Nel suo saggio del 19921 la studiosa francese Anne Cauquelin teorizza la distin-
zione, a suo avviso ... Lucidamente la Cauquelin rileva lo stretto rapporto che.
Il regime della comunicazione nell’arte Luca D’Elia
Dal “consumo” alla “comunicazione” Nel suo saggio del 19921 la studiosa francese Anne Cauquelin teorizza la distinzione, a suo avviso netta, fra arte moderna e arte contemporanea. La definizione di “moderna” sarebbe da attribuire a quell’arte che si afferma intorno al 1860, nel momento in cui entra in crisi il sistema iper-protetto e centralizzato dell’Accademia e la pratica artistica si sottopone integralmente al “moderno” regime del consumo. Si consuma un prodotto sotto forma di spettacolo, si consumano i segni spettacolari come prodotti. A innescare questo consumo generalizzato è «una grande macchina, industriosa, stimolante, tentacolare»2 : il mercato dell’arte. È la nascita dell’Avanguardia. Lucidamente la Cauquelin rileva lo stretto rapporto che si instaura fra l’artista d’avanguardia, isolato, ribelle, perennemente in lotta con la società mercantile borghese, alla quale oppone l’esasperata ricerca dell’autenticità della ispirazione artistica, e il sistema moderno del consumo dell’arte, in cui centrali sono alcune figure di “mediatori”: il critico, il gallerista, il mercante, il collezionista. L’artista offre alla pubblica opinione un’immagine di sé come esiliato, appartenente a un mondo “altro”, a un tempo affascinante e strano3 . Tuttavia i legami fra oppositività artistica e mercato dell’arte non soltanto si rafforzano ma tendono a divenire addirittura strutturali: l’opera d’arte è venduta proprio perché in aperto contrasto con il sistema mercantile e i valori che in esso si incarnano. 1
A. Cauquelin, L’arte contemporanea, tr. it. di M. Costa, Tempo Lungo Edizioni, Napoli 2000. Ibid., p. 26. 3 Cfr. ibid., p. 43. 2
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In questa opposizione tra il concetto tradizionale di opera d’arte e la società industriale moderna, è Baudelaire4 a trovare una soluzione definitiva. Alla minaccia che il sistema mercantile (chiara manifestazione di una società volgare, capitalista e pubblicitaria) fa pesare sull’arte, a questa nuova oggettivazione, espressa in termini di valore mercantile, Baudelaire oppone non una difesa dello statuto tradizionale dell’opera d’arte, bensì una sua oggettivazione assoluta. Dal momento che il valore estetico rischia di essere alienato dalla merce, è necessario non difendersi dall’alienazione, ma andare oltre l’alienazione stessa e combatterla sul suo stesso terreno. Occorre seguire l’inesorabile via dell’indifferenza e dell’equivalenza mercantile, facendo dell’opera d’arte una merce assoluta. Di fronte alla sfida moderna della merce, l’arte non deve cercare la propria salvezza in un disconoscimento critico; se così fosse, l’unica alternativa possibile sarebbe l’art pour l’art, torre d’avorio dell’artista esiliato, specchio derisorio e impotente del capitalismo5 . L’arte deve, insomma, diventare più merce della merce, oltrepassando il valore d’uso e persino il valore di scambio. Negli anni Sessanta del Novecento, al regime del consumo si sostituisce, secondo Anne Cauquelin, il regime della comunicazione, che caratterizzerebbe l’arte contemporanea. «Siamo passati dal consumo alla comunicazione»6 . Si tratta di una distinzione netta, basata su una periodizzazione che ben evidenzia la scissione moderno-postmoderno, insieme con le modificazioni radicali intervenute nella pratica artistica con l’affermazione dei mass media. Impostato su una simile linea interpretativa è il recente saggio della sociologa francese Nathalie Heinich7 , secondo la quale l’intera vicenda dell’arte contemporanea può essere interpretata come una continua trasgressione e come una straordinaria espansione del suo territorio. Tuttavia, questo oltrepassamento dei limiti non deve essere inteso come una totale assenza di norme, ma piuttosto come una complessa strategia della sfida e dello scandalo che rientra a pieno titolo nell’economia della comunicazione e dell’informazione. Analogamente a quella proposta dalla Cauquelin, risulta pertinente la distinzione compiuta dalla Heinich tra il paradigma moderno e il paradigma contemporaneo: per il primo il valore artistico risiede nell’opera e tutto ciò che le è esteriore si aggiunge al valore intrinseco dell’opera stessa; per il secondo il valore artistico risiede nell’insieme delle connessioni (discorsi, azioni, reti, situazioni ed effetti di senso) stabiliti intorno a un oggetto, che diventa soltanto un’occasione o un semplice pretesto. 4
Si veda Ch. Baudelaire, Scritti sull’arte, tr. it. di G. Guglielmi e E. Raimondi, Einaudi, Torino 1981. 5 Cfr. A. Hauser, Storia sociale dell’arte, 4 voll., tr. it. di A. Bovero, Einaudi, Torino 1987, vol. IV, pp. 22-26. 6 A. Cauquelin, op. cit., p. 45. 7 N. Heinich, Le triple jeu de l’art contemporain, Minuit, Paris 1998.
