percorso chirurgico deve essere valutato e accreditato in tutte le sue fasi, a questo scopo vengono utilizzati degli indicatori di qualità, la cui soddisfazione testimonia la validità del percorso stesso. La Day surgery è uno dei grandi campi strategici individuati nel dibattito Stato -Regioni sul tema dei finanziamenti per il SSN, volto all’ ottimizzazione e razionalizzazione delle risorse sanitarie. Negli ultimi decenni la day surgery è stata estesa ad altre tipologie di pazienti in termini di età e di “salute fisica”; ciò è stato reso possibile dall’evoluzione tecnica anestesiologica-chirurgica, dall’ingresso nelle strutture sanitarie di personale altamente specializzato e qualificato e dall’informatizzazione dei sistemi di archiviazione dei dati che hanno consentito una notevole riduzione dei tempi e soprattutto dei costi. Ha inoltre acquisito popolarità e consensi anche tra gli utenti, perché esclude il ricovero e consente il recupero a domicilio. Ciò resta importantissimo per il paziente pediatrico (da 0 a 16 anni di età) che, solitamente, è quello che soffre maggiormente il distacco dai genitori e dalle mura domestiche. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Università degli Studi di Perugia, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Sezione di Anestesia, Analgesia e Terapia Intensiva
Dal punto di vista normativo, la prospettiva di un regime assistenziale differente dal ricovero ordinario è nata nell’ ambito del processo di razionalizzazione della rete ospedaliera, con le prime indicazioni risalenti agli anni ’80 (legge n. 595/85) e sviluppate poi maggiormente negli anni ’902,3. In questi anni sono stati fatti diversi tentativi e proposte per disciplinare l’attività di chirurgia di giorno, conseguentemente anche a più pareri del Consiglio Superiore di Sanità (anni 1992 e 1995) che riconobbe l’importanza di questo tipo di regime assistenziale, affermando che “i modelli della chirurgia ambulatoriale e della chirurgia di giorno non debbono essere considerati di importanza minore rispetto al regime di assistenza chirurgica tradizionale. I pazienti, opportunamente selezionati, possono essere avviati a tali trattamenti, previa informazione sul tipo d’ intervento o procedura ai quali saranno sottoposti, sottoscrivendo un consenso informato”. La disciplina specifica sull’attività di assistenza erogata a ciclo diurno è contenuta nel DPR 20.10.1992, ma si riferisce maggiormente a prestazioni di tipo medico piuttosto che chirurgico. Nel 1996 l’ASSR (Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali) elabora il documento “Proposta per la regolamentazione degli interventi chirurgici e delle procedure interventistiche, diagnostiche e/o terapeutiche da effettuare in regime di assistenza chirurgica a ciclo diurno”, che contiene però ancora pochi riferimenti normativi nello specifico sulla Day Surgery. Il primo richiamo esplicito si ha nelle Linee Guida del Ministero della Sanità n.1/1995 inerenti le “Tariffe delle prestazioni di assistenza ospedaliera”, nelle quali viene previsto che le tariffe per le prestazioni di Day Surgery siano stabilite considerando “pacchetti” predefiniti di trattamento, ovvero l’insieme di esami, visite pre-operatorie, intervento chirurgico, controlli post-operatori.
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TESORO
LA DAY SURGERY IN CHIRURGIA PEDIATRICA: ASPETTI ORGANIZZATIVI E PRATICI
Il DPR 14 gennaio 1997 contenente “Atto d’indirizzo e coordinamento alle Regioni e alle Province Autonome in materia di requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private ”rappresenta la normativa di riferimento in materia di chirurgia di giorno fino al 2001, e ne riporta una definizione ripresa dal documento dell’ ASSR elaborato nel 1996 nel quale viene descritta come “possibilità clinica, organizzativa ed amministrativa di effettuare interventi chirurgici o anche procedure diagnostiche e/o terapeutiche invasive e semi-invasive in regime di ricovero limitato alle sole ore del giorno, in anestesia locale, loco-regionale, generale”. Infine l’accordo Stato-Regioni dell’1 agosto 2002 riporta le linee guida in materia di Day Surgery e l’elenco orientativo degli interventi e procedure chirurgiche effettuabili in tale regime assistenziale. Le linee guida si compongono di nove articoli e definiscono i requisiti e le indicazioni per lo svolgimento dell’attività di Day Surgery, dandone una definizione comune e condivisa nelle Regioni. La definizione non differisce da quella contenuta nel DPR 14 gennaio 1997 se non per l’introduzione della possibilità di pernottamento (“One Day Surgery”) prevista nell’articolo sui modelli organizzativi. Questa novità è particolarmente rilevante, poiché permette di incrementare il numero degli interventi chirurgici che è possibile svolgere con questa modalità, comprendendo anche quelli il cui postoperatorio richiede un periodo di osservazione superiore alle 4 ore per la possibile insorgenza di complicanze. Nella definizione delle possibili sedi di svolgimento delle attività di Day Surgery vengono delineati tre modelli organizzativi: un presidio autonomo di Day Surgery, cioè una struttura pubblica o privata esclusivamente dedicata a questa attività, funzionalmente collegata ad una vicina struttura ospedaliera; unità di Day Surgery, monospecialistica o plurispecialistica, posta all’ interno di ospedali, pubblici o privati; posti letto dedicati all’ interno delle unità operative di ricovero ordinario. La differenziazione dei modelli organizzativi permette di svolgere attività di Day Surgery, con i relativi vantaggi, non solamente nei grandi ospedali delle aree urbane e metropolitane, ma anche in strutture periferiche con bacini di utenza inferiori2. La Day Surgery è una forma di assistenza in continua espansione nel nostro Paese, anche se con distribuzione ancora piuttosto disomogenea tra le varie Regioni2. Viene indicata nell’ accordo Stato-Regioni 1 agosto 2002 come “un regime assistenziale alternativo al ricovero ordinario che consente una diversificazione dell’offerta sanitaria per i cittadini e una maggiore appropriatezza nell’utilizzo delle tipologie di assistenza, contribuendo, altresì, al miglioramento complessivo dell’efficienza delle strutture ”. Rientra quindi perfettamente nell’ottica di un potenziamento dell’ efficienza ospedaliera e di valorizzazione delle risorse strutturali, che consentono l’ erogazione di prestazioni di elevata qualità, con riduzione del disagio legato all’ intervento, e al contempo un importante risparmio economico2-4. 590
Criteri d’inclusione L’elenco degli interventi chirurgici effettuabili in regime chirurgico diurno contenuto nell’accordo, non è vincolante ma orientativo per le Regioni, che definiscono autonomamente le prestazioni erogabili nei vari tipi di assistenza. In definitiva però, la scelta spetta al medico, nel rispetto del consenso informato del paziente. È infatti fondamentale, per garantire una sicurezza e una qualità del percorso assistenziale non inferiori a quelle degli interventi di chirurgia ordinaria, una accurata selezione dei pazienti; considerando condizioni generali, fattori logistici e familiari. Per la valutazione delle condizioni generali si fa abitualmente riferimento alla classificazione proposta dall’American Society of Anesthesiology ASA, i pazienti appartenenti alle classi ASA 1 e ASA 2 sono i candidati ideali. In alcuni casi possono essere presi in considerazione soggetti di classe ASA 3, ma solo dopo accurato esame clinico e possibilmente per procedure minori. Le urgenze chirurgiche sono sempre escluse. Anche l’età e il peso possono essere parametri di selezione dei pazienti; l’età non ha un limite definito ma deve essere sempre considerata in relazione allo stato generale e alle tecniche chirurgiche e anestesiologiche utilizzate. Tra i fattori logistici considerati vi è la distanza dell’abitazione del paziente dall’ospedale, che non deve essere superiore ad un’ora di viaggio; l’ indicazione del tempo di percorrenza è da preferire a quella del chilometraggio, perché permette di considerare variabili quali quelle meteorologiche o legate al traffico5. Ulteriore requisito è la presenza di un familiare o persona di fiducia, che dovrà essere adeguatamente istruita e in grado di assistere il paziente soprattutto nelle prime 24 ore dopo l’ intervento chirurgico. Percorso anestesiologico Il paziente pediatrico risulta essere, per le sue caratteristiche, quello ideale per il regime di day surgery; infatti nella maggior parte dei casi lo stato generale è buono, gode dell’ attenta assistenza pre e postoperatoria da parte dei genitori e gli interventi chirurgici ai quali viene sottoposto sono relativamente poco complessi. Allo stesso tempo questo regime di ricovero presenta dei benefici che nei bambini risultano particolarmente vantaggiosi: la breve ospedalizzazione consente infatti di incidere il meno possibile sulla vita familiare (riducendo così lo stress del bambino e dei genitori), e di diminuire il rischio di contrarre infezioni ospedaliere. Tutto ciò è stato reso possibile dall’evoluzione delle tecniche chirurgiche e anestesiologiche, con il risultato impensabile in passato, di poter dimettere un bambino la sera stessa dell’intervento (o in caso di particolari procedure chirurgiche la mattina seguente)6,7. La concentrazione delle varie procedure mediche in un così breve lasso di tempo necessita chiaramente di una ottimale organizzazione lavorativa e competenza professionale. Da questa considerazione e dalla consapevolezza che l’atto chirurgico e anestesiologico comportano inevitabilmente un rischio, è nata la necessità di un percorso pediatrico in regime di Day Surgery ben progettato e defi-
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LA DAY SURGERY IN CHIRURGIA PEDIATRICA: ASPETTI ORGANIZZATIVI E PRATICI
nito in ogni sua parte, che deve essere valutato ed accreditato: il percorso chirurgico del paziente pediatrico. Le fasi di questo processo di cura sono: 1. Prericovero. a. Visita chirurgica. b. Visita anestesiologica. 2. Inserimento nelle liste operatorie. 3. Ricovero. 4. Accesso al Blocco Operatorio. 5. Degenza. 6. Dimissione dall’ospedale. Prericovero Durante la visita il chirurgo pone l’indicazione all’intervento e seleziona i pazienti da trattare in regime di Day Surgery. La selezione deve essere individualizzata, prendendo in considerazione il tipo d’intervento previsto nonché fattori individuali. Soprattutto in ambito pediatrico infatti, elementi quali la situazione sociale, familiare e logistica sono fattori importanti che possono condizionare il tipo di ricovero più adeguato al bambino5. Al termine della visita i pazienti selezionati vengono inseriti nelle liste d’ attesa che prevedono quattro classi di priorità (A, B, C e D) distinte in base al tempo, in giorni, che il paziente può attendere prima dell’ intervento, in relazione alla patologia da trattare. Dopo la visita chirurgica il paziente viene inviato all’ambulatorio di anestesia per eseguire la visita anestesiologica.
TESORO
L’overbooking determina lo slittamento di interventi presenti nella lista, a causa di un mancato rispetto dei tempi operatori. La cancellazione di un paziente la mattina stessa dell’intervento può essere determinata da diversi fattori: infezioni vie respiratorie soprattutto nel periodo invernale e dal fenomeno “Knock-on” che consiste nel mancato arrivo dei pazienti attesi per effetto prima impressione. Le cancellazioni tardive vanno ad interrompere il flusso dei pazienti all’interno di un blocco operatorio interferendo così con il normale svolgimento delle attività: ciò comporta un importante spreco di risorse9. Intervento chirurgico
La visita anestesiologica viene effettuata in regime ambulatoriale programmato in relazione alla data presunta dell’intervento. In questa occasione l’anestesista raccoglie i dati anamnestici, esegue l’ esame fisico del paziente e solo se lo ritiene opportuno può richiedere esami strumentali e/o laboratoristici o consulenze specialistiche8. Ai genitori viene chiesto di compilare un questionario anamnestico pediatrico che ha la finalità di sondare lo stato di salute del bambino, le sue abitudini quotidiane e la storia familiare patologica. Un aspetto fondamentale della visita anestesiologica è il contatto che viene a crearsi tra il medico e i genitori del bambino; è infatti necessario placare la loro comprensibile ansia, illustrando con chiarezza le tecniche anestesiologiche e il percorso che affronterà il figlio. Tutte le informazioni vanno anche fornite per iscritto, così da poter essere rilette con calma a casa dai genitori attraverso una brochure informativa.
La chirurgia ambulatoriale richiede un veloce recupero dall’anestesia e la minimizzazione degli effetti collaterali connessi ad essa in maniera tale che si possa ottenere una rapida e sicura dimissione del paziente. L’intervento chirurgico in regime di day surgery può essere condotto in anestesia generale o loco-regionale (blocchi nervosi periferici e neuroassiali): ambedue i tipi di anestesia sono considerati adeguati e soprattutto la loro combinazione permette da un lato di mitigare gli svantaggi e dall’altro di integrare i vantaggi di ciascuna tecnica10-12. In questo senso un’anestesia regionale o locale può essere associata alla sedazione del piccolo paziente mentre la scelta di un’anestesia generale non preclude l’esecuzione di una tecnica regionale per il controllo del dolore perioperatorio. Gli effetti collaterali connessi a ciascuna tecnica anestesiologica, come la comparsa di nausea e vomito o il mancato controllo del dolore postoperatorio, potrebbero ritardare la dimissione del paziente o essere causa della sua riammissione non programmata in ospedale13,17. La scelta di un’anestesia combinata permette di ridurre l’incidenza di questi eventi: la tecnica regionale, infatti, riduce l’uso di oppioidi e di agenti ipnotici durante l’anestesia generale e permette di ottenere un’emergenza più dolce e rapida dall’anestesia generale, sebbene la sua esecuzione prolunghi lievemente il tempo anestesiologico14. È essenziale inoltre l’accurata informazione dei genitori affinché l’emergenza del dolore a domicilio per il venir meno dell’effetto analgesico dei farmaci somministrati in ospedale o del blocco nervoso sia trattata con un’adeguata terapia domiciliare15. Le tecniche neuroassiali offrono un’ottimale analgesia anche se possono associarsi alla comparsa di ritenzione urinaria e blocco prolungato della funzione motoria, condizioni che non permettono la dimissione del paziente. Per tali motivi la scelta della tecnica anestesiologica deve tener conto del tipo d’intervento e della sua durata, dei tempi di esecuzione e di recupero dall’anestesia stessa e delle caratteristiche dei farmaci utilizzati.
Liste operatorie
Dimissione, follow up e valutazione dell’outcome
Le liste operatorie sono fatte considerando alcuni elementi, quali l’età dei pazienti e la loro conseguente tolleranza al digiuno, la durata prevista dei vari interventi, l’organizzazione del blocco operatorio. In questa fase del percorso operatorio ci si trova spesso a dover fronteggiare due possibili difficoltà: l’overbooking e le cancellazioni.
Per quantificare la qualità di un processo di cura è fondamentale misurare l’outcome attraverso la valutazione degli indicatori di efficacia e di efficienza per ogni fase del processo. La dimissione del paziente è decisa in maniera congiunta, al termine del periodo di osservazione, dall’anestesista e dal chirurgo4,5.
Visita anestesiologica
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TESORO
LA DAY SURGERY IN CHIRURGIA PEDIATRICA: ASPETTI ORGANIZZATIVI E PRATICI
I pazienti vengono dimessi in assenza di dolore, di nausea e vomito (PONV), di febbre, di sanguinamento, di infezioni e alla ripresa dell’idratazione orale e delle normali attività motorie16-18. Gli adulti responsabili del piccolo paziente dovranno avere un mezzo per spostarsi dall’abitazione ed un telefono per Pronto Soccorso e condizioni socio-ambientali adeguate. Ai genitori viene rilasciata una lettera di dimissioni indirizzata anche al Pediatra di base e una scheda con le indicazioni per la terapia domiciliare farmacologica per il trattamento del dolore postoperatorio, nonché indicazioni sull’ alimentazione che il bambino deve seguire, sull’ attività fisica e sulla cura della ferita, a seconda dell’ intervento subito. Conclusioni L’adozione di un percorso assistenziale così strutturato in termini di qualità garantisce un elevato livello di sicurezza diminuendo comorbidità e mortalità perioperatorie1. Per ogni macrofase deve essere individuato un indicatore di qualità che ci permette di testare l’adeguatezza di ogni momento del processo clinico. L’analisi dei benefici e delle complicanze esposte nell’ambito dell’audit clinico deve coinvolgere tutti i professionisti facenti parte della stessa catena assistenziale. Soltanto in questi termini si può promuovere la cultura del “no blame”, punto di partenza indispensabile per il raggiungimento degli standard qualitativi richiesti dagli utenti e dal SSN19,20. Bibliografia 1. Mervyn Letts, Darin Davidson, William Splinter, Patricia Conway. Analysis of the efficacy of pediatric day surgery; Canadian Medical Association; 2008;44:193-8. 2. Pellegrini L, Palumbo F, Francucci M. L’attività di day surgery nelle regioni. Supplemento al n.15 di Monitor-anno IV, 2005. 3. Guzzanti E, Mastrobuono I. La day-surgery e la chirurgia ambulatoriale in Italia: la storia dei primi quindici anni di attività scientifica, istituzionale ed organizzativa e le prospettive di sviluppo. FINALE 2006. 4. Commissione SIAARTI/AAROI sull’anestesia in day surgery. Raccomandazioni clinico organizzative per l’anestesia in day surgery. Minerva Anestesiologica 2000;66:915-26. 5. Giuntoli M, Parigi GB. SICP - Linee guida per la day surgery in età pediatrica. 6. Abu-Shahwan I. Ambulatory anesthesia and the lack of con-
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):593-4
Blocchi periferici: ecografia versus elettroneurostimolazione M. TOMASSETTI1, S. COSIMELLI1, M. BOSCO2
La disponibilità di sonde ecografiche ad alta risoluzione (7-12 MHz o più) ha consentito negli ultimi anni di visualizzare plessi e tronchi nervosi periferici. Fornage1 nel 1988 ha documentato per primo l’aspetto ecografico dei nervi mediano, ulnare e sciatico in soggetti sani ed in cadaveri. I suddetti nervi hanno una struttura tubulare marcatamente ecogena (ovvero riflettono in maggior grado le onde sonore con visualizzazione sullo schermo verso la scala del bianco) con echi interni paralleli lineari durante la scansione longitudinale. Silvestri 2 nel 1995 ha descritto l’architettura “a nido d’ape”dei nervi periferici alla scansione trasversale con aree multiple ipoecoiche (aree che riflettono meno le onde sonore con visualizzazione verso il nero) in un sottofondo omogeneo iperecoico; egli ha dimostrato che le aree ipoecoiche sono correlate istologicamente con i fascicoli nervosi ed il sottofondo iperecoico con l’epinervio. Yang3 nel 1998, studiando 20 pazienti da sottoporre ad anestesia del plesso brachiale, ha evidenziato che, a livello intescalenico, le radici C5-C7 mostrano invece un aspetto di noduli ipoecogeni raggruppati in piccola catena, privi di una strttura interna fascicolare. In seguito sono stati pubblicati in letteratura una prima serie di trials clinici, che hanno esaminato le caratteristiche dei blocchi anestetici eseguiti con l’assistenza degli ultrasuoni (US) versus elettroneurostimolazione (ENS): – Marhofer4,5 ha rilevato tempi di latenza di circa 13 minuti per il blocco paravascolare all’inguine con bupivacaina 0,5% con riduzione del 50% dei tempi rispetto ai metodi convenzionali (ENS) e riduzione della dose somministrata; – Williams6 e Chan7 hanno dimostrato che il blocco del plesso brachiale per via sopraclaveare può essere eseguito più rapidamente con la guida degli ultrasuoni che con l’ENS (5 vs 10 minuti); – Soeding8 ha riportato un più rapido tempo di latenza per il blocco interscalenico e ascellare sotto ultrasuoni vs metodi convenzionali. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1Azienda
Ospedaliera San Camillo, Forlanini, Servizio di Anestesia e Rianimazione 1, Roma 2Università Cattolica, Complesso Integrato Columbus, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Roma
Nel 2009 tuttavia i dati della letteratura non suggerivano ancora una superiorità degli US vs ENS nei reviews di meta analisi (Liu9). Data la giovane età della metodica con US, infatti, soltanto nel 2010 sono stati pubblicati lavori sull’argomento , basati sull’evidenza clinica (EBM): – McCartney10: “US assicurano vantaggi significativi nei blocchi del plesso brachiale, compresa una più breve latenza di azione ed una maggiore percentuale di successo”; – Salinas11: “Vi è evidenza di livello Ib per sostenere una raccomandazione di grado A che l’uso degli US migliora l’onset e la percentuale di successo, diminuendo la dose di anestetico ed il tempo di esecuzione necessari per i blocchi dell’arto inferiore”; – Abrahams12: “… l’utilizzo degli US facilita il corretto posizionamento dell’ago e un’adeguata diffusion dell’anestetico per I blocchi del tronco; sono necessari altri studi per confrontare US con le tecniche tradizionali per i blocchi del tronco”. Nel 2011 Gelfand13 aggiorna la controversia con una nuova meta analisi, che evidenzia di nuovo una maggiore efficacia clinica degli US vs ENS nei blocchi periferici. Infine nel 2012 Klein14 nel suo review su ENS in anestesia regionale concorda sulla superiorità degli US, utilizzati da soli o con ENS, mentre “in circostanze quali obesità, blocchi profondi o trauma, l’immagine US ha delle limitazioni, e allora l’ENS può servire quale end-point primario e/o di conferma”. Allo stato attuale in conclusione l’introduzione nella pratica clinica della guida ecografica permette per la prima volta nella storia dell’anestesia loco regionale di visualizzare in tempo reale i tessuti nervosi e la diffusione dell’anestetico locale intorno ad essi con efficacia clinica superiore alle metodiche precedenti.
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TOMASSETTI
BLOCCHI PERIFERICI: ECOGRAFIA VERSUS ELETTRONEUROSTIMOLAZIONE
Bibliografia 1. Fornage BD. Peripheral nerves of the extremities: imaging with US. Radiology 1988;167:179-82. 2. Silvestri E et al. Echotexture of peripheral nerves: correlation between US and histologic findings and criteria to differentiate tendons. Radiology 1995;197:291-6. 3. Yang WT et al. Anatomy of the normal brachial plexus revealed by sonography and the role of sonographic guidance in anesthesia of the brachial plexus. Am J Roentgenol 1998;171:1631-6. 4. Marhofer P et al. Ultrasonographic guidance improves sensory block and onset time of three-in-one blocks. Anesth Analg 1997;85:854-7. 5. Marhofer P et al. Ultrasonographic guidance reduces the amount of local anesthetic for 3-in-1 blocks. Reg Anesth Pain Med 1998;23:584-8. 6. Williams SR et al. Ultrasound guidance speeds execution and improbe the quality of supraclavicular block. Anesth Analg 2003;97:1518-23. 7. Chan VW et al. Ultrasound-guided supraclavicular brachial plexus block . Anesth Analg 2003;97:1514-7.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):595-8
Epidemiologia degli incidenti critici in anestesia G. TORRI
Il requisito fondamentale di ogni prestazione medica è la sicurezza. Sicurezza significa assenza di danni ed incidenti critici. L’unico indice a nostra disposizione per valutare la sicurezza di una tecnica di anestesia è esattamente il suo reciproco vale a dire la frequenza degli incidenti ad essa correlata. Le cause degli incidenti in corso di anestesia non sono sempre facili da valutare in quanto ad essi concorrono almeno tre variabili: le patologie concomitanti del paziente, il tipo di intervento con le sue possibili complicanze e il tipo di anestesia, spesso condizionata dalla sede dell’intervento. Uno studio di Beecher e Todd1 aveva posto in evidenza come le complicanze chirurgiche siano tre volte più frequenti rispetto a quelle anestesiologiche nel determinismo dei decessi nel periodo perioperatorio. Nella valutazione degli incidenti critici in anestesia è sempre presente una variabile legata dal metodo di analisi impiegato. Inoltre solo da studi di altri paesi possiamo ricavare dati sulla frequenza di incidenti in anestesia e pertanto lasciamo al giudizio del lettore stabilire quanto questi dati siano estrapolabili anche alla nostra realtà . Frequenza dei principali incidenti La frequenza degli incidenti critici per cause anestesiologiche prima degli anni ottanta oscillava tra 1 a 2.600 e 1 ogni 6.000 anestesie1-7. Negli studi realizzati dopo il 1980 si osserva una riduzione di tali incidenti8-18. I risultati dello studio di Holland et al.10 condotto in Australia hanno rilevato una frequenza di 1/26.000. Tiret et al.9 alla fine del 1982 hanno controllato 193.103 anestesie eseguite in vari centri e gli incidenti critici correlati alla anestesia sono risultati di 1 a 13.000 circa. Tra il 1982 e il 1983 Lunn et al.14 hanno presentato due studi che evidenziavano come tra 197 decessi, osservati nel periodo perioperatorio, il 41% erano parzialmente correlati alla anestesia, il 43% alla chirurgia e solo il 16% totalmente correlati alla anestesia. Lo studio del Confidential Enquiry into Perioperative Death11 condotto in Inghilterra ha valutato 485.850 interventi. L’anestesia risultò unica causa in 3 casi quindi con una incidenza di 1 ogni 185.000 mentre conVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Università S.Raffaele, Milano
tribuiva unitamente a cause chirurgiche in 410 incidenti con una frequenza di 7 a 10.00011. In uno studio su 38.000 pazienti presso la Mayo Clinic gli incidenti critici correlati alla anestesia presentavano un’incidenza nel perioperatorio di circa 1/9.000. In uno studio di Cohen18, basato solo su 6.914 anestesie, non si è rilevato alcun incidente . Lo studio più ampio è rappresentato dall’Annual Report giapponese che ha coinvolto vari centri e oltre 900.000 anestesie : un’ accurata analisi considerava il tipo di anestesia, la classe ASA, il tipo di intervento, le cause anestesiologiche pure e quelle associate alla chirurgia o alla patologia concomitante del paziente. I risultati di questa analisi indicano che la mortalità in sala operatoria è di 7,1 ogni 10.000 casi includendo tutti i fattori mentre i decessi per la sola anestesia variano da 0,6 a 7 ogni 10.000 anestesie in funzione della classe di rischio ASA del paziente. Nello studio di Arbours19 pubblicato nel 2001 sono stati considerati 869.483 pazienti sottoposti ad anestesia generale, combinata o loco-regionale, nel periodo compreso tra il 1995 ed il 1997. Sono stati identificati 811 pazienti deceduti o rimasti in stato di coma permanente. In questo studio l’incidenza globale dei decessi nel periodo perioperatorio è stata di 8.8 su 10.000 casi, quella degli stati di coma dello 0.5 su 10.000 mentre; i decessi correlati unicamente a cause anestesiologiche erano di 1.4 ogni 10.000 anestesie. Diverse ragioni possono spiegare i differenti risultati dei vari studi. Prima di tutto la possibilità che in alcuni studi sia stata attribuita alla sola anestesia la causa dell’incidente senza considerare la componente chirurgica o le condizioni del paziente20. Le difficoltà a conciliare i vari risultati sono aumentate negli studi settoriali che considerano gli incidenti critici in settori specifici quali l’ostetricia, la pediatria o la sede in cui viene eseguita l’anestesia ed il livello di monitoraggio del paziente.
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TORRI
EPIDEMIOLOGIA DEGLI INCIDENTI CRITICI IN ANESTESIA
Infine molta importanza va riservata alla qualifica del personale che esegue l’anestesia. In uno studio di Bechtold15 su 2 milioni di anestesie effettuate nel Nord Carolina è stato posto in evidenza come l’incidenza minore di eventi critici si sia osservata con un team composto da medico anestesista e nurse di anestesia (1/28.166); quando l’anestesia veniva somministrata dalla sola nurse qualificata l’incidenza era di 1/22.723 e se a praticare l’anestesia era un dentista o un chirurgo gli incidenti critici erano di 1/11.432. Risultati accuratamente analizzati da appositi comitati sono raccolti negli studi dell’ASA Closed Claims che iniziati nel 1985 sono riuniti in un database comprendente oltre 9.000 incidenti21. Da questi dati risulta che l’incidenza dei danni permanenti è andata diminuendo nel tempo. Negli anni settanta il 64% degli incidenti era rappresentato da gravi danni cerebrali o decessi. Negli anni novanta tale percentuale è scesa al 41% di tutti gli eventi avversi. Al contrario sono andati aumentando i danni temporanei. Incidenti correlati alla anestesia generale Negli anni settanta gli incidenti respiratori quali la non adeguata ventilazione, l’intubazione esofagea, l’intubazione difficile erano i più frequenti .Gli incidenti respiratori si sono nel tempo ridotti passando dal 36% degli anni settanta al 14% negli anni novanta mentre quelli cardiocircolatori sono aumentati dal 13% al 23% nello stesso periodo di tempo42. La difficoltà di intubazione tracheale rappresenta il fattore di rischio più elevato a cui consegue la impossibilità di ossigenare adeguatamente il paziente coi conseguenti danni cerebrali 22. I più frequenti incidenti riscontrati tra il 1990 ed il 2007 sono rappresentato dal decesso (26%), dai danni cerebrali permanenti (9%) e dai danni alle strutture nervose (22%). Questi tre tipi di incidenti nel loro insieme rappresentano il 47% di tutti gli incidenti verificati. Gli altri incidenti (lesioni delle vie aeree, danni oculari, pneumotorace ,infarto miocardico, stroke et altri) hanno avuto una frequenza variabile tra il 3 ed il 4% del totale degli incidenti 44 . In uno studio su 442 incidenti cardiovascolari 154 (35%) erano su base multifattoriale (ipossiemia,scompenso,aritmie) e gran parte erano esitati in arresto cardiocircolatorio. Gli altri incidenti comprendevano l’embolia polmonare (16%), l’inadeguato apporto idrico (14%), lo stroke (13%) l’emorragia e l’infarto miocardico con una incidenza intorno all’11% del totale. Gli episodi embolici sono comprensivi non solo della tromboembolia ma anche della embolia gassosa,da cemento o della embolia grassosa. Quest’ultima ha presentato un aumento significativo dopo l’introduzione delle tecniche di liposuzione23-26. Anche il largo impiego delle tecniche di chirurgia addominale laparoscopica con pneumoperitoneo ha determinato un incremento dei casi di embolia gassosa27,28. I risultati dello studio di studio di Arbours et al.19 confermano come le fasi in cui si concentra il maggior numero di eventi critici siano l’induzione e il mantenimento dell’anestesia generale e che l’errore umano era alla base di questi incidenti nel 60-70% dei casi . 596
Figura 1. – Frequenza degli incidenti correlati alle diverse tecniche di anestesia locoregionale nei differenti periodi di tempo ( Modificata da Cheney et al.34).
Se l’induzione ed il mantenimento rappresentano due fasi critiche, anche la gestione del paziente in recovery room può determinare eventi critici. Una review riportata dall’Anaesthetic Incident Monitoring Study29 nel 2002 poneva in evidenza come di 8.372 incidenti anestesiologici, il 5% fosse avvenuto durante la degenza in Recovery Room. La maggior parte degli incidenti occorsi durante la fase di permanenza nella Recovery Room erano attribuibili a cause respiratorie o a cause cardiocircolatorie ed in minor misura ad errori nella somministrazione di farmaci. I fattori che maggiormente hanno contribuito al verificarsi degli errori in area di risveglio sono stati identificati nella scarsa valutazione del paziente, nella imprecisa comunicazione tra medici e infermieri, nella inadeguata assistenza al paziente. L’insorgenza di un incidente critico in anestesia è correlata ovviamente anche alle condizioni generali del paziente valutato secondo la classificazione ASA Physical Status che prevede un rischio tanto più elevato quanto più alto è tale indice30. Incidenti correlati alle tecniche di anestesia regionale Gli eventi avversi correlati alla anestesia regionale sono stati analizzati in vari studi. Rispetto alla anestesia generale l’anestesia regionale è gravata da un maggior numero di eventi avversi minori come si rileva anche dallo studio di Auroy31 comprendente 158.083 casi . Vibeke Moen32 ha condotto un analogo studio tra il 1990 ed il 1999 in Svezia valutando le complicanze in funzione del tipo di blocco centrale. In questo studio sono stati considerati 1.260.000 blocchi centrali ed è stata riscontrata una incidenza di complicanze globali di 1: 1.000. Secondo i dati di Cheney et al.34 l’incidenza di complicanze correlate alla anestesia locoregionale si è modificata nel tempo in funzione delle differenti tecniche. Accanto ad una riduzione degli incidenti correlati alle anestesie periferiche e ai plessi risulta aumentata quella dei danni da blocchi centrali (Figura 1). Lee et al.33 hanno valutato l’incidenza di complicanze gravi da anestesia regionale confrontandone l’incidenza nella paziente ostetrica e non ostetrica. Di 1.005 incidenti critici considerati nello studio il 51% si verificava nelle pazienti ostetriche . In queste pazienti si osservava anche
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EPIDEMIOLOGIA DEGLI INCIDENTI CRITICI IN ANESTESIA
Figura 2. – Incidenti valutati tra il 1990-2007 . L’incidenza di mortalità è significativamente più elevata nella MAC anesthesia. (modificata da Metzner et al. 21).
una più elevata incidenza di eventi avversi minori (71%) rispetto al gruppo di controllo ma una minor incidenza di eventi gravi (morte,danni cerebrali, danni neurologici permanenti) rispetto alle pazienti non ostetriche. Questo risultato porterebbe a concludere che i dati relativi a settori specifici possono risultare differenti rispetto a quelli ottenuti nella chirurgia generale. Incidenti correlati alle tecniche di sedazione. Negli ultimi anni all’anestesista è stato richiesto un elevato numero di prestazioni al di fuori della sala operatoria per manovre diagnostico-operative (endoscopia, radiologia diagnostica ed intervenzionistica, litotripsia ecc). In tale aeree viene spesso impiegata una sedazione profonda con monitoraggio standard (MAC = Monitor Anesthesia Care). Nella analisi di Metzner et al.21, condotta tra il 1990 ed il 2007, l’anestesia generale o loco-regionale mostra una frequenza di incidenti in lieve decremento mentre per la MAC Anesthesia si osserva un incremento dal 2 al 10% degli incidenti totali . Inoltre gli incidenti mortali sono significativamente più frequenti nella MAC Anesthesia rispetto ad altre tecniche (Figura 2). Le cause di questa diversa incidenza durante MAC Anesthesia vanno ricercate in vari fattori. La MAC Anesthesia è spesso impiegata in ambienti esterni alla sala operatoria con caratteristiche strumentali non sempre idonee all’emergenza. Spesso la sedazione viene eseguita in ambienti a bassa luminosità dove l’osservazione diretta del paziente è resa talvolta difficoltosa. Tra il monitoraggio paziente la capnometria, che rappresenta un parametro importante, non sempre viene impiegata nelle tecniche di sedazione. Durante respiro spontaneo il valore di CO2 determinato con la capnometria non corrisponde al valore di end-tidal ma il suo trend è importante nel prevenire eventuali depressioni respiratorie o l’apnea eventi che rappresentano la causa più frequente di complicanze durante MAC Anesthesia. La depressione respiratoria , conseguenza diretta di un eccesso di farmaci, è la causa del 21% di tutti gli incidenti durante MAC anesthesia. La combinazione di farmaci (porpofol e benzodiazepine o oppioidi) è coinvolta in più delle metà di questi incidenti. Molti incidenti avrebbero potuto essere prevenuti impiegando un monitoraggio che includesse non solo il saturimetro ma anche il capnometro35. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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Fra gli incidenti correlati ai farmaci ed al loro impiego hanno rilevanza particolare le reazioni ai farmaci o l’errore umano nel loro dosaggio16,17. Secondo uno studio francese i farmaci che determinano la maggior incidenza di reazioni allergiche sono rappresentati da alcuni miorilassanti45. Anche lo scambio di siringhe o di fiale ha una sua incidenza che spesso è dovuta alla similarità delle confezioni o alla mancata identificazione delle siringhe18.. Il sistema di labelling tuttavia non può in assoluto escludere l’errore. Gli incidenti correlati alle apparecchiature di anestesia ed agli impianti centrali ( scambio tra unità terminali per l’ attacco dei gas, imprecisione dei rotametri, sovrariempimento degli evaporatori, deconnessione del paziente ecc.) hanno rappresentato in passato un importante percentuale di incidenti critici. Laddove sono state impiegati apparecchi di anestesia che rispettano le nuove normative, e quindi risultano dotati di specifici analizzatori di gas e di autocontrollo nel funzionamento dei respiratori, l’incidenza di questa classe di incidenti è considerevolmente diminuita36,37 . Fra le tecniche collaterali che hanno determinato maggior frequenza di incidenti critici vanno ricordate le complicanze da cateterizzazione delle vene centrali causa, se pur rara, di pneumotorace, emotorace, perforazione cardiaca, emopericardio ed di lesioni tracheali38-42. Anche nell’introduzione di sondini naso-gastrici e cateteri peridurali è stata segnalata la loro dislocazione con possibili danni iatrogeni. Per una analisi più dettagliata della frequenza e delle caratteristiche degli incidenti critici nelle vaie aree della anestesia si rimanda ad una recente monografia46. In conclusione sulla base di questa rassegna di dati sulla frequenza degli incidenti critici in anestesia è certamente evidente che una riduzione di tali eventi sia avvenuta ma che il loro azzeramento sia molto difficile da ottenere. Su questo problema molti sforzi sono stati prodotti dai vari comitati sulla sicurezza in anestesia. Un contributo importante al problema della sicurezza in anestesia è stato ottenuto dalla introduzione dai sistemi di monitoraggio, dalle norme sono sugli apparecchi di anestesia e da specifiche raccomandazioni . Resta comunque fondamentale la preparazione degli anestesisti ad affrontare situazione critiche, ad esercitare una corretta valutazione preoperatoria del paziente ed una costante osservazione durante la fase intra e postoperatoria. A questi aspetti si indirizzano molti programmi di formazione che includono la conoscenza e la simulazione dei principali incidenti in corso di anestesia . Bibliografia 1. Beecher HK, Todd DP. A study of death associated with anaesthesia. Annals of Surgery 1954;140:2. 2. Dornette WHL, Orth OS. Death in the operating room. Anesth Analg 1956; 35:545. 3. Clifton BS, Hotten WIT. Deaths associated with anaesthesia. Br J Anaesth 1963;35:250. 4. Memery HN. Anesthesia mortality in private practice. JAMA 1965;194:127. 5. Minuck M. Death in the operating room. Can Anaesth Soc J 1967;13:390. 6. Bodlander FMS. Deaths associated with anaesthesia. Br J Anaesth 1975;47:36.
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TORRI
EPIDEMIOLOGIA DEGLI INCIDENTI CRITICI IN ANESTESIA
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Il trattamento della SCA B. TRIMARCO
I due principali obiettivi da raggiungere in soggetti recentemente andati incontro ad episodio infartuale sono: 1) ridurre la probabilità delle recidive infartuali; 2) impedire che l’episodio infartuale miocardico, già verificatosi, possa degenerare in una condizione di scompenso cardiaco conclamato. Negli studi di prevenzione secondaria, per meglio dire condotti in pazienti ad alto rischio cardiovascolare, l’interferenza con il sistema renina-angiotensina sembra particolarmente utile a questi scopi. Infatti gli end-point primari e secondari dello studio HOPE (valutazione dell’aggiunta di un ACE-inibitore o di un placebo alla terapia standard in pazienti ad alto rischio cardiovascolare) confermano l’efficacia dell’ interferenza farmacologica con il sistema renina-angiotensina nella prevenzione di tutte le manifestazioni della cardio-
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Dipartimento di Medicina Clinica e Scienze Cardiovascolari, Università Federico II, Napoli
patia ischemica. Contemporaneamente gli studi condotti in pazienti con disfunzione ventricolare post-infartuale hanno dimostrato l’efficacia degli ACE-inibitori e degli AT1-antagonisti nel rallentare o prevenire la progressione verso l’insufficienza cardiaca. Sorge, pertanto, la possibilità che la condizione di malattia possa di Fisiopatologia della cardiopatia ischemica per sé indurre una iperattività del sistema renina-angiotensina, anche solo a livello tissutale, che determina l’evoluzione della patologia in assenza di uno specifico intervento farmacologico.
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Pazienti portatori di stents: confronto intersocietario B. TRIMARCO
L’aspetto spesso trascurato nella gestione del paziente sottoposto a stenting coronarico è la patologia che ha determinato la necessità di questo tipo di intervento. In particolare, mentre è abbastanza acclarata la necessità della terapia antiaggregante piastrinica, meno consolidata è la terapia per rallentare la progressione dell’aterosclerosi. È infatti ben noto il problema della persistenza in terapia con statine dei pazienti sottoposti ad interventi di rivascolarizzazione coronarica non chirurgica nonostante un’ampia letteratura abbia documentato ampiamente il vantaggio che può venire da questo tipo di trattamento e, soprattutto, l’ottima tollerabilità di questa classe di farmaci. Ancora meno accettato è il ruolo vaso protettivo di altre classi di farmaci quali, in particolare, quelli che interferiscono con il sistema renina angiotensina. Eppure prima lo studio HOPE con il ramipril e, successivamente, lo studio ONTARGET con il telmisartan hanno chiaramente documentato i benefici in termini di prognosi cardiovascolare offerti da ACE-inibitori e antagonisti dei recettori AT1 dell’angiotensina II. Proprio questi studi hanno dato vita ad un concetto nuovo di prevenzione
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Società Italiana di Cardiologia, Università Federico II, Napoli
cardiovascolare basato da una parte su una strategia diversa dal semplice antagonismo alò singolo fattore di rischio, e dall’altra, sulla sostituzione della differenziazione tra prevenzione primaria e secondaria con il concetto di rischio cardiovascolare globale. Riguardo al primo punto è stato particolarmente utile avere la consapevolezza che si può interferire con il meccanismo di trasduzione del danno vascolare che spesso è comune a più fattori di rischio usufruendo così di un beneficio aggiuntivo. Al tempo stesso la dimostrazione che la presenza di malattia vascolare o di più fattori di rischio ha lo stesso peso prognostico dell’evento pregresso ha consentito di sostituire la storia di un evento cardiovascolare come indice di cattiva prognosi con il calcolo del rischio cardiovascolare globale.
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La risposta alle maxiemergenze in una struttura campale R. TRIPODI
Gli eventi catastrofici, le crisi umanitarie e le emergenze che si sono verificate negli ultimi anni hanno coinvolto sempre più il Corpo Militare della Croce Rossa Italiana nelle operazioni di soccorso alle popolazioni colpite. Innumerevoli sono state le missioni umanitarie in Italia e all’estero che hanno visto il nostro personale agire in prima linea in vari scenari operativi, sia a fianco delle Forze Armate (missioni UNMEE, Antica Babilonia e ISAF), sia su attivazione del Governo Italiano - Dipartimento di Protezione Civile (Missione Arcobaleno in Albania, terremoto in Pakistan) oppure di propria iniziativa in collaborazione con il MAE (ospedale civile di PecKosovo, ospedale CRI di Baghdad e terremoto di Haiti). Le catastrofi e le maxiemergenze, unitamente ai danni materiali e alla distruzione, determinano perdita di vite umane, malattie e sofferenze somatiche e psicologiche nelle persone coinvolte. Il gran numero di vittime, feriti e malati, può essere sproporzionato rispetto alle possibilità di cure disponibili a causa della distruzione degli ospedali e del sistema sanitario di emergenza. Pertanto, il tipo di assistenza richiesto varia a seconda della crisi, come ad esempio nelle emergenze per catastrofi naturali o in caso di presenza di un alto numero di rifugiati o profughi . Conseguenze dei disastri sul servizio sanitario • Danni alle infrastrutture sanitarie;distruzione della catena dei rifornimenti; danno/interruzione delle vie di comunicazione stradale; interruzione delle comunicazioni in genere e mancanza di informazioni. • Incremento dei bisogni e delle richieste di cure mediche per esposizione a condizioni climatiche avverse, scarsità di acqua potabile, mancanza di cibo. • Dislocamento della popolazione (esodo di massa). • Scoppio di epidemie di malattie infettive. Il ruolo dei servizi sanitari di emergenza nelle catastrofi In conseguenza dell’aumento di morbilità e mortalità, la richiesta di trattamenti terapeutici è più elevata nella fase acuta dell’emergenza, quando la popolazioVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Ten. Col. Med. CRI, Roma
ne è più vulnerabile a causa del nuovo ambiente e prima che vengano implementate le misure igienicosanitarie quali potabilizzazione dell’acqua, sanificazione e shelter. Per minimizzare morbilità e mortalità la risposta all’evento (soccorsi sanitari) deve essere realizzata in accordo con tre livelli di misure di prevenzione sanitaria . • Prevenzione primaria: prevenire la trasmissione di malattie infettive proponendo l’uso di corrette pratiche igienico-sanitarie, implementando la salute pubblica con misure che riducono i fattori di rischio (acqua potabile per evitare e prevenire la diarrea), rifornimento di cibo per evitare la malnutrizione, insetticidi contro le zanzare della malaria, chemioprofilassi antimalarica e vaccinazione antimorbillosa. • Prevenzione secondaria: identificazione e trattamento delle persone malate/infette per evitare la progressione della malattia e scongiurare , così, gravi complicanze e morte; cura dei pazienti affetti da tubercolosi, dissenteria, ecc. • Prevenzione terziaria: ridurre i danni permanenti mediante terapie riabilitative e riduzione degli effetti delle paralisi, in caso di poliomielite o per danni causati da mine antiuomo. Preparativi per la gestione dell’evento I preparativi per la gestione delle maxi emergenze e delle catastrofi devono perseguire i seguenti obiettivi: • prevenire morbilità e mortalità; • fornire assistenza alle vittime; • gestione delle condizioni climatiche e ambientali avverse; • ricostituzione dei servizi sanitari e assistenziali; • protezione dei soccorritori; • protezione degli assetti medici e di salute pubblica.