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La nozione di “rete” Secondo Anne Cauquelin l’arte contemporanea è fondata sulla «comunicazione in rete». In tale ambito assume un’importanza rilevante la nozione di rete, che sembra porsi a metà strada tra la «rete commerciale» e la «rete telecomunicazionale», anche se con una netta prevalenza per questa seconda caratterizzazione. La rete, in termini comunicazionali, «è un sistema di connessioni multipolari, sul quale può inserirsi un numero indefinito di accessi, poiché ogni punto della totalità della rete può fungere da punto di partenza per un’altra micro-rete»8 . Ciò vuol dire che la totalità è sempre passibile di estensione. Entrare in rete, “connettersi” alla rete significa avere accesso a tutti i punti della rete. Questo comporta una estrema labilità, una ristrutturazione permanente descrivibile in termini topologici. In questa topologia, priva com’è di un centro unico, non è importante un centro e nemmeno l’origine dell’informazione; ciò che conta è il movimento che permette la connessione. In tale situazione la nozione di «soggetto comunicante» è annullata a vantaggio di una produzione globale di comunicazione9 . La Cauquelin mette in evidenza alcune caratteristiche della rete. Analizziamo di seguito le principali. Auto-chiusura L’estrema estendibilità, dovuta alla continua attivazione delle connessioni, produce un effetto di auto-chiusura. Una volta entrati nella rete, non solo non è più possibile uscirne, ma, «poiché non esiste un percorso privilegiato ma un’infinità di punti, ogni accesso è a se stesso il proprio inizio e la propria fine: ogni parte della rete è virtualmente la totalità della rete»10 . La circolarità conduce alla tautologia: la rete ripete indefinitamente se stessa, ogni possibile messaggio si dissolve nella comunicazione globale totalizzante. Ridondanza e saturazione L’auto-chiusura, quale prodotto della ripetizione del sempre identico, è il segno dell’autonomia del sistema. Tuttavia occorre rilevare anche dei limiti di esercizio che tale situazione comporta. Se da un lato la ridondanza dei diversi vettori assicura il funzionamento e il mantenimento della rete, d’altra parte essa è in tal modo condannata all’usura per saturazione. Quando oltrepassa un certo tasso di ripetizioni, il sistema-rete, ormai saturo, diventa inutilizzabile. Il sistema-rete è chiuso su se stesso, non può uscire da se stesso, ed è in questo che consiste la sua debolezza. Esso assimila continuamente nuove informazioni, gli eventi, che tuttavia non costituiscono più alcuna novità: tutti i contenuti sono sullo stesso piano, tutti collocati nello stesso sistema circolare e ripetitivo, ogni differenza è annullata11 . 8
A. Cauquelin, op. cit., p. 48. Cfr. ibid. 10 Ibid., p. 49. 11 Cfr. ibid. 9
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Denominazione Per ovviare a questo limite di esercizio del sistema-rete si è ricorso alla denominazione. Il nome crea una differenza, sottrae al flusso grigio dell’indistinzione, indica un oggetto, isolandolo, sulla rete indifferenziata delle comunicazioni. La denominazione classifica, individualizza, designa una particolarità12 . Tuttavia la denominazione tende a inglobare il messaggio, tanto che quest’ultimo diventa pura denominazione: è il proprio nome che l’artista pubblicizza nella rete, finendo per identificare la propria “opera” con il proprio nome. Costruzione della realtà L’importanza decisiva del linguaggio determina progressivamente la scomparsa della presenza positiva della realtà fornita dai sensi, sostituita da un’altra