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TRIPODI
LA RISPOSTA ALLE MAXIEMERGENZE IN UNA STRUTTURA CAMPALE
La gestione e i preparativi devono prevedere un approccio che coinvolga svariati settori. Tale processo include: • Politica di sviluppo: i Governi nazionali devono designare un gruppo di coordinamento responsabile dello sviluppo, organizzazione e gestione dei programmi di preparazione e prevenzione per le emergenze del Paese. • Valutazione della vulnerabilità: identificazione dei rischi potenziali; disponibilità di risorse. • Pianificazione del disastro: la pianificazione è uno degli elementi chiave della preparazione. • Formazione ed istruzione: Un’importante componente della preparazione è rappresentata dall’addestramento e dalla formazione dei responsabili della gestione dell’evento e dei “ responder “ a livello della comunità locale. • Monitoraggio e valutazione: l’obiettivo è quello di misurare la validità del programma di preparazione e di gestione dell’evento, come lo stesso sia stato sviluppato e come possa essere implementato. Lo scopo di realizzare un sistema di cure e trattamento sanitario in emergenza per un gran numero di persone è quello di determinare una riduzione dell’eccesso di mortalità e morbilità e l’individuazione dei problemi sanitari che possono determinare tale fenomeno Gli obiettivi possono essere raggiunti fornendo appropriate cure mediche a coloro i quali sono affetti da lesioni acute da trauma, riesacerbazione di malattie croniche, infermità per malattie infettive. L’approccio preventivo prevede quanto segue: • implementazione di misure sanitarie e prevenzione; • individuazione delle vulnerabilità; • monitoraggio della popolazione e del servizio sanitario. Gli obiettivi immediati e a lungo termine possono essere indirizzati ai gruppi di persone con elevato fattore di rischio di morte o infermità, quali i bambini al di sotto dei cinque anni, le donne incinte, gli anziani e i minori senza famiglia. Pianificazione dettagliata: un piano di azione dettagliata che definisca come raggiungere gli scopi e gli obiettivi del programma sanitario deve essere sviluppato seguendo il seguente schema: • individuare i servizi sanitari necessari e quando dovranno essere stabiliti; • definire il livello di assistenza che sarà fornito; • definire la strategia per la fornitura di servizi medici; • stabilire norme riguardanti i citati servizi sanitari. La Pan American Health Organization (PAHO) ha definito i criteri di base per l’installazione di una struttura sanitaria campale (PMA, ospedale da campo, ambulatori): • essere pienamente operativa entro 24 ore dal disastro; • essere in grado di fornire servizi che coincidano con le esigenze mediche della popolazione interessata; • consentire al personale sanitario nazionale di operare con la tecnologia contenuta all’interno della struttura. Più specificatamente l’unità campale dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: 604
• essere collocata in un luogo sicuro; • di facile accesso per la popolazione da servire; • fornitura di acqua adeguata (150-200 litri per paziente al giorno compresa la lavanderia ); • accesso al personale locale e ai traduttori; • catena dei rifornimenti ben organizzata; • sistema igienico-sanitario con latrine , scarico fognario e smaltimento rifiuti; • aree coperte di attesa per la protezione dagli agenti atmosferici ; • disponibilità di un adeguato numero di generatori per la fornitura di energia elettrica senza interruzioni . Punti-chiave di una struttura sanitaria campale di base L’obiettivo di istituire un sistema sanitario di emergenza dovrebbe essere quello di rinsaldare il sistema sanitario locale. Qualunque sia la strategia adottata, tutti i servizi dovrebbero funzionare in modo efficace ed essere ben coordinati per raggiungere i seguenti scopi: assistenza completa (verificare l’eventuale presenza di altre condizioni patologiche che il paziente potrebbe non segnalare, come ad esempio depressione, mal di testa persistente, dolore addominale o somatizzazione di altre malattie);. continuità delle cure (controllo dei risultati delle visite specialistiche richieste, degli insuccessi dei trattamenti terapeutici e di immunizzazione effettuati); cure sanitarie integrate (collegamento diretto tra medicina curativa e preventiva). Criteri di gestione e applicazione Per evitare trattamenti e indagini diagnostiche non necessari, spreco delle limitate risorse , farmaci e personale, si possono stabilire delle procedure standard che includano: protocolli diagnostici e definizione dei casi;. procedure per la diagnosi delle malattie comuni;. procedure di indagine diagnostica (es. laboratorio analisi); protocolli di trattamento;. criteri di ammissione dei pazienti; criteri di trasferimento. Conclusioni Il modo migliore per realizzare un programma di risposta sanitaria alle maxiemergenze è quello di rafforzare il sistema attraverso le organizzazioni locali.Tale programma d’intervento deve integrarsi con quanto previsto dalla politica sanitaria del Governo della Nazione interessata e riguardare, in particolare, la fornitura dei farmaci essenziali, i protocolli di trattamento e il sistema di trasporto sanitario.Nella fase di emergenza le priorità d’ intervento devono essere incentrate sul trattamento delle più comuni patologie quali ferite e lesioni traumatiche, infezioni acute e riesacerbazione di malattie croniche.Partecipano all’ attuazione del piano anche tutti gli enti erogatori di salute, inclusi gli operatori sanitari delle comunità interessate .Va , inoltre , sviluppato un sistema d’informazione per il monitoraggio dello stato di salute della popolazione colpita che si dovrà integrare con il sistema nazionale già esistente.Nella fase post-emergenza i servizi sanitari possono ampliarsi includendo il trattamento di malattie croniche, comprese le malattie mentali e quelle dell’apparato riproduttivo.
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LA RISPOSTA ALLE MAXIEMERGENZE IN UNA STRUTTURA CAMPALE
TRIPODI
L’intervento della C.R.I. in Pakistan L’evento Il giorno sabato 8 ottobre 2005, alle ore 08.50 locali (ore 5,50 in Italia), si manifestava in Pakistan un evento sismico di magnitudo 7,6 della scala Richter, pari all’ XI-XII grado della scala Mercalli-Cancani-Sieberg, il cui epicentro era localizzato approssimativamente a circa 95 km a nord-nord-est dalla capitale Islamabad, a 10 km di profondità. La zona maggiormente interessata dall’evento sismico era compresa in un’area di circa 28.000 Km quadrati; i danni maggiori erano a carico di sei Distretti del NWFP (North-West Frontier Province) e di cinque Distretti del Kashmir Pakistano. Erano state colpite anche varie località del Kashmir Indiano. Dopo una iniziale e sommaria ricognizione veniva immediatamente rilevato che nella città di Balakot (Distretto di Mansehra) quasi tutti gli edifici erano crollati; i pochissimi fabbricati non caduti erano, comunque, gravemente danneggiati e pericolanti. La stessa situazione si presentava in molte altre città e villaggi del Distretto. Dalle prime ore appariva evidente che il bilancio delle vittime sarebbe stato particolarmente elevato, oltre che per l’entità dei crolli in tutta la zona, densamente popolata, anche per l’ora in cui il sisma si era verificato(prime ore del mattino, durante il Ramadan, quindi giorni di festa e scuole chiuse). Il terremoto determinava complessivamente 90.000 morti, 100.000 feriti e 3,5 milioni di persone senza tetto. Appello emergenza Pakistan Su iniziativa del Governo Italiano, che ha prontamente raccolto la richiesta d’aiuto da parte delle Autorità pachistane, in data 11/10/2005 sono stati inviati in Pakistan, nell’area colpita dal terremoto, un gruppo di coordinamento del Dipartimento della Protezione Civile, un Nucleo di Pronto Impiego della C.R.I., costituito da appartenenti al Corpo Militare e al Corpo delle II.VV., e un rappresentante della Polizia di Stato. Superate le difficoltà dovute al reperimento del vettore aereo e al caricamento dei materiali e dei farmaci, dopo i ritardi subiti per l’intasamento degli scali aerei e delle aerovie finalmente, alle ore 14:00 del giorno 12 ottobre, il Nucleo della CRI arrivava a Islamabad e successivamente raggiungeva, nel giro di cinque-sei ore, la città di Abbottabad, sede del quartier generale italiano in zona d’operazioni. Il giorno 13 ottobre veniva effettuato un sopralluogo a Mansehra, localita’ designata per la realizzazione della struttura campale italiana, per incontrare i responsabili locali e decidere con essi ove poter posizionare il P.M.A. La situazione generale nell’ area si presentava complessa e grave allo stesso tempo a causa degli innumerevoli danni agli edifici pubblici e privati, per l’intasamento delle vie di comunicazione, per il traffico intenso dovuto al transito dei mezzi di soccorso e alle centinaia di persone che, con spirito volontaristico e in maniera improvvisata, cercavano di portare aiuto alle popolazioni colpite e rimaste isolate in montagna. L’ospedale di Mansehra, che presentava lesioni alle strutVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
ture murarie, era stato dichiarato inagibile e i pazienti erano stati ricoverati sotto le tende nello spazio adiacente al complesso ospedaliero. Risultava subito evidente l’urgenza di avere a disposizione elicotteri per poter raggiungere le città e i villaggi di montagna colpiti dall’evento e rimasti completamente isolati per le interruzioni delle comunicazioni stradali, mentre, dalle richieste presentate dalle Autorità locali,si rilevava la primaria necessità di sale operatorie, apparati di radiologia, farmaci e attrezzature sanitarie. A seguito degli accordi presi al meeting organizzato dalle Autorità pakistane per il coordinamento degli aiuti umanitari e l ‘ attuazione delle attività di soccorso sanitario a Mansehra e nelle altre città colpite dall’evento, il N.S.P.I. (Nucleo Sanitario Pronto Impiego), precedentemente montato presso la base degli elicotteri situata nel campo sportivo della città, veniva poi trasferito all’interno del complesso scolastico “Governamental Postgratuated College” nelle cui aule, atri e cortili erano ricoverati circa 1.500 feriti e ammalati. Il “College”,momentaneamente utilizzato come struttura sanitaria provvisoria, aveva, però subìto notevoli danni a seguito delle ripetute scosse telluriche ; di conseguenza, anche a causa della paura manifestata dai ricoverati e dai loro accompagnatori, si era reso necessario lo sgombero della struttura e il trasferimento urgente dei ricoverati nell’ospedale da campo italiano. Iniziava così l’attività di assistenza e trattamento medico a favore delle vittime del terremoto all’interno del posto medico avanzato. Successivamente ,con l’arrivo del personale e dei materiali del gruppo di Protezione Civile A.R.E.S. Marche e della sala operatoria in container messa a disposizione dall’ organizzazione svizzera Suisse Humanitarian Aid, il PMA la struttura attendata ben articolata che andava a costituire un vero e proprio ospedale da campo da 200 posti letto. Va sottolineato l’elevato flusso di pazienti che giornalmente veniva trattato dal personale sanitario italiano e l’alta percentuale di donne e bambini che presentavano fratture multiple, ferite profonde e ancora sanguinanti specialmente agli arti. Tali lesioni erano provocate sia dal trauma contusivo e da schiacciamento per il crollo degli edifici e sia dalla lacerazione dovuta al trascinamento dei corpi nel tentativo di liberarli dalle macerie. L’attività ospedaliera era rappresentata principalmente da medicazioni complesse, sotto sedazione o in anestesia generale, trattamenti chirurgici/ortopedici e dal confezionamento dei gessi. Intensa è stata anche l’attività di consulenza specialistica (ortopedica, di chirurgia plastica e internistica) all’interno dei reparti, ivi compresa la somministrazione della terapia, la mobilizzazione dei pazienti, le cure igieniche personali e l’assistenza infermieristica nel suo insieme . Situazione sanitaria al 25 ottobre 2005 Organizzazione dell’ospedale campale a Manshera
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TIPODI
LA RISPOSTA ALLE MAXIEMERGENZE IN UNA STRUTTURA CAMPALE
Dopo 2 settimane di attività l’ospedale era organizzato come segue: • n. 4 tende per Blocco Triage, Accettazione, Pronto Soccorso. • n. 1 Blocco operatorio composto da un modulo container per la sala operatoria e n.. 2 tende attrezzate a sala per la preparazione del paziente (pre-anestesia e risveglio), attrezzatura per analisi di laboratorio e ambulatorio ortopedico. • n. 1 tenda per alloggio personale sanitario di guardia. • n. 1 container radiologico, in allestimento (con un ecografo portatile). • n. 1 sala gessi. • n. 2 tende adibite a farmacia centrale. Degenza: disponibili n. 200 posti letto allestiti in 13 tende; i degenti sono stati divisi per sesso ed età ; è stato realizzato anche un reparto pediatrico. Cucina con sala mensa. Capacità di 200 pasti l’ora. Mensa per 50 posti a sedere e un’area suppletiva multifunzionale per briefing personale, accoglienza Autorità e esigenze logistiche. Tale blocco era costituito da n.3 tende. Operatori presenti • n. 11 medici di cui n.3 anestesisti, n. 4 chirurghi, n. 1 ginecologo n.1 ortopedico, n.2 medici di P.S. • n. 23 infermieri di cui 2 ostetriche. • n. 11 logisti e tecnici (elettricisti, meccanici, idraulici ecc.). Si è reso subito necessario il trasferimento di pz. gravi negli ospedali territoriali, precedentemente individuati e contattati con la ricognizione sul territorio e il censimento delle strutture ospedaliere ancora funzionanti. Per l’assistenza dei pz. nei reparti ci si è avvalsi della collaborazione di medici , infermieri e paramedici locali. Fondamentale è stato l’uso della lingua inglese e dell’interprete pakistana per la lingua urdu. Problemi logistici Servizi igienici (docce e latrine per pz., accompagnatori e per il personale sanitario, italiano ed internazionale). Energia elettrica Pulizia degli ambienti interni e dell’area in cui era stato montato il campo. Smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e ospedalieri. Problemi approvvigionamento di ossigeno terapeutico e ricarica bombole. Mancanza di un inceneritore. Alloggi per familiari e accompagnatori delle vittime. Sistema Antincendio Sicurezza per il personale italiano e per i pazienti. Piano di risposta Dopo la prima settimana di attività, nel corso della fase dell’organizzazione dei soccorsi, il gruppo coordinamento 606
ha iniziato l’elaborazione e la stesura della strategia a medio termine in risposta agli effetti del terremoto, mentre continuavano le attività di soccorso e i trattamenti medici . Rimaneva, altresì, elevata la necessità di avere a disposizione nuovi ospedali da campo, personale sanitario, farmaci, materiale da medicazione, attrezzature, supporto logistico, mezzi di trasporto sanitario e, in particolare, mezzi aerei per il trasferimento dei pz. da aree inaccessibili. La strategia a medio termine interessava i 5 distretti sotto elencati: 1) Mansehra (1 milione di persone colpite). 2) Batagram (400.000 persone colpite). 3) Abbottabad ( 200.000 persone colpite). 4) Shangla (400.000 persone colpite). 5) Kahistan ( 300.000 persone colpite). La risposta immediata era così organizzata 1) Ospedali attendati, Equipe Sanitarie Nazionali, e Internazionali, Volontari, Equipe di Medici delle agenzie distrettuali e provinciali. 2) Coordinamento a livello provinciale. 3) Trasferimento pazienti con mezzo aereo da aree inaccessibili. 4) Ospedali ed Equipe Militari; 5) Farmaci e supporti logistici. Obiettivi Ristrutturare e ristabilire il sistema sanitario distrettuale interessato a livello temporaneo (6-24 mesi), con strutture prefabbricate, rinforzate fino al termine della ricostituzione. Strategia Sviluppare e realizzare standard minimi in termini di edifici, personale, servizi e attrezzature nel medio termine; sviluppare un piano sanitario specifico, distrettuale, per dare priorità alle strutture sanitarie di base rinforzate/ adatte per la stagione invernale Servizi Ambulatoriali, di medicina generale e specialistica; servizi di diagnostica ( laboratorio analisi, radiologia ), banca sangue; sistemazione e gestione delle emergenze sul territorio; Dipartimento Materno - Infantile; servizio feriti, (trasferimenti dei pazienti con ambulanza; servizio counselling psico-sociale; educazione sanitaria; educazione igienica, controllo e sorveglianza infezioni; gestione dei farmaci. Considerazioni In questa catastrofe naturale la totalità delle vittime, almeno nelle prime settimane di attività, ha avuto bisogno esclusivamente di trattamento di chirurgia plastica ricostruttiva e di ortopedia sotto sedazione o in anestesia generale. Si ritiene, pertanto, fondamentale l’invio di strutture di cura provvisorie, anche di tipo P.M.A con capacità chirur-
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LA RISPOSTA ALLE MAXIEMERGENZE IN UNA STRUTTURA CAMPALE
gica, la presenza di specifiche figure professionali quali anestesisti, ortopedici-traumatologi, chirurghi, infermieri professionali, specialisti di sala operatoria, ortopedia, sala gessi; è necessario poter disporre di un prontuario farmaceutico che preveda elevate scorte di anestetici endovenosi (Propofol e Ketamina), oppioidi, materiale da medicazione e bende gessate. L’apparato radiologico e l’amplificatore di brillanza sono elementi insostituibili e necessari fin dalle prime fasi di attività, unitamente alla sala operatoria, possibilmente in container. All’ospedale italiano era stato espressamente richiesto di occuparsi delle vittime dirette del terremoto e, di conseguenza, tutti gli sforzi sono stati indirizzati nel trattamento delle ferite, delle fratture e dei traumi. Se non espressamente richiesto dalle Autorità o laddove presente, non bisogna alterare l’assistenza sanitaria di base alla popolazione con la distribuzione generalizzata di farmaci o con l’effettuazione di visite ambulatoriali di medicina generale. L’assegnazione dei codici di triage va fatta in maniera selettiva e rapida. Non c’é bisogno di effettuare tale operazioni all’interno dell’ospedale: i chiedenti visita autosufficienti, in grado di camminare, non affetti da fratture, ferite o lesioni possono essere rapidamente selezionati al di fuori delle tende e invitati a rivolgersi a strutture assistenziali diverse dagli ospedali. Conclusioni Dopo le difficoltà iniziali dovute al presentarsi di un elevato numero di feriti ,al confrontarsi con una situazione di totale distruzione e con la sofferenza di un elevato numero di vittime, l’attività del PMA, prima, e dell’ospedale, poi, si è andata via via adattando alla situazione e il nostro operato,coordinato con le autorità sanitarie locali, con le organizzazioni internazionale e con le ONG presenti, ha contribuito alla gestione della fase critica dell’evento. Da sottolineare l’importanza, oltre che di alcune ONG italiane, degli aiuti forniti dalle nostre FF.AA sia con l’invio, dalla vicina città di Kabul, di tende, materiali e razioni K nelle prime fasi dell’intervento e sia per la partecipazione alla fase di ricostruzione con l’invio di personale qualificato, materiali e mezzi. L’Italia ha dato, nel complesso, un valido contributo per la gestione sia della fase critica della catastrofe e sia per la fase della ricostruzione, che sta tuttora proseguendo con la realizzazione del piano a medio-termine e con progetti sanitari finalizzati. L’impiego di personale organizzato (Dipartimento Protezione Civile, Croce Rossa Italiana, Polizia di Stato, e gruppo ARES Regione Marche) autosufficiente e con strutture campali di rilievo, adeguato supporto logistico, attrezzature, materiali e farmaci ha reso efficace l’intervento italiano in Pakistan e credibile e affidabile l’organizzazione stessa. Anche l’impiego del personale CRI in uniforme ha contribuito ad una più rapida identificazione e a un migliore inserimento dei nostri militari nell’organizzazione generale dei soccorsi. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
TRIPODI
Casistica Prestazioni esterne ambulatoriali 9052 1333 700 11085
visite medicazioni gessature totale prestazioni esterne ambulatoriali
Prestazioni ospedaliere 6599 1029 426 1455
visite degenti medicazioni semplici medicazioni complesse totale medicazioni
139 44 216 399
interventi chirurgici in anestesia generale interventi chirurgici in anestesia loco-regionale interventi chirurgici in sedazion totale interventi chirurgici
8453
totale prestazioni ospedaliere
Trasferimenti presso centri ad alta specializzazione 32 50 82
trasferimenti con equipe medica italiana trasferimenti con personale pakistano totale trasferimenti
8
deceduti
Presenze giornaliere 2812 3854
maschi femmine
1927 3708 1031
età < 14 anni età 14 ÷ 60 anni età > 60 anni
6666
totale presenze giornaliere
15651 totale visite 2788
totale medicazioni
Operatori presenti 11 Medici, 03 Anestesisti, 04 Chirurghi, 01 Ginecologo, 01 Ortopedico, 02 Internisti, 23 Infermieri, 02 Ostetriche, 11 Logisti (elettricisti, meccanici, ecc.). Complesso ospedaliero campale a manshera 04 Tende blocco triage accettazione, pronto soccorso, 01 Blocco operatorio, 01 Container radiologico, 01 Sala gessi, 02 Tende farmacia centrale, 01 Tenda alloggio personale di guardia. Col. Med. C.R.I Romano Tripodi Ufficio Sanità Ispettorato Nazionale Corpo Militare C.R.I
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):609
Problematiche cardiologiche in anestesia per la chirurgia non cardiaca: il paziente con scompenso cronico L. TRITAPEPE
I progressi recenti della pratica anestesiologica moderna hanno permesso, da un lato, una riduzione importante nell’incidenza degli accidenti anestesiologici spesso associati a morbidità e mortalità elevati (intubazione esofagea, deconessione, sovradosaggio in alogenati, ipertermia maligna, etc.) e dall’altro hanno permesso ai chirurghi di realizzare interventi sempre più aggressivi in pazienti portatori di patologie via via più severe. Malgrado questi progressi, le complicanze cardiache perioperatorie (CCP) restano una fonte di morbidità e mortalità considerevole. Si stima che la metà dei decessi perioperatori sia legata a CCP. Nella maggior parte dei lavori su questo argomento sono considerati CCP: gli infarti del miocardio perioperatori (IMP), l’angina instabile, lo scompenso cardiaco acuto, le aritmie maligne (tachicardia e fibrillazione ventricolare, TV e FV). Il periodo perioperatorio è spesso definito dall’inizio dell’intervento sino alla fine della prima settimana. Tuttavia gli studi recenti allargano questo periodo e ricercano le conseguenze della CCP sino a due anni dopo l’ingresso in sala operatoria. Una efficace stratificazione permette di ottimizzare lo stato del paziente in funzione dei fattori di rischio che esso presenta. Finalmente questo permette un’utilizzazione razionale delle tecniche di riduzione del rischio (monitoraggio, piano anestetico, ricovero in terapia intensiva). La presenza di scompenso cardiaco aumenta il rischio di CCP. E’ probabile che un trattamento efficace riduca il rischio in questi pazienti scompensati. La determinazione della frazione di eiezione (con scinti-
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UOD Anestesia e Terapia Intensiva in Cardiochirurgia, Università “La Sapienza”, Roma
grafia, ventricolografia, ecocardiografia) aiuta a stratificare il rischio di CCP. Una frazione 45 mmHg during spontaneous breathing trial, confirmed these data.16 These data has been translated in post-operative period: a recent systematic review found twenty-nine articles (nine evaluated NIV in post-abdominal surgery, three in thoracic surgery, eight in cardiac surgery, three in thoracoabdominal surgery, four in bariatric surgery and two in post solid organ transplantation, using NIV both for prophylactic (22 of 29 trials) and therapeutic (7 of 29 trials) purposes. NIV significantly improved arterial blood gas in 19 of the considered studies and the intubation rate in 11 of them.17 In cardiac surgery, in addiction to common causes of postoperative respiratory complications, it has been described specific respiratory system insults, such as pleural effusion, bronchopleural fistula, phrenic nerve palsy, sternal wound infection, the use of bypass with activation of inflammatory mediators and extravascular lung water increases, use of mammary arteries etc.18 Prophylactic CPAP or NIV compared to standard treatment with oxygen therapy and chest physiotherapy significantly improved the gas exchange without any significant difference in the rate of atelectasis or spirometry.19,20 In a large randomized trial enrolling 468 patients, CPAP reduces the incidence of pulmonary complications (hypoxemia, pneumonia, reintubation rate) compared to oxygen therapy; however, the lengths of stay in the intensive care unit and hospital were similar between groups.21 In another study, CPAP and NIV were compared as treatment of postoperative atelectasis in 150 cardiac surgical patients: NIV use produced higher reduction in the radiological atelectasis score with no significant difference in arterial blood gases, hospital length of stay and mortality.22 It would be useful to identify prior of cardiac surgery higher risk patients of postoperative pulmonary complications and treat these patients with NIV. Actually is in progress a randomized controlled trial on preventive use of NIV after cardiac surgery (unpublished data). In the first 20 patients enrolled, there is a trend of less atelectasis in NIV treated, and less respiratory failure after extubation. References 1. Warner DO. Preventing postoperative pulmonary complications: the role of the anesthesiologist. Anesthesiology 2000;92:1467-72. 2. Warner DO, Warner MA. Human chest wall function while awake and during halothane anesthesia. Anesthesiology 1995;82:6-31. 3. Tokics L, Hedenstierna G, Strandberg A et al. Lung collapse and gas exchange during general anesthesia: effects of spontaneous breathing, muscle paralysis, and positive end-expiratory pressure. Anesthesiology 1987;66:157-67. 4. Epstein SK. Extubation failure: an outcome to be avoided. Crit Care 2004;8:310-2. 5. Demling RH, Read T, Lind LJ et al. Incidence and morbidity of extubation failure in surgical intensive care patients. Crit Care Med. 1988;16:573-77.
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6. Torres A, Gatell JM, Aznar E et al. Re-intubation increases the risk of nosocomial pneumonia in patients needing mechanical ventilation. Am J Respir Crit Care Med. 1995; 152:137-41. 7. Epstein SK, Ciubotaru RL, Wong JB. Effect of failed extubation on the outcome of mechanical ventilation. Chest 1997;112:186-92. 8. Ferrer M, Esquinas A, Arancibia F et al. Noninvasive ventilation during persistent weaning failure. A randomized controlled trial. Am J Respir Crit Care Med 2003;168:70-6. 9. Nava S, Ambrosino N, Clini E et al. Noninvasive mechanical ventilation in the weaning of patients with respiration failure due to chronic obstructive pulmonary disease. A randomized, controlled trial. Ann Intern Med. 1998;128:721-8. 10. Esteban A, Frutos-Vivar F, Ferguson ND et al. Noninvasive positive-pressure ventilation for respiratory failure after extubation. N Engl J Med. 2004;10;350:2452-60. 11. Keenan SP, Powers C, McCormack DG et al. Noninvasive positive-pressure ventilation for postextubation respiratory distress: a randomized controlled trial. JAMA 2002;26: 287:3238-44. 12. Jaber S, Delay JM, Chanques G et al. Outcomes of patients with acute respiratory failure after abdominal surgery treated with noninvasive positive pressure ventilation. Chest 2005;128:2688-95. 13. Squadrone V, Coha M, Cerutti E et al. Continuous positive airway pressure for treatment of postoperative hypoxemia: a randomized controlled trial. JAMA 2005;293:589-95. 14. Nava S, Gregoretti C, Fanfulla F, Squadrone E et al. Noninvasive ventilation to prevent respiratory failure after extubation in high risk patients. Crit Care Med. 2005;33:2465-70. 15. Ferrer M, Valencia M, Nicolas JM et al. Early non-invasive ventilation averts extubation failure in patients at risk. A randomized trial. Am J Respir Crit Care Med 2006;173:16470. 16. Ferrer M, Sellarés J, Valencia M et al. Non-invasive ventilation after extubation in hypercapnic patients with chronic respiratory disorders: randomised controlled trial. Lancet 2009;26;374:1082-8. 17. Chiumello D, Chevallard G, Gregoretti C. Non-invasive ventilation in postoperative patients: a systematic review Intensive Care Med 2011;37:918-29. 18. Matte P, Jacquet L, Van Dyck M, Goenen M. Effects of conventional physiotherapy, continuous positive airway pressure and non- invasive ventilatory support with bilevel positive airway pressure after coronary artery bypass grafting. Acta Anaesthesiol Scand 2000;44:75-81. 19. Ricksten SE, Bengtsson A, Soderberg C, Thorden M, Kvist H. Effects of periodic positive airway pressure by mask on postoperative pulmonary function. Chest 1986;89:774-81. 20. Thomas AN, Ryan JP, Doran BR, Pollard BJ. Nasal CPAP after coronary artery surgery. Anaesthesia 1992;47:316-9. 21. Zarbock A, Mueller E, Netzer S et al. Prophylactic nasal continuous positive airway pressure following cardiac surgery protects from postoperative pulmonary complications: a prospective, randomized, controlled trial in 500 patients. Chest 2009;135:1252-9. 22. Pasquina P, Merlani P, Granier JM, Ricou B. Continuous positive airway pressure versus noninvasive pressure support ventilation to treat atelectasis after cardiac surgery. Anesth Analg 2004;99:1001-8.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):623
Peripherally Inserted Central Venous Catheter in Intensive Care Unit G. ZITO MARINOSCI
Peripherally Inserted Central Venous Catheters (PICVCs) could represent a valid option to standard central venous catheters (CVCs) in intensive care patients, particularly in those with altered blood coagulation profile, or those at higher risk of contamination of the exit site (e.g. when a tracheostomy is in place)Although still debated, it has been shown in a large prospective, observational, multicenter study involving 1,366 patients and 2,101 catheters that the routine use of PICVs is associated with a lower risk of catheter related blood stream infection (CR-BSI). The incidence of CRBSI in fact, was 1.07 per 1,000 catheter days in the PICVC group [95% confidence interval (CI), 0.13-2.01] and 3.73 per 1,000 catheter days (95% CI, 2.8-4.67) in conventional CVC (P = 0.007). 1 The adoption of power injectable PICVC can overcome some limitations of the conventional ones, such as low infusion rates. Power injectable catheters allow higher infusion rates; offer multiple lumens suitable for central venous pressure monitoring, have a lower rate of obstruction, that can be easily cleared, can be used for high pressure contrast media injection, as demonstrated by Pittiruti et al.2 In their retrospective analysis the authors reviewed all the PICVC implants in a tertiary level care center adults and pediatric intensive care setting. They reported a 100% success rate without any remarkable complication, when the procedure were made according to a bundle for preventing central line infections developed by GAVeCELT (available at: http://www.gavecelt. info/uploads/ bundle_gavecelt_prevenzione_infezioni_cvc.pdf, last accessed on July 15th 2012). Moreover the rate of PICVC related thrombosis was extremely lower as compared to previous paper: one episode over nearly 89 implants. These apparently conflicting results with other papers reporting thrombosis rates as high as 7.7 episodes every 1,000 catheter days,3-5 arise form a well established bundle. It included, indeed, the echographic evaluation of the upper arm veins bilaterally, in order to implant the device in the most appropriate size vessel respect to the diameter
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Department of Surgical, Anaesthesiological, Intensive Care Medicine, and Emergencies Sciences, University of Napoli “Federico II”, Naples, Italy
of the catheter, echographic assisted puncture, the correct positioning of the tip of the catheter with EKG, the use of sutureless devices to stabilize the catheter on the skin at the exit site. As a concluding remarks can be stated that PICVs can be safely used in the intensive care setting for infusion purposes, hemodynamic monitoring and as a way to administer contrast media for radiologic procedures. They can be safely implanted by well-trained nurses, when specific bundle measures are used the success rate approaches 100%, without significant risks either in pediatric population or in patients with altered coagulation profile. The adoption of power injectable devices is associated with a very low rate of infective, mechanical (dislodgement or obstruction) and thrombotic complications. References 1. Garnacho-Montero J et al. Risk factors and prognosis of catheter-related bloodstream infection in critically ill patients: a multicenter study. Intensive Care Med, 2008;34: 2185-93. 2. Pittiruti, M et al. Clinical experience with power-injectable PICCs in intensive care patients. Crit Care, 2012;16: R21. 3. Bonizzoli M et al. Peripherally inserted central venous catheters and central venous catheters related thrombosis in postcritical patients. Intensive Care Med, 2011;37:284-9. 4. Nichols, I, Humphrey JP. The efficacy of upper arm placement of peripherally inserted central catheters using bedside ultrasound and microintroducer technique. J Infus Nurs, 2008;31:165-76. 5. Trerotola, SO et al. Short-term infection in cuffed versus noncuffed small bore central catheters: a randomized trial. J Vasc Interv Radiol, 2010;21:203-11.
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Organizzare un’awake craniotomy R. ZOPPELLARI1, M. PELLEGRINI1, G. FELISATTI1, G. DALLOCCHIO1, E. FERRI1, A.L. PINAMONTI1, A. MATINA1, M.A. CAVALLO2
Introduzione
1UO
Il monitoraggio funzionale del paziente candidato alla chirurgia in condizione di veglia per lesioni espansive situate nelle aree cerebrali eloquenti, rappresenta una sfida per il team operatorio. L’indicazione ad eseguire interventi neurochirurgici in sede cranica, in assenza di anestesia generale, si riconduce sostanzialmente a tre motivi: 1. l’anestesia generale non rappresenta un reale beneficio, come nel caso di procedure bioptiche in chirurgia stereotassica; 2. i farmaci utilizzati per l’anestesia generale interferiscono con l’attività elettrofisologica del cervello, sia essa spontanea che evocata, come nella deep brain stimulation; 3. la condizione di veglia è presupposto indispensabile per lo svolgimento dell’atto chirurgico, quando è necessario monitorare (valutare in continuo alcune funzioni neurologiche) e mappare (localizazre mediante stimolo elettrico reversibile le aree critiche corticali e sottocorticali) le regioni del cervello adiacenti alla lesione, che verranno coinvolte durante l’intervento chirurgico. In questi casi il paziente deve essere in grado di cooperare ed il neurologo, neuropsicologo e neurofisiologo devono poter valutare le risposte del paziente, specie nelle aree del linguaggio. Tipicamente questa condizione viene proposta negli interventi neurochirurgici di asportazione di tumori o di malformazioni vascolari situati in regioni funzionali eloquenti del cervello. Con questa tecnica, infatti, specie nella patologia tumorale, lo scopo della chirurgia è quello di ottenere una asportazione il più radicale possibile del tessuto patologico senza danneggiare irreparabilmente le funzioni neurologiche. Per tale motivo, è necessario che il paziente sia sveglio e collaborante, durante le delicate manovre chirurgiche di mappaggio e asportazione. Sostanzialmente, esistono due diverse tendenze neurochirurgiche, riguardo alla esecuzione di asportazione di lesioni in area critica: 1. alcune scuole tendono ad operare in condizioni di veglia tutte le lesioni che si collocano in area critica (comprese le aree motorie); Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
di Anestesia e Rianimazione Ospedaliera, Azienda Ospedaliero Universitaria di Ferrara 2UO di Neurochirurgia, Azienda Ospedaliero Universitaria di Ferrara
2. altre scuole applicano l’awake craniotomy solo per le lesioni collocate nelle aree cerebrali predisposte al linguaggio; infatti, il monitoraggio ed il mappaggio neurofisiologico intraoperatorio è possibile anche in anestesia generale ed è in grado di identificare le aree corticali e sottocorticali sensitive e motorie. Infine, esistono studi riguardanti l’applicazione del monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio per l’identificazione dell’area di Broca, predisposta al linguaggio, anche in pazienti in anestesia generale, tramite la stimolazione della stessa intraoperatoriamente e la registrazione dello stimolo a livello dei muscoli vocali. Qualora sia richiesta un’awake craniotomy, le tecniche anestesiologiche utilizzate sono sostanzialmente tre: “asleep-awake-asleep”; “asleep-awake”; “monitored anestesia care” o analogo-sedazione cosciente. La gestione anestesiologica differisce sostanzialmente per quanto riguarda la profondità della sedazione o dell’anestesia e di conseguenza per la gestione delle vie aeree. La prima tecnica (asleep awake asleep) è caratterizzata da tre fasi: la prima fase di anestesia generale o sedazione profonda in cui viene eseguita l’apertura della scatola cranica e l’esposizione della lesione; la seconda richiede il paziente sveglio, per potere eseguire il mappaggio delle aree cerebrali e l’asportazione della lesione; la terza impegna l’anestesista a riaddormentare il paziente generalmente al termine dell’asportazione della lesione (o comunque quando le manovre chirurgiche non si svolgono più in aree eloquenti) e per la chiusura della scatola cranica. L’applicazione di questa tecnica richiede il posizionamento di un tubo endotracheale o l’applicazione di una maschera laringea, per la prima fase. Per l’esecuzione della seconda fase il tubo o la maschera vengono tolti. Infine, la terza fase richiede generalmente il riposizionamento del presidio. La tecnica “monitored anestesia care” richiede la modula-
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zione dell’intensità dell’analgosedazione alle diverse fasi chirurgiche, tramite l’oculata scelta quali-quantitativa dei farmaci anestetici, in assenza di presidi di supporto delle vie aeree. Questa tecnica è incentrata anche sulla esecuzione di una adeguata anestesia locale, per infiltrazione, e tramite il blocco dei nervi dello scalpo (nervo grande e piccolo occipitale, auricolotemporale e sovra orbitario), al fine di impedire che l’atto chirurgico avvenga in condizioni di dolore. Infine, la tecnica “asleep-awake” rappresenta una soluzione intermedia fra le due descritte. Indipendentemente dall’applicazione di una delle tecniche, la gestione anestesiologica nella awake craniotomy deve modulare la profondità dell’analgesia e della sedazione intraoperatoria allo svolgimento dell’atto chirurgico e mantenere un adeguato controllo respiratorio, cardiocircolatorio e neurologico. Ai fini dell’ottenimento della collaborazione del paziente, è necessario inoltre provvedere al suo posizionamento confortevole ed alla prevenzione di complicanze quali nausea, vomito e insorgenza di crisi comiziali. Da quanto premesso, risulta che l’organizzazione di un’awake craniotomy richiede necessariamente una forte collaborazione fra anestesista, neurochirurgo, neurofisiologo ed infermieri di sala operatoria. Il team multidisciplinare si allarga ad altri professionisti, quali il neuropsicologo, necessario per la eleggibilità preoperatoria e la valutazione del linguaggio in sala operatoria, ed il neuroradiologo per lo studio preoperatorio delle aree funzionali. Dal confronto emerso in eventi formativi organizzati o sostenuti dagli autori - quali “Theoretical-practical live surgery course on Awake craniotomy for cerebral gliomas” (Ferrara 9-11 giugno 2010) e la sessione “Staffing an awake craniotomy” svolta all’11° annual neuromeeting (Siena 5-7 maggio 2011), oltre che dalla letteratura del settore, emergono le note di discussione successive, relativamente alla selezione dei pazienti, alla loro valutazione preoperatoria e preparazione, al protocollo anestesiologico, alla strategia chirurgica ed al monitoraggio intraoperatorio, alla gestione postoperatoria. Discussione Selezione dei pazienti L’atto chirurgico presuppone una selezione del paziente candidato a craniotomia in condizioni di veglia. A seconda della tendenza neurochirurgica, si tratta di pazienti con lesioni delle aree del linguaggio o delle aree motorie. Il neurochirurgo discute il caso collegialmente con il neuropsicologo, neuroradiologo e l’anestesista. E’ necessario che i componenti del team si conoscano e lavorino insieme di routine (team dedicato). Viene considerato eliggibile solo il paziente con buon livello di collaborazione e con eventuali disturbi del linguaggio che comunque non devono superare la soglia del 50% di errori ai test preoperatori. Valutazione preoperatoria e preparazione dei pazienti Ogni paziente viene presentato dal neurochirurgo all’anestesista incaricato di svolgere l’anestesia alcuni giorni prima dell’intervento. È opportuno che il paziente venga 626
valutato, informato e rassicurato dallo stesso anestesista che sarà presente in sala operatoria. La valutazione anestesiologica considera in particolare l’accessibilità alle vie aeree superiori ed il rischio di apnee ostruttive, il rischio epilettico (trattamento in corso, concentrazione ematica terapeutica), la suscettibilità a nausea e vomito, ed il grado di ansietà e tolleranza al dolore. Si pone attenzione alla stabilizzazione della pressione arteriosa di base e la posizione operatoria viene concordata col neurochirurgo, a seconda della sede della lesione. È fondamentale che il paziente siaa conoscenza di tutte le manovre che verranno eseguite in sala operatoria, attive o passive, per evitare che l’inevitabile stato d’ansia raggiunga livelli tali da impedirne la collaborazione. Protocollo anestesiologico Non esiste un consenso sulla tecnica di gestione anestesiologica migliore per l’awake craniotomy. Le tre tecniche sopradescritte prevedono ciascuna limiti e punti di forza. Ad esempio la asleep-awake-asleep può offrire maggiori garanzie nella gestione delle vie aree e nella capacità di sopportare procedure lunghe da parte del paziente, ma la rimozione del tubo tracheale o della maschera laringea può indurre la tosse o l’attivazione simpatica, col paziente che si sveglia col capo fissato alla testiera di Mayfield. Noi riteniamo che ogni team, e nello specifico la componente anestesiologica del team, debba sviluppare preferenzialmente una tecnica e nel contempo essere in grado di modularla intraoperatoriamente convertendola in un’altra, o di scegliere fin dall’inizio un‘altra tecnica per consentire comunque, a seconda della durata prevista dell’intervento e della compliance del paziente, l’esecuzione del mappaggio e dell’asportazione della lesione. Nella nostra esperienza di oltre 100 awake craniotomy con la monitored anesthesia care, l’opportunità di modulare il livello di sedazione ed analgesia a seconda delle diverse fasi chirurgiche, ha offerto comfort e tolleranza della procedura, con un paziente sveglio e cooperativo quando necessario. Strategia chirurgica e monitoraggio intraoperatorio Il posizionamento del paziente nel letto operatorio e la disposizione dei vari attori (chirurghi, anestesista, neurofisiologo, neuropsicologo, infermiere strumentista e dedicato all’anestesia) va concordato e possibilmente inserito in un protocollo che consenta a ciascun componente di sapere la propria collocazione nella sala operatoria. Allo stesso modo è necessario che la preparazione del campo chirurgico sterile, con il fissaggio dei telini, consenta un agevole accesso al volto per il monitoraggio e per poter intervenire prontamente ed efficacemente sulle vie aeree, se necessario. La tipologia, la concentrazione ed il volume degli anestetici locali usati dall’anestesista e dal chirurgo devono essere concordati reciprocamente, anche per evitare sovradosaggi. Durante l’intervento, all’apertura della dura, il cervello può apparire edematoso e ciò potrebbe richiedere un intervento farmacologico (mannitolo) o una modifica del livello ematico di anidride carbonica (agendo sulla ventilazione o alleggerendo la sedazione). Nella nostra esperienza, tuttavia, al risveglio del paziente, si assiste general-
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ORGANIZZARE UN’AWAKE CRANIOTOMY
ZOPPELLARI
mente alla risoluzione dell’edema, con il recupero della fisiologica attività respiratoria spontanea. La dura madre della base cranica è ricca di terminazioni dolorifiche e la sua manipolazione può provocare dolore, ma di norma, nel nostro centro, il neurochirurgo non infiltra la dura madre con anestetico locale, per evitare il rischio di immettere anestetico locale nel liquor e provocare crisi epilettiche. Una volta aperta la dura ed identificata la corteccia da esplorare, viene attuato il mappaggio e il monitoraggio neurofisiologico intraoperatorio: potenziali evocati sensitivi e motori, elettrocorticografia, mappaggio delle aree del linguaggio e, una volta iniziata l’asportazione, stimolazione sottocorticale del tratto corticospinale e dei fasci che collegano le aree del linguaggio. Le aree corticale vengono mappate e viene testato il linguaggio da parte del neuropsicologo, sia durante la stimolazione corticale che durante tutta la fase di asportazione della lesione. La valutazione integrata del monitoraggio clinico, neurolinguistico, dei potenziali evocati motori e l’elettrocorticografia serve da guida per l’approccio alla lesione e la sua asportazione. Gestione postoperatoria Anche per quanto riguarda la gestione postoperatoria le differenze fra le diverse scuole sono consistenti: si passa dal ricovero sistematico in ambiente intensivo alla dimissione nella serata dell’intervento. Nella nostra esperienza, il paziente operato rientra sistematicamente nella degenza della neurochirurgia e viene valutato nei giorni successivi dal neurochirurgo, dall’anestesista e dal neuropsicologo. È necessario che il team si ritrovi per analizzare le eventuali complicanze neurologiche riscontrate, quali dolore intra-e-postoperatorio, perdita di collaborazione intraoperatoria col paziente, frequenza delle crisi epilettiche, nonché livello di soddisfazione del paziente nel percorso perioperatorio. Conclusioni La squadra per la craniotomia in condizioni di veglia può essere declinata secondo tre dimensioni: sapere, saper fare, saper essere. Sapere: conoscere quali indicazioni chirurgiche, quale tipo di tecnica anestesiologica e quale monitoraggio attuare. Saper fare: solo un team affiatato è in grado di organizzare un’awake craniotomy e di gestirne le eventuali compli-
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canze. Nel team, ogni componente deve avere conoscenze specifiche, oltre che del proprio campo, anche di quello altrui, in modo da poter adattare la propria tecnica alle esigenze reciproche e migliorare il comfort e l’outcome del paziente. Saper essere: è opportuno che il team sia in grado di svolgere attività di ricerca integrata, in modo da poter sviluppare metodiche sempre più efficaci ed efficienti. La revisione collegiale dei dati registrati è la premessa per migliorare la qualità della prestazione, svolgere attività scientifica e sviluppare attività formativa per altri colleghi. Bibliografia 1. Blanshard HJ, Chung F, Manninen PH, Taylor MD, Bernstein M. Awake craniotomy for removal of intracranial tumor: considerations for early discharge. Anesth Analg 2001;92:89-94. 2. Ferri E, Zoppellari R, Pellegrini M, Pinamonti AL, Morghen I, Ramponi V, Quatrale R, Cavallo AM. Awake craniotomy: anaesthesia techniques, complications and patient satisfaction. In: Talacchi A & Gerosa M editors. Awake surgery and cognitive mapping. Topics in Medicine 2009;15(Sp. Issue 12):159-64. 3. Deletis V, Cioni B, Meglio M, Colicchio G, Ulkatan S. Intraoperative testing of the eloquent cortex: a new development of the neurophysiological exploration of the Broca area. In: (abstracts) 1st Congress of the International Society of Intraoperative Neurophysiology, Luzerner Kantonsspital 14-17.11.2007;24-7. 4. Frost E, Booij L. Anesthesia in the patient for awake craniotomy. Curr Opin Anaesthesiol 2007;20:331-5. 5. Hans P, Bonhomme V. Anesthetic management for neurosurgery in awake patients. Minerva Anestesiol 2007;73:50712. 6. Picht T, Kombos HJ, Brock M, Suess O. Multimodal protocol for awake craniotomy in language cortex tumour surgery. Acta Neurochir 2006;148:127-38. 7. Rughani AI, Rintel T, Desai R, Cushing DA, Florman JE. Develepment of a safe and pragmatic awake craniotomy program at maine medical center. J Neurosurg Anesthesiol 2011;23:18-24. 8. Santini B, Talacchi A, Casagrande F, Casartelli M, Savazzi S, Procaccio F, Gerosa M. Eligibility criteria and psychological profiles in patient candidates for awake craniotomy: a pilot study. J Neurosurg Anesthesiol 2012;24:209-16. 9. Zoppellari R, Ferri E, Pellegrini M. Anesthesiologic management for awake craniotomy. In: Signorelli F editor. Explicatives cases of controversial issues in neurosurgery. Rijeka (Croatia): Intech; 2012, p. 19-34.
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PERCORSO PER INFERMIERI
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Il rischio di contaminazione nel paziente non ancora riconosciuto infetto: misure cautelative e procedure da attuare D. BADOLATI
Dipartimento di Emergenza Struttura Complessa di Rianimazione Pediatrica, Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale, Santobono Pausilipon, Napoli, Italia
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IL RISCHIO DI CONTAMINAZIONE NEL PAZIENTE NON ANCORA RICONOSCIUTO INFETTO: MISURE CAUTELATIVE E PROCEDURE DA ATTUARE.
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IL RISCHIO DI CONTAMINAZIONE NEL PAZIENTE NON ANCORA RICONOSCIUTO INFETTO: MISURE CAUTELATIVE E PROCEDURE DA ATTUARE.