realtà, di secondo grado, in cui vero e falso tendono a confondersi e a non essere più distinguibili. Alla percezione ordinaria del mondo si sovrappone una costruzione linguistica, i cui enunciati hanno valore di ingiunzione fino a determinare il campo delle azioni possibili13 . Anne Cauquelin si serve di questi concetti come nuovi strumenti per la comprensione e l’apprendimento della realtà contemporanea. Ci è sembrato utile richiamarli brevemente in quanto ben evidenziano il quadro di riferimento della contemporaneità artistica che, seguendo la periodizzazione suggerita dalla studiosa francese, comincerebbe proprio con Warhol. La nozione di rete offre più di uno spunto per un modello interpretativo del mondo contemporaneo dell’arte. Essa suggerisce, in primo luogo, l’immagine di un movimento orizzontale multidirezionale, in cui ogni profondità tende a essere annullata a tutto vantaggio di un sottile strato superficiale. È il trionfo della superficie sul volume. Da ciò segue, in secondo luogo, la predominanza del segno sulla cosa: prima ancora di essere esposta, l’opera, o piuttosto il suo segno, già circola nella rete. Tale situazione, in cui il segno precede ciò di cui è segno, consente di misurare tutta la distanza che corre tra l’opera, che perde evidentemente importanza, e il suo segno, ciò che è davvero rilevante. In terzo luogo occorre registrare la messa tra parentesi dell’artista: dal momento che la rete esclude la figura dell’autore del messaggio, in linea di principio l’opera e l’artista saranno considerati dalla rete comunicazionale, a un tempo, sia come suoi elementi costitutivi e strutturali, in quanto senza di essi la rete non ha ragion d’essere, sia come prodotti della rete stessa, in quanto senza la rete né l’artista né l’opera avrebbero visibilità14 . Correlativo alla diminuita importanza dell’artista è il dominio delle figure di mediatori professionisti (critici, galleristi, collezionisti), che sempre più si affermano come i veri produttori delle operazioni artistiche che promuovono. Allo sguardo dello spettatore vengono offerte non opere singole prodotte da singoli artisti, bensì l’immagine stessa della rete. «Quando vediamo un’opera della cosiddetta arte contemporanea vediamo in effetti l’arte contemporanea nel suo insieme, è 12
Cfr. ibid., p. 50. Cfr. ibid., p. 51. 14 Cfr. ibid., p. 59.
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questa che si espone alla vista come totalità, una totalità in sé chiusa e radicata ai suoi meccanismi di trasmissione»15 . Tali meccanismi non rimangono nascosti, ma sono esibiti, resi pubblici, pubblicizzati, secondo uno schema di visualizzazione che appartiene al principio stesso della comunicazione: dire tutto, raggiungere tutti, rendere tutto pubblico. L’arte contemporanea appare, dunque, come un sistema che si auto-produce e si auto-assimila; coloro che producono arte sono gli stessi che la consumano16 . Il risultato è una circolarità senza fine: tutto si gioca all’interno del sistema17 . Il contenente prende il sopravvento sul contenuto: è la pubblicizzazione a generare il significato; l’opera funge soltanto da supporto di un giudizio assiologico imposto dall’esterno: “questa è arte”. La moltiplicazione dei valori estetici comporta una diminuzione delle possibilità di giudizio (ma anche di piacere) estetico. La rete esibisce il proprio messaggio e, presentando l’opera, esibisce se stessa. Questo dispositivo dell’auto-consumo e dell’auto-esibizione dell’arte assicura compiutamente il ripiegamento del sistema su se stesso: «l’arte contemporanea è la sua immagine»18 .