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Paziente respiratorio in assistenza domiciliare L. DE CICCO
Da uno studio condotto dall’ISTAT (2004) si è evidenziata una frequenza elevata di decessi per malattie dell’apparato respiratorio, si rende necessario pertanto, individuare strategie e politiche sanitarie che intervengano a sostegno di una riduzione della mortalità e che, per l’aumentata aspettativa di vita, portino anche ad un miglioramento della qualità della vita. A livello territoriale il PSN prevede l’implementazione dell’assistenza domiciliare integrata con disponibilità al domicilio del paziente, dove necessario, degli strumenti di monitoraggio anche in modalità telematica. Si intende trasferire al domicilio la tecnologia e le competenze specialistiche pneumologiche al fine di: – garantire un continuo monitoraggio del paziente; – migliorare la qualità della vita dei pazienti; – ridurre il ricorso all’ospedalizzazione; – avviare un percorso formativo sul paziente e sui suoi familiari circa l’assunzione dei farmaci, l’ossigeno-terapia, l’utilizzo delle apparecchiature biomedicali, l’importanza di una buona compliance al protocollo terapeutico e riabilitativo. Si necessita di un controllo intensivistico in base alle condizioni cliniche del paziente, il paziente in ossigenoterapia a lungo termine abbisogna di una autorizzazione della ASL (previo controllo emogasanalitico) per poter effettuare l’OTLT. Nei pazienti stabili, si effettua il controllo a domicilio del paziente, previo avviso telefonico. Talvolta accade che al domicilio del paziente si rechi il solo infermiere che compila una cartella infermieristica che viene poi consegnata al medico dell’equipe per gli opportuni adempimenti. Durante le visite si procede a: – visita medica specialistica; – controllo emogasanalitico; – controllo della pressione arteriosa; – controllo della compliance del paziente alla prescrizione terapeutica; – controllo dell’efficienza delle apparecchiature per ossigenoterapia a lungo termine in dotazione al paziente; – avvio di un programma formativo per il paziente esteso anche ai suoi familiari. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento Assistenziale di Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva, Terapia Iperbarica e Terapia Antalgica, Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II”, Napoli, Italia
L’equipe non è il punto di riferimento clinico principale per il paziente, ma rappresenta un’unità specializzata che fornisce la propria consulenza al medico di base che rimane a tutti gli effetti l’unico referente ufficiale del paziente. Da tener presente che è nei primi mesi che emergono i principali problemi legati in particolare a difficoltà di autogestione della terapia o a difficoltà di adattamento alla terapia prescritta e alle apparecchiature in dotazione. Generalmente nell’arco di 2-3 mesi si realizza un programma di Assistenza Domiciliare Respiratorio altamente personalizzato. Si evidenzia la necessità di avviare un processo di integrazione fra i servizi territoriali e quelli ospedalieri ad oggi ancora inesistenti. L’intensità delle cure sarà così ripartito: – bassa (pazienti che necessitano solo di ossigenoterapia, stabili,con IRC parziale) 80-100 gg; – media (pazienti in OTLT e/o , con IRC globale) 30-50 gg; – alta (pazienti in OTLT e/o VAM con tracheotomia, con IRC globale e/O neuromuscolari, tele monitoraggio) visite frequenti 20-40 gg. I diversi livelli necessitano Protocolli assistenziali differenziati. Affinché si possa raggiungere un risultato ottimale è necessario che il paziente a domicilio partecipi la processo in quanto deve comprendere esattamente come va seguita la terapia e su come utilizzare tutte le apparecchiature di cui necessita. Per raggiungere un tale obiettivo sicuramente può essere d’aiuto l’utilizzo delle tecnologie informatiche e della comunicazione attraverso l’uso della telemedicina e in particolare del tele monitoraggio e della teleassistenza, ma di basilare importanza è il care giver, rappresentato dalle figure non professionali coinvolte nel processo assisten-
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DE CICCO
PAZIENTE RESPIRATORIO IN ASSISTENZA DOMICILIARE
ziale che hanno contatti stabili con il paziente. Solitamente sono membri della famiglia .l’aiuto esterno ai care gives può essere dato da infermieri e da personale di assistenza adeguatamente formato e supervisionato. È inoltre indispensabile un supporto psicologico alla famiglia per contrastare lo stress cui è sottoposto il care giver. Conclusioni Il peso crescente delle classi anziane, hanno imposto negli ultimi anni, un radicale mutamento delle strategie sanitarie con un’attenzione particolare al rilancio e allo sviluppo dei progetti di cure a domicilio.
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Il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 fa proprio questo mutamento, rilevando l’importanza di un approccio alla salute che valorizzi gli interventi domiciliari e territoriali al pari di quelli ospedalieri. Tutto ciò orientato alla ricerca nel miglior utilizzo delle risorse, a garanzia di un razionale impiego della spesa sanitaria, di una riduzione dei ricoveri impropri, di una più adeguata personalizzazione dell’assistenza e in definitiva anche di un migliore funzionamento degli ospedali stessi destinati ad assumere sempre più il ruolo di strutture erogatrici di cure intensive in fase acuta e di prestazioni diagnostico terapeutiche ad elevata complessità.
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Le infezioni correlate all’assistenza: il ruolo del coordinatore G. DE MARCO
Le infezioni ospedaliere costituiscono, dal punto di vista microbiologico, fisiologico ed epidemiologico, un importante indicatore sia della qualità del servizio reso ai degenti ricoverati, sia dei costi sanitari, avendo effetto diretto sugli operatori sanitari.Dagli studi effettuati è emerso che il 30% delle IO insorte, in media il 5-10% dei pazienti ricoverati in ospedale contraggono un’infezione, possono essere evitate, con conseguente miglioramento delle prestazioni sanitarie e dell’outcome dei ricoverati.La stessa Florence Nightingale ripeteva che “ogni infermiera deve badare a lavarsi le mani frequentemente nella giornata” e che “…non bisogna dimenticare quello che ordinariamente si chiama infezione. La vera assistenza ignora l’infezione se non per prevenirla..”, volendo porre attenzione sull’appropriatezza delle procedure, garantendo misure realmente efficaci nella prevenzione delle infezioni.Il coordinatore infermieristico, deve avere competenze clinico-assistenziali, manageriali, relazionali e di leadership, verificando la certificazione e la validazione dei processi di sterilizzazione, il corretto uso di sostanze antisettiche e disinfettanti, il corretto utilizzo dei DPI, le procedure di pulizia e sanificazione ambientale e l’utilizzo di protocolli per le procedure invasive.Il coordinatore infermieristico, nell’ambito del controllo delle infezioni, deve sorvegliare l’andamento delle infezioni ospedaliere, realizzare attraverso interventi educativi percorsi e strumenti di prevenzione, interagire attivamente con il Comitato per il controllo delle infezioni, garantire la continuità degli interventi programmati e deve individuare indicatori di verifica dei percorsi clino-assistenziali adottati.Il coordinatore infermieristico deve saper governare le sempre più sofisticate tecnologie sanitarie, razionalizzare l’uso delle risorse disponibili, controllare le innovazioni biomediche, al fine di guidare i professionisti verso percorsi e processi assistenziali appropriati ed efficaci, promuovendo programmi di controllo delle infezioni ospedaliere, inseriti in ambito aziendale, atti a migliorare la qualità dell’assistenza prestata.Gli obiettivi del coordinatore infermieristico sono:
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DAS Anestesia Rianimazione Terapia Intensiva, AOU “Federico II”, Napoli
– identificare e saper riconoscere i problemi che possono richiedere un intervento; – sensibilizzare e coinvolgere il personale infermieristico e di supporto nell’adozione di misure di comprovata efficacia nella prevenzione delle infezioni correlate all’assistenza; – valutare l’efficacia delle misure adottate; – interagire con il Comitato di controllo per la scelta del metodo di sorveglianza da implementare. Il coordinatore infermieristico, in ambito intensivistico, data l’elevata mortalità nei soggetti con sepsi (27%) rispetto a quelli che non la sviluppano (14%)1, deve utilizzare il cosiddetto “bundles approach” cioè “piccoli insiemi di provvedimenti semplici e diretti, che quando applicati da tutti e in modo attendibile hanno dimostrato di essere efficaci nel migliorare l’outome del paziente”2, al fine di identificare i fattori di rischio, le modalità di trasmissione delle infezioni, e modificare abitudini o condizioni a rischio.Infine, il coordinatore, possedendo conoscenze e capacità tecniche, è il principale responsabile della qualità dell’assistenza, in particolar modo, nella messa in pratica di sistemi di controllo dei processi assistenziali, attraverso standard assistenziali ben definiti, cercando di modificare i comportamenti del gruppo. Bibliografia 1. Vincent Jl, Sakr Y, Sprung CL, et al. Sepsis in European intensive care units: Risults of the SOAP study. Crit Care Med 2006;34:344-353. 2. Donabedian A. Quality of care: Problems of measurement. Some issue in evaluating the quality of nursing care. Am J PublicHealth Nations Health 1969;59:18.
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Assistenza meccanica: ECMO evoluzione del by-pass cardiopolmonare A. NOTARNICOLA
Le tecniche estreme di assistenza meccanica circolatoria hanno come fine quello di ridurre il lavoro cardiaco e/o polmonare garantendo un’adeguata perfusione degli organi vitali. Queste tecniche trovano indicazione nei casi in cui si siano esaurite le possibilità dei trattamenti medici e farmacologici e vi siano le condizioni e le premesse per un recupero funzionale del cuore e/o dei polmoni o, qualora questo non si verifichi, di sottoporre il paziente ad un trapianto.Un supporto cardiopolmonare meccanico può essere denominato in molti modi ,generalmente tutti racchiusi in ExtraCorporeal Life Support (ECLS). Tutte le metodiche trovano applicazione attraverso una modificazione della macchina cuore polmone. Allorchè la macchina cuore polmone viene utilizzata nelle sale operatorie, adoperando una pompa ed un ossigenatore, per provvedere al totale supporto cardiaco e polmonare, in modo da agevolare l’intervento e consentire al chirurgo di operare su un cuore immobile ed esangue tramite un accesso veno- arterioso, la tecnica viene comunemente definita CardioPulmunary ByPass (CPB). Qualora invece, l’ECLS viene utilizzato all’esterno di una sala operatoria e di un intervento chirurgico, per fornire supporto respiratorio e/o circolatorio, con una tecnica di cannulazione solitamente extratoracica può essere definito: – extraCorporeal Membrane Oxygenation (ECMO); – extraCorporeal Lung Assist (ECLA); – extracorporeal CO2 Removal (ECCO2R). Sulla base della sede di cannulazione, quando l’approccio è extratoracico ed il supporto viene utilizzato in caso di emergenza si parla di CardioPulmunary Support (CPS) o Extracorporeal CardioPulmunary Resuscitation (ECPR). L’utilizzo solo della pompa avviene nei casi di assistenza ventricolare: – left Ventricular Assist Device (LVAD); – right Ventricular Assist Device (RVAD); – biventricular assist device (BiVAD). Nell’uso comune le abbreviazioni ECLS ed ECMO sono considerate entrambe sinonimi di supporti cardiopolmonari a lunga durata;sono effettuati mediante l’utilizzo di una pompa che integra la funzione contrattile del cuore e Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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di un ossigenatore a membrana che integra o sostituisce la funzione di scambio del polmone. Più dettagliatamente questi devices includono: – cannule specifiche per l’accesso vascolare stabilito; – una serie di tubi di PVC di vario calibro eparinati che vanno a costituire il circuito extracorporeo unendo tra loro i vari elementi della macchina cuore polmone; – una pompa centrifuga portatile con relativa campana e testata di supporto; – un ossigenatore; – uno scambiatore di calore; – sistemi vari di monitorizzazione. L’ECMO è un intervento non terapeutico ma di supporto che mantiene il cuore e/o i polmoni a riposo permettendo così il loro recupero funzionale. Lo sviluppo dell’ECMO è un evoluzione della tecnologia del bypass cardiopolmonare usato in cardiochirurgia. Esistono due tipologie di ECMO: – ECMO veno-venoso (V-V), come supporto respiratorio; – ECMO veno-arterioso (V-A), come supporto del cuore e del polmone. L’ECMO veno-venoso può essere utilizzato: – nei neonati che presentano un quadro di ARDS da: – malattia della membrana ialina; – ernia diaframmatica; – infezioni virali o batteriche; – persistenza circolazione fetale . – nell’adulto e in età pediatrica tutte le gravi malattie polmonari che portano ad un quadro di ARDS (infezioni, traumi). La cannulazione può essere giugulo- femorale o femorofemorale (V-V).La conduzione dell’ECMO V-V prevede:
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ASSISTENZA MECCANICA: ECMO EVOLUZIONE DEL BY-PASS CARDIOPOLMONARE
rimozione extracorporea della CO2; ossigenazione apneica ; conservata funzionalità cardiaca; flussi dipendenti dalla saturazione venosa (non deve essere 85%, in quanto si potrebbe verificare il fenomeno del ricircolo).
L’ECMO veno-arterioso può essere utilizzato: – mancato svezzamento dal CPB; – sindrome di bassa gittata che si manifesta nelle 48-72 ore dall’intervento; – bridge all’intervento chirurgico d’emergenza; – bridge al trapianto cardiaco; – miocardite acuta. La cannulazione può essere atrio dx – aorta, femoro – femorale (V-A) e giugulo – carotidea (casi pediatrici). La conduzione dell’ECMO V-A ha come obiettivi: – mantenere un flusso idoneo per una buona perfusione tenendo conto della pressione sistemica e delle pressioni atriali;
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– prevenire la distensione miocardica; – maggiore è la quantità di sangue drenata dall’atrio dx più la curva pressoria risulterà piatta; – garantire appena possibile (24-48 h) un minimo di portata polmonare (circa il 20% della gittata cardiaca) per migliorare il rapporto perfusione /ventilatore e con un cuore lievemente eiettivo migliorare la perfusione coronarica; – controllo della saturazione venosa (SVO2 >70%). Durante l’ECMO si deve tenere presente che vi sono due entità cardiopolmonari distinte, una è quella costituita dal sistema del paziente, l’altra è quella della macchina cuore polmone. Di fronte ad un problema o ad un peggioramento del paziente bisogna comprendere quale delle due entità sia la responsabile. Il bilancio idrico va controllato con particolare attenzione cosi’ come la coagulazione del sangue. Nella verifica del circuito occorre riservare una particolare attenzione al controllo di eventuali bolle, coaguli, rotture che se trascurati potrebbero avere conseguenze gravi per il paziente.
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La prevenzione delle infezioni da catetere venoso centrale in terapia intensiva E. PAGANO
Introduzione
Napoli
I cateteri vascolari sono indispensabili nelle pratiche mediche odierne, in particolare nelle unità dì terapia intensiva. Benché tali cateteri consentano un accesso vascolare necessario, il loro impiego espone i pazienti al rischio dì complicazioni infettive locali e sistemiche, incluse le infezioni locali, infezioni sistemiche legate a catetere, tromboflebitì settiche, endocarditi, e altre infezioni metastatiche (es. ascessi polmonari, ascessi cerebrali, osteomieliti, e endoftalmiti). Ogni anno gli istituti sanitari acquistano milioni di cateteri endovenosi. L’incidenza delle infezioni sistemiche legate a catetere (CRBSI) varia considerevolmente a seconda del tipo di catetere, la frequenza con cui viene manipolato, e fattori legati al paziente (es. patologia e gravità della malattia). I cateteri periferici sono i dispositivi maggiormente usati per l’accesso venoso. Benché il tasso di CRBSI associato a tali cateteri sia dì norma basso, complicazioni infettive serie causano annualmente una notevole morbilità dovuta alla frequenza con cui questi cateteri vengono utilizzati. Ciò nonostante, la maggioranza di infezioni serie legate a catetere sono associate ai cateteri venosi centrali (CVC), in particolare a quelli inseriti nei pazienti in unità di terapia intensiva. Nell’ambito delle terapie intensive, l’incidenza di infezioni è spesso più alta rispetto agli ambiti ambulatoriali e nei pazienti meno critici. Nell’ambito delle terapie intensive, gli accessi venosi centrali possono rendersi necessari per estesi periodi di tempo;i pazienti possono essere colonizzati da organismi acquisiti in ospedale;e i cateteri possono venire manipolati diverse volte al giorno per la somministrazione di fluidi, farmaci, e sostanze venose. Inoltre, alcuni cateteri possono essere inseriti in situazioni d’urgenza, durante le quali un’attenzione ottimale a tecniche antisettiche può rivelarsi impossibile. La magnitudine del potenziale dei CVC di causare morbilità e mortalità in seguito a complicazioni infettive è stata stimata in numerosi studi. Ogni anno nelle unità di terapia intensiva statunitense si totalizzano 15 milioni di giorni CVC (cioè il numero totale di giorni di esposizione a CVC di tutti i pazienti in una popolazione selezionata durante un determinato lasso di tempo). Se il tasso medio Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
di infezioni sistemiche associate a CVC è di 5,3 per 1.000 giorni catetere nelle unità dì terapia intensiva, all’incirca 80.000 infezioni sistemiche legate a CVC si verificano annualmente nelle unità di terapia intensiva statunitensi. La mortalità attribuibile a tali infezioni è variata da nessun aumento nella mortalità secondo alcuni studi, a un aumento nella mortalità del 35% in studi prospettici. L’attribuibile mortalità rimane pertanto ambigua. Il costo attribuibile per infezione è stato stimato a $ 34,50856,000, e il costo annuo per la cura di pazienti affetti da infezioni sistemiche legate a CVC varia da $ 296 milioni, a $ 2,3 miliardi. Valutando l’intero ospedale anziché le sole unità di terapia intensiva è stato stimato un totale annuo di 250,000 casi di infezioni sistemiche legate a CVC. In questo caso, la mortalità attribuibile è stata stimata al 12-25% per ogni infezione, e il costo marginale per il sistema sanitario è pari $ 25,000 per episodio. Pertanto, secondo svariate analisi, il costo delle infezioni sistemiche legate a CVC è sostanziale, sia in termini di morbilità che di risorse finanziarie. Al fine di migliorare l’esito per il paziente e ridurre costi sanitari, si rende necessario l’implemento di strategie atte a ridurre l’incidenza di tali infezioni. Questo sforzo dovrebbe essere multidisciplinare, coinvolgendo il personale medico che inserisce e segue la manutenzione dei cateteri vascolari, coloro che gestiscono le risorse sanitarie, e i pazienti in grado di assistere nella manutenzione dei loro cateteri, Benché diverse strategie individuali per la riduzione di CRBSI siano state studiate e la loro efficacia dimostrata, non è stato condotto alcuno studio basato su strategie multiple. Pertanto, non è ad oggi noto se l’implemento di strategie multiple può portare ulteriori risultati nella riduzione delle CRBSI, ma è quanto meno logico l’impiego di strategie concomitanti.
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PAGANO
LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI DA CATETERE VENOSO CENTRALE IN TERAPIA INTENSIVA
Rischio infettivo La maggiore complicanza, quindi, associata all’uso dei dispositivi medici impiantabili, e in particolare ai cateteri venosi centrali, è rappresentata dall’insorgenza, anche a tempi brevissimi dalla loro inserzione, di infezioni ad essi associate, con conseguente fallimento dell’impianto e necessità di rimozione del dispositivo. Tale rischio è molto elevato, non solo nei pazienti immunocompromessi ma anche nei soggetti immunologicamente competenti, in quanto la sola presenza del dispositivo artificiale provoca un abbassamento delle difese naturali dell’ospite, con conseguente aumento del rischio di sviluppare flebiti, setticemie e in casi particolari endocarditi batteriche. L’impianto di un catetere può infatti compromettere seriamente i meccanismi di difesa dell’ospite contro l’infezione, rappresentati dalle barriere anatomiche e dal sistema immunitario. L’attraversamento della barriera cutanea fornisce una via diretta di invasione per batteri e funghi. L’impianto del catetere può inoltre attenuare, direttamente o indirettamente, l’immunità locale dell’ospite;studi in vivo hanno dimostrato che la fagocitosi e la capacità battericida delle cellule polimorfonucleate diminuiscono in presenza di dispositivi sia in politetrafluoroetilene che in polimetilmetacrilato. La patogenesi delle infezioni correlate ai cateteri riconosce le seguenti fasi: a) colonizzazione della cute del paziente da parte di un batterio opportunista residente o transiente; b) migrazione microbica nel tratto sottocutaneo in coincidenza del sito di inserzione del catetere; c) colonizzazione microbica della punta del catetere. È anche possibile la contaminazione del lume del catetere a causa dell’impiego di fluidi contaminati o, attraverso la manipolazione del catetere stesso con tecniche errate. Microrganismi implicati Gli agenti patogeni responsabili delle infezioni possono essere sia batteri,gram-negativi e gram-positivi,che funghi. La maggiore o minore frequenza di isolamento dei diversi patogeni dipende sia dal tipo di dispositivo impiegato sia dal distretto corporeo interessato. Per quanto riguarda i cateteri venosi centrali circa il 60% delle infezioni associate è causato da Staphylococcus epidermidis e altri stafilococchi coagulasi-negativi (CNS) e da Staphylococcus aureus .Le infezioni fungine,in particolare da Candida albicans e Candida parapsilosis, rappresentano circa il 15%, mentre il restante 25% è costituito sia da altri gram-positivi (Enterococcus faecalis, ecc.) che da batteri gram-negativi (Pseudomonas aeruginosa, Escherichia coli, ecc.). Staphylococcus epidermidis e altri stafilococchi coagulasinegativi Gli Stafilococchi coagulasi-negativi sono batteri aerobi gram-positivi,di forma rotondeggiante (cocchi), che duplicandosi assumono la caratteristica disposizione a grappolo. In terreno solido le colonie di S. epidermidis appaiono rotonde, lisce, brillanti e di colore bianco porcellana. 642
Gli stafilococchi coagulasi negativi, rappresentano un esempio di batteri opportunisti che, in presenza di un corpo estraneo, possono diventare potenti patogeni. S.epidermidis, ad esempio, fa parte della flora batterica normalmente presente sulla cute e sulle mucose degli apparati respiratorio e gastrointestinale, nell’uomo e negli animali. Per tale motivo, al contrario di S. aureus, fino a non molti anni fa non veniva considerato patogeno;in realtà, le infezioni provocate da questo microrganismo sono state riconosciute più di recente di notevole frequenza e rilevanza in patologia medica. La frequente associazione tra CNS e biomateriali sembra indicare una particolare capacità di tali microrganismi di colonizzare i materiali polimerici. Ciò ha portato alla ricerca di eventuali fattori di virulenza in grado di mediare i processi di adesione ai corpi estranei. È stato così osservato che i ceppi di CNS associati alle infezioni dei biomateriali,producono una sostanza extracellulare detta “slime ”.Con tale termine è stata indicata una sostanza di natura polisaccaridica, debolmente associata alla cellula batterica,che conferisce particolare viscosità al terreno di coltura. Staphylococcus aureus S. aureus è un cocco gram-positivo che crescendo in terreno solido dà luogo a colonie pigmentate di colore variabile dal giallo-oro fino all’arancione scuro. Circa il 99% dei ceppi è coagulasi-positivo, mannitolo-fermentante e sensibile alla novobiocina. È considerato un patogeno di primaria importanza ed è la specie di più frequente isolamento dai campioni clinici. Molti individui sono portatori nasali di tale specie e rappresentano un importante veicolo di diffusione in quanto spesso risultano anche portatori cutanei. S. aureus è solitamente sensibile alla vancomicina e alla teicoplanina mentre la sensibilità alla novobiocina viene generalmente utilizzata come criterio tassonomico. Candida albicans e Candida parapsilosis Tutte le specie del genere Candida formano in terreno solido colonie di colore bianco e di consistenza cremosa. Lo sviluppo in forma di pseudomicelio, in terreno colturale povero e a temperatura d’incubazione di 25 °C, è evidenziato dalla comparsa, nello spessore dell’agar, di un alone opaco e sfrangiato al contorno delle colonie. Un’importante caratteristica esclusiva della C.albicans, e per ciò utilizzata in laboratorio per una rapida identificazione di specie, è la produzione, entro due ore di incubazione a 37 °C in siero, di tubuli germinativi da parte delle blastospore. Molte specie di Candida, fra cui tutte le specie patogene, si trovano normalmente presenti nelle cavità naturali dell’uomo. Trattandosi di funghi opportunisti, le candide provocano affezioni morbose quando nei soggetti si instaurano condizioni predisponenti, in particolare di immunodeficienza. Candida albicans è la specie di più frequente isolamento clinico seguita dalla C.parapsilosis e da altre specie (C. krusei, C. tropicalis, C. stellatoidea, C. pseudotropicalis ) di riconosciuta anche se sporadica patogenicità.
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Enterococcus faecalis e Enterococcus faecium Gli Enterococchi sono cocchi gram-positivi, aerobi facoltativi, asporigeni e non dotati di organi di motilità. Essi sono comuni abitanti del tratto intestinale dell’uomo. Le specie enterococciche sono per lo più sensibili alle aminopenicilline (ampicillina e amoxicillina), mentre nei riguardi della penicillina hanno mostrato negli ultimi anni un aumentata resistenza. Sono inoltre sensibili ai glicopeptidi, teicoplanina e vancomicina. Enterococcus faecalis e Enterococcus faecium sono le specie di più frequente isolamento del genere Enterococcus. E.faecalis è beta-emolitico o non emolitico ed è principalmente implicato nelle infezioni del tratto urinario, nelle endocarditi subacute, soprattutto in presenza di valvole protesiche, e nelle infezioni associate ai cateteri biliari. E.faecium è non-emolitico o alfa-emolitico ed è implicato, anche se con minore frequenza, in patologie sovrapponibili a quelle di E. faecalis. In linea di massima,E. faecium è più resistente agli antibiotici di E. faecalis. Pseudomonas aeruginosa Pseudomonas aeruginosa è un bacillo gram-negativo, asporigeno, aerobio obbligato, non fermentante ossidante. È solitamente mobile per la presenza di un flagello polare, anche se sono stati identificati ceppi con più flagelli e ceppi senza flagelli, privi di motilità. Molti ceppi sono produttori di piocianina, un pigmento fenazinico di colore blu. È di gran lunga la specie più diffusa del genere Pseudomonas, presente comunemente nel suolo, nelle acque, negli ambienti e sulle superifici umide e, in minor misura, su piante, verdura e frutta. Nell’uomo si riscontra nel 10% dei campioni fecali ma occasionalmente è stato trovato anche nella saliva e nelle zone più umide della cute. Le esigenze nutritive di questa specie sono modeste ed essa è capace di metabolizzare un’ampia varietà di sorgenti di carbonio, per cui può moltiplicarsi in qualsiasi ambiente che contenga tracce anche minime di composti organici. P.aeruginosa è soprattutto un patogeno nosocomiale e la predisposizione all’infezione da questo microrganismo è maggiore nei pazienti immunocompromessi. Tra i fattori di patogenicità di P.aeruginosa è di particolare rilievo il glicocalice (lo strato più esterno della membrana cellulare, di natura polisaccaridica) che gli permette l’adesione a vari tipi di substrati anche inorganici, ne impedisce la fagocitosi o l’attacco da parte di anticorpi e ostacola la penetrazione di antibiotici. La sua resistenza a molti antibiotici sta crescendo e assumendo un’importanza sempre maggiore. Solitamente è sensibile ad alcune penicilline sintetiche (carbenicillina e ticarcillina), alle nuove cefalosporine (cefotaxime,ceftriaxone, ecc.), a molti aminoglucosidi (gentamicina, tobramicina, ecc.) ad alla polimixina B. Fattori causali e favorenti Tra i fattori che possono promuovere la colonizzazione microbica si possono annoverare: a) la composizione chimica e le caratteristiche di superficie (idrofobicità,rugosità,ecc.) dei cateteri; Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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b) il ricoprimento della superficie del dispositivo con un biofilm proteico (albumina, fibrinogeno, fibronectina, ecc.), come risposta biologica dell’organismo ospite alla presenza di un corpo estraneo; c) l’abilità del microrganismo di produrre una matrice esopolisaccaridica, definita “slime”, capace di mediare le fasi finali della colonizzazione microbica. Composizione chimica e caratteristiche di superficie del catetere Tra i diversi tipi di cateteri venosi centrali in uso clinico esiste un’ampia diversificazione, sia per composizione chimica del polimero che per caratteristiche di qualità del prodotto finito. È ben noto infatti che i cosiddetti materiali inerti con cui vengo realizzati i cateteri non sono affatto tali per quanto riguarda la loro possibilità di essere colonizzati dai microrganismi. Tanto la loro composizione chimica quanto le caratteristiche morfologiche di superficie sono in grado di influenzare fortemente l’interazione del dispositivo impiantato sia con i tessuti dell’ospite che con i microrganismi. Una superficie perfettamente liscia si presta in minor misura all’attacco microbico rispetto ad una superficie che presenti irregolarità, quali microcavità e/o microfratture: queste fornendo altrettante nicchie protette, consentono ai microbi sia di rendere stabile la loro adesione alla superficie mediante adesine e/o sostanze esocellulari in grado di favorirne la persistenza, che di metterli a riparo dall’azione di fagociti e agenti antimicrobici. Proteine del paziente Una delle risposte biologiche dell’organismo ospite alla presenza di un corpo estraneo consiste nella deposizione sulle superfici del catetere di proteine del paziente che vanno a formare un vero e proprio biofilm. Tali proteine sono principalmente l’albumina, la fibronectina e il fibrinogeno: esse possono promuovere o inibire l’adesione microbica, adsorbendosi alle superfici polimeriche del catetere o interagendo con le strutture di superficie dei microrganismi e influenzandone le capacità adesive. L’albumina adsorbita sulla superficie dei cateteri ha mostrato effetto inibente nei riguardo dell’adesione batterica. Anche se non è stato ancora chiarito del tutto il suo meccanismo d’azione, essa agirebbe presumibilmente riducendo l’idrofobicità di superficie del substrato polimerico. Infatti uno recente studio in vitro ha mostrato come una ricopertura superficiale di protesi con albumina riesca a ridurre significativamente, di oltre il 10%, la frequenza di adesione batterica. Il risultato di tale studio apre interessanti prospettive nei riguardi dell’individuazione di nuove strategie di prevenzione delle infezioni associate a dispositivi medici impiantabili. La fibronectina è una delle componenti proteiche principali della matrice extracellulare di cui è nota la capacità di mediare i fenomeni di adesione superficiale nelle cellule eucariotiche. Tale proteina gioca un ruolo importante nelle infezioni associate ai biomateriali ed è stata dimostrata in grado di legarsi a Staphylococcus aureus. “Slime” microbico L’esatta composizione chimica dello “slime” non è nota per tutte le specie microbiche che lo producono. I dati
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disponibili in letteratura suggeriscono comunque che esso sia ,in linea generale, costituito da un complesso glicoconiugato, contenente oltre a proteine, diversi monosaccaridi quali mannosio, galattosio, glucosio e ribosio. Fra questi, il mannosio e il galattosio sono ritenuti monosaccaridi “slime specifici”, in quanto non sono presenti nel peptidoglicano o nell’acido teicoico della parete cellulare dei CNS. La loro presenza sulla superficie della cellula batterica può, quindi, costituire una prova indicativa della presenza dello “slime”. Per quanto riguarda lo “slime” di S..epidermidis questo, purificato mediante cromatografia e analizzato chimicamente, si è rivelato composto per oltre il 70% da N-acetil-glucosammina. Essendo i ceppi “slime-produttori” quelli che aderiscono meglio ai materiali polimerici, si può dedurre che lo “slime” medi i processi di adesione batterica. Da qui l’introduzione del concetto dell’importanza dei fenomeni di adesività nella patogenesi delle infezioni dovute agli stafilococchi. Lo “slime”, universalmente riconosciuto quale mediatore delle fasi finali della colonizzazione, non si ritiene invece responsabile dello stadio iniziale del processo di adesione. Un significativo contributo in tal senso è stato fornito dallo studio di 53 ceppi di S. epidermidis isolati da pazienti con infezioni associate a cateteri venosi centrali dei quali è stata valutata la capacità d’interazione specifica con fibrinogeno, fibronectina e collagene. Suddividendo i ceppi in “slime” – produttori e non “slime” – produttori, si è osservato come i ceppi più adesivi appartenessero al secondo gruppo. Ciò è presumibilmente dovuto al fatto che lo “slime” prodotto dai batteri ostacola l’interazione specifica tra le proteine adsorbite sulla superficie del catetere e i recettori specifici presenti sulla superficie batterica. L’analisi computerizzata delle immagini di microscopia elettronica ha permesso di quantificare accuratamente la produzione di “slime ”mettendola quindi in relazione alla minore o maggiore capacità adesiva dei ceppi al materiale polimerico. La mediazione dei processi di adesione batterica non è l’unica influenza che lo “slime ” esercita.. Infatti, numerosi studi hanno evidenziato effetti dello “slime ” sulle difese dell’ospite;in particolare è stata osservata una diminuita risposta da parte delle cellule del sistema immunitario. Osservazioni di microscopia elettronica hanno mostrato che ciò è da imputare al fatto che la produzione di “slime ” sulle superfici dei dispositivi permette alle micro—colonie batteriche di moltiplicarsi al di sotto di questo strato protettivo. In tali condizioni, i meccanismi di difesa dell’ospite, endocitosi e fagocitosi, sono fisicamente ostacolati. Un’ulteriore proprietà dello “slime” è quella di rendere i ceppi che lo producono resistenti all’azione di alcuni antibiotici. Si è trovato che solo il 32% delle infezioni causate da ceppi “slime-positivi ” migliora con le terapie antibiotiche,, rispetto ad una risposta del 100% di quelle dovute a ceppi “slime-negativi”. Particolarmente comune è la resistenza alla meticillina, mentre molto rara è la resistenza alla vancomicina,che viene quindi considerato il farmaco d’elezione per il trattamento delle infezioni causate da questi microrganismi.
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BIOFILM MICROBICO I biofilm sono strutture eterogenee costituite da microcolonie di cellule microbiche, anche di specie diverse, che crescono su superfici organiche o inorganiche, immerse in una matrice polisaccaridica extracellulare (“slime”) da essi stessi prodotta. Il carattere non continuo del biofilm è dovuto alla presenza di spazi interstiziali tra le microcolonie che permettono il passaggio del fluido contenente i necessari nutrienti. Tali comunità microbiche possono ritrovarsi sia nell’ambiente (su superfici inorganiche idratate, all’interfaccia liquido-aria,ecc.) sia in organismi viventi (su epiteli, mucose, superfici solide di dispositivi medici impiantati, ecc.) I biofilm sono responsabili di un’ampia varietà di infezioni microbiche nosocomiali. I Centers for Disease Control statunitensi hanno recentemente stimato che i biofilm sono la causa del 65% delle infezioni ospedaliere diagnosticate nei paesi avanzati. Questa elevata percentuale è in larga misura rispondente al crescente impiego a livello clinico di dispositivi medici a scopo diagnostico o terapeutico. Infatti l’impianto, temporaneo o permanente, nell’organismo di dispositivi, quali cateteri vascolari, cateteri urinari, stent biliari, protesi ortopediche, ecc., ne espone le superfici alla colonizzazione da parte di specie microbiche diverse a seconda del distretto corporeo e delle modalità d’impianto, con conseguente formazione di biofilm. La formazione di un biofilm non è un processo casuale ma è il risultato di un ben precisa sequenza di fasi: a) adsorbimento microbico reversibile, che avviene in tempi dell’ordine di secondi; b) adesione irreversibile, che si stabilisce entro pochi minuti dall’impianto; c) crescita microbica con produzione di esopolisaccaridi (EPS), che avviene in tempi dell’ordine di 12-48 ore; d) completamento della struttura del biofilm in tempi di alcuni giorni. Le specie microbiche che danno luogo alla formazione di biofilm producono in misura maggiore o minore, a seconda dei ceppi e delle condizioni ambientali, sostanze polimeriche esocellulari, note come “slime”. I principali costituenti della sua matrice sono polisaccaridi (costituiti per lo più da carboidrati quali N-acetilglucosamina, glucosio,galattosio, mannosio, fruttosio,ecc.) e glicoproteine. Lo “slime” può inoltre intrappolare particolati di diversa natura quali materiali organici, cellule morte, sostanze minerali precipitate, ecc. Antibiotico-resistenza Le infezioni associate all’impianto di cateteri venosi centrali risultano spesso resistenti alle terapie antibiotiche a cui i pazienti vengono sottoposti e richiedono frequentemente la rimozione della protesi. Varie sono le ipotesi finora formulate per spiegare i meccanismi alla base del fenomeno dell’antibiotico-resistenza. L’ipotesi formulata per prima, e che ancora oggi conserva una sua validità, è quella che fa riferimento all’impossibilità delle molecole di antibiotico di raggiungere la superficie del microrganismo e quindi di esplicare la loro attività
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antibatterica per impedimento meccanico dovuto alla presenza dello “slime”. Una seconda ipotesi è quella che considera la possibilità che a seguito di accumulo di cataboliti in zone all’interno del biofilm microbico vengano ad instaurarsi condizioni chimico-fisiche (pH, forza ionica, ecc.) tali da antagonizzare l’azione delle molecole antibiotiche. Più di recente è stata inoltre avanzata l’ipotesi di una possibile modifica del fenotipo microbico, come conseguenza di un alterato profilo genetico dei microrganismi a seguito della loro crescita in forma sessile. A questo proposito va anche considerato che la formazione di biofilm microbico fornisce una nicchia ideale per lo scambio di plasmidi;è stato infatti evidenziato che la coniugazione avviene ad una velocità maggiore nei batteri bentonici piuttosto che in quelli planctonici. Di conseguenza, poiché i plasmidi possono codificare resistenze multiple agli antibiotici, è stato ipotizzato che la crescita dei microrganismi in biofilm possa rappresentare un meccanismo di amplificazione del fenomeno dell’antibiotico-resistenza.
Infezione del tunnel
Fattori che influiscono sulla incidenza di infezioni
Isolamento di uno stesso microrganismo dai liquidi di infusione e da emocolture prelevate da altra sede percutanea, con nessun’altra fonte identificabile di infezione. I gram negativi, sono responsabili della maggioranza di infezioni associate a contaminazione dei liquidi di infusione endovenosi.
a) Legati al paziente – Compliance del paziente – Patologia – Durata della neutropenia – Batteriemia in atto – Focolaio di infezione in atto – Colonizzazione della cute – Sito di inserimento contaminato b) Legati al CVC – Sede di inserzione: femorale > giugulare > succlavia – Numero dei lumi del CVC: uno > due > tre – Linea infusiva con elevata presenza di rubinetti di accesso al sistema – Colonizzazione del raccordo – Tipo di sistema impiantato: non tunnellizzato > tunnellizzato > totalmente impiantato (Port) – Uso del CVC: NPT > chemioterapia > fluidoterapia – Fluido contaminato c) Legati all’operatore – Esperienza del personale che posiziona e che gestisce il sistema intravascolare – Istruzione e formazione del personale sanitario – Mani del personale – Protocolli di gestione del sistema – Ambiente: ospedale > day – hospital > domicilio Glossario di riferimento Infezione del sito di uscita del catetere Eritema, tumefazione, indurimento e/o essudato purulento entro 2 cm di cute attorno al sito di uscita del catetere. Infezione della tasca del Port Eritema e necrosi della cute al di sopra del serbatoio del dispositivo totalmente impiantabile o essudato purulento della tasca sottocutanea contenente il serbatoio. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Eritema, tumefazione e/o indurimento del tratto sottocutaneo del catetere e a più di 2 cm dal sito di uscita del catetere. Colonizzazione del catetere La colonizzazione e la formazione del biofilm possono verificarsi dopo meno di 24 ore dalla inserzione del sistema venoso. Si parlerà di colonizzazione del catetere, quando si avrà una coltura quantitativa della punta del cvc > 15’ cfu/ml e quando sono presenti segni e sintomi di sepsi che non scompaiono entro 48 ore dalla rimozione del CVC. Batteriemia associata a catetere Isolamento di uno stesso microrganismo da una coltura di un tratto del catetere e dal sangue di un paziente con sintomi clinici e nessun’altra fonte di infezione apparente. Batteriemia associata ai liquidi d’infusione
Sepsi CVC correlata: certa quando sono presenti tutti i seguenti criteri: – Segni e sintomi di sepsi scompaiono entro 48 ore dalla rimozione del CVC. – Coltura quantitativa della punta del CVC rimosso deve essere positiva (> 15’ cfu/ml); – deve verificarsi inoltre l’isolamento dello stesso microrganismo dalla punta del CVC e dal sangue periferico. Sepsi CVC correlata: probabile quando presenti tutti i criteri della infezione certa ma, la coltura della punta del cvc > 15’ cfu/ml. Diagnosi di laboratorio delle infezioni associate a catetere venoso centrale Emocolture Un tempestivo isolamento e un’accurata identificazione degli agenti eziologici di batteriemie e fungemie rappresentano fasi cruciali di conferma di un sospetto clinico d’infezione associata a catetere venoso centrale ,e comunque di identificazione dei microrganismi responsabili. È essenziale che il campione di sangue per la coltura sia raccolto asetticamente, previa pulizia della cute con un batuffolo di cotone imbevuto di alcool e successiva applicazione per almeno 1 minuto di una garza impregnata di tintura di iodio al 2% in corrispondenza del sito di prelievo. Dopo il prelievo il residuo di tintura di iodio deve essere rimosso con un batuffolo di cotone imbevuto di alcool. Dal momento che il volume di sangue è il principale determinante della resa dell’emocoltura, si raccomanda nell’adulto l’effettuazione di prelievi di almeno 10 ml per
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ciascuna coltura mentre in età infantile sono sufficienti volumi di sangue compresi tra 1 e 5 ml. Ove non sia possibile effettuare al letto del paziente l’inoculo nel terreno di coltura del campione di sangue prelevato, questo può essere trasportato al laboratorio di microbiologia in provette sottovuoto sterili, contenenti un opportuno anticoagulante, e lì immediatamente inoculato. Per quanto riguarda il terreno di coltura i migliori risultati si ottengono con brodo TSB (Tryptic Soy Broth) e con brodo BHI (Brain Heart Infusion Broth). Le colture vengono incubate a 35 °C ed esaminate microscopicamente, per evidenza di crescita, entro 12-24 h e quindi giornalmente per almeno 7 giorni. La diagnosi di batteriemia catetere-correlata si ottiene a seguito di positività per il medesimo microrganismo delle emocolture ottenute tramite duplice prelievo sia da catetere che da vena periferica. Procedure di espianto e preparazione del catetere per l’analisi microbiologica L’espianto deve essere effettuato sterilmente, previa disinfezione della cute peri-catetere, tramite applicazione per 5’ di un impacco di garza imbevuto di una soluzione alcolica allo 0,05% di clorexidina. Al momento della rimozione l’operatore, facendo particolare attenzione ad evitare possibili contaminazioni da contatto con superfici non sterili, deve sezionare con bisturi o tagliare con forbici sterili il catetere in segmenti di circa 5 cm di lunghezza, in corrispondenza della punta, del tratto intermedio, del tunnel e del tratto emergente. Ciascun segmento,riposto in provetta sterile senza aggiunta di alcun tipo di liquido di conservazione o di terreno colturale di arricchimento, deve essere inoltrato al laboratorio di microbiologia non oltre 15 minuti dall’espianto e comunque nel più breve tempo possibile. Per le indagini diagnostiche mediante le tecniche colturali appresso specificate verrà utilizzato il segmento corrispondente alla punta del catetere. Nel caso poi in cui sia tecnicamente possibile e venga ritenuto utile procedere ad indagini morfologiche mediante microscopia elettronica a scansione, volte ad accertare l’eventuale formazione di biofilm microbico sulle superfici del catetere, una porzione della punta del catetere e degli altri segmenti raccolti dovranno essere ulteriormente sezionati in senso longitudinale. Indagini microbiologiche Tecnica colturale semiquantitativa di Maki 1. Semina mediante rotazione completa di 360°, ripetuta 5 volte, del segmento di catetere sulla superficie di una piastra di Agar Sangue (agar Columbia con il 5% di sangue di cavallo). 2. Incubazione delle piastre in aerobiosi a 35°C per 18 h, da prolungarsi fino a 48 h in caso di negatività. 3. Conta del numero di colonie, considerando le conte superiori a 15 ufc/segmento di catetere quale valore soglia significativo per considerare il catetere positivo. Tecnica colturale quantitativa di Cleri modificata 1. Agitazione con vortex per 30 secondi delle provette contenenti i segmenti di catetere cui è stato aggiunto brodo TSB (Tryptic Soy Broth). 646
2. Semina su piastre di Agar Sangue (agar Columbia con il 5% di sangue di cavallo) di 1 Pl, 10 Pl e 100 Pl del brodo tenuto a contatto con il segmento di catetere 3. Incubazione delle piastre in aerobiosi a 35 °C per 18 h, da prolungarsi fino a 48 h in caso di negatività. 4. Conta del numero di colonie e interpretazione del risultato considerando, quale soglia significativa per considerare il catetere positivo,un numero di colonie superiore a 1000/segmento di catetere. Tecnica colturale quantitativa di Sherertz 1. Sonicazione a 23 khz per 1 minuto, e successiva agitazione con vortex per 30 secondi, delle provette contenenti i segmenti di catetere cui sono stati aggiunti 10 ml di brodo 2. Diluizione 1:10 e 1:100 del brodo di contatto e semina su tre piastre di Agar Sangue (agar Columbia con il 5% di sangue di cavallo) di altrettante aliquote da 0,1 ml: una prelevata dal brodo non diluito e le altre dalle due diluizioni effettuate. 3. Incubazione delle piastre in aerobiosi a 35 °C per 18 h e prolungamento fino a 48 h nel caso di assenza di crescita. 4. Conta delle colonie, considerando quale valore soglia un numero di ufc >100 per segmento di catetere. Identificazione di specie e test di sensibilità antimicrobica Gli isolati microbici vengono identificati seguendo le procedure convenzionali descritte nel Manual of clinical microbiology dell’American Society of Microbiology. Le minime concentrazioni inibenti vengono determinate mediante i test standard di microdiluizione in brodo, raccomandati dal National Committee for Clinical Laboratori Standards, usando brodo Mueller-Hinton II (BBL Microbiology Systems) come terreno per i saggi. Gli antibiotici vengono saggiati a concentrazioni finali comprese tra 0,03 e 128 Pg/ml. La MIC viene definita come la più bassa concentrazione antibiotica che non dà luogo a crescita visibile. Diagnosi clinica e trattamento delle infezioni correlate a catetere venoso centrale La terapia delle infezioni correlate a catetere venoso centrale richiede in prima istanza la distinzione tra infezione locale o batteriemia. Nel primo caso saranno presenti segni di infezione a livello del sito di inserzione, quali edema, eritema, essudazione, dolore o dolorabilità. Se il catetere è tunnellizzato (tipo Hickman Broviac) o totalmente impiantabile (tipo Porth A Cath) i segni di flogosi andranno ricercati lungo il decorso del tunnel o in corrispondenza della tasca. Sarà opportuno eseguire, per conferma e definizione dell’eziologia, esame colturale mediante tampone cutaneo o prelievo della secrezione, ove presente. La diagnosi di batteriemia catetere-correlata si ottiene invece mediante positività per il medesimo organismo delle emocolture ottenute a seguito di prelievi sia da catetere che da vena periferica. Viene solitamente considerato diagnostico di batteriemia correlata al catetere un rappor-
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LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI DA CATETERE VENOSO CENTRALE IN TERAPIA INTENSIVA
to >5-10 unità formanti colonie nella crescita tra le due emocolture o in alternativa una differenza di almeno due ore nella positivizzazione di emocolture prelevate simultaneamente . Il criterio della positività colturale (quantitativa o semiquantitativa) della punta del CVC rimosso, in assenza di altre apparenti fonti di infezione, trova la principale limitazione nella necessità di rimuovere il catetere per operare una diagnosi e va comunque affiancato dalla positività delle emocolture per distinguerlo dalla semplice colonizzazione. La distinzione tra contaminazione e infezione, soprattutto nel caso dell’isolamento di germi a ridotta patogenicità quali i CNS, consiglia l’esecuzione di almeno due coppie di emocolture, a garanzia della diagnosi. Per quanto riguarda le infezioni limitate al sito di inserzione la terapia antibiotica sistemica associata alle medicazioni locali non presenta particolari problemi;nel caso di infezione del tunnel o della tasca, alla terapia antibiotica mirata va generalmente associata la rimozione del catetere, con l’eccezione di eziologie a decorso indolente, quali quelle da stafilococchi coagulasi negativi. Di fronte ad una batteriemia CVC correlata, la terapia antibiotica deve essere necessariamente mirata. In una prima fase, pre-diagnosi microbiologica, il trattamento empirico deve includere la copertura dei patogeni più frequenti e di maggiore virulenza :in particolare il trattamento con glicopeptidi andrà iniziato in pazienti con probabile colonizzazione da S.aureus oxacillino-resistente. Per quanto riguarda i cateteri a breve termine (inserzione diretta), nel caso di isolamento di CNS e in assenza di infiltrato locale, si può tentare un approccio conservativo e trattare per 7-14 giorni senza rimozione;in caso di infiltrato locale ab initio od in caso di recidiva, il presidio va rimosso e la terapia effettuata per 10-14 giorni: in presenza di recidiva, un ecografia trans-esofagea dovrà accertare la possibile presenza di vegetazioni (endocardite). In caso di isolamento di S.aureus, il catetere va comunque rimosso e devono essere ricercate le eventuali localizzazioni metastatiche di infezione. In base ai risultati dell’antibiogramma, se l’isolato è sensibile all’oxacillina, quest’ultima va sostituita ai glicopeptidi. Se, in corso di trattamento efficace, la febbre o la batteriemia persistono per più di 3 giorni, la terapia va prolungata da 14 a 28 giorni. Nel caso di infezione da Candida il catetere va rimosso e il trattamento (fluconazolo per C. albicans e C. parapsilosis, amfotericina B per C. krusei) va effettuato per via parenterale per 7-14 giorni, eventualmente seguiti da un consolidamento con fluconazolo. Ai fini di eventuali localizzazioni metastatiche va sottolineato come l’endoftalmite da Candida abbia un decorso insidioso e vada quindi esclusa mediante un fundus oculi, anche in assenza di persistenza della febbre. Le infezioni da gram-negativi, relativamente infrequenti, e generalmente correlate a contaminazione dei liquidi d’infusione, richiedono la rimozione del catetere e l’istituzione di una terapia antibiotica mirata: tra i farmaci trovano maggior impiego i carbapenemici, le associazioni betalattamina/ininbitore beta lattamasi (piperacillina/tazobacVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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tam), o la terapia di combinazione cefalosporina di 3° generazione più aminoglicoside. Nel caso di cateteri a lungo termine (ad esempio cateteri tunnellizzati o “porth a cath”), se la batteriemia catetere correlata è classificabile a basso rischio (eziologia da Stafilococchi coagulasi negativi e quadro clinico non complicato, assenza di localizzazioni metastatiche, non infezione del tunnel o della tasca), si può tentare un approccio conservativo ed evitare la rimozione del presidio, ricorrendo alla tecnica di antibiotic lock therapy. L’approccio conservativo può essere tentato, sempre per cateteri tunnellizzati o “ports”, anche in situazioni cliniche di rischio intermedio (eziologia da microrganismi virulenti quali S. aureus o Candida spp,ma quadro clinico non complicato). Nelle situazioni a rischio elevato nelle quali sono presenti instabilità clinica (ipotensione –ipoperfusione), persistenza di febbre e/o batteriemia dopo 48ore di terapia appropriata, localizzazioni settiche a distanza, infezione del tunnel o della tasca, il catetere va comunque rimosso e la terapia protratta per 4-6 settimane. Altra condizione che impone comunque la rimozione è rappresentata dal paziente con protesi valvolari cardiache. La terapia topica intraluminale viene realizzata riempiendo lo spazio morto del catetere con soluzioni concentrate di antibiotico, selezionato in base alla sensibilità del patogeno isolato;queste vengono lasciate in situ per almeno 12 ore al giorno, esponendo così il microrganismo responsabile ad elevati livelli antibiotico. Sono stati intrapresi protocolli che prevedono l’utilizzo di vancomicina,ampicillina, amikacina,gentamicina e amfotericina B, a concentrazioni comprese tra 1 e 5mg/ml. La terapia va affiancata da una terapia sistemica parenterale per i primi 5 giorni e quindi protratta per 7-14 giorni. Con gli schemi di trattamento citato si sono ottenute percentuali di guarigione superiori all’80% e ne è stata rilevata un’efficacia significativamente maggiore in misura rispetto al solo trattamento sistemico;sono stati invece poco soddisfacenti i risultati ottenuti con questa tecnica nella terapia di forme micotiche (>70%fallimenti). Tipo di catetere I cateteri di Teflon o poliuretano hanno riportato un numero di complicazioni infettive minore rispetto ai cateteri costruiti con cloruro polivinile o polietilene (plastica). Aghi di acciaio usati come un’alternativa ai cateteri per un accesso venoso periferico hanno lo stesso indice di complicazioni infettive così come i cateteri di Teflon. Però l’uso di aghi di acciaio frequentemente è complicato dall’infiltrazione di fluidi nei tessuti sottocutanei, una complicazione potenzialmente seria se il fluido introdotto è un vescicante. Impiego di cateteri medicati Come è stato già illustrato, l’adesione e la colonizzazione microbica delle superfici polimeriche dei cateteri rappresentano fasi cruciali per il successivo sviluppo delle infezioni ad essi associate. Nell’ultimo decennio sono stati così sviluppi diversi tipi di cateteri vascolari realizzati tramite ricoperture antiadesive o trattamenti con sostanze antibatteriche.
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Cateteri con rivestimenti idrofilici Oltre alla qualità di superficie del prodotto finito, cui si è già accennato, un’altra importante caratteristica del materiale polimerico costituente il catetere è la sua idrofilicità. Infatti, tanto più un catetere possiede superfici idrofiliche, tanto più risultano ostacolati i fenomeni di adesione, dal momento che i batteri aderiscono meglio a superfici idrofobiche. Ciò ha indotto la produzione e l’immissione sul mercato di cateteri poliuretanici ricoperti con materiali idrofilici diversi: da un sottile film idrofilico di poli-Nvinilpirrolidone ad un rivestimento con derivati dell’acido ialuronico. Cateteri trattati con sostanze antimicrobiche - Argento L’impregnazione con argento della matrice polimerica dei cateteri rappresenta un’efficace strategia per la prevenzione delle infezioni, dal momento che l’argento ha un ampio spettro di attività antimicrobica, in particolare nei riguardi dei batteri gram-negativi. La sua azione è dovuta al rilascio di ioni argento che si legano al DNA microbico, impedendo la replicazione batterica, e ai gruppi sulfidrile degli enzimi microbici causandone la disattivazione metabolica. Rispetto ad altri metalli pesanti con proprietà antimicrobiche, l’argento è probabilmente il più idoneo per impieghi clinici, in quanto affianca ad un’elevata attività antimicrobica una bassissima tossicità per l’uomo. Recentemente sono stati sviluppati cateteri con matrice polimerica ricoperta da uno strato sottile e uniforme di argento, ottenuto tramite una tecnica di deposizione mediante fascio ionico. Studi clinici, pubblicati a partire dal 1994, sull’efficacia di questi cateteri hanno fornito risultati contraddittori:alcuni hanno riportato infatti riduzioni significative nella percentuale di cateteri colonizzati tra controlli (22-45%) e trattati (7-15%), mentre altri, più recentemente, non sono riusciti ad evidenziare differenze significative in due trial clinici ben disegnati, relativi proprio a cateteri venosi centrali. Le ragioni dell’inefficacia del rivestimento con argento sembrano riconducibili ai seguenti fattori: a) gli stafilococchi, che sono i batteri più frequentemente implicati nelle infezioni da cateteri venosi centrali, sono meno permeabili agli ioni argento rispetto ai batteri gram-negativi a causa dello spesso strato di mureina che caratterizza la loro parete cellulare; b) l’attività degli ioni argento può essere persa a seguito dell’interazione con altri elementi presenti nell’ambiente biologico: basta ad esempio una mole di albumina per inattivare 3 moli di ioni argento. Pur essendo attualmente presenti sul mercato, tali cateteri trattati con argento necessitano, quindi, di essere sottoposti ad ulteriori sperimentazioni che ne accertino l’effettiva efficacia. Cloruro di benzalconio Si tratta di un composto quaternario dell’ammonio che esplica attività antimicrobica soprattutto nei riguardi delle specie gram-positive ma, a più alte concentrazioni, risulta attivo anche nei riguardi di batteri gram-negativi e specie fungine appartenenti al genere Candida. 648
La sua azione è dovuta alla capacità di inibire le funzioni di membrana e la replicazione del DNA. Il cloruro di benzalconio può essere adsorbito ai cateteri da solo o in associazione con l’eparina. Infatti, come surfattante carico positivamente, risulta in grado di legare l’eparina, che ha carica netta negativa e che viene utilizzata per rendere i cateteri meno trombogenici. Tebbs and Elliott hanno riportato studi in vitro nei quali cateteri in poliuretano a triplo lume, ricoperti con rivestimento idrofilico e impregnati con cloruro di benzalconio hanno mostrato un’attività antimicrobica della durata di 7 giorni, quando venivano posti a contatto con sangue umano, e di 14 giorni con tampone fosfato. Sono risultati sensibili al cloruro di benzalconio S. epidermidis, S. aureus, S. hominis, E. coli, C. albicans, K. pneumoniae, P. mirabilis. L’efficacia clinica di questi cateteri richiede tuttavia un’ulteriore valutazione anche se la limitata durata dell’attività antimicrobica, dimostrata in presenza di sangue rispetto al tampone fosfato e dovuta al legame di proteine del siero sulla superficie del catetere, induce a pensare che il loro uso resti presumibilmente circoscritto a pazienti che richiedano l’impianto di un catetere per tempi brevi. Clorexidina e argento-sulfadiazina Il ricoprimento di cateteri venosi centrali con una combinazione antimicrobica di clorexidina e argento-sulfadiazina risulta al momento essere uno dei più promettenti approcci per la prevenzione delle infezioni associate ai cateteri vascolari. Clorexidina e argento-sulfadiazina sono normalmente utilizzate per applicazioni topiche, e ad esse è associato un basso rischio di sviluppo di resistenze antimicrobiche. Considerando inoltre che le concentrazioni dei due antisettici che vengono impiegate nelle applicazioni topiche sono molto più elevate rispetto alle quantità rilasciate dai dispositivi, è improbabile che i cateteri trattati possano dar luogo ad effetti tossici a breve o a lungo termine. L’effetto sinergico di questi due antisettici è dovuto all’alterazione della membrana batterica, indotta dalla clorexidina, che permette l’ingresso nella cellula di quantità efficaci di ioni argento che interferiscono con la replicazione legandosi al DNA microbico. Gli studi in vitro sottolineano le buone prospettive di impiego clinico dei cateteri venosi centrali trattati con questi antimicrobici;essi infatti risultano inibire significativamente la crescita di batteri sia gram-positivi (S.epidermidis , S.aureus , S.hemolyticus), che gram-negativi (P. aeruginosa, E. coli, E. faecalis, K. pneumoniae ) e di funghi (C. albicans). Greenfeld et al.hanno riportato di non aver riscontrato formazione di biofilm batterico sulla superficie esterna di questo tipo di cateteri antisettici dopo 7 giorni dall’impianto in animali da esperimento. Negli ultimi anni sono stati inoltre effettuati numerosi trial clinici per valutarne l’efficacia sia nel ridurre la colonizzazione microbica che le batteriemie associate, ma, per tempi d’impianto superiori ai 7 giorni non è stata dimostrata la loro efficacia antinfettiva. Ciò è presumibilmente dovuto all’assenza di protezione luminale, dal momento che il ricoprimento antisettico è presente solo sulla superficie esterna del catetere, e alla diminuzione del tasso di rilascio della clorexidina dopo 48 ore.
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Antibiotici Nell’ultimo decennio si sono aperte nuove prospettive per la prevenzione delle infezioni associate a catetere, attraverso lo sviluppo di cateteri antimicrobici ottenuti tramite il legame di molecole antibiotiche sulle superfici interne ed esterne dei cateteri stessi. Sono stati sviluppati in particolare cateteri venosi centrali, realizzati con polimeri preventivamente impregnati con antibiotici diversi, la cui efficacia antimicrobica è stata saggiata sia in vitro che in vivo. Finora i migliori risultati, sia in vitro che nei trial clinici, sono stati ottenuti da cateteri in poliuretano ricoperti dall’associazione tridodecil ammonio cloruro-minociclinarifampicina. L’efficacia, in pazienti ospedalizzati, di cateteri impregnati internamente ed esternamente con minociclina e rifampicina (prodotti dalla Cook Spectrum,Cook Critical Care, Bloomington, Ind. USA) è stata valutata di recente, mostrando una riduzione della colonizzazione microbica di tre volte rispetto ai cateteri non trattati, e una capacità di significativa prevenzione delle batteriemie correlate. Inoltre, uno studio retrospettivo delle cartelle dei pazienti ricoverati in un grande centro clinico statunitense tra il gennaio 1995 e il marzo 2001 ha comparato i cateteri ricoperti da argento/clorexidina con quelli impregnati con minociclina/rifampicina mostrando come l’uso di questi ultimi abbia comportato una diminuzione di nove volte delle batteriemie associate a cateteri venosi centrali, un ridotto uso sistemico della vancomicina e una significativa riduzione dei costi ospedalieri. Le raccomandazioni dei centers for disease control (CDC) di atlanta per la prevenzione delle infezioni associate a catetere intravascolare Le “Linee Guida per la Prevenzione delle Infezioni Associate a Dispositivi Intravasscolari” hanno l’obiettivo di ridurre le infezioni associate a dispositivi intravascolari fornendo una panoramica delle evidenze per le raccomandazioni considerate prudenziali da una “consensus” dei membri dell’Hospital Infection Control Practices Advisory Committee (HICPAC). Il documento (L.G.) fornisce una panoramica circa le definizioni e diagnosi d’infezione associata a catetere, le precauzioni di barriera appropriate durante l’inserimento del catetere, l’intervallo di sostituzione dei cateteri, i liquidi d’infusione e i set di somministrazione, la gestione del sito d’inserimento, il ruolo del personale specializzato nelle procedure intravascolari e l’uso della profilassi antibiotica, delle soluzioni di lavaggio e degli anticoagulanti. Altro aspetto importante delle L.G. è quello di fornire delle “raccomandazioni” che hanno avuto il consenso dell’HICPAC per la prevenzione e il controllo delle infezioni associate a dispositivi intravascolari. Le raccomandazioni contenute nelle L.G. possono non riflettere interamente le opinioni di tutti coloro che hanno partecipato alla revisione del documento, ma essendo rivolte al personale responsabile della sorveglianza ed al controllo delle infezioni saranno da questi utilizzate come “riferimento nella decisione di quale modalità di assistenza sia più appropriata in specifiche circostanze”. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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Le L.G. e le raccomandazioni in esse contenute, frutto di evidenze scientifiche, costituiscono elementi di referenza per la realizzazione di protocolli, contribuiscono a modificare le abitudini e i comportamenti dei professionisti, a evitare l’impiego di procedure inefficaci o talvolta dannose e quindi dare risposte efficaci nella gestione di presidi venosi. Criteri ben definiti hanno determinato la scelta del livello di raccomandazione ai quali sono state raggruppate le norme di comportamento suggerite per una gestione di “buona pratica clinica” degli Accessi Venosi Centrali. Le Raccomandazioni emanate dai CDC e dall’HICPAC, sono categorizzate sulla base di: a) dati scientifici esistenti, b) sul razionale teorico, c) sull’applicabilità, d) sull’impatto economico. Educazione e formazione del personale sanitario 1. Educare il personale sanitario circa le indicazioni dei cateteri intravascolari, le corrette procedure per l’inserzione e il mantenimento dei cateteri, e le appropriate misure di controllo per prevenire le infezioni catetere-correlate (Categoria IA). 2. Valutare periodicamente le conoscenze e l’aderenza alle linee guida di tutto il personale coinvolto nell’inserzione e mantenimento dei cateteri intravascolari (Categoria IA). 3. Designare solo personale formato e che ha dimostrato di possedere le competenze, per l’inserzione ed il mantenimento dei cateteri venosi centrali e periferici (Categoria IA). 4. Assicurarsi dell’appropriato livello del personale infermieristico in terapia intensiva (ICU). Studi osservazionali suggeriscono che personale non dedicato alla cura del paziente di terapia intensiva o un elevato rapporto paziente-infermiere si associa ad infezioni del sangue catetere correlate in ICU. (Categoria IB) Selezione del catetere e del sito di impianto Cateteri periferici a breve e medio termine 1. Negli adulti, utilizzare l’arto superiore come sede di impianto del catetere. Sostituire il catetere inserito a livello degli arti inferiori con uno posizionato a livello degli arti superiori il più presto possibile.(Categoria II). 2. Nel paziente pediatrico, gli arti superiori, inferiori o lo scalpo (nei neonati o lattanti) possono essere utilizzati come sede di impianto di cateteri periferici (Categoria II). 3. Selezionare il catetere sulla base dello scopo e della durata dell’uso, conoscenza delle complicanze infettive e non infettive (flebiti o infiltrazioni), e dell’esperienza dell’operatore che impianta il catetere (Categoria IB). 4. Evitare l’uso di aghi metallici per la somministrazione di fluidi o farmaci che potrebbero causare necrosi tissutale in caso di somministrazione in sede extravascolare (Categoria IA). 5. Usare cateteri a medio termine (periferici o centrali) invece degli aghi cannula, quando la durata della terapia endovenosa supererà i 6 giorni (Categoria II).
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6. Valutare il sito di inserzione del catetere giornalmente con la palpazione attraverso la medicazione per valutarne la dolorabilità e con l’ispezione se si usano medicazioni trasparenti. Le garze e medicazioni opache non vanno rimosse se il paziente non ha segni clinici di infezioni. Se il paziente presenta dolorabilità locale o altri segni di CRBSI Infezioni del sangue catetere-correlate), la medicazione non trasparente andrebbe rimossa per poter ispezionare il sito di inserzione del catetere (Categoria II). 7. Rimuovere i cateteri venosi periferici se il paziente sviluppa segni di flebiti (calore, dolorabilità, eritema o cordone venoso alla palpazione), infezione, o il catetere è mal funzionante (Categoria IB).
2. 3.
4.
Cateteri venosi centrali 1. Pesare i rischi ed i benefici di posizionare un catetere venoso centrale in un sito raccomandato per ridurre i rischi di infezioni contro il rischio di complicanze meccaniche (e.g., pneumotorace, puntura dell’arteria succlavia, lacerazione della vena succlavia, stenosi della vena succlavia, emotorace, trombosi, embolia aerea, malposizionamento del catetere) (Categoria IA) 2. Evitare l’uso della vena femorale per posizionare un catetere venoso centrale nell’adulto (Categoria IA). 3. Utilizzare la vena succlavia, piuttosto che la vena giugulare interna o la vena femorale, per il posizionamento nell’adulto di CVC non tunnelizzati per minimizzare il rischio di infezioni (Categoria IB). 4. Non è possibile fare raccomandazioni sulla sede di impianto dei CVC tunnelizzati per minimizzare il rischio di infezioni. Quesito non risolto. 5. Evitare di posizionare un catetere venoso centrale in vena succlavia nei pazienti dializzati e nei pazienti con patologia renale in uno stadio avanzato, per evitare la stenosi della vena succlavia (Categoria IA). 6. Utilizzare una fistola o graft nel paziente con insufficienza renale cronica invece di un CVC come accesso permanente alla dialisi (Categoria IA). 7. Utilizzare gli ultrasuoni per posizionare i cateteri venosi centrali (se tale tecnologia è disponibile) per ridurre il numero di tentativi di incannulazione e le complicanze meccaniche. La guida ecografica andrebbe utilizzata solo da personale adeguatamente formato per questa tecnica (Categoria IB). 8. Utilizzare CVC con il minor numero di lumi necessari alla gestione del paziente (Categoria IB). 9. Non possono essere fatte raccomandazioni su quale lume del catetere destinare alla nutrizione parenterale. Quesito non risolto. 10.Rimuovere prontamente ogni catetere intravascolare non più necessario (Categoria IA). 11.Quando non è possibile garantire l’aderenza ad una tecnica asettica (i.e. catetere inserito in emergenza), sostituire il catetere il più presto possibile, comunque entro 48 ore (Categoria IB). Igiene delle mani e tecnica asettica 1. Lavarsi le mani, o lavandosi con acqua e sapone convenzionale o con spugne per le mani su base alcolica (ABHR: alcohol-based hand rubs). L’igiene delle mani 650
5. 6.
andrebbe eseguita prima di palpare il sito di inserzione, sostituire, utilizzare, riparare o medicare il catetere intravascolare. La palpazione del sito di inserzione non andrebbe eseguita dopo l’applicazioni di antisettici, tranne che non venga mantenuta una tecnica asettica (Categoria IB). Mantenere una tecnica asettica per l’inserzione e cura di un catetere intravascolare (Categoria IB). Indossare guanti puliti, piuttosto che guanti sterili, per l’inserzione di cateteri venosi periferici, se il sito di inserzione non viene toccato dopo l’applicazione di antisettici sulla cute (Categoria IC). Guanti sterili vanno indossati per l’inserzione di cateteri arteriosi, cateteri venosi centrali a breve e medio termine, cateteri venosi periferici a medio termine (Categoria IA). Utilizzare nuovi guanti sterili prima di maneggiare il nuovo catetere quando si sta sostituendo il catetere su guida (Categoria II). Indossare guanti puliti o sterili quando si sostituisce la medicazione di un catetere intravascolare (Categoria IC).
Massime barriere sterili 1. Usare massime barriere sterili (cuffia, maschera, camice sterile, guanti sterili, e teli sterili che ricoprano l’intero corpo) per l’inserzione di CVC, PICC, o sostituzione su guida (Categoria IB). 2. Utilizzare una copertura sterile per proteggere il catetere arterioso polmonare durante la sua inserzione (Categoria IB). Preparazione della cute 1. Preparare la cute pulita con un antisettico (alcool 70%, tintura di iodio, o soluzione alcolica di clorexidina gluconato) prima dell’inserzione di un catetere venoso periferico (Categoria IB). 2. Preparare la cute pulita con clorexidina alcolica > 0,5% prima dell’inserzione di un CVC, catetere arterioso periferico e durante il cambio della medicazione. Se ci fosse una controindicazione alla clorexidina, tintura di iodio, un iodoforo, o alcool al 70% possono essere utilizzati come alternative (Categoria IA). 3. Non sono stati fatti confronti tra l’uso della clorexidina alcolica o iodio-povidone in alcool per preparare la cute pulita. Quesito non risolto. 4. Non possono essere fatte raccomandazioni sulla sicurezza ed efficacia della clorexidina nei lattanti con età < 2 mesi. Quesito non risolto. 5. Dovrebbe essere consentito all’antisettico di asciugarsi in accordo con le indicazioni del produttore prima di posizionare il catetere (Categoria IB). Medicazione della sede di impianto 1. Utilizzare o garze sterili o medicazioni sterili, trasparenti e semipermeabili per coprire il sito di ingresso del catetere (Categoria IA). 2. Se il paziente suda o il sito di impianto sanguina o trasuda, utilizzare garze per coprire il sito di impianto fino alla risoluzione del sanguinamento o trasudazione. (Categoria II)
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LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI DA CATETERE VENOSO CENTRALE IN TERAPIA INTENSIVA
3. Sostituire la medicazione se questa diviene umida, si stacca, o è visibilmente sporca (Categoria IB). 4. Non utilizzare unguenti topici con antibiotici o creme nella sede di inserzione, eccetto che per i cateteri da emodialisi, a causa della possibilità di promuovere infezioni da funghi e resistenze antimicrobiche (Categoria IB). 5. Non immergere il catetere o la sede di impianto in acqua. La doccia andrebbe permessa se possono essere attuate delle precauzioni per ridurre la probabilità di introdurre microrganismi nel catetere (e.g., se il catetere ed il sistema di connessione sono protetti con una cover impermeabile durante la doccia) (Categoria IB). 6. Sostituire la medicazione con garza su CVC a breve termine ogni due giorni (Categoria II). 7. Sostituire le medicazioni trasparenti su CVC a breve termine almeno ogni 7 giorni, eccetto per i pazienti pediatrici nei quali il rischio di dislocare il catetere può superare i benefici del cambio della medicazione (Categoria IB). 8. Sostituire la medicazione trasparente su cateteri tunnelizzati o sulla sede di impianto del CVC non più di una volta a settimana (tranne che la medicazione sia sporca o staccata), fino a quando il sito di inserzione sia cicatrizzato (Categoria II). 9. Non possono essere fatte raccomandazioni riguardo la necessità di una medicazione sul sito di ingresso ben cicatrizzato di cateteri a lungo termine tunnelizzati e cuffiati. Quesito non risolto. 10.Assicurarsi che i prodotti utilizzati per la cura del sito di impianto del catetere siano compatibili con il materiale del catetere (Categoria IB). 11.Utilizzare una copertura sterile per i cateteri arteriosi polmonari (Categoria IB). 12.Usare spugne impregnate di clorexidina (BIOPATCH) per cateteri temporanei a breve termine nei pazienti con età > 2 mesi se il tasso di CLABSI non si riduce nonostante l’aderenza alle misure di prevenzione di base, compreso l’educazione e addestramento, l’appropriato utilizzo della clorexidina per l’antisepsi della cute, e l’utilizzo delle massime barriere sterili (Categoria IB). 13.Non possono essere fatte raccomandazioni sull’utilizzo di altre medicazioni contenenti clorexidina. Quesito non risolto 14. Monitorare visivamente il sito di ingresso del catetere durante il cambio della medicazione o con la palpazione regolare attraverso la medicazione intatta, in funzione della situazione clinica del singolo paziente. Se il paziente ho dolorabilità nel sito di inserzione, febbre di origine non nota, o altre manifestazioni che suggeriscono infezioni locali o sistemiche, la medicazione andrebbe rimossa per consentire l’esame completo del sito di impianto (Categoria IB). 15. Incoraggiare il paziente a riferire ogni cambiamento nel sito di impianto del suo catetere o ogni fastidio avvertito (Categoria II). Pulizia del paziente Usare soluzioni contenenti clorexidina 2% per il lavaggio quotidiano della cute per ridurre CRBSI (Categoria II). Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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Sistema di fissaggio del catetere Usare un sistema di fissaggio senza punti per ridurre il rischio di infezione dei cateteri intravascolari (Categoria II). Cateteri e cuffie impregnate di antimicrobici/antisettici Usare cateteri venosi centrali impregnati di clorexidina/ sulfadiazina argentica o minociclina/rifampicina nei pazienti in cui si prevede che il catetere rimarrà per un periodo superiore ai 5 giorni se, dopo l’implementazione di una strategia di riduzione del tasso di infezioni catetere correlate, il tasso di infezioni non si riduce. La strategia da implementare per ridurre le infezioni prevede: educazione del personale che impianta e gestisce il catetere, l’uso delle massime barriere sterili, antisepsi della cute con soluzioni alcoliche di clorexidina > 0,5% durante l’impianto del CVC. Profilassi sistemica con antibiotici Non somministrare come profilassi antibiotici sistemici prima dell’inserzione del CVC o durante il suo utilizzo per prevenire la colonizzazione o CRBSI (Categoria IB). Unguenti contenenti antibiotici/antisettici Usare unguenti contenti antisettici o bacitracina/gramicidina/polimixina B a livello del sito di ingresso di cateteri per emodialisi e alla fine di ciascuna sessione emodialitica se questi unguenti non interagiscono col catetere, secondo le indicazioni del costruttore (Categoria IB). Profilassi con lock di antibiotici, flush del catetere con antimicrobici Usare la chiusura del catetere con soluzione di antibiotici per prevenire infezioni nei pazienti con cateteri a lungo termine e storia di multiple CRBSI nonostante l’aderenza ottimale alle tecniche di antisepsi (Categoria II). Anticoagulanti Non somministrare di routine anticoagulanti per ridurre l’incidenza di infezioni catetere correlate nella popolazione generale (Categoria II). Sostituzione di midline e cateteri periferici a breve termine 1. Non c’è bisogno di sostituire cateteri periferici a breve termine più frequentemente di ogni 72-96 ore per ridurre il rischio di infezioni e flebiti nell’adulto (Categoria 1B). 2. Non è possibile fare raccomandazioni sulla sostituzione di cateteri periferici nell’adulto quando indicato solo clinicamente. Quesito non risolto. 3. Sostituire cateteri periferici nei bambini solo quando indicato clinicamente (Categoria IB). 4. Sostituire cateteri periferici a medio termine solo quando c’è una specifica indicazione (Categoria II). Sostituzione di CVC, compresi PICC e cateteri da emodialisi 1. Non sostituire di routine CVC a breve termine, PICC, cateteri da emodialisi, o cateteri in arteria polmonare per prevenire le infezioni correlate a catetere venoso centrale (Categoria IB).
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LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI DA CATETERE VENOSO CENTRALE IN TERAPIA INTENSIVA
2. Non rimuovere CVC o PICC solo sulla base della presenza della febbre. Usare il giudizio clinico riguardo l’appropriatezza della rimozione del catetere se si sospetta che l’infezione sia altrove o ci sia una causa non infettiva della febbre (Categoria II). 3. Non utilizzare la sostituzione su guida di routine di cateteri non-tunnelizzati per prevenire le infezioni (Categoria IB). 4. Non sostituire su guida i cateteri venosi non tunnelizzati in caso di infezione sospetta (Categoria IB). 5. Utilizzare la sostituzione su guida per cateteri venosi centrali non tunnelizzati se non sono presenti evidenze di infezioni (Categoria IB). 6. Utilizzare guanti sterili nuovi per maneggiare il nuovo catetere, quando si sostituisce un catetere venoso su guida (Categoria II). Cateteri ombelicali 1. Rimuovere e non sostituire un catetere in arteria ombelicale se sono presenti segni di CRBSI, insufficienza vascolare agli arti inferiori, o trombosi (Categoria II). 2. Rimuovere e non rimpiazzare cateteri in vena ombelicale se sono presenti segni di CRBSI o trombosi (Categoria II). 3. Non possono essere fatte raccomandazioni riguardo i tentativi di salvataggio di un catetere ombelicale tramite la somministrazione di antibiotici attraverso il catetere. Quesito non risolto. 4. Disinfettare l’inserzione dell’ombelico con un antisettico prima di inserire un catetere. Evitare la tintura di iodio a causa dei potenziali effetti sulla tiroide del neonato. Possono essere usati altri prodotti contenenti iodio come lo iodio povidone (Categoria IB). 5. Non utilizzare unguenti topici o creme contenenti antibiotici sulla sede di inserzione del catetere ombelicale per il rischio di promuovere infezioni fungine o selezionare resistenze antimicrobiche (Categoria IA). 6. Aggiungere basse dosi di eparina (0,25-1,0 U/ml) al fluido infuso attraverso il catetere in arteria ombelicale. (Categoria IB) 7. Rimuovere il catetere ombelicale il prima possibile quando non sia più necessario o quando un qualsiasi segno di insufficienza vascolare agli arti inferiori sia osservato. In condizioni ideali, un catetere in arteria ombelicale non dovrebbe essere lasciato più di 5 giorni (Categoria II). 8. Rimuovere il catetere venoso ombelicale il prima possibile quando non sia più necessario;esso può essere utilizzato fino a 14 giorni quando maneggiato in maniera asettica (Categoria II). 9. Un catetere ombelicale può essere sostituito se malfunzionante, e non ci sia nessun’altra indicazione alla sua rimozione, e la durata totale non abbia superato i 5 giorni per i cateteri in arteria e 14 giorni per i cateteri in vena ombelicale (Categoria II). Cateteri arteriosi periferici e device di monitoraggio della pressione nei pazienti adulti e pediatrici 1. Negli adulti, l’uso della arteria radiale, brachiale o dorsale del piede è preferito alle arterie femorale o 652
ascellare, come siti di impianto per ridurre i rischi di infezioni (Categoria IB). 2. Nei bambini, il sito brachiale non andrebbe utilizzato. Le arterie radiale, dorsale del piede e tibiale posteriore sono da preferire alle arterie femorale o ascellare (Categoria II). 3. Almeno cappellino, maschera e guanti sterili ed un piccolo telo sterile fenestrato andrebbero utilizzati durante l’inserzione di catetere in una arteria periferica (Categoria IB). 4. Durante l’inserzione di un catetere in arteria ascellare o femorale, andrebbero utilizzate le massime barriere sterili (Categoria II). 5. Sostituire un catetere arterioso solo quando clinicamente indicato (Categoria II). 6. Rimuovere il catetere arterioso il più presto possibile e quando non più necessario (Categoria II). 7. Usare trasduttori monouso, piuttosto che riutilizzabili, quando possibile (Categoria IB). 8. Non sostituire di routine i cateteri arteriosi con l’obiettivo di prevenire le infezioni associate a catetere (Categoria II). 9. Sostituire i trasduttori (sia monouso che riutilizzabili) a intervalli di 96 ore. Sostituire gli altri componenti del sistema (compreso i tubi, device per il lavaggio in continuo, soluzioni di lavaggio) nel momento in cui si sostituisce il trasduttore (Categoria IB). 10.Mantenere tutti i componenti del sistema di monitoraggio della pressione sterili (compresi i device di calibrazione e le soluzioni di lavaggio) (Categoria IA). 11.Ridurre le manipolazioni e gli accessi al sistema di monitoraggio. Utilizzare un sistema di lavaggio chiuso (i.e. lavaggio in continuo), piuttosto che un sistema aperto (i.e., uno che richiede una siringa e rubinetto), per mantenere la pervietà del catetere (Categoria II). 12.Quando si accede al sistema di monitoraggio della pressione attraverso un diaframma, piuttosto che attraverso un rubinetto, pulire il diaframma con l’appropriato antisettico prima di accedere al sistema (Categoria IA). 13.Non somministrare glucosio o nutrizione parenterale attraverso il circuito di monitoraggio della pressione (Categoria IA). 14.Sterilizzare i trasduttori riutilizzabili in accordo con le istruzioni del produttore se l’utilizzo di materiale monouso non sia disponibile (Categoria IA). Sostituzione dei set di infusione 1. Nei pazienti che non ricevono sangue, prodotti ematici o emulsioni di grassi, la sostituzione dei set che sono usati in continuo va fatta non più frequentemente di 96 ore, ma almeno ogni 7 giorni (Categoria IA). 2. Non possono essere fatte raccomandazioni riguardo la sostituzione di set utilizzati in maniera discontinua. Quesito non risolto. 3. Non possono essere fatte raccomandazioni circa la frequenza di rimpiazzo degli aghi per l’accesso ai ports. Quesito non risolto. 4. Sostituire i tubi usati per la somministrazione di sangue, prodotti ematici, o emulsioni lipidiche (quelle combinate con aminoacidi e glucosio o le soluzioni
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contenenti solo lipidi) entro 24 ore dall’inizio dell’infusione (Categoria IB). 5. Sostituire i tubi usati per l’infusione di propofol ogni 6-12 ore, quando la fiala viene cambiata, secondo le raccomandazioni del produttore (FDA website Medwatch) (Categoria IA). 6. Non possono essere fatte raccomandazioni circa il tempo in cui un ago può essere lasciato in situ per accedere ad un port. Quesito non risolto. Sistemi Needless per cateteri intravascolari 1. Cambiare i sistemi Needless almeno con la stessa frequenza dei set di somministrazione. Non ci sono benefici cambiandoli più frequentemente di 72 ore (Categoria II). 2. Cambiare i connettori needless non più frequentemente di 72 ore o in accordo con le indicazioni del produttore con lo scopo di ridurre il tasso di infezioni (Categoria II).
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3. Assicurare che tutti i componenti del sistema siano compatibili per minimizzare le perdite o rotture del sistema (Categoria II). 4. Minimizzare i rischi di contaminazione pulendo la via di accesso con l’appropriato antisettico (clorexidina, iodio povidone, un iodoforo, o alcool 70%) e accedere alla via solo con device sterili (Categoria IA). 5. Usare un sistema needless per accedere ad una via venosa (Categoria IC). 6. Quando si utilizza un sistema needless (senza ago), una valvola di tipo “split septum” andrebbe preferita a valvole meccaniche a causa del più elevato rischio di infezioni delle valvole meccaniche (Categoria II). Miglioramento della performance Utilizzare iniziative specifiche per l’ospedale e basate sulla collaborazione nelle quali le strategie multiple siano riassunte in un “bundle” per migliorare la compliance alle pratiche basate sull’evidenza (Categoria IB).
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Le immagini di base A. CLEMENTE1, M. TOMASSETTI2, P. VOLTURO3, G.M. DE BERARDINIS4, M. BOSCO4
Introduzione
1I.R.C.C.S.
L’uso dell’ecografia ha permesso di visualizzare in tempo reale l’anatomia dell’area interessata dall’esecuzione di tecniche di anestesia loco-regionale. L’immagine resa dallo schermo dell’ecografo è solo una rappresentazione bidimensionale ed in bianco e nero di elementi che nella realtà sono tridimensionali e a colori. L’operatore deve sapere come interpretarla: distinguere le formazioni in base alla forma e alla gradazione di grigio e associarle a reali strutture anatomiche. In particolare bisognerà riconoscere: nervi, arterie e vene, tessuto muscolare e connettivo/adiposo che, a seconda della regione su cui ci accingiamo ad operare, assumeranno configurazioni diverse producendo un’immagine caratteristica dell’area interessata. Di seguito analizzeremo le immagini ecografiche di base per i principali blocchi dell’arto superiore ed inferiore. Anatomia ecografica dell’arto superiore Blocco Interscalenico L’approccio interscalenico prevede il posizionamento della sonda ecografica all’altezza della cartilagine cricoide (C6), lateralmente, a livello dei muscoli scaleni (MS) e sternocleidomastoideo (SCM). L’immagine ottenuta è una visione trasversa in cui riconosciamo anteriormente SCM con la sua fascia iperecogena. Appena più medialmente riconosciamo due strutture vascolari: l’arteria carotide e la vena giugulare interna, quest’ultima con parete meno tonica e più comprimibile della prima. Lateralmente invece, subito sotto lo SCM, troviamo il MS Anteriore seguito dai tronchi del plesso brachiale. Esiste una significativa variabilità sia nella loro posizione che nel numero di radici visualizzabili che appaiono come piccoli cerchi iperecogeni rispetto ai tessuti muscolari circostanti. La tasca che contiene il plesso brachiale va a chiudersi lateralmente con il corpo del MS medio. Una piccola struttura circolare ma ipoecogena sita in profondità rispetto al piano degli scaleni corrisponde all’arteria vertebrale. Ancora più in profondità troviamo l’impronta ipoecogena della struttura ossea del processo trasverso. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
I.D.I., istituto Dermopatico dell’Immacolata, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Roma 2Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Roma 3Ospedale “M.G. Tannini”, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Roma 4Università Cattolica, Complesso Integrato Columbus, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Roma
Blocco sovraclaveare La sonda ecografica va posizionata posteriormente e parallelamente alla clavicola. Innanzitutto va individuata l’immagine della prima costa che apparirà come una linea orizzontale eco-riflettente nella parte inferiore dello schermo sotto la quale segue una zona d’ombra. Lateralmente e più in profondità si può visualizzare una linea più sottile e iperecogena che rappresenta la pleura parietale con sottostante il tessuto polmonare riconoscibile anche per il movimento di scorrimento della pleura durante la respirazione. Il secondo repere è l’arteria succlavia, immagine circolare e pulsante, che si posiziona proprio sopra la prima costa fra le inserzioni dei MS anteriore e medio. Superiormente e lateralmente all’arteria troviamo un cluster di piccoli cerchi ipoecogeni come un gruppo di bolle che sono i nervi del plesso brachiale in sezione trasversa. A questo livello il plesso si trova solitamente a 1-2 cm di profondità ed, in base all’inclinazione della sonda, apparire ovali o più schiacciati. Arteria e nervi sono incassate in uno spazio delimitato: postero-lateralmente dai MS medio e posteriore, antero-medialmente dallo scaleno anteriore. Per evitare punture vascolari è bene riconoscere anche la vena succlavia, generalmente presente anteromedialmente all’inserzione dello scaleno anteriore. Blocco Infraclaveare La sonda si posiziona sotto la clavicola orientativamente a livello del margine mediale del deltoide, con una direzione intuitivamente perpendicolare al decorso dei vasi ascellari. Le prime strutture che incontriamo sono i
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LE IMMAGINI DI BASE
muscoli pettorali maggiore e minore con le rispettive fasce. Subito al di sotto troviamo il punto di repere principale che è l’immagine tondeggiante, ipoecogena e pulsatile del’arteria ascellare, di solito a 3-4 cm dalla cute. Intorno ad essa si distribuiscono le tre corde del plesso brachiale dall’aspetto di addensamenti iperecogeni che in base alla loro posizione sono nominate: laterale, mediale e posteriore. Infatti, se convenzionalmente posizioniamo la sonda in modo che la parte sinistra dello schermo corrisponda alla parte superiore del corpo, le corde si troveranno a ore 9 (laterale), 5 (mediale) e 7 (posteriore). Un’ulteriore struttura ipoecogena e comprimibile rappresenta la vena ascellare che può trovarsi inferiormente o appena superficialmente all’arteria. Blocco Ascellare L’approccio ascellare la plesso brachiale ben si presta alla guida ecografica per la posizione superficiale delle strutture target e la loro organizzazione intorno ad importanti e riconoscibili formazioni muscolari e vascolari. Ponendo il braccio del paziente in abduzione a circa 90 gradi si espone l’area ascellare permettendo il posizionamento della sonda subito distalmente al punto di inserzione del muscolo grande pettorale sull’omero, in senso perpendicolare all’asse lungo del braccio. L’arteria brachiale è la prima immagine che deve essere identificata, apparirà come un cerchio pulsatile, ipoecogeno all’interno, nell’area antero-mediale del braccio a 1-3 cm di profondità. Nelle vicinanze troviamo da una a due vene ascellari facilmente comprimibili, cosa che conviene fare nell’approcciare l’ago ai nervi. Tre dei principali quattro nervi distali del plesso sono distribuiti intorno all’arteria apparendo come strutture iperecogene per lo più di forma circolare/ellissoidale. Sebbene diverse siano le varianti anatomiche di questa distribuzione, possiamo orientarci cercando intorno all’arteria: il nervo mediano, superficialmente e anteriormente;il nervo ulnare, superficialmente e medialmente;il nervo radiale, posteriormente. La vicinanza delle fibre nervose all’arteria brachiale consente un blocco efficace anche se non tutte sono ben visualizzabili depositando l’anestetico locale intorno al vaso. Il fascio vascolonervoso ascellare è delimitato da gruppi muscolari, riconosciamo superficialmente e lateralmente il muscolo bicipite e più in profondità il coracobrachiale mentre medialmente troviamo il muscolo tricipite. L’immagine curvilinea eco riflettente situata molto in profondità e lateralmente è il bordo osseo dell’omero. Il muscolocutaneo, quarto nervo target, è spesso tra le fasce muscolari del bicipite e del coracobrachiale anche se può trovarsi nel corpo muscolare di quest’ultimo. Appare in sezione ovoidale con bordo iperecogeno e contenuto ipoecogeno. Anatomia ecografica dell’arto inferiore Blocco femorale La sonda lineare è posizionata subito sotto e parallelamente al legamento inguinale. La prima struttura da individuare è l’arteria femorale che si presenta tondeggiante e pulsatile con bordo iper- ed interno ipoecogeno. La parte più superficiale dell’immagine rappresenta la cute e il grasso sottocutaneo delimitato inferiormente da una linea 658
più lucente che rappresenta la fascia lata. L’ulteriore banda iperecogena visibile poco più in profondità corrisponde alla fascia iliaca. Subito sotto questa riconosciamo il fascio vascolo-nervoso con, da mediale a laterale, la vena l’arteria e il nervo femorale. Questo appare come una struttura eco-riflettente a “nido d’ape” che si distribuisce su un area quasi triangolare in cui una base appoggia, curvandosi, lateralmente all’arteria. Il piano sottostante è formato lateralmente dal muscolo ileo psoas e medialmente dal muscolo pettineo. Attenzione perché in alcune varianti anatomiche parte del nervo femorale può trovarsi anche al di sotto della fascia del muscolo ileopsoas, lateralmente e appena inferiormente al piano dell’arteria. L’arteria femorale comune poi si biforca in un ramo più superficiale ed in uno più profondo a pochi cm dall’inguine. Se non si riesce ad ottenerne un’immagine unica, si dovrà depositare l’anestetico locale lateralmente ad entrambi i rami. Blocco del nervo sciatico per via anteriore La profondità del nervo sciatico a questo livello ne rende più difficoltosa l’individuazione. La sonda, curva e a bassa frequenza, va posizionata trasversalmente nella parte superiore e mediale della coscia in modo da visualizzare i due fondamentali punti di repere: i vasi femorali nella parte superiore dell’immagine e il femore, in sezione trasversa, che si troverà all’incirca a metà dell’immagine sul monitor, lateralmente. Il nervo sciatico dovrebbe visualizzarsi più in profondità e medialmente al femore, apparendo come una struttura iperecogena, a nido d’ape perché costituita come da piccoli fascicoli tondeggianti. Lo spazio tra i vasi femorali ed il piano dello sciatico e costituito dai muscoli della coscia: il pettineo e gli adduttori. Se lo sciatico non è prontamente evidente, i punti di repere indicati possono suggerire dove cercarlo. Immaginando un triangolo con i vasi femorali e il femore come vertici, lo sciatico rappresenterà il terzo e lo dobbiamo cercare su una linea che scende come perpendicolarmente sotto i vasi femorali e punta subito sotto la fascia del muscolo adduttore magno. La forma di questo triangolo immaginario dipenderà ovviamente dalla struttura fisica del paziente e dal suo tono muscolare. Blocco del nervo sciatico per via subglutea Dopo aver posizionato il paziente supino con il lato da operare in alto, l’arto inferiore in basso disteso e l’altro flesso all’anca, si posiziona la sonda curva trasversalmente alla coscia all’altezza del margine inferiore dei muscoli glutei. Il nervo sciatico si troverà nello spazio subgluteo definito, superiormente e inferiormente, dalla fascia muscolare profonda del gluteo massimo e quella del quadrato del femore mentre i bordi laterale e mediale sono rappresentati rispettivamente dal grande trocantere e dalla tuberosità ischiatica, reperi ossei che vanno preliminarmente identificati. Lateralmente nell’immagine, il grande trocantere disegna una linea curva iperecogena che aggetta posteriormente un cono d’ombra mentre medialmente, una rappresentazione simile è data dalla tuberosità ischiatica. Ponendo la sonda al centro di questi due punti ci troveremo sopra il canale anatomico fra l’inserzione del muscolo semitendinoso sulla tuberosità
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LE IMMAGINI DI BASE
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ischiatica e la testa del bicipite lungo del femore. Nell’immagine ecografica osserveremo dopo il tessuto sottocutaneo le fibre del muscolo gluteo massimo la cui fascia, una linea più iperecogena, si distende come un’amaca fra i punti di reperi ossei precedentemente segnalati. In questo spazio e tendenzialmente più medialmente, verso la tuberosità ischiatica, troviamo il nervo sciatico che appare in forme diverse, con densità e luminosità a nido d’ape, in connessione con la fascia glutea nella parte alta e mediale dello spazio subgluteo. Spesso il nervo appare schiacciato e in effetti a questo livello può già essersi diviso nel tibiale posteriore e peroneo comune che decorrono vicini. Il nervo nono va confuso con una struttura luminosa simile ma vicina al grande trocantere, che potrebbe rappresentare semplicemente il tendine del quadrato del femore o la connessione di parte del muscolo grande gluteo al femore. Blocco del nervo sciatico per via poplitea Il paziente può essere posizionato prono o sul fianco pur di riuscire ad avere accesso con la sonda alla fossa poplitea che va posta trasversalmente alla gamba proprio all’altezza della piega del ginocchio. La prima struttura da individuare è l’arteria poplitea, piccola tondeggiante e pulsatile. Poco più superficialmente e lateralmente troviamo la tipica densità a nido d’ape che in questo caso rappresenterà il nervo tibiale posteriore. Procedendo prossimalmente e mantenendo visualizzato il nervo tibiale potremo vedere apparire più superficialmente e, spesso, medialmente
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anche l’ecogenicità del nervo peroneo comune. Questi due rami possono essere seguiti ancora prossimalmente fino alla loro riunificazione a circa 10 cm dalla piega poplitea, in questa manovra l’arteria poplitea si approfondirà sempre di più fino a non rendersi più visibile. La parte più superficiale dell’immagine è costituita lateralmente dal capo lungo del bicipite femorale e medialmente dai muscoli semitendinoso e semimebranoso. Conclusioni L’uso della guida ecografica ha introdotto indubbi vantaggi nella pratica dell’anestesia loco-regionale in particolare permettendo di visualizzare le strutture coinvolte nelle procedure. Ciò richiede da parte dell’operatore non solo una buona conoscenza dell’anatomia ma anche come questa è tradotta nelle immagini ecografiche. In questo lavoro abbiamo descritto le immagini di base dei principali blocchi periferici fornendo gli elementi per riconoscere le strutture fondamentali per la corretta esecuzione delle tecniche ecoguidate. Biblografia 1. Alemanno F, Bosco M, Barbati A et al. L’anestesia dell’arto superiore, 100 anni dopo, I edizione, Verduci Editore, Roma 2011. 2. Borghi B, Tognù A, Bonarelli S et al. Tecniche di Anestesia Locoregionale Ecoguidate, I edizione, Elsevier edizioni, Milano 201. 3. Fanelli G. Ecografia per i blocchi nervosi periferici, I edizione, EDIMES edizioni, Pavia 2007.