La celebrazione della singolarità artistica: i “commutatori” Abbiamo mostrato come vi sia, secondo Anne Cauquelin, una netta frattura tra i due modelli dell’arte moderna e dell’arte contemporanea, il primo basato sul regime del consumo, il secondo su quello della comunicazione. Tuttavia, nell’ambito stesso dell’arte moderna, alcuni indizi potevano «far prevedere il sopraggiungere di una nuova situazione»19 . Emergono figure singolari che, con le loro pratiche innovative, i loro diversi modi di operare, si fanno interpreti di una rottura con il passato, creano sconcerto, annunciano, anticipando i tempi, una nuova realtà. Tali figure indiziarie sono i “commutatori”. L’autrice mutua il termine dalla linguistica, ambito in cui esso indica degli elementi che hanno una doppia funzione e un doppio regime: da un lato rimandano all’enunciato, il messaggio ricevuto nel presente, dall’altro rimandano all’enunciatore che lo ha enunciato precedentemente. Con il termine “commutatori” qui ci si riferisce a queste due modalità temporali: il messaggio, ricevuto nel presente, e il suo enunciatore, che ne è stato l’emittente nel passato. In tal modo viene sottolineata la connessione fra passato e presente, il doppio 15
Ibid. L’artista e teorico statunitense Joseph Kosuth ha indicato nella tautologia la caratteristica essenziale dell’operazione artistica, essendo l’arte null’altro che la definizione di se medesima. La perdita di credibilità dell’arte nel corso Novecento sarebbe una conseguenza del modernismo, che ha considerato le opere d’arte al pari di reliquie religiose, determinando il loro valore a partire soltanto da basi economiche. Secondo Kosuth un’opera d’arte altro non è che la presentazione dell’intenzione dell’artista, il quale tautologicamente certifica tale qualità. In tal modo l’artista assume il ruolo specifico del critico, rivolgendosi a un pubblico di artisti. Pertanto l’arte contemporanea non consente un approccio ingenuo, ma implica, al contrario, una conoscenza preliminare della situazione in cui l’arte stessa si colloca. Si veda in proposito J. Kosuth, Art after Philosophy and After. Collected Writings 1966-1990, a cura di J.-F. Lyotard, The Mit Press, Cambridge (Mass.) 1991. 17 Su questo tema si veda F. Poli, Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1999. 18 A. Cauquelin, op. cit., p. 64. 19 Ibid., p. 71. 16
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legame che si istituisce fra queste due unità temporali poste ai limiti dell’oggettivo (il messaggio emesso) e del soggettivo (la singolarità dell’enunciatore)20 . La Cauquelin si sofferma su tre figure-chiave che hanno contribuito alla trasformazione del regime moderno del consumo dell’arte nel regime contemporaneo della comunicazione: Marcel Duchamp, Andy Warhol, Leo Castelli. I primi due hanno portato a una nuova definizione estetica dell’opera d’arte, in una nuova epoca, che coincide con quella della sua “riproducibilità tecnica”. E poi Leo Castelli, figura emblematica del mercato internazionale, attraverso cui è possibile comprendere tutta l’importanza e l’utilità della rete comunicazionale. Dunque non pare affatto improbabile che, accanto ai nomi dei due artisti, compaia quello del mercantegallerista. La sua presenza fra i “commutatori” dell’arte del Ventesimo secolo segue, con logica coerenza, le considerazioni presentate dalla studiosa francese sul regime della comunicazione, quale cifra caratteristica dell’arte contemporanea. Prendiamo ora in esame le posizioni assunte da Duchamp e Warhol nell’ambito del sistema artistico contemporaneo, tentando di mettere in risalto analogie e differenze fra i loro modi di operare, alla luce delle considerazioni fin qui svolte sull’avvento del regime della comunicazione nel mondo dell’arte.
Il commutatore Duchamp Duchamp si pone come il referente, più o meno esplicito, di molti artisti contemporanei. Infatti, si ritrovano in lui già tutte le caratteristiche del modus operandi artistico contemporaneo. Innanzitutto, l’indifferenza per il valore estetico dell’opera d’arte, la sua qualità intrinseca. Egli si definisce anartista, non essendo più l’arte questione di contenuti ma di contenente. Analogamente nel 1964 McLuhan sosterrà che «il medium è il messaggio»21 , cancellando la distinzione classica fra messaggio (contenuto intenzionale) e canale di trasmissione (neutro e oggettivo), per affermare l’unicità della comunicazione attraverso il medium. Duchamp realizza lo stesso annullamento del contenuto intenzionale dell’opera nei confronti del contenente, essendo ormai soltanto quest’ultimo a conferire quell’“aura” intesa quale garanzia di autenticità artistica. Walter Benjamin assume un atteggiamento opposto nel suo saggio del 193622 , in cui deplora la perdita dell’aura dell’opera d’arte che, da unica e irripetibile, è diventata un mero multiplo nel gioco meccanico della riproducibilità tecnica. L’unicità dell’opera d’arte si identificava con la sua integrazione nel contesto della tradizione, dove la sua originaria articolazione trovava espressione nel culto, nell’ambito rituale. La riproducibilità tecnica dell’opera determina la sua emancipazione dal contesto cultuale accentuando di conseguenza il suo valore espositivo23 . Essendo prima legata al luogo per il quale era stata 20
Cfr. ibid. Si veda M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, tr. it. di E. Capriolo, Il Saggiatore, Milano 1967. 22 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1991. 23 Cfr. ibid., pp. 26-28. 21
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concepita, ora l’opera, attraverso i vari metodi di riproduzione tecnica che hanno vistosamente accresciuto la sua esponibilità, compare in luoghi inconsueti che ne decretano la perdita di autenticità. Con i primi ready made, la Ruota di bicicletta (1913) e l’orinatoio ribattezzato Fontana (1917), Duchamp abbandona il campo estetico propriamente detto. Nessun tocco, nessuna maniera, la “mano d’artista” si ritrae, lasciando spazio a una serie di “segni”, un sistema di indicatori che delimitano una nuova topologia: l’esposizione di oggetti “belli e fatti”, oggetti banali e comunemente disponibili nella quotidianità, segnala il fatto che soltanto il luogo in cui sono collocati li eleva al rango di “opere d’arte”. Il valore dell’opera, separandosi dall’oggetto in quanto tale, è ora strettamente legato alla nuova spazio-temporalità che si afferma con il prelievo dell’oggetto stesso dall’ordinaria quotidianità. Il ready made elimina del tutto la possibilità dell’espressione e della creazione. Esso determina l’annullamento del soggetto creatore. L’artista, nell’accezione classica del termine, scompare dietro una nuova figura che si limita a mostrare, a esibire, a indicare, a segnalare. Il ready made rappresenta il risultato estremo dei tentativi duchampiani di ridurre al minimo, fino a eliminare, il coefficiente artistico personale: nell’oggetto bello e fatto la presenza soggettiva dal punto di vista dell’intenzione artistica è drasticamente azzerata. Se il “fare” artistico, nella situazione sopra delineata, appare drasticamente ridotto, rimane pur sempre la “scelta”, in cui si riassume il nuovo ruolo svolto dall’artista. Se una importanza rilevante è assunta dal contenente spaziale, non meno importante è il contenente temporale, il momento, dato che la scelta dell’oggetto è del tutto casuale, occasionale. Sembra essere questo l’ultimo tratto che richiama l’artista del passato: il segno di una intuizione creatrice, di una presenza inventiva. Il ready made, incontrato per caso, indica lo stato dell’arte in un dato momento, è una parte della totalità del sistema dell’arte; non può essere considerata un’opera separata, dotata di un autonomo valore estetico. È piuttosto un indice, un segno nell’insieme di un sistema sintattico, che attraverso la sua sola posizione manifesta l’intera sintassi24 . Da qui l’importanza del linguaggio. In un gioco di semplici designazioni che si riduce a un puro indicare, che consiste nel prelevare un oggetto già presente nell’ordinario e attribuirgli un coefficiente artistico, i titoli degli assemblaggi diventano il sigillo di “autenticità” dell’oggetto “artistico”, ciò che propriamente lo distingue da un multiplo che, non elevato parimenti alla dignità artistica, conserva pienamente lo statuto della sua ordinaria banalità. Così l’orinatoio è una “fontana”, l’attaccapanni appoggiato a terra è un “trabocchetto”; e se l’oggetto appare riconoscibile come oggetto estetico (è il caso della Gioconda) è proprio l’aggiunta del titolo a spiazzarne il valore estetico: L.H.O.O.Q. (letta foneticamente in francese significa “lei ha freddo al culo”). Si tratta di ready made linguistici: la sintassi è perfetta, ma ne sfugge il senso. Diversamente dai giochi surrealisti, nessun effetto poetico viene ricercato; è soltanto un esercizio linguistico, che rimanda a se stesso, 24
Cfr. A. Cauquelin, op. cit., p. 77.