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Ecoguida negli accessi vascolari G.M. DE BERARDINIS1, A. CLEMENTE2, M. TOMASSETTI3, P. VOLTURO4, M. BOSCO5
La venipuntura centrale eco-guidata, l’utilizzo estensivo dei PICC in ambito sia intra che extra-ospedaliero, nonché la gestione dell’accesso venoso secondo protocolli basati sulla evidenza, sono le tre grandi novità che hanno rivoluzionato questo campo della pratica assistenziale sin dal 2002 con la stesura e l’adozione delle linee guida del CDC di Atlanta . Tutta la letteratura e i protocolli locali fanno riferimento a questo documento che è stato revisionato nel aprile 2011 1. In Italia un sicuro riferimento nazionale è l’ISALT2 di Pitturuti et al.2 La letteratura e le linee guida internazionali insistono sull’obbligatorietà, quando disponibile, di utilizzare l’approccio ecoguidato nel posizionamento degli accessi vascolari centrali, sia temporanei che permanenti. Tale approccio trova ormai indicazione anche nel posizionamento dei cateteri ad inserzione periferica tipo Midline/ PICC. Anche il buon senso infatti, al di là delle linee guida e delle consensus disponibili, ci indica la venipuntura ecoguidata come enorme beneficio in termini di sicurezza, di costo-efficacia ed di efficienza.;bisogna, pertanto, adottarla in modo assiduo e costante, nell’interesse del paziente, dell’operatore e di quello dell’azienda ospedaliera, poiché, l’impianto di accessi venosi centrali è una procedura chirurgica che, ancora oggi, comporta un rischio non irrilevante di complicanze. Queste secondo Pittiruti et al 2 possono essere suddivise al in: a) complicanze precoci o immediate, direttamente correlate con la manovra di impianto (early insertion related complications): • complicanze frequenti (> 0,5%): pneumotorace, tentativi ripetuti di venipuntura / fallimento della venipuntura, puntura arteriosa accidentale ed eventuali conseguenze (ematoma, emotorace, ecc.), malposizioni primarie e aritmie; • complicanze rare (< 0,5%): puntura accidentale del dotto toracico, lesioni accidentali del plesso brachiale, ecc.; b) complicanze tardive che possono essere evitate o ridotte mediante una appropriata tecnica di impianto (late insertion-related complications): Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1Servizio
di Anestesiologia, C.I. Columbus Università Cattolica, Roma 2Servizio di Anestesiologia I.R.C.S. IDI, Roma; 3Servizio di Anestesia e Rianimazione. Az Osp. S. Camillo-Forlanini, Roma; 4Servizio di Anestesia e Riamazione, Osp. M.G. Vannini “Figlie di S.Camillo”, Roma 5Servizio di Anestesiologia, C.I. Columbus Università Cattolica, Roma
• complicanze trombotiche: trombosi venosa centrale ( fibrin sleeve); • complicanze meccaniche: sindrome del pinchoff, malposizioni secondarie (tip migration), dislocazione precoce (limitatamente ai cateteri tunnellizzati esterni), difficile puntura del reservoir (limitatamente ai port); • CRPS (Complex Regional Pain Syndrome); c) complicanze tardive che possono essere evitate o ridotte mediante una appropriata gestione (late management related complications): • complicanze infettive: infezione batteriemica associata al sistema venoso, infezione della tasca (limitatamente ai port), infezione dell’exit site e/o del tunnel (limitatamente ai cateteri tunnellizzati cuffiati); • complicanze meccaniche: inginocchiamento o rottura del tratto esterno del catetere (limitatamente ai cateteri tunnellizzati cuffiati), dislocazione tardiva parziale o totale (limitatamente ai cateteri tunnellizzati cuffiati), stravaso da errato posizionamento o dislocazione dell’ago di Huber (limitatamente ai port), occlusione del lume. L’adozione sistematica della venipuntura eco-guidata consente di azzerare alcune complicanze (pneumotorace, emotorace, pinch-off) e di minimizzarne altre (puntura arteriosa accidentale, punture ripetute, trombosi venosa nel punto di inserzione). Le complicanze relative ai cateteri ad inserzione periferica sono, invece, da ascriversi sostanzialmente al rischio infettivo/trombotico.
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DE BERNARDIS
ECOGUIDA NEGLI ACCESSI VASCOLARI
Questa relazione ha il compito di far comprendere l’importanza di tale approccio e di integrarla con i rudimenti necessari per praticarlo. Come ogni nuova tecnica, infatti, prima bisogna comprenderne il razionale, i vantaggi ed i limiti ed è pertanto fondamentale avere chiari i concetti che sottendono all’utilizzo dell’ecografo inteso come presidio medico interspecialistico (utilizzato non solo da radiologi ecografisti ma anche da ginecologi, anestesisti, chirurghi, nefrologi etc etc) e con finalità differenti (diagnosi, ausilio, guida). In questo contesto diventa importante la conoscenza anatomica classica ma soprattutto quella ecografica dove l’operatore deve essere in grado “vedere” in maniera tridimensionale. La venipuntura centrale eco guidata consente di poter sfruttare non solo la vena giugulare interna, ma anche la vena anonima (approccio sovraclaveare), la vena succlavia (approccio sottoclaveare), la vena ascellare (sottoclaveare distale), la vena giugulare esterna (tratto profondo), la vena cefalica (in sede sottoclaveare) oltre alle varie arterie per monitoraggio. Le linee guida concordano con il preferire il lato destro come prima scelta e l’evitare accessi vascolari agli arti inferiori. La venipuntura periferica eco guidata consente, invece, il posizionamento non solo di Midline e PICC ma anche di vene periferiche “difficili” (pazienti obesi e pediatrici). Viene effettuata sempre al III medio del braccio su vasi venosi che generalmente non sono né visibili né palpabili in quanto profondi. La prima scelta è la vena basilica, che si trova generalmente a 1,5-2 cm dalla superficie, è sufficientemente lontana da strutture nervose ed ha un calibro adeguato. La seconda scelta è rappresentata dalle vene brachiali, che
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sono vicine all’arteria brachiale ed al nervo mediano, hanno un calibro minore ed ecograficamente sono identificabili come le orecchie del “Micky Mouse”. L’ultima scelta è rappresentata dalla vena cefalica che è piccola, tortuosa, con una confluenza a 90° con la vena ascellare e sottoposta a frequenti traumatismi (è utile negli obesi e nei pazienti edematosi). Le possibili tecniche di approccio sono, considerando la posizione della sonda rispetto alla posizione ago, la puntura ‘in plane’ e la puntura ‘out of plane’ nelle quali si vede rispettivamente tutto il decorso dell’ago o solamente la sua sezione;oppure considerando la posizione della sonda rispetto a quella della vena la visualizzazione in asse corto e quella in asse lungo dove si vede il vaso lungo l’asse coronale e lungo l’asse trasversale (appare come un binario o come una struttura circolare). Combinando quindi le varie possibilità tra loro possiamo si può ottenere: A) l’approccio con asse corto puntura ‘out of plane, B) l’approccio con asse corto puntura in plane;C) l’approccio con asse lungo puntura ‘out of plane, D) l’approccio con asse lungo puntura in plane;la scelta dipende dalla procedura da effettuare, dallo spazio disponibile, dalla preferenza ed abilità dell’operatore Bibliografia 1. Linee guida per la Prevenzione delle Infezioni da Cateteri Intravascolari, 2011. Naomi P. O’Grady, M.D et al., CDC e HICPAC Guidelines, Aprile 2011 consultabili in Italiano sul sito www.GAVECELT.it 2. Il protocollo ISALT 2 per l’impianto degli accessi venosi centrali a lungo termine: una proposta GAVeCeLT per un approccio più sicuro e costo-efficace. Mauro Pittiruti M.D et al Osp Ital Chir 2010;16:359-68.
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Lower extremity blocks (distal blocks) D. GHISI
Ultrasound-guided distal peripheral nerve blocks (PNBs) of the lower extremity have gained popularity for many different procedures below the knee, specially for ankle and foot ambulatory surgery. Although faster onset times have been proven for general and spinal anesthesia, PNBs possess many characteristics of the ideal outpatient anesthetic. By providing dense analgesia, opioid requirements and opioid-related side effects are reduced, allowing faster home discharge. Moreover, as part of a multimodal approach to postoperative pain management, PNBs with long-acting local anesthetic (LA) can provide prolonged analgesia when compared to spinal ane sthesia.1,2 A study by Protic et al. investigated the adequacy of ultrasound-guided femoro-popliteal nerve blocks for ankle surgery as well as the duration of analgesia after 0.5% bupivacaine in the postoperative period versus spinal anesthesia. Forty adult trauma patients with bimalleolar fracture, scheduled for surgery, were included. Although levels of anesthesia were sufficient in both groups without significant differences and spinal anesthesia showed faster onset times, duration of postoperative analgesia was significantly longer in patients receiving ultrasound-guided PNBs.2 Althoug the use of ultrasound (US) does not replace experience and knowledge of relevant anatomy, especially for visualization of deep structures, it has several advantages over nerve stimulation technique (NS), specially for superficial PNBs. The onset times and patient comfort of NS versus US guidance for popliteal sciatic nerve block have been extensively investigated. Danelli et al evaluated whether ultrasound guidance can shorten the onset time of popliteal sciatic nerve block as compared to nerve stimulation with a multiple injection technique. Forty-four ASA I-III patients undergoing posterior popliteal sciatic nerve block with 20 ml of 0.75% ropivacaine were randomly allocated to NS or US guided nerve block. Despite comparable onset times, US guidance significantly reduced needle redirections, was associated with less procedural pain and required less time for block performance.3 Also Maalouf et al studied whether US guidance improves the quality of continuous popliteal block when compared with NS after major foot and ankle surgery. They Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Anestesia e Medicina Perioperatoria, Azienda Ospedaliera “Istituti Ospitalieri”, Cremona
evaluated 45 patients undergoing elective major foot and ankle surgery and placement of a popliteal sciactic nerve catheter using either NS or US guidance. In the post-anesthesia care unit (PACU), a continuous infusion of ropivacaine 0.2% was started at a basal rate of 4 ml/h and adjusted in a standardized fashion to maintain visual analog scale (VAS) pain scores < 4. The authors showed that, despite comparable pain scores between groups, US guidance was associated with less local anesthetic consumption.4 Since sciatic nerve block is often blamed for a long onset time, Prasad et al investigated whether performing US guided sciatic nerve block distal to its bifurcation at the popliteal fossa by blocking its two main branches separately is associated with a shorter onset time than blockade proximal to its bifurcation. Fifty patients scheduled for major elective foot or ankle surgery received 30 ml of 1% lidocaine and 0.5% bupivacaine with 1:200,000 epinephrine for US guided block 5 cm proximal to or 3 cm distal to the sciatic nerve bifurcation in the popliteal fossa. Popliteal sciatic nerve block distal to the bifurcation demonstrated a shorter onset time than the proximal. [5] Similar results were achieved by Buys et al: they studied 76 patients undergoing foot or ankle surgery and a US guided sciatic nerve block either proximal or distal to the point of bifurcation with 28 ml 1.5% mepivacaine with 100 mcg clonidine and 1 ml 8.4% sodium bicarbonate. As postulated, they found that blocking the tibial and common peroneal nerves in the popliteal fossa separately provides for a faster onset than a prebifurcation sciatic block.6 Another interesting field of investigation about US guided sciatic nerve block at the popliteal fossa has been studied by Brull et al. The authors hypothesized that the presumptive mechanism for US faster onset and higher anesthesia quality versus NS guidance is strictly related to
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LOWER EXTREMITY BLOCKS (DISTAL BLOCKS)
the type of local anesthetic distribution around nerve structures, easily achievable in real-time sonographic view. To prove their hypothesis, the authors enrolled 64 adult patients undergoing elective foot and ankle surgery and randomly assigned to circumferential or single-location injection with 15 ml lidocaine 2% plus 15 ml bupivacaine 0.5% with 1:200,000 epinephrine. Ultrasound-guided circumferential injection of local anesthetic significantly improved the rate of sensory block without an increase in block procedure time or block-related complications compared with a single-location injection technique.7 The saphenous nerve, a branch of the femoral nerve, is a pure sensory nerve that supplies the anteromedial aspect of the lower leg from the knee to the foot. Its block, combined with distal sciatic nerve block, is often required to anesthetize the lower extremity for surgeries below the knee. As usual, before approaching US guidance, a complete understanding of the anatomy is required. To this purpose, Saranteas et al. evaluated the anatomic basis and the clinical results of an US guided saphenous nerve block close to the level of the nerve’s exit from the inferior foramina of the adductor canal both in cadavers and in adult volunteers. Using a linear probe, the femoral vessels and the sartorius muscle were depicted in short-axis view. The block was perfomed with 1.5% lidocaine in 23 volunteers at the level where the saphenous nerve exits the inferior foramina of the adductor canal and 22 responded with a complete sensory block without motor block of the hip flexors and knee extensors. The saphenous nerve was found to exit the adductor canal from its inferior foramina in almost 82% and at a more proximal level in 18% of the 11 anatomic specimens. In a single specimen, the saphenous nerve was formed by the anastomosis of 2 branches. In all the dissections, the saphenous nerve, after exiting the adductor canal, passed between the sartorius muscle and the femoral artery, which therefore correspond to the technique sonographic landmarks for spahenous US guided block.8 Also Tsai et al undertook a retrospective case series to investigate the efficacy of an US subsartorial approach to saphenous nerve block. Overall, the US guided technique was found to have a 77% success rate and was judjed by the authors as a moderately effective means to anesthetize the anteromedial lower extremity.9 Another interesting use of US guidance for saphenous nerve block concerns the analgesic block of its infrapatellar branch in patients undergoing knee ambulatory surgery. In fact, despite the use of various treatment strategies, arthroscopic knee surgery is still associated with clinically relevant postoperative pain. As the infrapatellar nerve innervates vital anterior knee structures, Lundblad et al demonstrated the feasibility of a US guided block technique with 5 ml of 0.5% levobupivacaine as a potential analgesic option for outpatient knee arthroscopies in 10 adult volunteers: effective analgesia was in fact demonstrated for an average duration of 16 hours postoperatively. Due to the very close anatomical relationship between the infrapatellar branch and the saphenous nerve below the knee, the authors almost always achieved a variable degree of concomitant saphenous block.10 664
US guidance has been also extensively investigated as an adjuvant technique to PNBs at the ankle. In 2009, Redborg et al proved that an US guided tibial nerve block at the ankle is more successful than a conventional approach based on surface landmarks in volunteers. Each subject was placed prone and one ankle randomly received an US guided tibial nerve block, while the other ankle underwent a traditional landmark-based tibial nerve block with 5 ml of 3% chloroprocaine. Although US guided blocks took longer to perform than traditional approaches, they guaranteed a significantly higher success rate: in fact, at 30 mins, the block was complete in 72% of participants in group US as compared with 22% with landamark technique.11 Applying the same study design, Antonakakis et al investigated the efficacy of US guidance when performing a deep peroneal nerve block at the ankle in terms of both success rate and anesthesia quality in volunteers. The authors found a statistically significant difference in temperature sensation and motor function at 10 min favoring the US group, though no statistical differences were proven at following timepoints: therefore, the use of US seems to improve the onset of deep peroneal nerve block at the ankle without improving the overall quality of the block.12 Another study by Redborg et al investigated whether an US guided perivascular approach to the sural nerve, utilizing the lesser saphenous vein as a reference, would prove more successful than a conventional approach based on surface landmarks in volunteers. As previously applied in previous trials,11,12 each subject received an US guided perivascular sural nerve block on one side and a traditional landmark-based sural nerve block on the other ankle with 5 ml of 3% chloroprocaine. US guidance resulted in a more complete and longer lasting block than the traditional landmark approach in volunteers.13 Other studies to investigate US application versus traditional techniques for ankle blocks have been completed in patients as well. Chin et al reported their 6-year experience with US guided ankle blocks compared with conventional anatomic landmark-guided technique. After indentifying 655 patients who had received unilateral ankle block and 58 patients bilateral ankle block, they found that patients undergoing traditional landmark technique were more likely to require supplemental local anesthesia, unplanned general anesthesia, i.v. fentanyl supplementation to complete surgery and a higher mean opioid dose in the PACU. This study demonstrates that the US technique of ankle block improves clinical efficacy compared with a conventional landmark technique.14 The required local anesthetic volume for successful ankle blocks was investigated by Fredrickson et al, specially focusing on whether lower volumes may impact postoperative analgesia. The authors tested the hypothesis that a low-volume US guided ankle block would provide similar analgesia after foot surgery compared with a conventional-volume surface landmark technique. A total of 72 patients presenting for elective foot surgery under general anesthesia were randomized to receive a low-volume US guided ankle block or conventional-volume surface landmark guided technique. Mean total local anesthetic volume for the low-volume ultrasound group was significantly
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lower. Block success in the recovery room was similar between groups however, compared with a conventional volume technique, the reduced local anesthetic volume partially compromised postoperative analgesia during the first 24 hours.15 In conclusion, a trend towards more peripheral and selective nerve blocks exists, specially in ambulatory surgery of the lower extremity. US guidance can provide a valuable help to clinicians in reducing local anesthetic request, rescue postoperative medications and the need for general anesthesia or spinal anesthesia intraoperatively, allowing faster home dicharge in this clinical setting.
7.
8.
9.
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Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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Best practice & errori da evitare nell’anestesia loco regionale guidata dagli ultrasuoni M. TOMASSETTI1, A. CLEMENTE2, P. VOLTURO3, G.M. DE BERARDINIS4, M. BOSCO4
L’ anestesia loco regionale guidata dagli ultrasuoni (UGRA) costituisce una metodica di recente introduzione;pertanto la letteratura medica fornisce scarse informazioni sui dettagli del processo d’apprendimento e sullo sviluppo dei requisiti necessari per una sua applicazione sicura ed efficace. All’inizio del percorso che ogni medico anestesista-rianimatore deve affrontare per raggiungere un adeguato livello di competenza (best practice) nell’UGRA, emergono alcuni comuni errori nell’approccio e nell’esecuzione dei blocchi eco guidati1: Perché e come sbagliamo: – mancata visualizzazione dell’ago nell’avanzamento (44% degli errori); – movimenti involontari della sonda (27% degli errori); – non riconoscere la posizione intramuscolare dell’ago prima dell’iniezione; – non riconoscere la maldistribuzione dell’anestetico locale; – affaticamento; – mancata correlazione tra lato del paziente e lato dello schermo; – cattiva scelta nella sede di introduzione e nel percorso dell’ago. In mancanza di tirocinio adeguato i novizi continuano a ripetere gli stessi errori anche dopo decine di blocchi: tutto ciò deve quindi costituire materia di insegnamento e di addestramento1. È fondamentale inoltre all’inizio di questa pratica valutare in maniera critica ciò che l’immagine ecografica ci propone;infatti occorre conoscere e distinguere nel corso delle procedure gli “artefatti di immagine”2, definiti come ogni percepita distorsione, errore o addizione, causati dal processore di segnale. 1. Artefatti acustici : errore nella presentazione dell’immagine ecografica. Strutture non visualizzate o oggetti falsamente percepiti (errato gain, mascheramento da ossa o aria, artefatto di assenza di flusso, falsa iperecogenicità). Immagini degradate (ridondanza di echi dall’ago, comet tail, doppia arteria Succlavia). 2. Artefatti anatomici. strutture confuse con target nervoso (errori di interpretazione delle immagini). Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1Azienda
Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Servizio di Anestesia e Rianimazione 1, Roma 2I.R.C.C.S. I.D.I., Istituto Dermopatico dell’Immacolata, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Roma 3Ospedale “M.G. Vannini”, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Roma 4Università Cattolica, Complesso Integrato Columbus, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Roma
Infine, stante la stato nascente della disciplina, appare rilevante che gli esperti della materia abbiano redatto delle linee guida sull’apprendimento e l’insegnamento dell’UGRA, così ad esempio da definire le competenze da acquisire3. Una corretta competenza nell’esecuzione di un’UGRA richiede infatti differenti capacità tecniche, che gli esperti dividono in 4 gruppi: – comprendere il funzionamento dei dispositivi; – ottimizzazione dell’immagine; – interpretazione dell’immagine; – visualizzazione dell’inserimento dell’ago e iniezione dell’anestetico locale. Per ciascuna di queste categorie, la Commissione degli esperti3 ha stabilito dei requisiti necessari che verranno qui di seguito elencati: 1. capire l’origine dell’immagine ad Ultrasuoni ed il Funzionamento del Dispositivo. – Comprendere i principi tecnici di base sulla creazione dell’immagine. – Scegliere il trasduttore adatto. – Scegliere le impostazioni di profondità e messa a fuoco appropriate. – Comprensione ed uso appropriato del T.G.C. e del guadagno complessivo. – Comprensione ed utilizzo efficace del Color Doppler. – Archiviazione delle immagini. – Seguire lo standard ASRA-ESRA per l’orientamento dello schermo.
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TOMASETTI
BEST PRACTICE & ERRORI DA EVITARE NELL’ANESTESIA LOCO REGIONALE GUIDATA DAGLI ULTRASUONI
2. Ottimizzazione dell’immagine (Indipendente dal dispositivo). – Imparare l’importanza di un’adeguata Pressione (P), Allineamento (A), Rotazione (e e Tilting (T) della sonda. 3. Interpretazione dell’immagine: – Identificare i nervi. – Identificare i muscoli e le fasce. – Identificare i vasi sanguigni, distinguendo le vene dalle arterie. – Identificare ossa e pleura. – Identificare gli artefatti acustici comuni. – Identificare gli artefatti anatomici comuni (Pitfall Errors). – Identificare la vascolarità associata alla traiettoria dell’ago. 4. Inserimento dell’ago ed iniezione: – Imparare la tecnica “In-Plane” per massimizzare la visualizzazione dell’ago. – Imparare la tecnica “Out-of-Plane”. – Conoscere i limiti ed i benefici di entrambe le tecniche. – Imparare a riconoscere la posizione intramuscolare dell’ago.
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– Imparare a riconoscere la corretta od errata diffusione dell’anestetico locale. – Praticare una corretta ergonomia. – Ridurre al minimo i movimenti non intenzionali del trasduttore. – Identificare la posizione intraneurale dell’ago. Una definizione completa di “best practice in UGRA” va vista quindi allo stato attuale come un futuro punto di arrivo di un processo di analisi degli elementi costitutivi della competenza nella procedura, unito all’applicazione clinica di precise metodiche nelle varie sedi di blocco in studi clinici controllati e randomizzati. Bibliografia 1. Sites BD et al. Characterizing novice behavior associated with learning UGRA. RAPM 2007;32:107-15. 2. Sites BD et al. Artifacts and Pitfall Errors Associated With Ultrasound-Guided Regional Anesthesia. Part II: A Pictorial Approach to Understanding and Avoidance RAPM 2007;32:419-33. 3. Brian D. Sites, Vincent W. Chan, Joseph M. Neal, Robert Weller, Thomas Grau, Zbigniew J. Koscielniak-Nielsen, Giorgio Ivani. The American Society of Regional Anesthesia and Pain Medicine and the European Society of Regional Anaesthesia and Pain Therapy Joint Committee : Recommendations for Education and Training in Ultrasound-Guided Regional Anesthesia , RAPM 2009;34:40-6.
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EBM blocchi ecoguidati P. VOLTURO1, A. CLEMENTE2, M. TOMASSETTI3, G. DE BERARDINIS4, M. BOSCO4
Introduzione
1Dipartimento
L’applicazione degli Ultrasuoni (US) nelle tecniche di anestesia loco-regionale sta assumendo proporzioni di vasta popolarità nella pratica quotidiana in sala operatoria, grazie alla diretta visualizzazione delle strutture anatomiche, alla valutazione real-time di eventuali alterazioni morfologiche, alla visualizzazione diretta dell’ago e dei fasci nervosi, alla relativa semplicità di esecuzione e alla possibilità teorica di una riduzione della dose di anestetico locale utilizzato.La stimolazione elettrica del nervo (ENS) è stata per molte decadi il goal standard nella localizzazione nervosa dei blocchi periferici. Ma negli ultimi 5 anni gli ultrasuoni hanno modificato l’approccio anatomico e i protocolli terapeutici in anestesia loco-regionale.Se da un lato assistiamo alla pubblicazione di centinaia di articoli scientifici inerenti l’uso degli US nei blocchi nervosi, dall’altra molto spesso non vengono indicati gli standards of care e i relativi gradi di Evidence Base Medicine (EBM), le popolazioni di pazienti sono esigue e le metodiche di blocco differenti. Metodi È stata realizzata una ricerca su PUBMED indicando key words: Ultrasounds, peripheral blocks and loco-regional anesthesia. L’adeguatezza degli studi è stata valutata usando lo Jordan score. Gli articoli oggetto della review si riferiscono a tre aree di pertinenza degli US: 1) protocolli e dinamiche correlate all’outcome e alla qualità del blocco loco-regionale; 2) risultati clinici inerenti onset, durata e soddisfazione del paziente; 3) criteri di sicurezza dei blocchi effettuati. Sono state analizzate numerosi variabili quali US vs ENS, onset del blocco, durata e successo, sicurezza del blocco eseguito rispetto alla comparsa di sintomi neurologici, PONS, LAST (Local anesthetic system toxicity), complicanze iatrogene (pneumotorace, paralisi emidiaframmatica, vascolari e/o nervose). L’analisi è stata condotta sui blocchi dell’arto superiore e dell’arto inferiore, sulle caratteristiche del training educational e degli ecografi. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
di Anestesia e Rianimazione, Ospedale M.G. Vannini, Roma 2Istituto Dermopatico dell’Immacolata (IDI), Servizio di Anestesia e Rianimazione Roma 3Dipartimento di Anestesia e Rianimazione, Ospedale San Camillo, Roma 4Università Cattolica del Sacro Cuore, Complesso Integrato Columbus, Roma
Ai fini della determinazione del grado di EBM nelle review pubblicate in letteratura non vengono presi in considerazione dal punto di vista statistico gli studi su cadavere e quelli con una popolazione di pazienti inferiore a 10 pazienti. Discussione L’analisi della letteratura sugli US nei blocchi periferici risulta notevolmente eterogenea in quanto spesso è impossibile la comparazione diretta sugli outcomes definiti da goal standards diversi. Inoltre alcuni studi riportano differenti modalità di approccio anatomico al plesso e differenti dosi e percentuali di anestetico locale. Blocchi Arto Superiore Gli articoli correlati ai blocchi dell’arto superiore rappresentano il numero più vasto in letteratura e sono comparati US vs ENS. Alcuni di questi studi riportano un grado EBM Ib con Jadad score 1-5, media 3. Le tecniche sono state definite positive, negative o indifferenti in relazione al tempo di performance del blocco e del successo clinico. Sono state considerate le eventuali ripetute punture, e la comparsa di complicanze neurologiche (Blocchi .infraclaveare, ascellare o sopraclaveare).In uno studio dell’ASRA è stato riportato livello Ib per quanto concerneva gli US e il tempo più veloce di esecuzione del blocco con un sensibile aumento delle percentuali di successo (blocco completo chirurgico senza ausilio di analgesia generale o rescue dose).Blocchi dell’arto inferiore. Gli effetti degli US applicati ai blocchi dell’arto inferiore sembrano essere meno importanti rispetto a quelli dell’ar-
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VOLTURO
EBM BLOCCHI ECOGUIDATI
to superiore ma sono gravati da un ridotto numero di pubblicazioni. Sono stati valutati 3 in 1, nervo femorale e blocco della fascia iliaca, nervo sciatico nelle sue diramazioni.L’uso degli US ha determinato un aumento del successo (Ib A) Jadad 1-4, media 3, ma spesso i risultati si riferivano al blocco antalgico con scarsi riferimenti al successo del blocco in termini chirurgici.Alcuni studi riportano la somministrazione di ridotte dosi di anestetico locale se comparato con ENS (Ib A) e un più agevole inserimento del catetere nel blocco dello sciatico al livello popliteo.
Gli articoli pubblicati in questi ultimi due anni riguardo l’impiego degli US in anestesia loco-regionale indicano chiaramente che la loro applicazione determina un miglioramento ma mai una riduzione del successo o un aumento di complicanze, gli US offrono vantaggi in termini di successo del blocco e dei tempi di performance, ma non ci sono evidenze cliniche che l’uso possa eliminare la comparsa di complicanze neurologiche o LAST, pertanto si ritiene necessario attivare sempre l’impiego dei protocolli di sicurezza previsti in anestesia loco-regionale. Bibliografia
Blocchi tronculari – Blocchi paravertebrali (IIb B); – TAP blocco no EBMC; – hildren (Ib A). Blocchi neurassiali È necessario distinguere la tecnica di eco-assistenza da quella eco-guidata, la prima viene infatti proposta per il reperimento degli spazi peridurale(Ib)i, per l’identificazione dello spazio subaracnoideo e la misura della relativa distanza dalla cute (IIa) n egli adulti, al contrario in età pediatrica e neonatale la tecnica eco-guidata ha rilievo Ia con un’elevata accuratezza e precisione in mani esperte.
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Conclusioni
1. Antonakakis JG. Ultrasounds-guided regional anesthesia for peripheral nerve blocks: an evidence-based outcome review Anesthesiol Clin 2011;29:179-91. 2. Dillane D. Is there a place for the use of nerve stimulation? Pediatric Anaesth 2012;22:102-8. 3. Conroy PH. Ultrasound-guided blocks for shoulder surgery Curr Opin Anaesthesiol 2011;:638-43. 4. Womach H. Ultrasounds and regional blocks Br J Anaesth 2012;108:704-5. 5. Neal J. The ASRA Evidence based medicine assessment of ultrasound.guided regional anesthesia and pain medicine: executive summar y Reg Anaesth Pain Med 2010;35:S1-S9. 6. McNaught A. Ultrasounds reduces the minimum effective local anaesthetic volume compared with peripheral nerve stimulation for interscalene block Br J Anaesth 2011;106: 124-30.
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Sedazione terminale: cosa è cosa non è L. ORSI
La sedazione al termine della vita o sedazione palliativa (ST/SP) è una procedura comune nella cura delle fasi finali dei malati morenti, resa necessaria dalla progressiva refrattarietà dei sintomi. La ST/SP è definita come “Uso di sedativi per controllare le sofferenze intollerabili e refrattarie mediante la riduzione della coscienza negli ultimi giorni della vita”. La ST/SP prevede l’uso di sedativi, analgesici e farmaci adiuvanti. I farmaci sedativi comunemente utilizzati sono midazolam, diazepam, lorazepam, aloperidolo, propofol;l’aloperidolo, da solo o in associazione alle benzodiazepine, è indicato nel delirium terminale. Gli analgesici preferiti sono morfina e fentanyl;questi vanno sempre associati ai sedativi per ottenere il controllo della dispnea e del dolore. Eticamente, la ST/SP risponde ai principi di autonomia, beneficialità, non-maleficialità ,,. Beneficialità e nonmaleficialità sono tutelate dal trattamento di sintomi altrimenti refrattari che inducono gravi sofferenze psicofisiche negli ultimi giorni o ore compromettendo la qualità di vita residua del malato;in tal senso la ST/SP rispetta il criterio di proporzionalità. Per rispettare la
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Ospedale Carlo Poma, Mantova
ST/SP il malato o un suo rappresentante dovranno essere adeguatamente informati sui rischi derivanti e prestare un valido consenso. I principali studi condotti sulla sopravvivenza dei malati sottoposti a ST/SP smentiscono l’anticipazione del decesso rispetto a quelli non sottoposti ST/SP e concordano nel registrare un notevole lasso di tempo (2-3 gg. nei malati tumorali) fra l’inizio della ST/SP ed il momento del decesso. In accordo con quanto affermato dalla European Association of Palliative Care, la ST/SP si differenzia dall’eutanasia in termini di obiettivo (intenzione) e di procedure (farmaci/dosaggi) e di esito. La ST/SP risponde al criterio di proporzionalità terpaeutica e non è pertanto un abbandono terapeutico.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):673-4
Accanimento e desistenza terapeutica: confini e percorsi I. LANINI1, G. RANALDI2, D. CROCENZI2, D. DE MARZI2, G.R. GRISTINA3
Le patologie di pertinenza intensivistica attengono in prevalenza alle severe insufficienze funzionali mono- o multiorganiche neurologiche, cardio-respiratorie o metaboliche acute o croniche riacutizzate, alle patologie insorte acutamente quali i multipli traumatismi o l’arresto cardiocircolatorio, ai post-operatori complessi legati alla chirurgia altamente demolitiva. Numerosi malati affetti da tali patologie, grazie allo sviluppo della ricerca biotecnologica, farmacologica e clinica, guariscono per essere restituiti dalle T.I. ad una vita da essi stessi giudicata degna di essere vissuta. Tuttavia, in rapporto all’ineludibile processo di invecchiamento della popolazione e all’elevato grado di gravità, evolutività e irreversibilità raggiunto, quelle stesse entità nosologiche che generano i ricoveri in T.I., nel 19% dei casi sfuggono irrimediabilmente al tradizionale paradigma malattia-diagnosi-terapia-stabilizzazione per collocarsi nel più appropriato contesto del processo biologico della morte.1 Non si tratta più di ‘malati’ – concetto che sottende implicitamente la concreta probabilità di un miglioramento della qualità della vita tramite una terapia – ma di ‘morenti’, di esseri umani che stanno concludendo in modo ineluttabile il loro ciclo vitale. È pertanto sempre più urgente poter disporre di strumenti operativi culturali e tecnici che ci permettano di garantire al ‘morente’ un riconoscimento ufficiale della sua peculiare condizione del tutto diversa da quella del ‘malato’ e, attraverso questo riconoscimento, di ridefinire funzioni, attività e compiti di ciascuna professionalità sanitaria nell’ambito di specifici ed inediti percorsi clinico-assistenziali dedicati. In questo senso, il primo studio condotto nel nostro paese sulle scelte di trattamento dei malati giunti al termine della vita ci informa che su 3438 malati morenti studiati in 84 T.I., la desistenza terapeutica – sospensione o astensione dai trattamenti quando evidentemente futili – era attuata nel 62% dei casi. ì2 Ma i risultati dello stesso studio dicono però anche che la desistenza dalle cure intensive nei malati al termine della vita è attuata dopo trattamento massimale, più spesso nelle T.I. dove si ottengono i risultati migliori in termini Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1Dipartimento
Area Critica Medico-Chirurgica, Sez. Anestesia-Rianimazione, Univesità Studi, Firenze 2U.O. Shock, Trauma/Centro di Rianimazione 1, Ospedale S. Camillo-Forlanini, Roma 3Coordinatore Gruppo di Studio Bioetica SIAARTI
di sopravvivenza mentre i centri che evidenziano uno standard di cura peggiore (mortalità più alta a parità di gravità), sono anche quelli dove più spesso si attua la prosecuzione ad oltranza dei trattamenti. ì2 Questo significa che è priva di fondamento la tesi di coloro che sostengono che la limitazione delle cure aprirà la porta al disinteresse, al cinismo e all’indifferenza degli operatori facendo delle T.I. luoghi dove si “uccidono” i malati mentre è invece vero che Evidence Based Medicine parallels Ethics Based Medicine. Dietro la loro sinteticità, queste informazioni nascondono un complesso di questioni umane la cui rilevanza morale risiede nel fatto che, proprio grazie allo sviluppo della ricerca farmacologica, biotecnologica e clinica che permette oggi di salvare più vite, la morte in T.I. si può trasformare da evento puntuale in un processo teoricamente illimitato nel tempo. Tutto ciò apre immediatamente questioni sull’esistenza di un diritto a morire, di un dovere di lasciar morire o di accompagnare a morire, sulla liceità di direttive anticipate, su cosa realmente si debba intendere per “accanimento terapeutico” o, meglio, per “futilità delle cure”. Questi temi hanno suscitato nella moderna medicina intensivistica una triplice riflessione: 1) l’evoluzione scientifica, nel suo incessante processo di definizione prima e successivo superamento poi di limiti biologici, impone un continuo riesame critico dei principi etici, mostrando che questi possono entrare in conflitto tra loro e che quasi mai esiste un principio supremo che definisce il dovere prevalente;2) che cosa sia bene e giusto fare o non fare in termini clinico-assistenziali nei confronti dei malati morenti in T.I.;3) se questo fare o non fare, esito pratico della riformulazione dei principi morali, debba esser sottoposto alle leggi dello stato oppure se sia possibile ammettere un’area in cui la condotta di medici e
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ACCANIMENTO E DESISTENZA TERAPEUTICA: CONFINI E PERCORSI
malati sia affidata prevalentemente alle regole derivanti dalle responsabilità morali di entrambi, inquadrate nella relazione di cura, piuttosto che a quelle derivanti dal diritto (“diritto mite, etica forte”). Al fine di rispondere a questi quesiti ed in accordo con quanto definito in merito a livello internazionale 3-7, la SIAARTI nel 2003 e poi nel 2006, si è dotata di Raccomandazioni8,9 le cui conclusioni, tutte in linea con il codice deontologico, possono riassumersi come segue: • il ripudio del processo del morire segnato dalle sofferenze indotte da trattamenti giudicati ormai futili; • la consapevolezza che tali sofferenze sono evitabili tramite analgesia e sedazione alle dosi necessarie; • la negazione dell’idea, contraddittoria, per cui la morte debba intervenire in modo ‘naturale’ poiché in T.I. il morente è accompagnato con l’uso di apparecchiature e farmaci e perciò in modo del tutto innaturale; • la consapevolezza che la desistenza terapeutica nel malato al termine della vita è un atto clinicamente appropriato, eticamente doveroso che non ha nulla a che vedere con l’eutanasia. Così, in T.I. è oggi evidente che nel contesto clinico in cui un malato giunto al termine della vita nonostante l’erogazione di un trattamento prolungato e massimale, chiede la sospensione delle cure, direttamente essendo capace o attraverso un sostituto se incapace, i dati di fatto sono: • la liceità morale della richiesta del morente di non essere sottoposto ad ulteriori sofferenze; • l’irreversibilità del processo del morire scientificamente verificata; • il limite ampiamente sperimentato della cura e la conseguente inutilità della sua prosecuzione; • la necessità di rispettare l’autonomia del malato; • la corretta allocazione delle risorse. In sintesi, le scelte pertinenti alla fase finale della vita in T.I. si svincolano dai giudizi morali che fanno riferimento a principi universali per divenire l’irripetibile relazione umana tra medici, infermieri e malati in nome della quale fornire l’ultima risposta possibile: trasformare la terapia in cura, intesa ora come liberazione dal dolore e dalla sofferenza ed accompagnamento sereno e dignitoso alla morte, assumendo la responsabilità delle scelte finali. Oggi questo travagliato percorso culturale ha prodotto nei medici di T.I. la consapevolezza che: • la morte, parte integrante ed ineludibile della vita, interviene a causa della malattia; • è possibile, nel rispetto del principio di autonomia del malato, sospendere o non erogare i trattamenti inutili accettando la sostanziale equivalenza etica delle due opzioni; • non esistono trattamenti ordinari o straordinari, ma solo trattamenti utili o futili; • non ha senso parlare di accanimento terapeutico, contraddizione in termini che genera soltanto confusione e che invece sarebbe più appropriato parlare di trattamenti futili; • la sedazione palliativa in un malato che la chiede consapevolmente e liberamente o tramite una direttiva
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anticipata per abolire la sofferenza o per interrompere trattamenti non più voluti, costituisce un atto medico clinicamente appropriato ed eticamente doveroso. Non è qui in questione il principio di beneficenza implicito nella funzione del medico, ma l’accettazione della necessità di adattare i doveri imposti dalla professione al continuo divenire della pratica medica. Il nuovo Codice di Deontologia ha recepito questo principio10 e sono proprio i medici e gli infermieri di T.I. – gli operatori sanitari che dispongono oggi della più ampia gamma di mezzi terapeutici – ad aver per primi compreso l’importanza di finalizzare la desistenza terapeutica alla semplice offerta di un aiuto ad affrontare una morte inevitabile.11,12 Bibliografia 1. Bertolini G, Boffelli S. Scelte in fine vita: verso un’epidemiologia delle pratiche. In: Scelte sulla vita: l’esperienza di cura nei reparti di Terapia Intensiva;a cura di G. Bertolini, Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” Ed. Angelo Guerini, Milano 2007. 2 . Bertolini G, Boffelli S, Malacarne P et al. End-of-life decision-making and quality of ICU performance: an observational study in 84 Italian units Intensive Care Med 2010;36: 1495-504. 3. Vincent JL. European attitudes towards ethical problems in intensive care medicine: results of an ethical questionnaire Intensive Care Med 1990;16:256. 4. The World Federation of Society of Intensive and Critical Care Medicine (W.F.S.I.C.C.M.) Ethical Principles in ICU Crit Care Med Digest 1992;11:40. 5. Truog RD, Cist AFM, Brackett SE et al. Recommendations for end of life care in the ICU the Ethics Committee of Society of Critical Care Medicine (S.C.C.M.) Crit Care Med 2001;29:2332. 6. Sprung CL, Eidelman LA, Pizov R et al. End of life practices in european ICU JAMA 2003;290:790. 7. Thompson BT, Cox PN, Antonelli M et al. Challenger in end of life in the ICU: statement of the 5th international consensus conference in critical care: Brussels, Belgium, April 2003: Executive Summary Crit Care Med 2004;32:100. 8. Gruppo di Studio Bioetica Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (S.I.A.A.R.T.I.) Raccomandazioni per l’ammissione e la dimissione dalla Terapia Intensiva e per la limitazione dei trattamenti in Terapia Intensiva Minerva Anestesiol 2003;69:101. 9. Gruppo di Studio Bioetica Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (S.I.A.A.R.T.I.) Le cure di fine vita e l’anestesista-rianimatore: Raccomandazioni per l’approccio al malato morente Minerva Anestesiol 2006;72:927. 10. www.FNOMCeO.it, Codice di Deontologia Medica 16.12.2006. Titolo II, Capo IV, Art. 16 : Accanimento terapeutico;Art. 38: Autonomia del cittadino e Dichiarazioni Anticipate. Titolo III, Capo I, Art. 20: Rispetto dei diritti della persona;Capo V, Art. 39: Assistenza al malato a prognosi infausta. 11. Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari Carta degli Operatori sanitari 4a ed., Città del Vaticano 1995, nn. 119-124. 12. Pontificio Consiglio “Cor Unum”. Alcune questioni etiche relative ai malati gravi e morenti In: Patrick Verspieren S.J. Biologia, medicina ed etica trad. it., Queriniana, Brescia 1980, pp. 484-502.
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Quando si muore: i pazienti, la famiglia, l’équipe I. LANINI1, A. CIARLONE2, S. ROGANTE2, M. RAMUNNO2, G.R. GRISTINA3
Numerosi documenti pubblicati da diverse società scientifiche di medicina critica in Europa e negli Stati Uniti contengono raccomandazioni finalizzate a migliorare la comunicazione con i pazienti, ove possibile, e con le loro famiglie1-5. Una delle caratteristiche comuni di questi documenti è rappresentata dal ruolo fondamentale attribuito alle famiglie nel processo decisionale circa il piano di cura. In merito, i membri del Critical Care End-of-Life Peer Group della Robert Wood Johnson Foundation (RWJF) nel 2003 identificava le seguenti aree di attività6: • comunicazione all’interno del team e con i malati e le famiglie; • inclusione del malato e della famiglia nel processo decisionale; • supporto emotivo, spirituale e pratico per i malati e le famiglie; • supporto emotivo e organizzativo per i medici e gli infermieri di TI. Attraverso questi documenti, è quindi iniziato un percorso che ha condotto al pieno rispetto per l’autonomia del malato non più capace, tramite il riconoscimento del ruolo centrale svolto dalle famiglie nel contribuire alla definizione di un processo clinico-assistenziale commisurato ai valori cui lui si è ispirato nella sua vita, e perciò alle sue preferenze, piuttosto che alle preferenze dei medici. Queste raccomandazioni sono state ulteriormente ampliate nel 2007 con la pubblicazione da parte dell’American College of Critical Care Medicine (ACCCM) Task Force delle linee guida centrate sul sostegno della famiglia del malato in TI7. La scelta delle cosiddette “TI aperte” contribuisce ad affrontare il notevole impegno umano e morale delle famiglie nei confronti dei loro cari8. Numerose obiezioni sono state mosse a questo proposito dagli infermieri e dai medici che citano spesso preoccupazioni circa le potenziali interruzioni nella cura del malato. Tuttavia, la revisione degli studi esistenti suggerisce che non vi sono effetti fisiologici negativi correlati alla presenza dei familiari, compresi l’assetto emodinamico, lo stato mentale, la pressione intracranica9. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1Dip. Area Critica Medico-Chirurgica,
Sez. Anestesia-Rianimazione, Univesità degli Studi, Firenze 2U.O. Shock-Trauma/Centro di Rianimazione 1, Ospedale S. Camillo-Forlanini, Roma 3Coordinatore Gruppo di Studio Bioetica SIAARTI
Così, nel 2007 le linee guida ACCCM consigliavano: • TI “aperta” che permetta una flessibilità dell’orario di visita in rapporto alle necessità/volontà della famiglia; • definizione del programma di presenza della famiglia in reparto in rapporto al miglior interesse del malato; • visita in NICU e PICU aperta a genitori e tutori h 24; • dopo una formazione pre-visita, i fratelli in PICU/ NICU possono entrare con l’approvazione dei genitori; • Attenzione alla visita ai bambini immunocompromessi, con l’approvazione del medico; • gli animali domestici puliti/vaccinati non debbono essere esclusi dalla visita in TI. Una serie di ragioni sono state indagate circa l’insoddisfazione riguardo alla comunicazione in TI;la ragione più frequentemente indicata consiste nell’incoerenza della comunicazione gestita da medici diversi10. Così, assicurare la coerenza della comunicazione è forse una delle componenti più importanti della TI centrata sulla famiglia. Un processo decisionale fondato su un approccio condiviso, prevede un percorso decisionale alternativo a quello unilaterale del medico, nel quale medici e familiari definiscono insieme il migliore percorso clinico durante il quale conforto e sostegno sono garantiti e adeguati alle esigenze di ogni malato e della sua famiglia.11 Al fine di raggiungere decisioni condivise, è importante che le discussioni con i parenti inizino precocemente nel corso del ricovero in TI. In aggiunta, ove possibile, tali discussioni dovrebbero coinvolgere i medici che hanno curato i malati prima della necessità di ricovero in TI. Un approccio di questo tipo aiuterà a stabilire la necessaria fiducia. Il dialogo dovrebbe essere caratterizzato da sincerità e coerenza, veridicità e gradualità e condotto utilizzando
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QUANDO SI MUORE: I PAZIENTI, LA FAMIGLIA, L’ÉQUIPE
come parametri di riferimento, cinque punti dimostratisi fondamentali per ottenere una comunicazione efficace12: • valorizzare le dichiarazioni dei familiari riguardo al sistema valoriale del malato; • riconoscere le emozioni della famiglia; • ascoltare la famiglia; • considerare il malato come persona; • incoraggiare i membri della famiglia a porre domande.