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congelato nella sua purezza definitiva. «Le parole sono come dei segni impalpabili, leggeri, che la catena della comunicazione può far circolare nel vuoto, esse servono ad un tempo come luogo e come tempo per gli oggetti che intitolano e si sostituiscono alla materia: il titolo è un colore»25 . Come, secondo Wittgenstein26 , i giochi linguistici chiariscono non il messaggio ma il sistema della lingua e i suoi ambiti di utilizzo, così le proposizioni di Duchamp illuminano non tanto gli oggetti stessi, di cui piuttosto tendono a oscurare il significato ordinario, quanto il funzionamento del sistema dell’arte.27 Richiamandoci all’interpretazione teorica della nozione di rete proposta da Anne Cauquelin, abbiamo precedentemente osservato come il rapporto dell’arte col sistema generale (sociale, politico, economico) non sia conflittuale, bensì teso all’integrazione. La singolarità di Duchamp (in ciò consiste, a nostro giudizio, la pregnanza della sua proposta artistica) è di aver messo a nudo un meccanismo, di aver svuotato l’artista e l’opera del loro contenuto intenzionale ed emozionale, di aver smontato l’antica ideologia dell’artista esiliato, rifiutato, isolato, estraneo a ogni forma di compromesso con quella società nei confronti della quale mostra un’accesa opposizione. La pluralità di ruoli assunti dall’artista (creatore, conservatore mussale, membro di una giuria che ha giudicato le sue stesse opere), legittima l’indecidibilità dell’operare duchampiano; l’artista non è più un elemento isolato dal sistema globale: «non c’è autore, non c’è spettatore, ma solo una catena di ‘comunicazione’ che si chiude su se stessa»28 . Duchamp mostra che l’estetico non è un territorio le cui leggi sono diverse da quelle del sistema generale, ma è soltanto una parte di un sistema comunicazionale circolare, senza inizio né fine. Le operazioni che si svolgono all’interno di una rete dipendono dalle proprietà della rete stessa, non dalla volontà del singolo artista. Come ha sottolineato Mario Costa, per Duchamp non si pone tanto la questione di decifrare l’una o l’altra delle sue opere; è piuttosto il senso della totalità dei suoi atteggiamenti e delle sue azioni che deve essere compreso29 . Su un piano più generale è opportuno riconoscere come le operazioni duchampiane utilizzino soltanto accidentalmente il sistema dell’arte e mirino nella sostanza, nell’atto stesso in cui disgregano e oltrepassano il costrutto teorico relativo all’artistico e all’estetico, a porre problemi generali di tipo logico ed epistemologico30 . L’atteggiamento di Duchamp è teso a una radicale rimessa in questione delle strutture epistemiche del sapere, nell’ambito di una metodica applicazione del dubbio cartesiano: si tratta di riattivare il possibile reso sterile dalla banalità e dalla ripetizione. L’incontro col 25
Ibid., p. 82. Per la teoria dei giochi linguistici si veda L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967. 27 Cfr. A. Cauquelin, op. cit., p. 82. 28 Ibid., p. 80. 29 Cfr. M. Costa, Sulle funzioni della critica d’arte e una messa a punto a proposito di Marcel Duchamp, Ricciardi, Napoli 1976, p. 23. 30 Cfr. M. Costa, Le immagini, la folla e il resto. Il dominio dell’immagine nella società contemporanea, ESI, Napoli 1982, p. 7. 26
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mondo si risolve tutto a livello corticale; ogni investimento affettivo viene ritirato a vantaggio di un energico e rigoroso ripensamento dell’esistente.