3.
4. 5.
È importante che le discussioni con i familiari siano condotte in modo da includere un team interdisciplinare. Riguardo alla comunicazione, la collaborazione medicoinfermieristica è stata associata alla ridotta degenza ospedaliera e ad un ridotto numero di riammissioni in TI13. Diversi studi hanno anche dimostrato che una migliore comunicazione interdisciplinare è associata a più bassi livelli di burn-out e a un maggior livello di soddisfazione dei malati e dei loro familiari 14. Inoltre, una migliore comunicazione interdisciplinare, è associata ad una riduzione dell’ansia e della depressione tra i malati e le loro famiglie, con un miglioramento del processo globale di comunicazione15. Un altro elemento importante per ottimizzare la comunicazione con la famiglia consiste nel soddisfacimento del desiderio dei familiari per una consulenza spirituale16. Un altro strumento importante consiste nell’applicazione di protocolli standardizzati o di procedure volte a sostenere la comunicazione e la costruzione di un rapporto di fiducia tra medici, malati e familiari17. Infine, un’altra importante area di miglioramento per quanto riguarda la comunicazione con i malati e le loro famiglie è rappresentato dallo sviluppo di misure di qualità che aiutano a valutare e orientare il modo in cui i clinici forniscono cure palliative – riduzione della lunghezza della degenza per i malati morenti, qualità e dignità del morire18.
6.
Bibliografia
17.
1. Ethical Committee of Italian Society of Anaesthesia Analgesia and Intensive Care Medicine (SIAARTI) gudelines for admission to and discharge from ICU’s and for limitation of treatment in intensive care Minerva Anestesiol 2003;69:10118. 2. Truog RD, Cist AFM, Brackett SE et al. Recommendations
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7.
8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.
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Ammissione in terapia intensiva: criteri e scenari D. MAZZON1, L. BERNARDI1, I. LANINI2
La SIAARTI, per prima fra tutte le società medico-scientifiche italiane, nel 1999, durante la Presidenza del Prof. Martinelli, si è dotata di una commissione multidisciplinare di bioetica allo scopo di affrontare sotto il profilo non solo scientifico ma anche della filosofia, del diritto e della giurisprudenza, le questioni poste dallo sviluppo della nostra disciplina nel contesto sociale in cui essa viene praticata1. Questioni come: l’informazione e il consenso all’atto medico2, la comunicazione con i pazienti e i familiari3, l’umanizzazione delle cure, l’appropriatezza etica dei trattamenti intensivi4, sono state e sono affrontate dalla Commissione di bioetica, discusse in convegni, oggetto di pubblicazioni e di eventi formativi anche con la partecipazione di esponenti dei saperi filosofico, psicologico e giuridico, coerentemente con lo sfondo di riferimento, rappresentato dai principi della bioetica, dalla deontologia professionale, dal nostro ordinamento, a partire dall’art. 32 della Carta Costituzionale sino alla più recente evoluzione giurisprudenziale nell’ambito del biodiritto5. Fra tutte le questioni all’ordine del giorno, due in particolare hanno impegnato prioritariamente la Commissione in un lavoro di approfondimento e quindi di sintesi, che si è concluso nel 2006 con la produzione di due documenti, ancora oggi senz’altro attuali. Il primo, del 20036, affronta il tema di quali siano i pazienti che è eticamente appropriato ammettere in Terapia Intensiva (TI) e di quando, dopo l’ammissione, sia eticamente appropriato desistere da trattamenti sproporzionati per eccesso. Il secondo, del 20067, dà indicazioni su come, anche in TI, la persona morente possa avvalersi di un approccio palliativo e ad essa debba essere sempre garantita una morte dignitosa, una morte cioè priva di sofferenza e nel rispetto dei desideri ultimi della persona stessa. Rispondere alla richiesta di un’ammissione in TI dal Pronto Soccorso o da un reparto di degenza rappresenta infatti una delle decisioni più difficili da assumere per l’Anestesista-Rianimatore (AR), per la scarsità del tempo a disposizione e delle informazioni disponibili, sia in merito alla patologia/e da cui il paziente è affetto che alle sue volontà. La natura delle TI è infatti quella di un insieme di interventi medico-infermieristici attuati per sostituire o inteVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1UO
Anestesia e Rianimazione Ospedale di Belluno 2Dipartimento di Area Critica Medico, Chirurgica Sezione di Anestesiologia e Rianimazione, Università degli Studi di Firenze, Commissione di bioetica SIAARTI
grare le funzioni vitali di un organismo in cui esse si sono temporaneamente interrotte, fino al loro ripristino: non andrebbero pertanto avviate a fronte della ragionevole certezza del loro fallimento né a fronte di un rifiuto libero, informato, specifico, personale, esplicito ed attuale da parte della persona malata. Ma l’impossibilità per l’AR di formulare con ragionevole certezza una prognosi circa l’evoluzione della patologia in seguito al ricorso ai trattamenti intensivi, e quindi la certezza dell’utilità o dell’inutilità dell’ammissione, nonché la difficoltà di conoscere le volontà della persona, sono assai frequenti. Degli oltre 3700 pazienti arruolati in 84 TI nello studio GIVITI sulle modalità del morire nelle TI Italiane, solo il 14% di essi è stato ritenuto in grado di fornire un consenso ai trattamenti intensivi, e solo l’8% dei pazienti lo ha effettivamente fornito8. Spesso inoltre, viene esercitata sull’AR una pressione da parte dei familiari del malato e talora anche dal medico che ne ha richiesto l’intervento affinchè “venga fatto tutto il possibile”, con una richiesta che non tiene in considerazione che l’applicazione dei trattamenti intensivi, per la peculiarità della loro natura e anche di quella dei loro destinatari, cioè i pazienti critici, espone costantemente al rischio di violazione dei principi della bioetica. I trattamenti praticati in TI sono altamente invasivi e comportano il rischio di determinare pesanti effetti collaterali, violando il principio di beneficienza;l’insuccesso può determinare l’insorgenza di condizioni patologiche giudicate dai più come peggiori della morte, quale ad esempio lo Stato Vegetativo Permanente da encefalopatia post-anossica, violando così il principio di non-maleficienza;inoltre, agire su pazienti incoscienti espone al rischio di scavalcarne la capacità di decisione autonoma, violando il principio di autonomia;infine, l’impiego di
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AMMISSIONE IN TERAPIA INTENSIVA: CRITERI E SCENARI
ingenti risorse sanitarie in un caso senza chances di recupero può rivelarsi sproporzionato rispetto ai risultati potenziali e quindi violare il principio di equità nella distribuzione delle risorse. Infatti, l’ammissione in TI di un malato che non può avvalersene rappresenta da una parte un cattivo uso delle preziose risorse che la collettività ci affida e dall’altra il rischio, per un altro malato che potrebbe avvalersene, di non poterlo fare con immediatezza, per assenza di un posto-letto. Il Codice di Deontologia Medica del 2006 pone 4 pilastri alla base della relazione interpersonale e professionale che il medico intraprende con il cittadino: 1. L’informazione al paziente ed il suo consenso consapevole rappresentano il fondamento etico, deontologico e giuridico di ogni azione sanitaria; 2. Il dovere medico di intervenire trova un limite invalicabile nel rifiuto a qualsiasi tipo di cura da parte del paziente, dal trapianto di cuore alla semplice iniezione intramuscolare; 3. Il medico ha il dovere di tenere nella massima considerazione le dichiarazioni anticipate di trattamento di coloro che non sono più in grado di esprimere le proprie volontà; 4. Il medico ha il dovere di ancorare il proprio intervento al grado più alto di evidenze scientifiche disponibili, evitando il cosiddetto “accanimento terapeutico”. Questo termine, da abbandonare per la riconosciuta inoggettivabilità che esprime, può essere inteso come “Prolungamento artificiale della sopravvivenza di una persona malata di cui non sono note le volontà sui trattamenti cui accetta di sottoporsi (in quanto “incapace naturale” o “capace” ma non informata delle sue condizioni), nella consapevolezza che non ci sono speranze di garantirle né una sopravvivenza a medio-lungo termine né una qualità di vita da lei ritenuta accettabile”. Il richiamo al dovere medico di evitare l’ostinazione irragionevole nel prolungare un’agonia senza speranza non deve mai venir meno al momento di fornire una risposta alla richiesta di ammettere un paziente in TI. L’AR deve tener presente che le richieste di trasferimento in TI di malati senza alcuna prospettiva di recupero possono essere motivate da svariate ragioni: le pressioni dei familiari, l’erronea convinzione del curante che limitare i trattamenti configuri la cosiddetta “eutanasia passiva”, la scarsa propensione a motivare ai familiari e a documentare in cartella la decisione di porre un limite ai trattamenti, il timore di contenziosi, ma soprattutto una scarsa cultura della palliazione Conseguentemente, la rinuncia ad ammettere il malato in TI non esime l’AR dal fornire supporto, per quanto di sua competenza, all’avvio di un piano di cure palliative, che deve comprendere anche il farsi carico di motivare al paziente o ai familiari, assieme al curante, le ragioni cliniche ed etiche della non ammissione in TI. L’obiettivo del documento “Raccomandazioni SIAARTI per l’ammissione e la dimissione dalla Terapia Intensiva e per la limitazione dei trattamenti in TI” del 2003 è quello di fornire all’AR un insieme di suggerimenti cui attingere che tengono conto della riflessione etica, delle norme deontologiche e dei riferimenti giuridici, che si ispirano 678
ad analoghi documenti internazionali e si fondano sul consenso di un gruppo multidisciplinare ed interprofessionale di esperti. I suggerimenti contenuti nel documento possono così fornire un supporto per evitare che accedano in TI malati così poco gravi da non averne bisogno oppure malati così drammaticamente ed irreversibilmente compromessi da non avvalersene. Nel documento si afferma che l’ammissione in TI è appropriata se vi sono: • ragionevoli probabilità che lo stato patologico acuto sia reversibile; • ragionevoli probabilità che i benefici della TI siano maggiori dei danni; • un piano di cure condiviso dal paziente. Schematicamente, l’ammissione in TI può essere guidata da una scala di priorità in base al beneficio atteso della TI comprendente 4 classi. Alcuni esempi: • Priorità 1 (massimo beneficio atteso); • stato critico in atto reversibile con necessità di immediato trattamento e monitoraggio possibili solo in TI >>> non limite all’ammissione in TI: – Insufficienze acute o croniche riacutizzate di organi vitali ad eziologia varia. • Priorità 2 (probabile beneficio atteso); • stato critico potenziale con necessità di monitoraggio ed eventuale trattamento possibili solo in TI >>> non limite all’ammissione in TI (in genere): – insufficienze acute o croniche riacutizzate di organi vitali ad eziologia varia; – postoperatori d’urgenza o di elezione, ove non presente una recovery-room. • Priorità 3 (improbabile beneficio atteso); • stato critico in atto con realistica probabilità di evoluzione sfavorevole >>> limite all’ammissione in TI da valutare caso per caso: – età biologica avanzata; – malattia neoplastica complicata; – insufficienze parenchimali croniche avanzate; – chirurgia palliativa; – RCP extraospedaliera; – coma da lesione estesa e irreversibile del SNC. • Priorità 4 (beneficio atteso nullo o minimo); • l’ammissione in TI non è mai appropriata, se non eccezionalmente, nel caso di: – stati non critici (insufficienze vitali lievi con possibile collocazione al di fuori della TI); – stati terminali (lesioni cerebrali estese/non trattabili, neoplasie estese/non trattabili, patologie croniche con insufficienze d’organo terminali non trattabili anche post-RCP, ecc.); – Stato Vegetativo Permanente; – rifiuto di TI (in paziente. mentalmente capace). Si è già detto come l’incertezza per l’AR sull’utilità o meno del ricorso alla TI al momento della richiesta di ammissione di un malato in TI sia molto frequente, e quindi risulta che molte delle richieste di ammissione ricadano nella priorità 3. A tale proposito, il documento
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AMMISSIONE IN TERAPIA INTENSIVA: CRITERI E SCENARI
afferma che in ogni caso di incertezza della prognosi o delle volontà del malato si dovrebbe: – iniziare il trattamento per valutare la risposta clinica e per raccogliere informazioni; – limitare il trattamento in quanto clinicamente inappropriato se non vi è risposta clinica a fronte di un trattamento massimale, se vi è anamnesi positiva per patologie infauste a breve termine o se emerge una volontà contraria da parte del paziente. La limitazione delle TI è eticamente lecita e deontologicamente doverosa quando ha l’unico scopo di non prolungare il processo agonico e ha come conseguenza la morte del paziente a causa della sua malattia;pertanto non si configura come un atto eutanasico, teso cioè a sopprimere intenzionalmente una vita umana. La frequente impossibilità di poter stabilire una relazione col paziente, assieme alla difficoltà di stabilire una prognosi ragionevolmente certa sull’esito del percorso terapeutico intrapreso portano quindi ad un processo decisionale bidirezionale. È noto come gli score di gravità non trovano alcuna applicazione in casi singoli per stabilire un “triage” circa l’ammissibilità in TI. Da una parte, poi, spetta all’equipe curante chiedersi, caso per caso, se il livello di qualità di vita futura conseguibile con il massimo impegno terapeutico è al di sotto o al di sopra della soglia minima di qualità di vita che quel paziente avrebbe considerato dignitosa per sé. A questo proposito, va evidenziato il ruolo importante dei familiari e della rete di prossimità amicale che possono contribuire a questa ricostruzione. Nel caso emerga che la persona malata aveva espresso in modo informato e consapevole il rifiuto a permanere in vita in una condizione per lei priva di dignità, l’ostinarsi in trattamenti che avrebbero con certezza tale esito violerebbe i principi bioetici di non-maleficienza e di autonomia, oltre che il codice di deontologia medica. Dall’altra parte, poiché da un punto di vista etico appare più giustificabile sospendere un trattamento già avviato dopo averne constatato l’inefficacia piuttosto che non intraprenderlo, l’ammissione di un paziente con poche probabilità di avvalersi di trattamenti intensivi può implicare la decisione preliminare di un tentativo “time-limited” (es. 3-4 gg.) o “goal-limited” (es.conseguimento di un obiettivo terapeutico specifico o comparsa di una nuova patologia in degenza), posto che la limitazione dei trattamenti intensivi è un opzione cui è possibile ricorrere una volta constatato il fallimento degli obiettivi terapeutici preliminarmente discussi, condivisi e stabiliti (9). La richiesta di una consulenza rianimatoria dovrebbe in ogni caso osservare dei “tempi” che rendano possibile una seppur minima conoscenza del paziente e della sua condizione, attraverso una segnalazione precoce di quelle situazioni evolutive che ben si sa porteranno ad un’instabilità d’organo e dei parametri vitali e riducendo le consulenze in regime di emergenza-urgenza. La conseguente valutazione di un’eventuale ammissione in TI, indipendentemente dalle situazioni francamente critiche ad immediato scadimento, dovrebbe essere intesa come un vero e proprio “momento anamnestico” utile all’inquadramento dello scenario clinico, alla raccolta delle informazioni biografiche sul paziente e quindi alla definizione Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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della sua migliore cura possibile. Un tempo, quindi, nel quale poter ricostruire il piano assistenziale e le scelte terapeutiche intraprese dall’èquipe curante che fino a quel momento ha avuto in carico il paziente, al fine di stabilire il “best interest” per quel paziente nella fase di cura attuale e per il futuro. Troppo spesso, infatti, l’attivazione dell’AR si identifica con un demandare ad un gradino a più elevata intensità assistenziale la gestione delle criticità cliniche, ma soprattutto etico-decisionali. L’assistenza di un paziente ospedalizzato, d’altra parte, non può esimersi dalla creazione di percorsi ragionati, pianificati e condivisi tra le varie figure curanti, ed in particolar modo tra il medico che ha in cura il paziente (medico PS, medico degenza) ed il consulente attivato (AR), il quale “ormai” non potrà più prescindere dal trovare una risposta alle richieste della struttura richiedente. Indipendentemente dalle competenze specialistiche di ciascun professionista, la decisione di ammettere o non ammettere un paziente in TI dovrebbe essere la risultante di una valutazione collegiale;come può esistere una relazione tra medico, paziente e familiari o una qualche forma di “agire etico”, se non attraverso confronto fattivo tra colleghi? Va tenuto, infine, presente che quanto più il percorso decisionale circa l’appropriatezza etica e clinica di una ammissione in TI è complesso e contraddistinto da incertezza, tanto più esso dovrà, se possibile, essere accompagnato dalla ricerca di una eventuale “second opinion” da parte di un altro AR in grado di fornire supporto alla decisione stessa, alle sue motivazioni ed alla documentazione di quanto avvenuto. La natura delle “Raccomandazioni SIAARTI per l’ammissione e la dimissione dalla TI e per la limitazione dei trattamenti in TI” è quella di un documento basato non su evidenze scientifiche ma sul consenso di esperti, anche se approvato dal CD SIAARTI. Ciò rende quanto mai necessario che nella sua applicazione il clinico debba porre particolare cura nel temperare 4 aspetti: l’oggettività delle evidenze (in questo caso fondate su principi, norme, pronunciamenti giuridici, documenti di società scientifiche di altri paesi, ecc), la specificità di ogni condizione clinica, la soggettività di ciascun malato e l’autonomia di ciascun medico che può decidere, per adeguate motivazioni, di discostarsi dalle raccomandazioni stesse. Infine, allorquando esista una politica di reparto, dipartimento o ospedale, sul tema delle ammissioni in TI o della gestione del fine vita (10), sarebbe quanto mai opportuno che essa venisse sia divulgata che sottoposta al vaglio di associazioni di pazienti ed utenti, del Comitato Etico per la pratica clinica, per far crescere la fiducia non solo nelle potenzialità tecniche della medicina intensiva ma anche nei contenuti etici che essa può esprimere. Bibliografia 1. Mazzon D et al. L’approccio bioetico in Anestesia e Rianimazione: una nuova risorsa per questioni emergenti. Minerva Anestesiol 1999;65:1-5. 2. Mazzon D et al. La dichiarazione di avvenuta informazione e consenso all’Anestesia. Minerva Anestesiol 2000;66/7-8: 565-9. 3. Mazzon D et al. Aspetti critici della comunicazione in Terapia Intensiva. . Minerva Anestesiol 2001;67:818-26. 4. Mazzon D et al. Per una lettura bioetica delle Terapie Intensive. Minerva Anestesiol 2000;66:829-8.
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AMMISSIONE IN TERAPIA INTENSIVA: CRITERI E SCENARI
5. Valmassoi G, Mazzon D: Informazione e consenso all’ato medico: recenti orientamenti della giurisprudenza. Minerva Anestesiol 2005;71:659-70. 6. Raccomandazioni SIAARTI per l’ammissione e la dimissione dalla Terapia Intensiva e per la limitazione dei trattamenti in TI. Minerva Anestesiol 2003;69,3:101-18. 7. Le cure di fine vita e l’Anestesista-Rianimatore: raccomandazioni S.I.A.A.R.T.I. per l’approccio al malato morente.
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Minerva Anestesiol 2006;72;927-63. 8. Bertolini G. et al. End-of-life decision-making and quality of ICU performance: an observational study in 84 Italian units. Int Care Med 2010, 36:1495-1500. 9. Gristina GR et al. End of life care in Italian ICU: where are we now? Minerva Anestesiol 2011;77:1-10. 10. Zamperetti N et al. End of life in the Intensive Care Unit: Minerva Anestesiol 2010;76:541-7.
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Le tecniche locoregionali L. BERTINI
Molti studi, anche recenti, dimostrano che sia i medici che gli infermieri deputati all’emergenza, tendono a sottovalutare il trattamento del dolore nei pazienti traumatizzati. Questo fenomeno è stato definito come “oligo analgesia”, è diffuso in tutto il mondo. Le cause sono legate alla disparità tra la percezione del dolore del paziente e di chi lo ha in cura ed alla diversa importanza che viene data alla diagnostica ed alla causa della patologia in atto. Altri problemi sono legati alla scarsa conoscenza dei meccanismi del dolore e del suo trattamento ed alla ridotta familiarità con oppiacei e tecniche analgesiche. In molti studi è stato dimostrato che il mancato trattamento del dolore può contribuire al peggioramento dello stato clinico del paziente interferendo con la respirazione, la stabilità emodinamica, la funzione gastrointestinale. In emergenza, anche al di fuori della rete ospedaliera è possibile iniziare un trattamento analgesico mediante blocchi periferici che possono essere in grado di ridurre significativamente il livello di dolore senza interferire con la stabilità emodinamica e le altre funzioni vitali del paziente. Particolarmente utili e di facile applicazione sono il blocchi tronculari sia dell’arto superiore che di quello inferio-
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UOC Terapia del Dolore e Anestesia, Presidio Integrato S. Caterina della Rosa ASL RMC, Roma
re, che possono permettere di raggiungere un buon controllo del dolore con pochi milligrammi di anestetico locale. In letteratura sono già stati descritti diversi approcci del blocco dell’arto superiore con il blocco del plesso brachiale per via ascellare o più prossimale, eseguiti anche durante il trasporto in elicottero. Il blocco del nervo femorale eseguito a livello inguinale può ridurre anche di molto il dolore di una frattura diafisaria o condiloidea del femore e permettere un più agevole trasporto del paziente all’ospedale di riferimento. Il nervo sciati, più difficile da bloccare può essere raggiunto livello dei rami più periferici nel trattamento del dolore da fratture distali al ginocchio. Per fare questo, ovviamente è necessario disporre di personale medico adeguatamente formato, in grado di poter eseguire queste procedure in sicurezza e con efficacia.
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I diversi setting dell’emergenza : il 118 e il trasporto F. BUSSANI
Il sistema a rete dell’emergenza sanitaria è articolato in un sistema di allarme sanitario ed in un sistema territoriale di soccorso. L’allarme sanitario fa riferimento alla attività propria della Centrale Operativa 118 nelle sue varie fase di recepimento della chiamata, sua processazione e istruzioni prearrivo ( dispatch life support), scelta ed invio del team più appropriato, mentre il sistema territoriale di soccorso si rapporta a seconda delle necessità espresse ed emerse con una rete di servizi e di presidi ospedalieri, funzionalmente differenziati e gerarchicamente organizzati, che si articolano su vari livelli di operatività (punti di primo intervento;pronto soccorso ospedaliero;DEA di I livello;DEA di II livello) normati dall’Atto di intesa Stato Regioni n 1 del 1996. Nella attività primaria del 118 una particolare attenzione non può che essere quindi posta alla fase del trasporto sia primario che secondario nel corso dei quali deve essere garantito e mantenuto il monitoraggio e il mantenimento delle funzioni vitali. Vengono presentate e discusse le problematiche proprie del trasporto: – preospedaliero che iniziando nel momento del soccorso sul territorio termina al momento della consegna del paziente al personale del primo ospedale ricevente e/o di quello in Bypass inteso come trasporto intenzionale d’un paziente da uno scenario extraospedaliero verso un ospedale specifico, non necessariamente l’ospedale più vicino, basato sui bisogni medici del paziente stesso e modulato dalla rete hub&spoke delle patologie; – intraospedaliero: che interessa, anche in emergenza, gli
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SIS 118 (Società Italiana Sistema 118), Azienda Ospedaliera di Perugia
spostamenti all’interno dell’ospedale stesso per raggiungere reparti di diagnostica o di terapia specialistica; – interospedaliero: che prevedendo la necessità di un trasferimento, sotto il diretto controllo sanitario, da un ospedale verso un altro ospedale si diversifica in trasporto interospedaliero di emergenza in continuità di soccorso per afferenze di pazienti in condizioni critiche verso strutture non disponibili nella realtà ospedaliera che per prima lo ha accolto e non in continuità di soccorso per trasferimenti di pazienti che, stabilizzati e già ricoverati, necessitano di ambiente specialistico per il completamento delle cure. Si fa riferimento inoltre alle indicazioni al trasporto e ai rischi correlati nella loro gestione relativamente alla raccomandazione n. 11, gennaio 2010 del Ministero della Sanità “Morte o grave danno conseguenti ad un malfunzionamento del sistema di trasporto (intraospedaliero, extraospedaliero)”, alla appropriatezza del trasferimento nonchè alle norme medico legali che lo devono regolare ed al ruolo di quanti coinvolti (medico che trasferisce, che effettua e che accetta il trasporto) anche in relazione alle problematiche fisio-patologiche proprie dei singoli vettori siano essi su gomma che su pala.
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L’idratazione nel primo soccorso e durante la terapia ricompressiva degli incidenti da decompressione G. DE IACO1, F. GIUSTI2, F. GHELARDONI2
Nello sviluppo e l’esito di un Incidente decompressivo (DCI), un ruolo importante ha lo stato di idratazione dell’infortunato. Con l’immersione subacquea si ha da parte dell’organismo una perdita di liquidi, sia attraverso la respirazione di gas secchi, sia attraverso l’intervento del Diving reflex e del Blood shift. Se a questo si aggiunge la sudorazione per lo stress fisico e a volte il freddo, ci troviamo di fronte ad un organismo naturalmente in debito di liquidi ed emoconcentrato. L’idratazione diventa un presidio fisiologico e terapeutico nei confronti della possibilità dell’insorgenza di un DCI. L’omeostasi idrico elettrolitica deve essere garantita prima dell’effettuazione dell’immersione. Dopo l’immersione e di fronte all’insorgenza di un DCI occorre eliminare il deficit idrico ricorrendo o alla somministrazione orale di liquidi o alla somministrazione per via endovenosa in modo da garantire una migliore fluidità plasmatica. La somministrazione per via endovenosa si avvale dell’infusione di soluzioni cristalloidi ed in seconda istanza di soluzioni colloidali indicate dalle varie Conferenze di Consenso Europee sulla Medicina Iperbarica. Parole chiave Incidente da decompressione(DCI), idratazione, disidratazione, emoconcentrazione Lo stress decompressivo, dopo immersione con autorespiratore ad ARIA e/o con miscele, porta all’ingrandimento delle microbolle di inerte preesistenti nell’organismo e all’aggregazione di ulteriori bolle nel sangue. L’interazione di queste con l’endotelio vascolare, in caso di alterazione della curva decompressiva, può diventare un evento non più fisiologico ma abnorme con sviluppo di un incidente da decompressione(DCI). Spesso sintomi in DCI sono stati correlati all’emoconcentrazione ed alla riduzione del volume intravascolare, con alterazione della perfusione tissutale, condizione fisiopatologica questa che necessita, nella fase terapeutica (ricompressiva in camera iperbarica) della somministrazione controllata di fluidi. Per questo è sempre raccomandabile una buona idratazione nella pratica della attività subacquea.. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
1Master
II Livello in Medicina subacquea ed Iperbarica, Scuola Superiore S. Anna, Pisa 2Centro di Medicina Iperbarica, Azienda Ospedaliero Universitaria, Pisa,
Perdita giornaliera di acqua Normalmente ad una temperatura ambiente intorno ai 20°C, rispetto ai 2400 ml di acqua in entrata, fra quella esogena assunta con le bevande e gli alimenti e quella endogena sintetizzata dall’organismo, sono eliminati circa 1400 ml con le urine, 100 ml con il sudore e 200 ml con le feci. Il resto, pari a circa 700 ml, è eliminato attraverso la perspiratio insensibilis. Perspiratio insensibilis La perspiratio insensibilis così detta poiché avviene senza che il soggetto ne sia consapevole se ne accorga e si riferisce alla perdita di acqua che avviene per diffusione attraverso la cute e per evaporazione attraverso i polmoni. L’acqua, persa per diffusione attraverso la cute, ammonta in media all’incirca a 300-400 ml al giorno e si perde attraverso le cellule del rivestimento cutaneo. Lo strato corneo, ricco di colesterolo, impedisce che l’organismo possa avere una perdita idrica elevata. Infatti negli ustionati gravi , per la perdita dello strato corneo, la quantità di acqua persa può arrivare fino a 3-5 litri /die. L’aria nell’apparato respiratorio è satura di vapore acqueo ad una tensione di circa 47 mmHg. Poiché la tensione di vapore acqueo dell’aria atmosferica è di solito minore, nell’espirazione attraverso i polmoni è perduta una quantità di acqua pari a circa 300-400 ml al giorno. Nel meccanismo dell’assunzione e della perdita di acqua attraverso le vie respiratorie, un ruolo importante hanno le cavità nasali per la loro capacità di umidificare l’aria inspirata. Infatti l’aria che passa attraverso l’ampia superficie dei turbinati oltre ad essere filtrata è riscaldata alla temperatura corporea con un’approssimazione del 2-3%, ed umidificata fino ad una quasi completa saturazione. Quando una persona respira invece direttamente dalla bocca o dalla trachea si ha un effetto prosciugante sulle prime vie
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respiratorie e sui polmoni. Analogamente, nell’immersione subacquea con autorespiratore ad aria o a miscele, si avverte la stessa sensazione di secchezza, poiché respirando attraverso il boccaglio dell’erogatore, viene a mancare il riscaldamento e l’umidificazione ad opera dei turbinati.. Perdita di acqua per esposizione al caldo e durante l’attività fisica In ambiente molto caldo la perdita di acqua aumenta con la sudorazione, potendo giungere fino a valori di 3,5 litri in un ora con una rapida deplezione dei liquidi corporei. Con l’attività fisica si ha un aumento della perdita di acqua per l’aumento della ventilazione polmonare e perché l’attività fisica provoca un aumento del calore corporeo e quindi della sudorazione. La regolazione del complessivo patrimonio idrico dipende dal sistema osmocettore-ormone antidiuretico che vede l’intervento dell’ipotalamo, dell’ipofisi posteriore, dell’ormone antidiuretico (ADH) e dei tubuli renali. Questo sistema è sensibile al livello di osmolarità dei liquidi extracellulari. Un aumento dell’osmolarità dei liquidi extracellulari eccita gli osmocettori localizzati nei nuclei sopraottici che reagiscono alle variazioni della concentrazione osmotica del liquido extracellulare. Gli impulsi originati dagli osmocettori vengono trasmessi dai nuclei sopraottici attraverso il peduncolo ipofisario, al lobo posteriore della ipofisi dove promuovono la liberazione dell’ormone antidiuretico (ADH). Quanto più alta è l’osmolarità , tanto più elevata sarà la secrezione di ADH(si ha minore diuresi), quanto più bassa è l’osmolarità tanto minore sarà la secrezione dell’ormone con aumento della diuresi. Un aumento dell’osmolarità dei liquidi extracellulari eccita gli osmocettori e la secrezione di ADH, determinando un forte riassorbimento di acqua da parte dei tubuli renali, mentre i soluti continuano ad essere eliminati con l’urina. Al contrario la diminuzione dell’osmolarità dei liquidi extracellulari riduce l’attività degli osmocettori per cui diminuisce la secrezione di ADH con conseguente perdita di forti quantità di acqua fino a quando l’osmolarità del liquido extracellulare non sia tornata normale. L’ingestione di una notevole quantità di acqua in breve tempo è seguita, dopo circa 30’(tempo necessario non solo al suo assorbimento ma anche alla rimozione della quantità di ADH secreto dall’ipofisi prima dell’ingestione dell’acqua), da una diuresi notevolmente aumentata, fino al ristabilimento della normale osmolarità del liquido extracellulare. Un altro meccanismo fisiologico che interviene nella regolazione volumetrica dei liquidi extracellulari e plasmatici è quello determinato dal sistema dei recettori di bassa pressione (o recettori di volume) localizzati nelle vene , nei vasi polmonari e nelle pareti del cuore, il cui compito è quello di rilevare direttamente le variazioni di volume del sangue. Ai fini della regolazione dei liquidi nell’organismo di rilievo è il Peptide natriuretico atriale (ANP), ormone di origine peptidica prodotto da particolari miociti presenti nell’auricola dell’atrio destro. È conosciuto anche come fattore natriuretico atriale (ANF), o come ormone natriuretico atriale (ANH) o atriopeptina. Questo ormone, coinvolto nel controllo omeostatico di acqua, sodio e potassio, è rilasciato in seguito ad un eccessivo aumento 686
del volume ematico ed agisce a livello renale per ridurre l’acqua e il sodio nel quella sistema circolatorio abbassando conseguentemente la pressione sistemica. A livello renale dilata l’arteriola glomerulare afferente e contrae quella efferente. La diminuita resistenza delle arteriole afferenti causa il rialzo della pressione capillare nel glomerulo, incrementando la velocità della filtrazione glomerulare (VFG) e causando una maggiore escrezione di sodio e di acqua, con il risultato di aumentare il filtrato nei tubuli renali, mentre la diminuzione dell’ormone antidiuretico(ADH) riduce il riassorbimento dell’acqua dai tubuli. La combinazione di questi due effetti provoca una rapida perdita di liquido con le urine con il riequilibrio del volume ematico. Questi ormoni, con meccanismi di controllo a feedback, sono stimolati durante l’immersione in acqua sia in apnea, sia con autorespiratore ad aria e/o a miscele, dal diving reflex) e dal blood shift, causando perdita di liquidi che dovranno essere rimpiazzati una volta terminata l’immersione ancor più se questa si è conclusa con un evento patologico (DCI). Il diving reflex è un insieme di reazioni a carico del sistema cardiovascolare e respiratorio che si manifestano al momento dell’immersione del volto nell’acqua e che provocano, riduzione del battito cardiaco, vasocostrizione periferica e centralizzazione del sangue verso gli organi principali (cuore, polmone e cervello), aumento medio della pressione arteriosa. L’entità di questo riflesso è inversamente proporzionale alla temperatura dell’acqua: più questa è fredda più le reazioni sono accentuate. La vasocostrizione periferica e la centralizzazione del circolo porta ad un aumento del ritorno venoso nell’atrio con stimolazione dei recettori atriali, produzione dell’ANP e riduzione dell’ADH. Si ha cosi una notevole stimolazione della diuresi con perdita di Sodio e Potassio. Il blood shift: è una reazione che si manifesta , anche se con intensità diversa, in tutte le condizioni di immersione e che trova la sua massima espressione nell’immersione in apnea. Già con la parziale immersione del corpo fino al collo, per effetto della differenza tra la pressione idrostatica agente sulla parte immersa e la pressione atmosferica agente sulla parte emersa, si ha vasocostrizione agli arti inferiori e spostamento della massa sanguigna verso i polmoni ed il cuore;effetto fisiologico che si può avere anche con l’immersione del corpo fino al collo in acqua a temperatura di 30 °C. L’aumento del ritorno venoso nell’atrio destro e nei vasi polmonari determina la stimolazione dei recettori di volume e la produzione del peptide natriuretico (ANP), mentre l’aumento del flusso ematico a livello ipotalamo-ipofisario provocherà il blocco dell’escrezione dell’ADH ed il potenziamento della diuresi con perdita di Sodio e Potassio. Se a questi meccanismi si aggiunge la vasocostrizione da freddo, spesso dovuta alla minore temperatura dell’acqua rispetto all’esterno, la perdita di vapore acqueo per la respirazione di aria secca e fredda tramite l’erogatore e la sudorazione per l’attività fisica svolta, si vede come con l’immersione con autorespiratore l’organismo tende a disidratarsi. Poiché tali perdite non possono essere rimpiazzate durante l’immersione, per garantire l’omeostasi dei liquidi intracellulari ed intravascolari e mantenere quindi costante il contenuto idrico dell’organismo è necessario che il bilancio fra le entrate e le uscite di
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L’IDRATAZIONE NEL PRIMO SOCCORSO E DURANTE LA TERAPIA RICOMPRESSIVA DEGLI INCIDENTI DA DECOMPRESSIONE
acqua sia in pareggio tramite l’assunzione di liquidi prima dell’immersione. L’assunzione di liquidi deve essere però effettuata in maniera graduale, considerando che si dovrebbe assumere almeno un litro e mezzo di acqua al giorno. L’assunzione rapida di notevoli quantità di acqua libera 30 minuti prima dell’immersione non fa altro che stimolare la diuresi e non influisce sull’emoconcentrazione. Se si prevede che lo sforzo fisico possa essere prolungato, la sola assunzione di acqua potrà non essere sufficiente e pertanto sarà opportuno aggiungere alle bevande una modesta quantità di carboidrati e sali quali Sodio e Potassio. La quantità di carboidrati nelle bevande non deve essere superiore all’8% onde evitare di aumentarne l’osmolarità.. Questa minima percentuale è però necessaria per fornire glucosio all’organismo e risparmiare le riserve di glicogeno epatico e muscolare durante lo sforzo fisico. La somministrazione dei fluidi in presenza di un incidente da decompressione (DCI) Nello sviluppo e nella evoluzione di un DCI, un ruolo importante riveste l’equilibrio idrico elettrolitico, l’emoconcentrazione e l’aumento dell’ematocrito. Lo sviluppo di un DCI interviene in un organismo in cui tale equilibrio è stato alterato dall’insieme delle risposte fisiologiche all’immersione (Blood shift e Diving reflex) che si sommano a quelle dovute allo stress decompressivo. In una osservazione fatta su sub colpiti da un DCI ed in cui erano residuati dei deficit neurologici, è stata dimostrata la presenza di valori alti dell’ematocrito e se ne è dedotto che un valore dell’ ematocrito superiore al 48% si correlava in modo significativo alla comparsa delle sequele. Infatti, negli infortunati con un tale valore l’incidenza delle sequele era stata del 53% mentre con un valore più basso le sequele si riducevano al 13%. Nell’Incidente Decompressivo di grave entità, specialmente nelle forme con interessamento neurologico, si ha trasudazione capillare plasmatica nei territori coinvolti ed un ipovolemia relativa da vasoplegia. Se però un valore di ematocrito elevato è una caratteristica che spesso si accompagna alle forme gravi di Patologie da decompressione, la presenza di un valore nella norma non ne esclude l’insorgenza. Per questo motivo nelle linee guida del trattamento di un DCI, assieme alla somministrazione dell’Ossigeno normobarico, un ruolo importante riveste la somministrazione di liquidi, che deve essere adottata sia con il primo soccorso sia durante il trattamento ricompressivo in camera iperbarica per garantire la stabilità emodinamica, contrastare l’emoconcentrazione e migliorare il flusso nel microcircolo. Infatti nella VII°n Conferenza di Consenso sulla Medicina Iperbarica di Lille del 2004, la somministrazione di fluidi è considerata dalla ECHM fra le misure da adottare per il trattamento dei DCI come raccomandazione di tipo 2 e di livello C. Valutazione clinica dello stato di disidratazione sul luogo dell’incidente ed al Pronto Soccorso Nell’infortunato valutare: la sensazione di sete, la sensazione di “secchezza”delle vie aeree, lo stato della cute, delle mucose e la eventuale presenza di vasocostrizione, la contrazione della diuresi e, nelle forme neurologiche, la Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
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presenza di globo vescicale. Valutare le controindicazioni assolute alla reidratazione orale (raccomandazione di tipo 1): la presenza di nausea e/o vomito, lo stato di obnubilamento del sensorio, la presenza di ipertermia e di sospette lesioni gastrointestinali. La necessità di somministrare i liquidi è finalizzata non solo a neutralizzare la disidratazione, combattere l’emoconcentrazione e favorire il microcircolo, ma anche a mettere in evidenza l’eventuale presenza di una vescica neurologica che potrebbe essere misconosciuta per la mancanza di produzione di urina. Vie di somministrazione dei liquidi: via orale e via parenterale. La via endovenosa è quella che da migliori risultati. Bisogna però considerare che il primo soccorso sul posto dell’infortunio non sempre può essere effettuato da personale sanitario specializzato, pertanto la via orale, a meno che non vi siano delle controindicazioni (raccomandazione di tipo 1) è quella più razionalmente praticabile. Reidratazione orale: è possibile far assumere all’infortunato cosciente, che dovrebbe farlo da solo, un introito di 1000-1500 cc di liquidi all’ora. In conclusione, la reidratazione orale è utile in casi selezionati ed è un utile misura di primo soccorso ma poiché deve essere associata alla respirazione di Ossigeno, occorrerà che queste due misure non si ostacolino a vicenda. Reidratazione per via parenterale (raccomandazione di tipo 3): va praticata previa preparazione di una via venosa stabile (gauge 18 catheter) in modo da garantire l’infusione anche durante il trasporto e la permanenza in camera iperbarica. Le migliori soluzioni adoperabili sono i cristalloidi(Ringer Lattato, Fisiologica) che passano liberamente attraverso le membrane, mentre solo il 25% del volume infuso rimane nello spazio intravascolare. Il volume infuso dovrà essere di almeno 1500 cc all’ora, monitorando la diuresi che dovrà essere maggiore di 50 ml/h;nel caso di paralisi vescicale (vescica neurologica), occorrerà cateterizzare l’infortunato. Il Ringer Lattato è una soluzione isotonica con il sangue, contiene lattato di sodio, ha un pH pari a 6,5, ma si comporta come una soluzione alcalinizzante;può infatti correggere un lieve stato acidosico (nel fegato i sottoprodotti del metabolismo del lattato sono in grado infatti di contrastare l’acidosi). In ambito rianimatorio la quantità che viene somministrata è pari a 20-30 ml/kg di peso corporeo/ora. La soluzione di R.L. non è adatta per una terapia di mantenimento perché ha un contenuto di sodio(130mEq/l) considerato troppo elevato ed all’opposto un contenuto di potassio troppo basso(4 mEq/l). La Soluzione Fisiologica o Soluzione Salina, contenente lo 0,9%p/v di NaCl(circa 9 g/l), è chiamata “isotonica” anche se il suo livello di osmolarità, circa 300 mOsm/l, è leggermente più elevato rispetto al sangue, ma è comunque la soluzione salina più usabile per via e.v. per chi non è in grado di assumere acqua per via orale. Passata la fase acuta, anche questa soluzione salina dovrà essere sostituita da altre soluzioni per il mantenimento dell’omeostasi idroelettrolitica, poiché una quantità abbondante di questa soluzione salina può provocare un’acidosi iponatriemica ed ipercloremica senza ottenere un’espansione volemica efficace. Se per ottenere una ricomposizione volemica si rendono necessarie grandi quantità di fluidi, sono raccomandati i Colloidi, in ordine di preferenza (raccomandazione di tipo 3), 1° solu-
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DE IACO
L’IDRATAZIONE NEL PRIMO SOCCORSO E DURANTE LA TERAPIA RICOMPRESSIVA DEGLI INCIDENTI DA DECOMPRESSIONE
zioni contenenti amidi, 2° gelatine, 3° soluzioni contenenti destrani . Soluzioni colloidali contenenti amidi. Forma commerciale Amido idrossietilico 130/0.4 (Voluven) La farmacocinetica di questo colloide amidico, derivato dell’amilopectina, dipende dal peso molecolare;le molecole più piccole della soglia renale (60.000-70.000). Da sono escrete velocemente con le urine, mentre quelle di dimensioni maggiori sono metabolizzate dall’amilasi plasmatica, prima che i prodotti di degradazione possano essere escreti per via renale. I primi 10-20 ml devono essere infusi lentamente a causa di possibili reazioni anafilattoidi e comunque l’infusione provoca inizialmente prurito. La velocità di infusione dipende dalla necessità di ricostituire più o meno rapidamente la volemia. La dose massima giornaliera è di 50 ml di Voluven per kg. di peso corporeo. Nella pratica rianimatoria si cerca di non arrivare a dosaggi elevati perché, con il sovraccarico idrico, si possono avere effetti marcati di diluizione di componenti ematici quali: i fattori della coagulazione, una diminuzione delle proteine plasmatiche e una diminuzione dell’ematocrito. Effetto quest’ultimo che in realtà si vuole ottenere in un DCI con sequele neurologiche. Una conseguenza costante della infusione di Amido idrossietilico è l’aumento dell’amilasi sierica. Un sovraccarico idrico da sovradosaggio deve essere evitato in infortunati con insufficienza cardiaca ed alterazione della funzionalità renale. Soluzioni colloidali contenenti gelatine - Forma commerciale Emagel - Sono soluzioni di polipeptidi prodotti dalla degradazione del collagene bovino. Il tempo di permanenza nel compartimento intravascolare è di 2/3 ore, il più breve delle sostanze prese in esame, a parità di quantità infusa hanno un minore effetto volume rispetto agli altri plasma expander, non influiscono sui parametri emocoagulativi, hanno un rapido passaggio nello spazio interstiziale. A volte sono state rilevate reazioni allergiche. Per la loro derivazione animale possono non essere accettate da infortunati vegetariani che possono rifiutare il consenso alla loro somministrazione. L’Emagel ha un pH = 7 ed una viscosità simile a quella del plasma. La pressione colloidosmotica al 3% di Emagel è isotonica con quella del plasma, mentre quella al 3,5% è leggermente iperoncotica e se si infonde rapidamente viene eliminato completamente con le urine. I Destrani(dextranes) - soluzioni colloidali polimeri del glucosioForme commerciali Destrano 40 al 10% e Destrano 70 al 6%. Sono soluzioni che si distribuiscono prevalentemente nel compartimento intravascolare, sono eliminate per via renale ed hanno proprietà reologiche: diminuiscono la viscosità ematica, l’interazione leucociti attivatiendotelio, l’ischemia da riperfusione, diminuiscono l’aggregazione piastrinica ed interferiscono sulla coagulazione abbassando i livelli del fibrinogeno e degli altri fattori
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della coagulazione. Possono provocare anafilassi in misura maggiore degli amidi e delle gelatine. A distanza di 12 ore dalla somministrazione è presente il 30-40% del destrano 40 infuso e il 60-70% del destrano 70. Il destrano 70 aumenta il volume plasmatico del 100% mentre il destrano 40 lo aumenta del 200%. Le soluzioni glucosate ipotoniche- Soluzione glucosata al 5% (vietate in DCI) Queste si comportano come acqua libera , si distribuiscono in tutti i compartimenti organici e dopo 30’ solo il 10% del volume infuso rimane in circolo. Fra gli effetti indesiderati si deve tener presente l’aumento della produzione di lattati e la possibilità di aggravare le lesioni ischemiche anossiche a carico delle cellule nervose. Tali effetti indesiderati, combinati con la mancanza di beneficio sulla volemia, controindicano l’uso di soluzioni glucosate ipotoniche nel paziente critico e vietate in DCI (Raccomandazione di tipo 1). Conclusione Nell’infortunato colpito da DCI è necessaria la reintegrazione idrica ma se vi è controindicazione alla somministrazione per via orale. È preferibile iniziare sempre con i cristalloidi ed in particolare con il Ringer Lattato, essendo questo più gestibile in assenza di un monitoraggio dei valori ematochimici;mentre, in presenza di una instabiltà emodinamica occorre saper dosare l’infusione e il tipo di fluidi da infondere, passando alla somministrazione dei colloidi, in ambiente protetto e sotto stretto controllo clinico, per evitare il sovraccarico del circolo e l’edema polmonare. Bibliografia 1. Alfred A. Bove, Carroll Jefferson Davis: Bove and Davis’ –Diving Medicine -4a edizion, Saunders. Elsevier Health Sciences, 2004. 2. Bennett and Elliots’. Physiology and Medicine of Diving. Alf Brubakk, Tom Neuman-5/e. 3. Boussuges A, Blanc P, Molenat F, Bergman E, Saint JM. Haemoconcentration in neurological decompression illness. Int J Sports Med 19976;17:351-5. 4. Bruzzone P, Chiumello D, Altavilla P, Saia G, Scopacasa F, Gattinoni L. Il bilancio idrico nel paziente di terapia intensiva. Minerva Anestesiologica 2004/5:431-6. 5. Guyton Arthur C. Textbook of Medical Physiology (8th ed.). Philadelphia: W.B. Saunders, 1991. 6. Mathieu D. 7 th European Consensus Conference on Hyperbaric Medicine, 2004. 7. David J. Miller. Anesthesia 6th ed. Pag 1787. 8. Moon R et al. Tthe spums policy on the initial management of Diving Injuries and Illnesses. Supplemento to SPUMS Journal September 1998;28:30-5. 9. Moon R. Adjuvant Therapy for decompression illness. Supplement to SPUMS Journal 1998;28:144-9. 10. Schipke JD, Pelzer M. Effect of immersion, submersion, and scuba diving on heart rate variability. Br J Sports Med. 2001;35.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):689
Il dolore da procedure R. OGGIONI
Il dolore da procedura nell’adulto è poco documentato in letteratura e vi sono scarse indicazioni pratiche per gli operatori sanitari su come valutarlo e trattarlo. Molte procedure terapeutiche attuate in emergenza quali il cateterismo vescicale, l’inserzione e rimozione dei drenaggi toracici, l’esplorazione delle ferite, il posizionamento di cateteri venosi centrali, la broncoaspirazione, il posizionamento, la mobilizzazione ecc causano dolore, ansia e disconfort al paziente e spesso non sono né tenute in considerazione né adeguatamente trattate. Il controllo ed il trattamento del dolore procedurale richiede infatti un attenta valutazione e pianificazione;esistono molti strumenti per valutare il dolore ma i più appropriati nell’adulto sono quelli più semplici e facili da usare. La storia clinica del paziente, così come l’eventuale ipersensibilità o allergie a farmaci specifici, rappresenta un fattore importante per il decision-making terapeutico prima, durante e dopo. Conoscere per esempio come il paziente in passato per procedure analoghe ha reagito al dolore e quali interventi sono stati i più efficaci, può essere di aiuto per gli operatori sanitari. L’educazione, l’informazione, il coinvolgimento del paziente nel trattamento antalgico possono contribuire in modo importante a ridurre l’ansia o la paura. Anche interventi psicologici quali rilassamento, musicoterapica, arteterapia ed interventi fisici quali misure per migliorare il confort, riposo ed immobilizzazione, TENS, massaggio ecc possono in alcuni casi avere effetti positivi. Le tecniche farmacologiche invece dovrebbero prevedere l’utilizzo di analgesici ad azione rapida ed a breve durata rappresentano gli strumenti terapeutici più indicati per gestire il dolore procedurale. Gli oppioidi (fentanil, remifentanil, morfi-
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S.C. Anestesia e Rianimazione, Ospedale del Mugello Azienda Sanitaria di Firenze
na) ed i Fans (ketorolac ecc) sono i farmaci principali da utilizzare nel dolore procedurale;gli oppioidi hanno comuni effetti collaterali quali sedazione, prurito, nausea ed a dosaggi più alti ipersedazione e depressione respiratoria;i pazienti devono essere informati di questi effetti collaterali prima della somministrazione degli stessi. I farmaci sedativi (benzodiazepine, propofol) possono esser utilizzati in aggiunta agli analgesici per ridurre l’ansia, l’agitazione, la paura correlate alla procedura e per garantire l’amnesia;tuttavia i sedativi non vanno impiegati da soli poiché non possiedono attività analgesica. Quando sono utilizzati insieme agli analgesici possono potenziare la sedazione e gli effetti depressivi sulla respirazione ed è necessario quindi che i pazienti siano controllati e monitorizzati in un ambiente protetto. Per concludere, il dolore da procedura merita molta più attenzione e sensibilizzazione da parte degli operatori sanitari di quanta ne ha avuta finora;spesso il sovraffollamento dei Pronti Soccorso/DEA o il carico di lavoro nelle Terapie intensive fa sì che troppo spesso si posizionino devices invasivi o si pratichino manovre di nursing, senza tenere in considerazione quanto queste possino quasi sempre provocare disconfort, dolore, ansia, terrore nel paziente e senza quindi pianificare in anticipo una strategia terapeutica adeguata e/o efficace.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):691-2
La legge 38/2010 sulla terapia del dolore e sulle cure palliative. Le linee guida su emergenze e dolore G. SAVOIA
Già nella normativa sull’ospedale senza dolore del 20011 veniva propugnata la costituzione in ogni ospedale di un COSD (comitato ospedale senza dolore), finalizzato alla implementazione del trattamento del dolore postoperatorio, identificando e predisponendo gli strumenti di rilevazione del dolore da inserire in cartella clinica, nonché prevedendo un percorso a steps successivi (fase preliminare, fase formativa , fase informativa, fase di prima applicazione e fase applicativa ordinaria). Partendo dal miglioramento del controllo del dolore postoperatorio, l’ambizione del progetto si allargava al controllo del dolore in ogni dove dell’ospedale, coinvolgendo sostanzialmente tutti i reparti medici e chirurgici dell’ospedale. La legge 38/2010 sul trattamento del dolore e delle cure palliative ha proposto la formula ospedale-territorio senza dolore2, stante la necessità di garantire un percorso di continuità diagnostico terapeutica tra medicina di base, medicina territoriale e terapisti del dolore ospedalieri. Paradigma di questo percorso è proprio la necessità di proporre raccomandazioni pluridisciplinari e pluriprofessionali su dolore ed emergenze, percorso che numerose società scientifiche (Siaarti, Simeu, IRC, SIS 118, Siared, Aisd e SICUT) hanno condiviso negli ultimi tre anni, arrivando a proporre il documento, che viene qui sintetizzato nei punti essenziali3. Si riporta l’elenco delle principali raccomandazioni con il relativo livello di evidenza da A a D , EBM validato: – Il gruppo di lavoro ha scelto di utilizzare, per la facilità di comprensione e di adattamento alle varie realtà italiane, l’algoritmo delle linee guida sulla diagnosi e trattamento del dolore acuto elaborate dalla NICE nel 2008 modificandolo ed adattandolo alla realtà italiana (livello A); – Adottare un protocollo standardizzato di misura e trattamento del dolore acuto, redatto dalla locale centrale operativa del 118, in collaborazione con la rete del dolore aziendale interdisciplinare e multi professionale (Comitato ospedale e territorio senza dolore) nel rispetto del Prontuario terapeutico locale, o di area vasta e delle raccomandazioni aziendali e regionali. (Livello B); – Nel primo approccio al paziente con sintomatologia Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
TIGU (terapia intensiva grandi ustionati),AORN A. Cardarelli, Napoli
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algica è fortemente raccomandato di condurre l’anamnesi ed il primo esame fisico, finalizzandolo alla esclusione dei red flags diagnostici, particolarmente in ambito di cefalee, low back pain, intenzioni suicidarie, sindromi depressive, tendenze all’addiction, seguendo le più recenti linee guida internazionali sull’argomento, allo scopo di identificare precocemente i pazienti che necessitano di un approccio diagnostico accurato ed immediato. (Livello A) In presenza di dolore “intrattabile“, non responsivo ad un corretto approccio con titolazione di oppiacei forti”, occorre attivare un meccanismo di riferimento alla UO di Medicina del Dolore, se presente in ospedale, o procedere all’allertamento dell’anestesista di guardia (inserito o meno in APS o nel MET)( Livello D). Il personale medico del 118 e del DEA deve conoscere ed applicare, ove indicato, il metodo della titolazione con oppiacei forti, che consiste nella somministrazione sequenziale ogni 5-10’ di morfina 1-2 mg ev per volta o fentanyl per via ev o in a basso dosaggio fino a raggiungere il dimezzamento del NRS iniziale La metodica deve essere condotta in ambiente sicuro, sotto monitoraggio continuo con pulsossimetria e avendo disponibilità di ossigenoterapia e di naloxone (Livello B). Implementare le conoscenze e l’utilizzo sistematico delle tecniche loco-regionali elementari da parte degli operatori dell’emergenza (infiltrazioni sc, sottofasciali, tronculari, plessiche con anestetici locali a lunga durata d’azione) allo scopo di ridurre e/o abolire il dolore incisionale da procedure. A tal fine vanno incentivati i corsi educazionali finalizzati alla conoscenza di tali tecniche da espletare con metodica ecografica.( Livello B). Una piccola percentuale di pazienti sottoposti a procedure invasive o mini invasive e portatori di dispositivi interiorizzati o esterni (impianti liquorali, elettrostimolatori midollari, etc.) possono dover ricorrere al siste-
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SAVOIA
LA LEGGE 38/2010 SULLA TERAPIA DEL DOLORE E SULLE CURE PALLIATIVE. LE LINEE GUIDA SU EMERGENZE E DOLORE
ma di emergenza (Pronto Soccorso o 118), per la soluzione di problemi intercorsi, nell’ impossibilità di mettersi in contatto con l’UO che ha proceduto all’intervento. – È indispensabile adottare un protocollo di comportamento che eviti le interruzioni della rete di continuità assistenziale, consegnando al paziente una relazione clinica, contenente le misure da adottare in caso di complicanze e/o di effetti avversi.Il personale del 118 deve comunque conoscere i presidi utilizzati nell’ambito della Terapia del Dolore invasiva. In caso di necessità o di malfunzionamento dei presidi deve poter trattare il dolore con presidi farmacologici( Livello C). – Allo scopo di ridurre il numero ancora elevato di accessi inappropriati alle aree di PS ed ai Reparti Intensivi di pazienti in fase terminale, occorre adottare protocolli condivisi tra le centrali operative del 118 e la rete di continuità assistenziale per i pazienti in fase terminale. I protocolli devono contenere le norme di comportamento da adottare nelle emergenze che subentrano in corso di cure palliative, identificando preventivamente quelle per le quali occorre prevedere un ricovero ospedaliero o l’immissione temporanea nelle Unità di Osservazione Breve Intensiva ( Livello D). –Nessuno studio ha determinato il periodo di digiuno necessario prima di intraprendere una procedura di analgosedazione. I dati in letteratura sono insufficienti per esprimere una raccomandazione assoluta. Nonostante l’assunzione recente di cibo non sia una controindicazione assoluta per intraprendere un’analgosedazione, il medico di urgenza deve considerare il rischio aspirazione, bilanciandolo con il potenziale beneficio derivante dal controllo del dolore.75 Uno studio prospettico osservazionale su 1014 bambini, anche se privo di sufficiente potenza statistica per validare il dato, non ha trovato alcuna differenza significativa tra incidenza di emesi, e complicanze respiratorie popolazione di bambini classificati in base alla durata del periodo di digiuno ( Livello D). In caso di trauma si raccomanda di: – inserire la misura del dolore nelle schede di triage; – inserire elementi di diagnostica del dolore nella valutazione secondaria, – identificare precocemente I pazienti che possono sviluppare dolore cronico di tipo neuropatico per mancato trattamento antalgico adeguato;incentivare nelle urgenze lo sviluppo di metodiche di trattamento quali: – utilizzo appropriato del paracetamolo secondo indicazioni; – utilizzo della titolazione dei farmaci oppiacei; – utilizzo di metodiche locoregionali per il trasporto e per l’effettuazione delle procedure invasive;
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– dopo la fase di stabilizzazione, occorre programmare un piano “proactive” per la prevenzione della cronicizzazione, che includa preferibilmente blocchi regionali continui ed il trattamento del dolore neuropatico. Uso oculato e razionale degli oppiodi per periodi anche prolungati: • Garantire l’uso in rianimazione di linee guida per l’analgosedazione, anche di lunga durata, finalizzate al trattamento del dolore ed alla prevenzione del delirio, nonché l’utilizzo quanto più precoce possibili di metodiche di fisiochinesiterapia e riabilitazione precoce. Essenziale appare un approccio neuro-psicocomportamentale precoce finalizzato alla prevenzione ed al trattamento della sindrome da stress posttraumatico. • Occorre realizzare, nel rispetto degli obiettivi del progetto Ospedale-Territorio senza Dolore, un modello organizzativo condiviso per la valutazione del DPO e il suo trattamento adeguato, con l’adozione sistematica di raccomandazioni/protocolli, ponendo particolare attenzione alle complicanze e agli eventi avversi ad esso legati e alla loro soluzione, quali: – depressione respiratoria; – ipotensione ortostatica; – sindromi compartimentali; – ematoma peridurale; – migrazione e dislocazione cateteri peridurali; – ischemia midollare. • Adottare un modello organizzativo gestito dalla dirigenza sanitaria con corretta identificazione dei codici di chiamata di soccorso al MET/APS e centralizzazione dei meccanismi di risposta appropriata è un processo finalizzato alla riduzione degli eventi avversi prevenibili, che si inserisce compiutamente nei percorsi aziendali di risk management. • Occorre una stretta integrazione tra U.O. di Medicina del Dolore, U.O. di Anestesia e Rianimazione, Reparti Internistici e DEA, allo scopo di identificare corrette indicazioni alle richieste di consulenze di terapia del dolore in emergenza. A tale fine la documentazione clinica completa deve essere sempre disponibile. È ovvio che la risposta in emergenza deve prevedere l’adozione di un protocollo standardizzato di rivalutazione della sintomatologia dolorosa e di revisione del piano terapeutico, anche ricorrendo alla titolazione rapida con oppiacei. Bibliografia 1. Normativa Ospedale Senza Dolore Gazzetta Ufficiale Della Repubblica Italiana Serie Generale n. 149 del 29-06.2001. 2. Legge 38/2010 Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana Gazzetta Ufficiale n. 65 del 19 marzo 2010 3. Linee guida intersocietarie su Dolore ed Emergenze www.siaarti.it
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):693-4
Saper differenziare tra dolore cronico e sindrome da stress postraumatico;curare i buchi delle reti G. SAVOIA
Gli eventi traumatici hanno la capacità di innescare i meccanismi fisiopatologici che sono alla base dello sviluppo di sindromi dolorose croniche e/o di tipici disturbi psicocomportamentali come il PTSD (disturbo da stress posttraumatico). Le tipiche sindromi dolorose postraumatiche sono tipicamente rappresentate dagli esiti delle amputazioni ( sensazione dolorosa da arto fantasma, dolore del moncone, sviluppo di neuromi), dallo sviluppo di Sindromi Regionali Complesse Tipo I, senza danni neurologici, e Tipo II, con danni nervosi dimostrabili, da avulsioni plesso brachiale e lombosacrale, da dolore cronico centrale nei pazienti midollari, da dolore cronico postconcussione dopo traumi cerebrali maggiori. Una gamma di dolori cronici con spettro variabile dal nocicettivo al neuropatico al dolore di tipo centrale con il coinvolgimento di tutti i meccanismi fisiopatologici di cronicizzazione conosciuti, quali:la presenza di infiammazione cronica, l’iperespansione del campo recettoriale a livello delle corna dorsali midollari, le disfunzioni della modulazione inibitoria discendente a livello presinaptico, a modulazione serotoninergica ( mood ) , noradrenergica (pain) o mista , il coinvolgimento dei canali del sodio , dei canali lenti del calcio e/o dei recettori NMDA , i fenomeni legati ad alterazione dei fenomeni di plasticità neuronale rigenerativi , di distruzione di recettori e fibre nervose , i fenomeni di centralizzazione midollare e sottocorticale con alterazioni della neuro matrice ( alterazioni della via extralemniscale ). Quali sono le caratteristiche distintive del PTSD (posttraumatic stress disorder)? Molto sinteticamente, la diagnosi di PTSD si pone nel momento in cui una persona, esposta ad eventi traumatici, sviluppa duraturi sintomi intrusivi, di evitamento e di iperattivazione (si veda oltre) A. La persona è stata esposta ad un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti: 1) la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri; Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
TIGU (Terapia Intensiva Grandi Ustionati), AORN A. Cardarelli Napoli
2) la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore. Nei bambini questo può essere espresso con comportamento disorganizzato o agitato. B. L’evento traumatico viene rivissuto persistentemente in uno (o più) dei seguenti modi: 1) ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, che comprendono immagini, pensieri, o percezioni. Nei bambini piccoli si possono manifestare giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti il trauma; 2) sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento. Nei bambini possono essere presenti sogni spaventosi senza un contenuto riconoscibile; 3) agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (ciò include sensazioni di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni, ed episodi dissociativi di flashback, compresi quelli che si manifestano al risveglio o in stato di intossicazione). Nei bambini piccoli possono manifestarsi rappresentazioni ripetitive specifiche del trauma; 4) disagio psicologico intenso all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico; 5) reattività fisiologica o esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico. C. Evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma e attenuazione della reattività generale (non presenti prima del trauma), come indicato da tre (o più) dei seguenti elementi: 1) sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate con il trauma; 2) sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma;
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SAVOIA
SAPER DIFFERENZIARE TRA DOLORE CRONICO E SINDROME DA STRESS POSTRAUMATICO; CURARE I BUCHI DELLE RETI
3) incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma; 4) riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative; 5) sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri; 6) affettività ridotta (per es., incapacità di provare sentimenti di amore); 7) sentimenti di diminuzione delle prospettive future (per es. aspettarsi di non poter avere una carriera, un matrimonio o dei figli, o una normale durata della vita). D. Sintomi persistenti di aumentato arousal (non presenti prima del trauma), come indicato da almeno due dei seguenti elementi: 1) difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno; 2) irritabilità o scoppi di collera 3) difficoltà a concentrarsi; 4) ipervigilanza; 5) esagerate risposte di allarme. E. La durata del disturbo (sintomi ai Criteri B, C e D) è superiore a 1 mese. F. È necessario specificare se il PTSD è “acuto” (se la durata dei sintomi è inferiore a 3 mesi), “cronico” (se la durata dei sintomi è 3 mesi o più), oppure “ad esordio ritardato” (se l’esordio dei sintomi avviene almeno 6 mesi dopo l’evento stressante). Occorre, quindi, saper bene differenziare tra sindromi dolorose croniche e disturbi mentali. La recente letteratura scientifica tende a sottolineare da una parte la coesistenza delle due sindromi , dall’altra tende ad enfatizzare la possibilità di prevenire entrambe le sindromi mediante un piano strategico proactive di impiego oculato di morfinici e di blocchi loco regionali continui . Beck J.G. e Clapp J.D.1, nel confermare che nel vissuto a lungo termine dei survivors a gravi traumi coesistono dolore cronico e PTSD con prevalenze rispettivamente del 20-80% e del 10-50%, sottolineano il ruolo e l’importanza dei fattori di comorbidità, identificati negli Attentional biases (la sensazione dolorosa come molla di avvio del ricordo traumatico sgradevole), anxiety sensitivity, memoria persistente dell’evento, avoidance coping style, stato depressivo, livello di percezione dolorosa;il tutto si traduce in una necessità di ricorrere al intervento cognitivi neuro comportamentali. Davydow et al confermano che nel trattamento degli esiti a lungo termine dei pazienti affetti da trauma, ustioni e/o degenti a lungo termine in terapia intensiva, la prevalenza di disordini di interesse psichiatrico quali la coesistenza di PTSD e depressione maggiore è nei fatti più elevata di quanto normalmente riteniamo2.
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Da un punto di vista terapeutico si confrontano da una parte un articolo su NEJM3, che tenta di dimostrare in uno studio retrospettivo una più bassa incidenza di PTSD nei militari traumatizzati pretrattati con morfina, dall’altra lo sviluppo dell’applicazione delle metodiche loco regionali continue, preferibilmente con metodica ultrasonografica, quali il blocco femorale, i blocchi paravertebrali, plessici continui degli arti superiori consente un piano di riabilitazione precoce con riduzione dei fenomeni legati ai processi di cronicizzazione. Linee guida recenti sul trattamento dei disturbi legati agli incubi notturni ed al PTSD (4) identificano i seguenti livelli di evidenza per i trattamenti farmacologici e psicologici: – prazosine A. – IRT (image rehearsal therapy) A. – Desensibilizzazione e rilasciamento muscolare profondo B. – Non indicazione della vanlaflaxina B. – Utilità della clonidina C. – Tutti gli altri farmaci C. – EMDR ed altre terapie psicologiche C. La recente legge 38/2010 sull’organizzazione in reti separate della Terapia del Dolore e delle Cure Palliative offre l’opportunità a modello perfezionato (stretta integrazione tra medicina di base , medicina territoriale e centri specialistici di riferimento hub e spoke) di ridurre il numero di accessi inappropriati nei reparti di emergenza (118, PS e DEA);purtroppo nella fase intermedia attuale, in presenza di sviluppo di modelli regionali differenziati, alcuni molto avanzati ed altri arretrati, vi è la necessità che nei reparti di emergenza migliori la cultura dell’approccio al paziente affetto da dolore cronico, oncologico e non, acquisendo la competenza a riconoscere e trattare il dolore incoercibile mediante rititolazione dei farmaci oppiacei e di indirizzare correttamente il paziente alla rete hub e spoke di riferimento istituzionale, curando in tal modi i buchi della istituendo rete. Bibliografia 1. A different kind of co-morbidity: understanding posttraumatic stress disorder and chronic pain J.Gayle Beck and Joshua D. Clapp Psycol Trauma 2011;3:101-8. 2. Psychiatric morbidity and functional impairment in survivors of burns, traumatic injuries, and ICU stay for other critical illness : a review of the literature D.B. Davydow et al Int Rev Psychiatry 2009;21531-8. 3. Morphine use after combat injury in Iraq and post-traumatic stress disorder T.L. Holbrook et al. N Engl J Med 4. Best Practice Guide for the treatment of nightmare disorder in adult RN. Aurora et al Journal of clinical sleep medicine 2010;6:389-401.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):695-700
Emodinamica nel trauma e politrauma M. DAMBROSIO, L. MIRABELLA, N. ERONIA
Introduzione Nella popolazione europea al di sotto dei 45 anni, il trauma rappresenta la principale causa di morte, mentre su base mondiale il trauma è responsabile del 9% dei decessi ed è la quarta causa di morte dopo le malattie cardiovascolari, infettive e tumori1. Trukey, già nel 1993 descrisse la distribuzione temporale dei decessi da trauma, evidenziando una distribuzione trimodale della mortalità2. Il picco di massima frequenza (50%) si verifica al momento dell’incidente o entro pochi minuti dall’evento, ed è generalmente legato a lesioni incompatibili con la vita (lesioni del tronco cerebrale, del cuore, dei grossi vasi). Il secondo picco (30%) si verifica entro le prime 4 ore, ed è principalmente dovuto ad emorragia, occlusione delle vie aeree e problemi respiratori;in questi casi un intervento tempestivo può evitare il decesso. Il terzo picco (20%) si evidenzia in fase tardiva, tra il primo giorno e la terza quarta settimana dall’evento traumatico, ed è conseguente a sepsi e/o multiple organ failure (MOF). Un tempestivo intervento al fine di ottimizzare l’emodinamica del paziente traumatizzato è i grado di ridurre la mortalità e di migliorare l’outcome del paziente. Gestione intra ed extra ospedaliera del paziente affetto da trauma/politrauma Sia fuori che dentro l’ospedale l’approccio al paziente traumatizzato prevede una Primary survey ed una Secondary survey. La Primary Survey è quella sequenza di procedure tese all’identificazione e al contestuale trattamento delle condizioni di pericolo, nonchè alla rivalutazione continua del ferito, con obiettivo quello di garantire il più precocemente possibile una buona perfusione dei tessuti con sangue ben ossigenato. Procede secondo il classico schema ABCDE e fa del controllo dell’emorragia e del rimpiazzo volemico le sue più importanti strategie di ottimizzazione dello stato emodinamico3. La Secondary Survey consiste invece nella rivalutazione continua del paziente tramite lo schema ABCDE, nell’esame testa-piedi, necessario per individuare segni e sintomi riferibili a lesioni maggiori per ogni distretto corporeo, Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Sezione, Dipartimento e Istituzione di Anestesia e Rianimazione
nella verifica della dinamica dell’incidente (importante per il valore predittivo su possibili lsioni misconosciute), e nell’anamnesi, utile per individuare comorbidità e fattori di possibile aggravamento delle lesioni riportate. Lo shock nel traumatizzato Da un punto di vista emodinamico, la condizione clinica che riscontreremo nella quasi totalità dei pazienti affetti da politrauma è lo stato di shock. Lo shock in un traumatizzato va sempre considerato come una conseguenza di un deficit assoluto o relativo del volume circolante. Le cause principali sono l’emorragia (ipovolemia assoluta);la lesione midollare (aumento della capacità di vene ed arterie, ipovolemia relativa);il pnx iperteso o tamponamento cardiaco (ostacolo meccanico che determina riduzione del ritorno venoso);la contusione miocardia (rara). Lo shock ipovolemico da emorragia è la causa principale di morte del paziente nelle prime ore dall’evento traumatico4. Può essere conseguenza di emorragie esterne, o di traumi interni soprattutto toracici e addominali (il trauma cranico interessa il 70% dei traumatizzati gravi, ma torace, addome e arti inferiori rappresentano nell’ordine gli altri distretti più frequentemente coinvolti)5. Da un punto di vista emodinamico osserveremo una riduzione della PVC/PAOP, una riduzione della gittata cardiaca e dello SV ed un aumento dell’HR e delle resistenze vascolari periferiche. La shock spinale è invece una condizione patologica che può verificarsi in casi di lesioni primarie o secondarie midollari dovute a trauma spinale, ed è la conseguenza della perdita della funzione neurologica autonomica per interruzione funzionale o anatomica delle fibre simpatiche discendenti. Si manifesta con ipotensione e bradicardia, ed è conseguenza della perdita del tono vasomotore e del riflesso di tachicardia compensatoria. Quindi da un
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punto di vista emodinamico osserveremo una riduzione della PVC/PAOP, una riduzione della gittata cardiaca e dello SV, una riduzione della HR e delle resistenze vascolari periferiche. Il pnx iperteso può verificarsi in seguito ad una breccia a carico della pleura viscerale, parietale o mediastinica21. La compromissione emodinamica è secondaria allo spostamento contro laterale del mediastino rispetto all’emitorace interessato con compressione dei grossi vasi intratoracici e riduzione del ritorno venoso e aumento del postcarico22. Anche il tamponamento cardiaco, che può essere secondario a lesione cardiaca o dell’aorta intrapericardica, determina uno stato di shock correlato all’ostacolo al riempimento diastolico ventricolare dx. In entrambi i casi gittata cardiaca e SV saranno ridotti, con PVC/PAOP aumentati e RV periferiche aumentate. La contusione cardiaca va sospettata in caso di fratture sternali, costali multiple e sulla base della dinamica dell’evento traumatico. La diagnosi è spesso complessa. La presenza di anomalie ECG ha un valore predittivo positivo molto limitato23. L’ecocardiografia può essere di aiuto24, ma la TEE è sicuramente più accurata, ma meno disponibile in tutte le strutture ospedaliere. Le troponine T e I aumentano in coso di contusione cardiaca. Salim25 propone l’associazione ECG-troponina come test di screening nei pazienti con trauma toracico. Early goal directed therapy Il concetto dell’early goal directed therapy è ben conosciuto nell’ambito della sepsi e dello shock settico, e consiste nell’ “ottimizzazione di precarico, postcarico e contrattilità cardiaca per bilanciare la disponibilità d’ossigeno con il consumo”48. Rivers et al., in una recente review, hanno sottolineato come l’ottimizzazione emodinamica, consistente nel ripristino di una adeguata PVC, PAM e ScvO2 attraverso il riempimento polemico e l’utilizzo di farmaci isotropi/ vasopresori, sia in grado di ridurre notevolmente la mortalità e l’incidenza di complicanze nel paziente affetto da shock settico49, in un timing ideale di 3-6 ore (golden hours)50. Allo stesso modo si è visto come nel paziente traumatizzato il rapido riconoscimento dell’ipoperfusione occulta (valutata attraverso il livello dei lattati), e la sua rapida correzione, sia in grado di ridurre la mortalità e l’incidenza di complicanze, soprattutto se la per fusione tissutale viene ottimizzata al massimo nelle prime 24h dal trauma (golden hours and silver day)51. Da qui l’importanza di un monitoraggio emodinamico adeguato, che consenta il rapido riconoscimento dell’ipoperfusione occulta e la sua rapida correzione52.
Già nel 1988 Shoemaker evidenziò come i pazienti sopravvissuti ad interventi chirurgici ad alto rischio presentassero valori di CI, VO2 e DO2 maggiori di quelli deceduti7, evidenziando valori di CI >4,5 l/min/m2, O2 delivery >600 ml/min/m 2 , O 2 consumption >170 ml/min/m2, diminuivano le complicanze, la durata della degenza e i costi. Nel 1995 spostò l’attenzione sul paziente traumatizzato, evidenziando come l’ottimizzazione dei parametri CI, DO2 e Vo2 fosse associato anche in questa categoria di pazienti ad una minore mortalità, diminuzione d’insufficienze d’organo, e diminuzione nei giorni di degenza e di ventilazione meccanica in ICU8. Nel 2007 è stato inoltre evidenziato come nei pazienti traumatizzati, in particolare negli anziani e negli obesi, bassi indici di DO2 e CI siano associati ad una maggiore mortalità9. Questi studi evidenziano come sia fondamentale la scelta di un adeguato sistema di monitoraggio emodinamico al fine di migliorare l’outcome del paziente affetto da politrauma. Saturimetria Venosa (SvO2)
La saturimetria venosa rappresenta un parametro molto importante in tutti quei pazienti a rischio di squilibrio del trasporto dell’ossigeno. Nei pazienti instabili la SvO2 è un precoce allarme dell’iniziale squilibrio del trasporto di ossigeno, ed è anche un buon indicatore dell’adeguatezza della terapia. Un brusco decremento della SvO2 al di sotto del 65% esprime la rottura dell’euilibrio tra DO2 e VO2 che può essere causato, secondo la legge di Fick (SvO2 =SaO2 - VO2/GC x 1,34 x Hb) da una riduzione della SaO 2, dell’HgB, della GC o da un aumento di VO226, 27. SjVO2
La misura della saturazione venosa nel sangue refluo del bulbo della vena giugulare interna (SjVO2), è una tecnica per monitorare l’ossigenazione cerebrale globale e il rapporto tra substrati energetici disponibili e fabbisogno metabolico cerebrale. È un monitoraggio semplice, utile e poco invasivo per controllare gli effetti della terapia impostata sul riequilibrio del bilancio tra DO2/VO228. Si è visto infatti che il monitoraggio continuo della SjVO2 fornisce un rapido campanello di allarme dello squilibrio DO2/VO2 nel paziente critico30. I valori di SjVO2 sono ben correlati con l’outcome del paziente con trauma cranico: si è visto infatti che i valori al di fuori del range di normalità sono associati ad una prognosi sfavorevole29. ScVO2
Monitoraggio emodinamico Per oltre 30 anni il tradizionale approccio per il trattamento dello shock emorragico da trauma si è basato sul tentativo di ripristinare una normale pressione sistemica e mantenere la perfusione degli organi vitali in attesa di completare le fasi di diagnostica e di trattamento chirurgico (6). Tuttavia la pressione sistemica da sola non è un indice di perfusione tissutale, e non esprime in nessun modo l’adeguato rapporto DO2/VO2. 696
Oxigen Delivery (DO2)
La misurazione continua della saturazione venosa centrale consente, nel paziente critico, di avere un rapido indice che determini lo lo stato di perfusione e l’efficacia della terapia massa in atto. Nel caso di sepsi o shock settico, la ScvO2 è un buon parametro da seguire durante il rimpiazzo volemico di pazienti emodinamicamente instabili, e rientra nei target della early goal directed therapy48. Scalea TM et al. hanno evidenziato come l’ScVO2% correli molto bene con lo stato di per fusione del paziente
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affetto da trauma, e come rappresenti un sensibile segnale di ipoperfusione occulta nel paziente che presenti parametri vitali stabili53. Allo stesso modo Alessandro de Filippo et al.54 sottolineano come “la ScVO2 dovrebbe essere monitorata in tutti i pazienti politraumatizzati, specialmente in presenza di trauma cranico, e, valori di ScVO21,5 times control) e l’uso di piastrine al fine di ottenere valori piastrinici di 50 x 109/l e 100 x 109/l nei pazienti con trauma cranico. L’uso di PFC e piastrine va inoltre considerata nei pazienti politrasfusi, che hanno cioè ricevuto 8-10 U di emazie concentrate. È di facile comprensione come la prevenzione della coagulopatia del trauma sia multifattoriale, e che associ all’utilizzo di derivati del sangue un adeguato controllo della temperatura corporea, dell’equilibrio acido base, de livelli di calcio ionizzato. Herbert Schöchl et al suggeriscono un preciso algoritmo per il trattamento del sanguinamento da coagulopatia da trauma47, che suggerisce l’utilizzo di acido tranexamico 15-20mg/kg per trattare precocemente l’iperfibrinolisi, l’utilizzo di plasma fresco congelato o crioprecipitato al fine di mantenere nella norma i valori di fibrinogeno, la somministrazione di plasma e piastrine al fine di compensare la deplezione dei fattori di coagulazione e mantenere I livelli di piastrine al di sopra di 50 x 109/l. L’utilizzo dei PCC (prothrombin complex concentrate) nei pazienti affetti da trauma è ancora controverso. In uno studio la somministrazione di fibrinogeno (n = 128), rispetto ai PCCs (n = 98), nei pazienti traumatizzati (n = 131), ha determinato una maggiore sopravvivenza rispetto a quella predetta tramite il trauma injury severity score (TRISS) o il revised injury severity classification (RISC) score46, tuttavia i dati sul suo utilizzo nel trauma sono ancora limitati. Sono tuttavia da preferire (Protromplex TIM3, Uman complex) ogni qual volta si voglia evitare il sovraccarico volemico, come nel paziente affetto da trauma cranico. Fattore VII attivato La diminuzione di livelli dei fattori della coagulazione, del fibrinogeno e delle piastrine,è tipica della coagulopatia da trauma, in particolare si è visto che dopo la trasfusione di 10U di emazie concentrate, è il fattore VII quello che può scendere al di sotto dei valori necessari a garantire una corretta coagulazione. Da qui la nascita di studi che hanno dimostrato che la somministrazione di fattore VII attivato (rFVII, Novosen®) si associa nei pazienti con emorragia profusa ad un miglioramento dell’emostasi20. Questo perché il fVII stimola la generazione di trombina attraverso l’attivazione di fattore X anche in asenza di fattore VII, IX e X. Non esistono tuttavia al momento evidenze che la somministrazione di aFVII migliori l’outcome del paziente traumatizzato. Per questo è considerato come terapia “off label” nei pazienti che continuano ad avere sanguinamenti diffusi nonostante l’infusione di
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sostituti plasmatici. Dosaggio consigliato: bolo ev di 200 gamma/kg, ripetibile a dosaggio dimezzato dopo 60min e dopo 2h. Tecniche di monitoraggio emodinamico Storicamente lo studio dello stato emodinamico del paziente traumatizzato, e critico in generale, veniva garantito da metodiche invasive quali il posizionamento di un catetere in arteria polmonare per il monitoraggio della gittata cardiaca e dei parametri emodinamici derivati. Tuttavia studi recenti hanno dimostrato come tale metodica sia invasiva, costosa, certamente non scevra da complicanze, facilmente sostituibile con metodiche meno invasive e ugualmente efficaci. Pertanto il suo uso routinario nel paziente traumatizzato viene sconsigliato, soprattutto considerando che la presenza di ventilazione meccanica e/o alterazione della compliance ventricolare secondaria al trauma rendono PVC e PAOP valori poco affidabili nella gestione della fluido terapia del paziente traumatizzato10. William C. Shoemaker, et al hanno inoltre dimostrato come le tecniche non invasive (impedenzometria toracica) offrano un fattibile, sicuro, poco costoso, accurato, continuo monitoraggio in tempo reale, con caratteristiche equivalenti al monitoraggio tramite PAC11. L’uso dell’impedenzometria toracica insieme al monitoraggio transcutaneo dell’ossigenazione tissutale (misura della CO 2 transcutanea (PtCO 2 ) e del suo rapporto rispetto alla FiO2), si è dimostrato un valido strumento nell’identificazione di stati di ipoperfusione, in pazienti pediatrici affetti da trauma12. Interessanti anche i risultati ottenuti tramite l’utilizzo del Doppler esofageo per il fluid menagment nei pazienti politraumatizzati. Il Doppler esofageo è infatti una metodica poco invasiva, che recentemente è stata approvata per la gestione dei fluidi nel perioperatorio e in terapia intensiva13,14. Si è dimostrato che l’ottimizzazione del volume intravascolare utilizzando il Doppler esofageo è associata ad una riduzione dei livelli di lattato, ad una minore incidenza di complicanze infettive, e ad una riduzione dei giorni di degenza in ICU15. Il monitoraggio tramite PiCCO, si è dimostrato attendibile e efficace nell’ottimizzazione della terapia in pazienti critici, anche politraumatizzati39, mentre è stato evidenziato come tecniche mini invasive che utilizzano l’analisi della forma d’onda arteriosa, come il sistema Flo/Trac Vigileo®, offrano valori poco attendibili nei pazienti critici instabili, con l’ottenimento di valori di CO non affidabili38. n ruolo sempre maggiore sta assumendo il monitoraggio tramite ecografia, al punto che esso è entrato a fare parte della Primary Survey intraospedaliera, al fine di guidare al meglio la terapia rianimatoria nelle prime ore dal trauma. Trauma care ultrasound È noto sin dagli anni ‘90 il termine FAST inteso come acronimo di Focused Abdominal Sonography for Trauma;in quegli anni il solo scopo dell’esame ecografico era diagnosticare la presenza di versamento ematico peritoneale in alternativa al lavaggio peritoneale diagnostico. L’unica indicazione agli ultrasuoni era quindi il trauma addominale chiuso instabile40. Nel 1997 il Consensus 698
Conference Committee cambiò la definizione di FAST in Focused Assessment with Sonography for Trauma. L’obiettivo dell’esame ecografico si allargava così alla ricerca di versamento ematico pleurico, pericardico e peritoneale, con indicazione tutti i traumi toraco-addominali chiusi instabili41,42. Nel 2004 viene introdotto il concetto di EFAST, acronimo di Extended Focused Assessment with Sonography for Trauma, con indicazione tutti i traumi toraco-addominali chiusi instabili, e l’obiettivo di estendere la ricerca di pneumotorace (PNX) al versamento ematico pleurico, pericardico e peritoneale43,44. Attualmente il sistema E- FAST è integrato nella gestione ABCDE del trauma e integrato nel sistema ATLS45. Quindi l’esame ecografico E-FAST svolge un ruolo fondamentale, in quanto consente di fare rapidamente diagnosi in caso di shock, consentendo di distinguere rapidamente una shock ipovolemico da uno shock cardiogeno che, nel paziente traumatizzato è spesso associato a contusione cardiaca, e consente di evidenziare rapidamente raccolte ematica toraco addominali che possono giustificare una ipotensione refrattaria al normale riempimento volemico. L’E-FAST permette inoltre di fare rapida diagnosi differenziale di alcune cause reversibili di PEA (tamponamento cardiaco, pnx), e di garantire assistenza nella risoluzione delle suddette cause Va inoltre considerato che la valutazione ecografica di 3 semplici parametri (polmone, cuore e VCI) può essere una valida guida nella gestione dei liquidi durante le manovre di stabilizzazione dei parametri vitali. Conclusioni L’adeguata gestione emodinamica è alla base della sopravvivenza e del miglioramento dell’outcome del paziente politraumatizzato. Trovare il perfetto mezzo di monitoraggio, in grado di guidare le manovre terapeutiche e di offrire il maggior beneficio al paziente con minore invasività e massima rapidità, è attualmente importante argomento di discussione. La presenza di metodiche quali l’ultrasound utilizzato sin nelle primissime fasi della gestione del malato, e della StO2 spostano l’attenzione verso monitoraggio sempre meno invasivi e di semplice e rapida interpretazione. Bibliografia 1. World Health Report 2003. Aviable at: who.int/whr/en 2. Trukey DD. Trauma. Accidental and intentional injuries account for more years of life lost in the S.S. than cancer and heart disease. Among the prescribed remedies are improved preventive efforts, speedier surgery and further research. Sci. Am. 1983;249:20-7. 3. PTC “Pre hospital trauma care”, IRC guidelines 4. Chiara O, Scott JD, Cimbanassi S, et Al. Trauma deaths in an Italian urban area: am audit of prehospital and in hospital trauma care. Injury. 2002;33:553-62. 5. Colwell CB et al. Claims against a paramedical ambulance service: a ten years experience. J emerg Med 1999 , 17 (6): 999-1002. 6. Nolan J. Fluid resuscitation for the trauma patient. Resuscitation 2001;48:57-6 7. Shoemaker WC, Prospective trial of supranormal values of survivors as therapeutic goals in high risk surgical patients Chest; 1988;94:1176-86. 8. Bishop MH, Shoemaker WC, Appel PL. Prospective, rando-
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Gestione emodinamica in urgenza : ipotensione arteriosa sistemica severa, IMA, shock cardiogeno (ecocardiografia TTE/TEE) L.F. LORINI, L. MANTOVANI, S. CATTANEO, E. CERCHIERINI, MACCHITELLI, C. MIRABILE
Lo shock viene definito come una sindrome acuta che porta ad una severa disfunzione multipla d’organo e caratterizzata da elevata mortalità. Un documento estremamente interessante relativo ad una consensus conference elaborato nel 2006 a Parigi lo definisce a nostro parere molto appropriatamente come uno “stato di incapacità di distribuire e\o utilizzare una adeguata quota di ossigeno”. Quindi la presenza di uno stato di ipotensione (caratteristico delle vecchie definizioni) risulta riduttivo. L’ipotensione arteriosa può esserci, e spesso è presente, ma non è necessaria . Pertanto noi consideriamo lo shock come una situazione di disfunzione circolatoria e cellulare che si manifesta con la presenza di markers di ipoperfusione quali : deficit di basi, elevati valori di lattati, decremento della SVO2 o della ScvO2 sia che sia presente o meno l’ipotensione arteriosa. A livello intracellulare lo shock è sostanzialmente una situazione di diminuzione della produzione di ATP in proporzione alla disponibilità di O2 associato ad una richiesta di ATP inalterata. Ma allora cosa deve fare il clinico in relazione alla pressione arteriosa? La pressione arteriosa rimane uno strumento semplice ed universale di gestione dello shock ma manca una evidenza di dati inerente a quali siano i valori target da ottenere, all’atto pratico sembra che durante le fasi iniziali del trattamento dello shock i valori di target presso rio cui puntare siano molto variabili a vadano da esiguo valore di 40 mmHg di MAP in corso di shock emorragico in trauma (fino almeno al controllo della fonte attiva di sanguinamento) fino a valori elevati di 90 mmHg di MAP nei quadri di danno cerebrale in assenza di emorragia sistemica. Per tutti gli altri quadri di shock sembrerebbe adeguato un valore di superiore ai 65 mmHg di MAP. Quali sono allora gli strumenti adeguati nel trattamento della fase acuta dello shock? L’attenzione nel tempo si è spostata verso due fattori : la misurazione del precarico e la risposta al trial con fluidi (fluid responsiveness). Per quanto concerne il precarico, il suo ruolo si è un po’ ridimensionato nel tempo: la sola misurazione degli indici statici di precarico quali la PVC la RAP la WP e la PAOP non basti a quantificare il grado di shock sebbene il riscontro di valori molto bassi (ad esempio una PVC < 4 Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Anestesia e Rianimazione, USC di Cardioanestesia e Terapia Intensiva Cardiochirurgica, Opedali Riuniti di Bergamo
mmHg) autorizzi ad un immediato test di carico con liquidi sotto attento monitoraggio, uno strumento più pratico sembra essere la cosiddetta “fluid responsiveness” consistente nella somministrazione di piccoli volumi di fluidi in tempi relativamente brevi od alternativamente un test di innalzamento degli arti inferiori : si ribadisce però che la risposta a tale test deve essere confermata da un miglioramento della funzione cardiaca e della per fusione tissutale, l’utilizzo di metodiche di valutazione dinamiche della fluid responsiveness (ad esempio la PPV o le variazioni del flusso aortico) dovrebbero essere non di routine ma riservate a casi selezionati. Il monitoraggio più invasivo (tradizionalmente il monitoraggio invasivo del CO) deve essere riservato ai casi di documentata disfunzione vsx o nei casi di shock refrattario. Meno categorici siamo per quanto concerne l’esame mediante ecocardiografia, specie la metodica transtoracica quando possibile, che a nostro parere dovrebbe essere routinariamente eseguita su tutti i quadri di shock. Nonostante le considerazioni sopramenzionate non si vuole azzerare del tutto l’importanza del significato della pressione sisto-diastolica e media arteriosa : una misurazione invasiva della pressione arteriosa è da ritenersi mandatoria quando attuabile, sia per la sua potenzialità diagnostica (misurazione dei valori pressori) che diagnostica (campioni ematici). Indipendentemente dall’eziologia dello shock un concetto fondamentale da considerare per le sua implicazioni a livello tissutale e cellulare è che tale quadro clinico ci pone in una situazione temporalmente critica , infatti si rende necessaria l’istituzione di una terapia mirata correttiva senza ritardi (in genere entro le 6 ore) , questo risulta particolarmente vero specie nei quadri di shock settico specie se associati a bassi valori relativi di SVO2 ( applicabile ai grossi vasi arteriosi della base del cranio; 2. iniezione locale di vasodilatatori -> l’iniezione in arteria consente concentrazioni locali elevate, con minori effetti sistemi della somministrazione per altre vie.
Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Università di Torino e Ospedale S. Giovanni Battista, Torino
Si tratta di terapie efficaci sui parametri di perfusione e sul calibro dei vasi, quali valutati strumentalmente, ma con efficacia clinica non ancora dimostrata secondo i criteri EBM. Verranno discusse le indicazioni, le limitazioni, ed il timing dei trattamenti.
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MINERVA ANESTESIOL 2012;78(Suppl. 1 al No. 10):723-6
Corso sulle emergenze cerebro-vascolari (ESA). Invasive monitoring A.T. MAZZEO, E. LA MONACA, S. TANANIA
Three aspects distinguish hemodynamic management in neurocritical care from that of other critically ill patients: 1) Assessment of end-organ perfusion is at times more difficult to determine. 2) Because of lack of energy reserves, the interval to end-organ failure under adverse conditions is more rapid. 3) Unlike most other organs, injury to even small regions of brain can have devastating consequences. Leading from this concept, prevention of secondary brain injury represents the major objective of intensive care treatment of acute brain injury patients. The ability to detect and intervene before injury becomes irreversible is what makes monitoring critical and a vital element in the neuroprotection mission. Main reasons to perform invasive neuromonitoring in acute brain injury patients admitted to neurointensive care are: 1) The possibility to early detect impending ischemic events leading to secondary insults. 2) The possibility to study and clarify the mechanisms of acute brain injury, allowing insights in the human brain function that are continous and in real time. 3) The ability to understand changes in cerebral energy metabolism after the primary event. 4) The ability to evaluate the effect of clinical interventions (drugs, ventilation, surgery, neuroprotective strategies). 5) Neuromonitoring may also provide new surrogate markers of effectiveness, and can exert an important role in the design of clinical trials. 6) Prognostication of outcome. In patients with subarachnoid hemorrhage (SAH), cerebral vasospasm (CVS) can compromise the cerebral blood flow in the territory of the affected artery/arteries. Large artery vasospasm is a primary factor causing infarction and poor outcome; however, also neuronal apoptosis or death accounts for poor prognosis after SAH (ChingTang Wu, 2011). The possibility to directly or indirectly monitor brain physiology and metabolism after SAH, can help in diagnosing CVS, providing clinicians with important information on its course and on the efficacy of treatments. In particular, techniques such as cerebral microdialysis and brain tissue oxygen monitoring, able to detect neuroVol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dipartimento di Neuroscienze, Scienze psichiatriche e anestesiologiche, Università degli Studi di Messina, Messina
metabolic and cerebral oxygenation changes, could contribute to an earlier detection of delayed ischemic neurologic deficits (DIND) and could be helpful in studying the pathogenesis of CVS in humans (Kolias, 2009). As DINDS is an important cause of morbidity ad mortality, invasive monitoring can provide early warning system of detection of these complications, thus potentially improving outcome. In patients with SAH, the occurrence of vasospasm can affect energy metabolism and lead to neurological deterioration. Thus, it may be useful to strictly monitor brain metabolism, using microdialysis, as it may correlate more strongly with the clinical condition of the patient and may be useful for early detection of metabolic dysfunction (Noske, 2005). Brain microdialysis is a neuromonitoring tool that allows the unique opportunity to have a “near real-time” continuous sampling of endogenous neurochemical substances such as neurotransmitters and metabolites, which can help in understanding the pathophysiological cascade underlying delayed deterioration, and to detect pattern of cerebral ischemia, after SAH. Microdialysis has been extensively used both in experimental and in clinical research, to study the changes in small molecules in extracellular fluid. The study of the fluctuation in the analytes during the monitoring period allows investigators to obtain insight into the neurochemical events in the brain extracellular space. Lactate, glucose and pyruvate, which are parameters of brain energy metabolism, are the most important analytes available for detection of secondary brain damage after traumatic brain injury (TBI) and SAH. Furthermore, the analysis of dialysate glutamate, an excitatory aminoacid (EAA) which plays an important role in secondary brain damage, also closely correlates with ischemic changes and bad outcome. Clinical and experimental studies demon-
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MAZZEO
CORSO SULLE EMERGENZE CEREBRO-VASCOLARI (ESA). INVASIVE MONITORING
strated that the neurochemical signature of anaerobic cerebral energy metabolism are elevated lactate and diminished extracellular glucose. The total duration of low glucose levels negatively affects outcome. Pyruvate concentration decreases to very low levels during ischemia due to lack of substrate. During period of terminal herniation with very low glucose, the production of lactate is limited by the amount of glucose available and the mean lactate concentration can remain in the normal range. An increased concentration of brain tissue lactate has been assumed to indicate a shift from aerobic to anaerobic metabolism and brain dialysate lactate has been observed to increase in cerebral hypoxia and ischemia, in both models and man. Typically during hypoxic/ischemic events, microdialysis shows a marked increase in L/P ratio, in combination with very low levels of microdialysate glucose, interpreted to be the result of a shift to anaerobic metabolism, due to lack of delivery of substrates. Lactate/pyruvate ratio of more than 40 is considered one of the best microdialysate marker of microenviroment ischemia and has been correlated to regional ischemia. Glutamate, the main excitatory aminoacid in the mammalian central nervous system, is known to be responsible for secondary brain damage, and is markedly elevated in the extracellular fluid of TBI and SAH patients after secondary insults. These elevations are correlated with poor outcome. A significant correlation was found that demonstrated higher glutamate levels in those patients with unfavorable outcomes (Bullock, 1998). After SAH, ischemia of the central nervous system may produce an increase of the extracellular glutamate concentration, which leads to neuronal damage. Glutamate may be accumulated by either increased release from neurons or decreased reuptake from the synaptic cleft, which would enhance the neurotoxic effect of anoxia or ischemia. In experimental models, SAH produces a prolonged increase of extracellular glutamate concentration, associated with a significant downregulation of the GLT-1, GLAST, and EAAC1 in the cerebral cortex and the hippocampus. Significantly higher glutamate levels were observed from Day1 to Day 7 after SAH compared with those observed for sham animals. The peak concentration was observed at Day1 (Ching-Tang Wu, 2011). In 2000, Staub et al. observed the role of excitatory amino acids and lactate as major parameters for neurochemical monitoring for patients threatened by acute cerebral disorders (Staub 2000). Furthermore, Schulz et al (Schulz, 2000) observed significantly lower levels of energy substrates and significantly higher levels of lactate and neuronal injury markers in patients with severe and complete ischemia when compared with patients without symptoms of ischemia. More recently, Maurer et al (Maurer, 2007) demonstrated that GAPDH and HSP7C may be used as early markers indicating the later development of symptomatic vasospasm after SAH. In particular, the changes in protein concentrations occurred even before the onset of the symptomatic vasospasm, suggesting that biochemical changes related to the later development of symptomatic vasospasm can be monitored without the clinical evidence for symptomatic vasospasm being present yet. 724
Furthermore, Mellergard et al., reported the extra-cellular cerebral response of two of the most studied neurotrophic factors, fibroblast growth factor 2 (FGF2) and vascular endothelial growth factor (VEGF), in patients suffering from severe TBI or severe SAH. The VEGF concentration was significantly higher in TBI-patients, while the FGF2 showed a tendency to be higher in SAHpatients. This results can help in increasing the understanding of inflammatory response after acute brain injury, and to identify potential threshold values for these chemokines that may serve as monitoring indicators in the neurocritical care setting (Mellergard, 2010). In addition, NO can be analyzed in microdialysates of patients with SAH undergoing either acute or elective surgical obliteration of aneurysms (Sakowitz, 2001). With the development of DIND, dialysate glucose concentrations decreased approximately 23%, together with an increase in lactate from 4.2 to 5.5 mmol/l (31%) and an increase in L/P ratios by 12%. Concentrations of NO decreased on average by 21% (Sakowitz, 2001). In a study evaluating mtabolic changes, as detected by microdyalisis, in the territory of the parent artery of the ruptured aneurysm, an ischemic pattern preceded the occurrence of a DIND in all cases in which one occurred. The mean delay from the peak in the L/P or L/G ratio to the occurrence of a DIND was 23 hours (range 4–50 hours). If the ischemic pattern was used as a diagnostic test, the sensitivity for prediction of a DIND was 94%, the specificity 88%, and the positive predictive value 85%. Ischemic pattern preceded the DIND by a mean interval of 11 hours. Microdialysis monitoring provides the ability to predict the occurrence of a DIND and cerebral infarction with 75 to 90% sensitivity and specificity on average 11 hours before its clinical appearance (Skjøth-Rasmussen, 2004). The role of Endothelin-1 (ET-1) in the development of CVS following SAH has also been evaluated (Mascia, 2001). In a prospective, observational clinical study to investigate the temporal relationship between increased ET-1 production and cerebral vasospasm or other neurological sequelae after SAH, it was observed that CSF ET1 levels are increased in conditions of severe neuronal damage regardless whether this was due to vasospasm or to the primary hemorrhagic event. In addition, CSF ET-1 levels paralleled the neurological deterioration but were not predictive of vasospasm. The outcome of SAH is the result of a several occurring events. First the severity of the primary injury, at the time of aneurysm rupture. Then, the cascade of secondary injurious events occurring in the acute phase after SAH (Zetterling, 2009). In an observational study describing the temporal changes of cerebral interstitial non-transmitter, neuromodulator, and excitatory amino acid and energy metabolite (glucose, lactate and pyruvate) levels in a cohort of 19 SAH patients, a significant increase of nontransmitter amino acids, glycine and pyruvate after the SAH was demonstrated (Zetterling, 2009). The authors suggested that the increase of non-transmitter amino acids and glycine may reflect an increased amino acid turnover in an attempt to repair the injured brain, and that this was hampered by the lower pyruvate levels, reflecting
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an energy metabolic crisis in unconscious patients. Coversely, in the group of conscious patients, the pyruvate levels gradually increased to normal levels, whereas in the unconscious group the pyruvate levels remained lower than normal. Furthermore, together with CT scan and ICP monitoring, invasive advanced neuromonitoring tools may help to select those patients who may benefit from aggressive management such as decompressive hemicraniectomy, allowing the point of irreversibility to be early detected metabolically (Nagel, 2009). Interestingly, studies on the effect of intracranial hypertension in aneurysmal SAH patients, showed that 83% of patients developing intracranial hypertension had cerebral metabolic derangements prior to the first increase in ICP (lactate/pyruvate (L/P) ratio >25, glycerol >80 micromol/l, and glutamate >10 micromol/l for > 6 h) (Nagel, 2009). As the maintenance of an adequate tissue oxygenation is recognized as a primary objective in the field of critical care medicine, the assessment of tissue oxygenation is an essential part of the management of the critically ill patient, providing essential information about oxygen supply and utilization in specific tissue beds (Mazzeo, 2007). The technique involves the insertion of a fine catheter (approximately 0.5 mm in diameter) through a specially designed bolt or through a craniotomy intraoperatively, into the brain parenchyma to continuously and bedside measure brain tissue oxygenation. The probe is placed in informative tissue volumes, based on either functional or anatomical con- sideration and, as any local monitoring, the collected data are expression of what is happening in the area interrogated by the probe (Mazzeo, 2007). Brain tissue oxygen tension monitoring has been used for patients with cerebrovascular pathology, especially when vasospasm, leading to tissue hypoxia, is expected. The placement of the sensor in the tissue supplied by the arterial territory in which the aneurysm is located is suggested. Furthermore, this monitoring can help not only in the early diagnosis of vasospasm, but also in the evaluation of effects and efficacy of proposed treatments, such as nimodipine or transluminal balloon angioplasty. It can also provide important information to avoid procedurerelated ischemia during aneurysm surgery, acting as a sensitive indicator of the risk of ischemia during temporary arterial occlusion. The occurrence of brain ischemic lesions, due to temporary arterial occlusion or incorrect placement of the definitive clip, is in fact a major complication of aneurysm surgery. In a study in which brain tissue oxygen concentration PtiO2 was monitored during surgery of middle cerebral artery aneurysm presenting with SAH, for detection of changes in brain oxygenation due to reduced blood flow, as a predictor of ischemic events, during temporary clipping and after definitive clipping, it was suggested that intraoperative monitoring of PtiO 2 may be a useful method of detection of changes in brain tissue oxygenation (Cerejo, 2011). Postoperative infarction in the territory of MCA developed in cases with an abrupt decrease of PtiO2 and a very low and persistent minimum value, during temporary clipping, and an incomplete recovery after definitive clipping (Cerejo, 2011). Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
MAZZEO
In a study evaluating the relationship between PbtO2 and death after aneurysmal SAH, it was observed that the mean daily PbtO2 was higher in survivors than nonsurvivors (33.94+2.74 vs 28.14+2.59 mmHg; p = 0.05). In addition, survivors had significantly shorter episodes of compromised PbtO2 (defined as 15-25 mm Hg) than nonsurvivors (125.85+15.44 vs 271.14+55.23 minutes; p < 0.01) (Ramakrishna, 2008). In a study of poor-grade SAH patients, evaluating the prevalence of brain hypoxia and brain energy dysfunction in the presence of normal and abnormal ICP and cerebral perfusion pressure (CPP), in patients undergoing multimodal neuromonitoring and cerebral microdialysis, it was observed that the sensitivities of abnormal ICP or CPP for elevated LPR and reduced PBtO2 were poor (21.2% at best), and the LPR or PBtO2 was abnormal in many instances when ICP or CPP was normal. Authors demonstrated that ICP and CPP monitoring may not always detect episodes of cerebral compromise in SAH patients and that several complementary monitors may be needed to optimize the care of poor-grade SAH patients (Chen, 2011). Metabolic crisis and brain tissue hypoxia (BTH) are associated with mortality and poor functional recovery after SAH. Cerebral perfusion pressure levels 35 (grave obesità)1. L’approccio clinico alla obesità patologica è multidisciplinare, dal momento che si accompagna pressoché costantemente: a ipertensione arteriosa moderata nel 50-60% dei casi e alla forma severa nel 5-10%, a diabete di tipo II, a steatosi epatica, a trombosi venosa profonda (TVP) con rischio evolutivo verso una TEP, e a ernia iatale; ma le complicanze più significative, ai fini dello studio che presentiamo in questa sede sono la obsrtuctive sleep apnea (OSA) e alla obesity hypoventilation syndrome (OHS). La OSA si caratterizza per: – interruzione nel sonno del passaggio d’aria > 10’’, > 5 volte in 1 h; – anossia cerebrale (EEG) Ø PO2 del 4%; – frequenti risvegli notturni; – sonnolenza ed astenia durante il giorno; – russamento. La OHS è causa di ipoventilazione, con ipossiemia, ipercapnia, ipertensione polmonare evolvente verso il cuore polmonare cronico, policitemia, oltre ai segni dell’ OSA, più accentuati: apnea > 10’’ e per oltre 15 volte in 1 h. È noto in letteratura2 che la causa più importante di ostruzione delle vie aeree nell’obeso di 3° grado si correla all’accumulo di grasso perifaringeo, specie di notte quando si riduce il tono dei muscoli dilatatori del faringe. È anche documentato3 che l’incidenza e la gravità dell’OSA Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Dept. of Anesthesiological Surgical and Emergenc Sciences-Intensive Care Unit, II University of Naples
si correla alla misura della circonferenza del collo (pancuronio). Si tratta di una γ-ciclodestrina di sintesi in grado, quando somministrata e.v. durante un blocco neuromuscolare rocuronio-indotto,di formare con le molecole di curaro libere nel compartimento plasmaticoun complesso (rapporto 1:1) estremamente stabile e caratterizzato da un’altissima costante di associazione che viene rapidamente escreto per via renale. La conseguente formazione di un gradiente di concentrazione favorisce il movimento delle molecole di rocuronio, legate al recettore nicotinico, dalla placca neuromuscolare al compartimento plasmatico. Ciò condiziona, in ultima analisi, la rapida e completa reversione del blocco neuromuscolare.(10)(14)Il suo meccanismo d’azione, che consente di ottenere l’antagonismo del blocco steroideo senza esercitare azioni farmacologiche differenti dalla chelazione del miorilassante, e la sua inattività biologica rendono il sugammadex, a differenza degli anticolinesterasici, un farmaco praticamente libero da effetti collaterali.L’impiego di questo farmaco offre inoltre la possibilità, rispetto agli anticolinesterasici, di poter antagonizzare, in maniera dose dipendente, un blocco neuromuscolare di qualsiasi profondità10,14,15. Numerosi studi di fase III hanno attestato la superiorità del sugammadex rispetto alla neostigmina, in termini sia di rapidità del recupero completo della funzione neuromuscolare (TOF Ratio ≥ 0,90)16,17 sia di sicurezza rispetto al rischio di paralisi residua postoperatoria18, nella reversione del blocco di grado moderato come in quello di grado profondo19; Sono,tuttavia, ancora pochi i dati relativi alla gestione dell’antagonismo del blocco neuromuscolare nella popolazione di pazienti obesi. Gaszynski et al.8 hanno confrontato l’efficacia di sugammadex e neostigmina/atropina nell’accelerare la reversione del blocco neuromuscolare rocuronio-indotto di grado moderato. A 70 pazienti affetti da obesità patologica (BMI > 40 kg/m2) e destinati ad interventi di chirurgia bariatrica elettiva è stato somministrato per la miorisoluzione, nell’ambito di un protocollo standardizzato (porpofol, fentanyl, desflurane) di anestesia generale bilanciata, rocuronio 1.0 mg/kg sul Corrected Body Weigth(CBW). Al termine dell’intervento chirurgico e alla comparsa di due risposte contrattili alla stimolazione TOF, i pazienti sono stati aleatoriamente assegnati a ricevere sugammadex 2 mg/kg CBW o neostigmina 0,05mg/kg + atropina 0,02 mg/kg CBW, e l’intervallo di tempo per ottenere il valore di TOF Ratio ≥ 0,90 è stato registrato; è stata inoltre valutata l’incidenza di PORC nella stessa popolazione di pazienti, continuando il monitoraggio TOF anche in PACU (Post Anaesthesia Care Unit). Il tempo per raggiungere un completo recupero della funzione muscolare (TOF-R ≥ 90%) è stato 3,5 volte più breve nel gruppo di pazienti destinati a ricevere sugammadex (tempo medio: 2m44s) rispetto al gruppo a cui è stata somministata neostigmina + atropina (tempo medio: 9 m 37 s); significati-
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OBESITÀ PATOLOGICA E REVERSIONE DEL BLOCCO NEUROMUSCOLARE ROCURONIO-INDOTTO
va, inoltre, è risultata la capacità del sugammadex, a differenza della neostigmina, di prevenire la comparsa di PORC in PACU nella quasi totalità dei pazienti studiati. La nostra esperienzarelativa alla miorisoluzione nel paziente gravemente obeso, ai rischi ad essa associati ed alla reversione del blocco, deriva dallo studio condotto, dal febbraio 2012 ad oggi, dal nostro gruppo di lavoro su una popolazione di pazienti morbidly obese (BMI >40 kg/m2). Abbiamo studiato la rapidità e completezza d’azione edil profilo di sicurezza disugammadex e neostigmina/atropina quando impiegati nella reversione del blocco neuromuscolare rocuronio-indotto di moderata profondità e, successivamente, messo a confronto i risultati ottenuti. Abbiamo inoltre, nei pazienti giunti in PACU, continuato a monitorare la funzione neuromuscolare sia clinicamente che quantitativamente, per individuare l’eventuale comparsa di PORC. Abbiamo scelto di adottare, per la popolazione di pazienti studiata (pz. gravemente obesi candidati a chirurgia generale) un protocollo anestesiologico unico e che prevedesse l’impiego esclusivo di anestetici generali endovenosi (TIVA: propofol + remifentanil), in maniera da ridurre il più possibile e levariazioni interindividuali nella risposta ai farmaci, e il rischio di interazionedegli anestetici generali (nel senso di un potenziamento dell’azione del rocuronio) sulla funzione neuromuscolare20,21. I risultati preliminari della nostra osservazione hanno evidenziato, in analogia a quanto riscontrato da Gaszynski et al.8, la netta superiorità, in termini di rapidità d’azione e di sicurezza (reazioni avverse; curarizzazione residua e rischi associati), del sugammadex rispetto alla neostigmina nei pazienti gravemente obesi destinati a chirurgia generale. In conclusione,sulla base delle attuali conoscenze farmacologiche ed in accordo con la letteratura, l’associazione rocuronio – sugammadex sembra essere il protocollo maggiormente sicuro per la gestione della miorisoluzione nel paziente obeso. Bibliografia 1. Adams JP, Murphy PG. Obesity in anaesthesia and intensive care. Br J Anaesth. 2000;85:91-108. 2. Bagatini A, Trindade RD, Gomes CR, Marcks R. Anesthesia for bariatric surgery: retrospective evaluation and literature review.Rev Bras Anestesiol. 2006;56:205-22. 3. R J Davies, N J Ali, J R Stradling Neck circumference and other clinical features in the diagnosis of the obstructive sleep apnoea syndrome. Thorax 1992;47:101-105 doi: 10.1136/thx.47.2.101. 4. Berg H, Roed J, Viby-Mogensen J, Mortensen CR, Engbaek J, Skovgaard LT, Krintel JJResidual neuromuscular block is a risk factor for postoperative pulmonary complications. A prospective, randomised, and blinded study of postoperative pulmonary complications after atracurium, vecuronium and pancuronium. ActaAnaesthesiol Scand. 1997;41:1095-103. 5. Murphy GS. Residual neuromuscular blockade: incidence, assessment, and relevance in the postoperative period. Minerva Anestesiol. 2006;72:97-109. 6. Murphy GS, Brull SJ. Residual neuromuscular block: lessons unlearned. Part I: definitions, incidence, and adverse
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Esempio di scenari A. GUARINO
Paziente in SO elezione
Genova
Team SO: Anestesista (Guarino), Chirurgo, Ferrista, Infermiere SO Paziente maschio obeso, BMI 72, intervento elezione /adenoma prostata). T-M < 6cc, I-I limitata (?), modesto sospetto OSA (paziente già rinviato per avere polisonnografia: modesta OSA). Visita anestesiologica con errori valutazione (altro collega Ambulatorio). Check-list in diretta con errori. Spinale tentata: ago non adeguato… fallisce… paziente agitato non respira bene… Chirurgo insistente . Decisione AG (senza curaro)…difficoltà BMV (anche a due mani), CL 3e, esegue 4 tentativi e desatura. Si Rescue ventilazione con LMAclassic - teme reflusso e decide FOI con Aintree, ma è stato usato in TI e non correttamente ricondizionato… IOT/VAM difficile da prevedere? Come valuto difficoltà intubazione, difficoltà BMV? Corretto affrontare DAM con tecnica ALR? Obeso sempre da affrontare con FOI? Corretto ricondizionamento FOB. Ruolo VDL. Corretta “ramped position” pz obeso. Farmaci (OSA: come valutare? – rischi sedazione, analgesici stupefacenti? Curaro o no?). PACU o TIPO? Prevedere decorso postoperatorio e definire limiti se mancano queste strutture… Spunti discussione debriefing e discussione skills: – documentazione e tracciabilità; – consegna scheda al paziente; – efficacia team leadership; – utilizzo ottimale risorse. Emergenza SO, Guido Merli Team SO: Anestesista (Merli), Chirurgo, Ostetrica, Infermiere SO. Gravida a termine, ricoverata in centro con team per analgesia parto. Cesareo con an.spinale programmato per giorno dopo. Pasto leggero (gelato e camomilla) ore 18,30. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Ore 20.30: Ostetrica allerta An di guardia (team analgesia parto, esperto ALR) di peggioramento clinico (ipotensione, CTG patologico). Arriva in SO agitata: rapida valutazione: Mallampati 4, I-I e T-M nella norma… prevede ALR. Farle perdere coscienza mentre si posiziona sul letto chirurgico. Grande confusione con interferenza dell’Ostetrica Come assistere respiro se DI? Rischio VAD e ALR Gestione rischio aspirazione: – PEG 2nd generazione rescue (I-gel o SLMA o LT…) – ruolo e tecnica RSI e evidenze m.Sellick, – NMBA…Sc o Rocuronio ? (Sugammadex presente?) Spunti discussione: – efficacia team leadership; – utilizzo ottimale risorse; – anticipazione ruoli – interferenze in comunicazione; – discussione skills non usuali per team abituato a ALR. Simulazione emergenza in reparto, Ruggero Corso Team (Reparto Chir): chirurgo di guardia, Rianimatore (Corso) e Infermiere MET (Cabrini?), Infermiere Reparto, moglie invadente Uomo 39 anni, ricoverato PS 12 ore prima per febbre, sospetta fascite necrotizzante da ascesso gluteo, vena incannulata con 18G chiuso, viene chiamato MET per incannulamento venoso e consiglio terapia medica (?) … (errata valutazione emergenza) Sepsi franca, paziente agitato… Monitorato: desaturato, si decide di assicurare vie aeree La moglie riferisce precedente anestesia con intubazione difficile (il Rianimatore effettua score LEMON). Farmaci? Laringoscopia tentata due volte fallimento (manca materiale nello zaino MET…).
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ESEMPIO DI SCENARI
Spunti discussione: – lecito INT cieca? – materiali zaino emergenza; – efficacia team leadership; – utilizzo ottimale risorse; – ruolo VDL; – tecniche cricotiro ; – tecniche controllo posizione TT fuori dalla SO. Emergenza PS, Massimiliano Sorbello Team Rianimazione Medico (Sorbello) e Infermiere – Medico e Infermiere DEA. Chiamata codice rosso dal PS: maschio 64 anni BPCO riacutizzato, obeso (BMI 35), cosciente ma disorientato, ipercapnico e ipossico. Distanza Inter-incisiva 3 cm e T-M 6 cm. Discussione fra Anestesista e Medico DEA su: a) RSI con succinilcolina 0,5-1,0 mg/kg; b) Tracheotomia d’urgenza chiamando il chirurgo; c) Riossigenazione con accesso intercricotiroideo; d) Richiesta in urgenza del FOB.
riacutizzato, obeso (BMI 35), cosciente ma disorientato, ipercapnico e ipossico. Distanza Inter-incisiva 3 cm e T-M 6 cm. Discussione fra Anestesista e Medico DEA su: a) RSI con succinilcolina 0,5-1,0 mg/kg; b) Tracheotomia d’urgenza chiamando il chirurgo; c) Riossigenazione con accesso intercricotiroideo; d) Richiesta in urgenza del FOB. Il Rianimatore impone preossigenazione, NIV Peculiarità e caratteristiche fisiopatologiche del pz critico adulto. Applicazione delle tecniche di gestione delle vie aeree al pz critico: valutazione, monitoraggio, attrezzature routine e devices rescue. Ruolo della NIV. Spunti discussione: – Responsabilità e competenze. Team leadership – ….. – …..
Il Rianimatore impone preossigenazione, NIV Peculiarità e caratteristiche fisiopatologiche del pz critico adulto. Applicazione delle tecniche di gestione delle vie aeree al pz critico: valutazione, monitoraggio, attrezzature routine e devices rescue. Ruolo della NIV. Spunti discussione: – Responsabilità e competenze. Team leadership – ….. – …..
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TERAPIA INTENSIVA Moderatori: A.G. Blasetti, B. Pezza, M. Postiglione
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EFFICACIA E SICUREZZA DEL SILDENAFIL NEL TRATTAMENTO DELL’IPERTENSIONE POLMONARE: CASO CLINICO
A. Bardini, G. Bassi, A. Doveri, E. Gargano, G. Morelli, L. Ricci, A. Vignali Anestesia, Rianimazione Elisoccorso, Azienda ASL1 Toscana, Ospedale Civico di Carrara, Carrara, Italia
Obiettivo. La definizione di ipertensione polmonare (IP) prevede la documentazione di valori di pressione arteriosa polmonare (PAP) media ≥25 mmHg a riposo. La nuova classificazione clinica è stata definita nel meeting di Dana Point e prevede la distinzione in: – IP arteriosa: idiopatica, ereditaria, legata a farmaci e tossine, associata (malattie del connettivo, ipertensione portale, cardiopatie congenite); – IP dovute a patologie del cuore sinistro; – IP dovuta a patologie del parenchima polmonare e/o ipossiemia; – IP dovuta a tromboembolia polmonare; – IP legata a meccanismi patogenetici non noti. Ad oggi, l’IP rappresenta una sfida particolarmente complessa per il medico, e gli approcci terapeutici a disposizione non sempre si dimostrano in grado di trattare in maniera soddisfacente questa patologia. Lo scopo di questo studio è evidenziare l’efficacia del Sildenafil (inibitore delle fosfodiesterasi di tipo 5 cGMP-specifica, PDE5) nel determinare una riduzione della pressione polmonare mediata dall’attivazione della via metabolica NO/cGMP. Il razionale che ha portato alla valutazione dell’effetto di tali farmaci nella IP si basa sulla distribuzione della fosfodiesterasi di tipo 5, considerevolmente rappresentata a livello della circolazione polmonare, consentendo quindi una significativa vasodilatazione polmonare e miglioramento del quadro clinico. Materiali e metodi. Paziente con anamnesi di BPCO moderata-grave ed epatopatia esotossica. Si ricovera in rianimazione per grave dispnea, scompenso cardiaco destro, ascite ed edemi degli arti inferiori. Al controllo eco-cardio-color-Doppler si evidenzia: funzione ventricolare sinistra nella norma, dilatazione ventricolare destra (EDD 39 mm), riduzione della funzione sistolica ventricolare destra (TAPSE 19 mm) e PAPs 73 mmHg. I dati evidenziati con metodica transtoracica sono stati poi confermati e monitorati con metodica transesofagea. Il paziente ha eseguito terapia con Sildenafil, inizialmente a dosaggio di 20 mg x 3 vv/die, aumentato fino a 40 mg x 3 vv/die che ha continuato per 25 giorni. Risultati. I controlli seriati mediante eco-color-Doppler transtoracico e transesofageo hanno mostrato una risposta progressivamente positiva degli indici del ventricolo destro: riduzione del diametro telediastolico, aumento del TAPSE e risoluzione dell’ipertensione polmonare fino al ripristino di valori normali della PAPs. Dal punto di vista clinico si è evidenziato un netto miglioramento del quadro respiratorio, successivo ed efficace weaning ventilatorio, scomparsa dell’ascite e dello stato edematoso e dopo una lunga degenza legata a complicanze di shock settico il paziente è stato dimesso in centro di riabilitazione. Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Discussione e conclusioni. Si è evidenziata e confermata la sicurezza e l’efficacia della terapia con Sildenafil nell’ipertensione polmonare. Il trattamento si è dimostrato capace di attenuare la sintomatologia in accordo con un significativo miglioramento dell’ipertensione polmonare e degli indici di funzionalità del ventricolo destro.
P029
INTOSSICAZIONE DA LITIO: UN CASO CLINICO
A. Merola, P. Di Monaco, G.C. Aliberti, B. Pezza
UOC Rianimazione e Anestesia d’Urgenza, AORN “Sant’Anna e San Sebastiano”, Caserta, Italia
Obiettivo. I sali di litio sono utilizzati nel trattamento della depressione e dei disturbi bipolari da più di 50 anni. Il range terapeutico del litio si attesta a valori inferiori a 1,5 mEq/l; l’esposizione cronica a concentrazioni plasmatiche superiori comporta gravi e permanenti disturbi cognitivi e neurologici fino alla morte. A dosaggi maggiori di 2,5 mEq/l il trattamento di prima scelta è l’emodialisi, insieme all’iperidratazione e all’uso di farmaci che migliorano la performance renale; l’impiego di diuretici è controindicato poiché essi riducono l’escrezione renale del litio. Il fenoldopam, grazie alle sue caratteristiche farmacodinamiche e farmacocinetiche quali aumento della filtrazione glomerulare e riduzione del riassorbimento dell’acqua a livello del tubulo collettore distale, può essere utile nella gestione dell’intossicazione da litio. Materiali e metodi. Una donna di 50 anni, apparentemente in buone condizioni, giunge in Pronto Soccorso di altra azienda ospedaliera per uno stato di stupore. La paziente è affetta da psicosi cronica in terapia con flufenazina decanoato, alprazolam e carbolitio 450 mg/die. Al triage si presenta con GCS 12/15, FR 16 atti/minuto, SpO2 98%, FC 86 bpm, PA 110/60 mmHg. L’elettrocardiogramma è nella norma. Viene praticata terapia infusiva reidratante con cristalloidi: 1000 ml nell’arco di 2 ore con monitoraggio della diuresi. Gli esami di laboratorio (eseguiti prima della somministrazione di liquidi reidratanti) alterati sono: WBC 14,37 x 103/ml, urea 36 mg/dl, creatinina 2,1 mg/dl, kaliemia 5,6 mEq/l, litio 4,68 mEq/l. TC encefalo, RX torace ed ecografia addominale sono nella norma. Per il subentrare di uno stato di male epilettico si contatta l’anestesista che seda, intuba la paziente e la trasferisce presso la nostra rianimazione, dopo seduta emodialitica d’urgenza. Giunta in Rianimazione si proseguono sedazione, ventilazione meccanica, iperidratazione e monitoraggio dei parametri vitali, si imposta terapia con fenoldopam (0,1 γ/kg/min) per prevenire il danno renale da litio; si esegue ulteriore seduta dialitica per l’alterazione della clearance della creatinina (49 ml/min), nonostante la diuresi conservata e la litiemia di 2,47 mEq/l. In seconda giornata si sospende la sedazione e si estuba la paziente in assenza di esiti neurologici. Risultati. Nel corso del ricovero i parametri emodinamici e respiratori si sono mantenuti stabili, la funzionalità renale è migliorata senza l’uso di diuretici ed il dosaggio del litio è rientrato nel range terapeutico (1,8 mEq/l). In quarta giornata la paziente viene trasferita presso il reparto di psichiatria da cui viene dimessa in terapia domiciliare (Figg. 1-3).
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P033
SCVO2 COME PREDITTORE DI FALLIMENTO DELL’ESTUBAZIONE DURANTE TRIAL DI RESPIRO SPONTANEO
M. Zanoni 1 , A. Boggero 1 , R. Vaschetto 1 , F. Della Corte 1 , P. Navalesi2 1Dipartimento
di Anestesia Rianimazione e Terapia Intensiva, Azienda Ospedaliero Universitaria Maggiore della Carità, Novara, Italia di Anestesia e Rianimazione, Ospedale Sant’Andrea, Vercelli ASL 11, Vercelli, Italia 2Dipartimento
Figura 1. – Risultati: litiemia (mEq/l).
Figura 2. – Risultati: clearance creatinina (ml/min).
Figura 3. – Risultati: output urinario (ml/h).
Discussione e conclusioni. Nell’intossicazione da litio l’escrezione del farmaco deve essere spinta con l’iperidratazione e l’ausilio della dialisi, senza usare diuretici dell’ansa che ne riducono l’escrezione. Poiché il fenoldopam migliora la perfusione renale incrementando la velocità di filtrazione glomerulare e riducendo il riassorbimento dell’acqua a livello del tubulo collettore distale, si è pensato di utilizzarlo per ottenere la rapida eliminazione del litio proteggendo l’emuntorio renale dal danno tubulare acuto. L’infusione di fenoldopam 0,1 γ/kg/min ha sicuramente contribuito a migliorare l’output urinario, a stabilizzare la clearance della creatinina e quindi a far rientrare nel range terapeutico i valori della litiemia.
Obiettivo. Il 10-20% dei pazienti che supera un trial di respiro spontaneo (TRS) va incontro a reintubazione entro 48-72 ore con conseguente aumento della mortalità e dei costi. Una riduzione della saturazione venosa centrale (SCVO2) ≥4.5% dopo TRS è stata identificata come fattore predittivo di fallimento dell’estubazione con sensibilità 88% e specificità 95% in 73 pazienti difficili da svezzare. L’obiettivo di questo studio è valutare l’utilità della SCVO2 nell’individuare i pazienti a rischio di fallimento dell’estubazione in una popolazione generale di Terapia Intensiva. Materiali e metodi. 165 pazienti, ricoverati nel centro di Rianimazione dell’AOU Maggiore della Carità di Novara dal 31 gennaio 2011 al 31 maggio 2012, sono stati inclusi. Tutti i pazienti erano in ventilazione meccanica e sono stati sottoposti a TRS quando giudicati pronti secondo criteri clinici e ventilatori. Il TRS consisteva nell’impostare il ventilatore in modalità Pressione di Supporto con pressione positiva di fine espirazione di 2 cmH2O in assenza di supporto, con frazione inspirata di ossigeno pari a 35%, per 30 minuti. Il TRS era considerato superato se il rapporto tra frequenza respiratoria e volume corrente risultava inferiore a 105; se il rapporto tra PaO2 e FiO2 era ≥200 e se il pH arterioso risultava ≥7,35 con PaCO2 ≤50 mmHg. I parametri emodinamici ed emogasanalitici sono stati misurati prima e al termine del trial. Il fallimento dell’estubazione era definito come necessità di reintubazione o di ventilazione non invasiva (NIV) entro 48 ore dall’estubazione. Risultati. 12 pazienti (7,3%) sono andati incontro a fallimento dell’estubazione. La differenza tra SCVO2 pre- e post-TRS era ≥4,5% in 4 pazienti (33,3%) che hanno fallito l’estubazione, e in 12 pazienti (7,8%) che sono stati estubati con successo, p = 0,02 con test Chi-quadro. La SCVO2 pre-TRS è risultata più bassa nei pazienti che hanno fallito l’estubazione (70% vs 75,0%, p=0,04), così come la SCVO2 post-TRS (71,2% vs 62.5%, p=0,02). L’area sotto la curva era 0,67 per quanto riguarda il valore di SCVO2 pre-TRS e 0,69 per la SCVO2 postTRS. Il cut off di ≥4,5 % tra ScvO2 pre e post trial risultava avere una sensibilità del 24% e una specificità del 82%. Discussione e conclusioni. Il nostro studio ha evidenziato una riduzione di SCVO2 ≥4,5% nel 33,3% dei pazienti che falliscono l’estubazione dopo aver superato il TRS, vs il 7,8% dei pazienti che non ha fallito l’estubazione (p=0,02). Tuttavia, sensibilità e specificità sono troppo basse (rispettivamente, 24% e 82%) per ritenere la SCVO2 pre- e post-TRS un parametro utilizzabile nella pratica clinica. Secondo criteri pubblicati in passato, un indice di successo del weaning deve presentare almeno una sensibilità del 95% e una specificità del 65% e quindi, perché raggiunga l’80% di valore predittivo positivo, il campione deve includere almeno 88 fallimenti dell’estubazione. La numerosità dei pazienti inclusi nel nostro studio è quindi ancora troppo limitata. L’utilità della variazione di SCVO2 come fattore predittivo di fallimento dell’estubazione deve essere ulteriormente indagata.
Bibliografia 1. Waring WS. Management of Lithium Toxicity. Toxicological Reviews 2006;25:221-30. 2. Offerman SR, Alsop JA, Lee J, Holmes JF. Hospitalized lithium overdose cases reported to the California Poison Control System. Clin Toxicol (Phila) 2010;48:443-8. 3. Giuliani E, Iseppi D, Orlandi MC, Alfonso A, Barbieri A. Prolonged neurological burden in severe lithium intoxication. Minerva Anestesiologica 2010;76:463-5. 4. Li Y, Shaw S, Kamsteeg EJ, Vandewalle A, Deen PM. Development of lithiuminduced nephrogenic diabetes insipidus is dissociated from adenyl cyclase activity. J Am Soc Nephrol 2006;17:1063-72. 5. Walker RJ, Weggery S, Bedford JJ, McDonald FJ, EllisG, Leader JP. Lithiuminduced reduction in urinary concentrating ability and Urinary aquaporin 2 (AQP2) excretion in healthy volunteers. Kidney Int 2005;67:291-4. 6. de Oliveira JL et al. Lithium nephrotoxicity. Rev Assoc Med Bras 2010;56:600-6.
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ASV NEL SUPPORTO RESPIRATORIO DEL PA ZIENTE MIASTENICO: CASE REPORT
S. Ianni, P. Celli, E. Privato, B. D’Auria, B. Bergantino, C. Testa, M. Bernardinetti, F. Ruberto, F. Pugliese UOD Anestesia e Terapia Intensiva Trapianti d’Organo, Università degli Studi “La Sapienza”, Roma, Italia
Obiettivo. La crisi miastenica è un’importante minaccia per i pazienti affetti da miastenia gravis spesso associata a compli-
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canze respiratorie con necessità di supporto ventilatorio. Nei pazienti che necessitano di ventilazione meccanica può risultare spesso difficoltoso lo svezzamento. La ASV (Adaptive Support Ventilation) è una metodica ventilatoria con controllo a circuito chiuso. Come in SIMV, a pressione controllata, ma con valori di frequenza respiratoria e pressione di supporto che si adattano, atto per atto, alla meccanica respiratoria del paziente. La ASV mantiene sempre il controllo del volume di ventilazione e garantisce sempre una ventilazione minuto minima, un tidal volume effettivo e un numero minimo di atti respiratori. Caso clinico. Riportiamo il caso di una paziente di 27 anni giunta al Pronto Soccorso con i primi sintomi di miastenia gravis (ptosi palpebrale bilaterale e diplopia). Confermata la diagnosi, inizia la terapia medica. Successivamente viene sottoposta a Plasmaferesi. Una TC evidenzia una massa mediastinica (timoma). Nei giorni successivi insorge fatica respiratoria, scialorrea e tachicardia nonostante supporto con NIV. Si assiste ad un progressivo peggioramento dei parametri emogasanalitici (pH 7.15, PaO2 62 mmHg, pCO2 81 mmHg, HCO3- 22,5 mmol/L). La paziente intubata viene trasferita nella nostra terapia intensiva e sottoposta a timectomia. Abbiamo utilizzato la ASV per la gestione ventilatoria postoperatoria continuando la terapia medica. In settima giornata il completo recupero dell’autonomia respiratoria (pH 7,41, PaO2 167 mmHg, pCO2 35 mmHg, HCO3- 22,2 mmol/L) ha permesso l’estubazione senza successive complicanze. Conclusioni. La ASV permette un continuo adattamento del ventilatore alle esigenze del paziente grazie all’automatica e continua modulazione della frequenza mandatoria e del supporto erogato, senza necessità di continuo intervento dell’operatore. Questo favorisce e supporta la progressiva, ma incostante, ripresa della funzionalità respiratoria tipica dei pazienti con crisi miasteniche, permettendo un rapido weaning.
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PALL FILTERS AS EFFECTIVE BARRIER IN H1N1 AND H3N2 PNEUMONIA A. Azzi 1, M. Bonizzoli 2, G. Cianchi 2, G. Zagli 2, S. Biondi 3, F. Corcioli1, A. Peris2 1Public
Health Department, University of Florence, Florence, Italy and Intensive Care Unit of Emergency Department, Careggi Teaching Hospital, Florence, Italy 3Postgraduate School of Anesthesia and Intensive Care, University of Florence and Careggi Teaching Hospital, Florence, Italy 2Anesthesia
Aim. Filtration devices are essential in mechanical ventilated patient, due to the risk of environmental contamination and, consequently, the rise of nosocomial infection number. This problem became more important during the recent H1N1 pandemic. The aim of the present study was to test the efficacy of UltiporTM Pall breathing circuit filters (PALL ITALIA, Buccinasco, Milan, Italy) as viral diffusion control in ventilatory circuit of mechanically ventilated patients affected by H1N1 pneumonia. Materials and methods. The study was conducted in collaboration between the Public Health Department (University of Florence, IT) and the Anesthesia and Intensive Care Unit of Emergency Department (Careggi Teaching Hospital, Florence, IT). In vitro procedures: patient’s side of unused filter was contaminated by viral suspension (with either a strain of H1N1 2009 pandemic virus or a strain of H 3N2 subtype, 2011-2012 season). Viral inoculum (about 108 copies/ml) rested up to 8 hours. In a group of experiments, filters were applied to a ventilator circuit to simulate Intensive Care Unit situation. Viral load in patient’s and in ventilator’s side of filters was measured by quantitative real time RT-PCR, by washing each side with 25 ml of buffered medium. Ex vivo procedures: filters applied to ventilatory circuit of patients affected by H3N2-induced ARDS were isolated after 4 to 7 hours of use. Viral load in patient’s and in ventilator’s side of filters was measured by quantitative real time RT-PCR. Results. In the in vitro series, RT-PCR showed the presence of low viral load in patient’s side of filter, but the ventilator side resulted free from virus. This result was confirmed in the ex vivo tests (6 patients). Vol. 78, Suppl. 1 al N. 10
Conclusions. The use of UltiporTM PALL filters in limiting the influenza virus diffusion in ventilator circuit resulted promising.
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CAN ABDOMINAL VACUUM ASSISTED CLOSURE THERAPY REDUCE ALSO PLEURAL EFFUSION?
S. Matano1, M. Bonizzoli1, S. Batacchi1, G. Zagli1, S. Damiani1, F. Barbani2, L. Tutino2, G. Cianchi1, A. Peris1
1Anesthesia and Intensive Care Unit of Emergency Department, Careggi Teaching Hospital, Florence, Italy 2Postgraduate School of Anesthesia and Intensive Care, University of Florence and Careggi Teaching Hospital, Florence, Italy
Aim. In critical ill patients, pleural effusion (PE) is a severe and frequent complication which could worsen morbidity and mortality. Distributed model of peritoneal fluid absorption provides that fluid circulation from the peritoneal cavity to the body is due to two components 1) direct absorption by diaphragmatic lymphatic and 2) tissues absorption. The fluid that enters the tissues layer is later absorbed into the lymphatic or into blood capillaries which are distributed within the tissue at different distances from the peritoneal surface. In critically ill patients, the onset of ascites is associated with the presence of shock and massive fluid resuscitation. The aim of the study was to compare the frequency of developing PE in in patients with intestinal pathology treated with Vacuum Assisted Closure (VAC®) therapy. Materials and methods. This study was performed at the Anesthesia and Intensive Care Unit (ICU) of Emergency Department of a tertiary referral hospital (Careggi Teaching Hospital, Florence, IT). A total of 122 patients admitted in (ICU) after emergency abdominal surgery due to bowel perforation, intestinal ischemia and abdominal sepsis (Dec 2008 Apr 2012) were included in the study. Among them, 50 patients were treated with post-surgical VAC® therapy due to intra-abdominal hypertension (defined according to the World Society of the Abdominal Compartment Syndrome consensus document). Control group (672 patients) did not need postoperative VAC® therapy. In both group, the PE was checked every day with bedside lung ultrasound performed on all patients after admission to the ICU and between the first to the fifth day of their ICU stay, with a multifrequency convex probe (3.5 to 5 MHz). Patients were examined in the supine position with the convex probe applied perpendicularly to the chest wall, being sure to screen all the intercostal spaces bilaterally from the base of the lung to the apex of the chest cavity. Results. The two groups were similar in demographic and clinical characteristics. The value of albumin and fluid load during the period of study was similarly. VAC® group had a significant reduction in the total number of diagnosed PE in comparison with the control group (6 vs 47 patients respectively, P5,6
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mmol/L (101 mg/dl) were considered as pathologic and defined as hyperglycemia. Univariate and multivariate regression analysis were employed to identify risk factors for intraoperative hyperglycemia and to identify postoperative complications related to this condition. Finally, a multivariate analysis was conducted in order to weight the role of intraoperative hyperglycemia versus other pre- and intraoperative conditions as risk factors for postoperative complications. A p values 5,6 mmol/l were: Body Mass Index >30 (p=0,003; OR 1,51, 1,14-1,99), diagnosis of diabetes (p5,6 mmol/L (p