Il commutatore Warhol Da quanto detto sopra è facile comprendere come l’opera di Duchamp risulti di difficile accesso, protetta da un alone di discrezione che la rende disponibile soltanto a pochi “iniziati”, chiusa in un’atmosfera di segreto e mistero, tanto che il tentativo di rintracciare in essa i caratteri generali di un regime della comunicazione risulta tutt’altro che immediato. Al polo opposto, l’opera di Warhol è talmente pubblica e si serve in maniera così evidente e sistematica dei mezzi offerti dalla pubblicità commerciale, da rendere comunque problematica la valutazione della sua contemporaneità31 . Warhol entra nel circuito della comunicazione per immagini passando attraverso la pubblicità commerciale veicolata da giornali e riviste. Tuttavia, questa prima esperienza nel design pubblicitario sembra esigere un coinvolgimento ancora troppo stretto del soggetto, del genio creatore, con tutto il carico di invenzione, intuizione, creatività, sentito ancora come troppo oneroso. Apparentemente negli studi pubblicitari, largo spazio viene lasciato all’iniziativa creativa del soggetto, alla libertà del gusto individuale; in realtà, l’essenza della pubblicità, più che nella produzione, risiede nel consumo. Ciò che davvero è importante per la pubblicità non è tanto che venga creata e prodotta, quanto il fatto che venga subita e consumata con passiva assuefazione. Dunque Warhol si colloca, nella circolazione dell’immagine nel regime comunicazionale, alla fine del percorso, nel momento stesso del consumo dell’immagine massmediatica. Come Duchamp, Warhol abbandona l’estetico, lascia il mestiere di grafico pubblicitario per approdare all’ambito artistico; tale passaggio, paradossalmente, non è determinato dall’aspirazione a una maggiore libertà espressiva, quanto, piuttosto, da una ricerca di adesione a quella epidermica superficialità che connota il regime della comunicazione artificiale di massa. Warhol è il primo artista a iniziare un vasto pubblico al consumo feticistico di opere d’arte, non più stimabili in termini di abilità tecnica, ma trasformate, come ha sottolineato Jean Baudrillard, in «oggetti letteralmente superstiziosi, nel senso che non hanno più niente a che fare con una natura sublime dell’arte e non rispondono più a una credenza profonda nell’arte, ma ne perpetuano comunque la superstizione in tutte le sue forme»32 . Si registra, così, una rinuncia sempre più radicale del tocco, della manualità, del gesto, a vantaggio di una programmatica predilezione per un’assortita collezione di banalità: oggetti ordinari, kitsch, del comune consumo quotidiano; insomma dei duplicati, dei re-made. 31
Cfr. A. Cauquelin, op. cit., p. 85. J. Baudrillard, Illusione, disillusione estetiche, tr. it. di L. Guarino, Pagine d’Arte, Milano 1999, pp. 35-36. 32
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Come per Duchamp, si tratta anche qui di mostrare il già-esistente; ma al ready made, che resta unico e protetto da un alone di segreto e discrezione, Warhol oppone la serialità, la ripetizione, la saturazione dell’immagine moltiplicata indefinitamente. Tutto questo conduce a una nuova situazione caratterizzata dal paradosso di una spersonalizzazione iper-personalizzata. Se Duchamp attribuiva al luogo la garanzia dell’autenticità artistica del prodotto, allontanandosi dal campo estetico e tralasciando ogni questione di gusto, Warhol, mettendo in pratica la sua conoscenza delle reti comunicazionali, abbandona anche l’ultimo indizio di autenticità artistica che è il luogo di esposizione, per collocarsi sull’intero spazio della rete comunicazionale: in tal modo si attua il passaggio da un luogo determinato contrassegnato dall’etichetta “arte”, alla totalità del circuito della comunicazione massmediatica. Una delle leggi principali della rete è il paradosso, che si riferisce al circolo esistente tra colui che produce il messaggio e il messaggio stesso: secondo un meccanismo di autoriferimento, il messaggio rinvia a se stesso, senza significare altro che la sua semplice presenza all’interno della rete. In un sistema di comunicazione complesso il nome e l’opera si equivalgono: il nome “Warhol” non è una semplice firma apposta su un supporto, ma è esso stesso un’opera33 . Così l’apparente spersonalizzazione si trasforma, attraverso la semplice presenza della firma, in un’iper-personalizzazione ossessiva e totalizzante. Come le star hollywoodiane sono, al tempo stesso, il prodotto di una serie di realizzazioni cinematografiche e legittimano tali realizzazioni con la loro medesima presenza di star, così l’opera di Warhol vale come la presenza di una diva nel sistema di produzione che la esibisce. La star è, nella personalità che esibisce, impersonale; la star è un oggetto; non invecchia, appartiene alla rete prima ancora di appartenere a se stessa. Warhol, prima ancora di produrre l’opera, produce se stesso come la propria opera: in ciò consiste il paradosso del commutatore Warhol. L’oggetto che egli esibisce altro non è che un supporto del nome, propagazione ossessiva di una firma. Alla fine l’oggetto – questa bottiglia, questa scatola, questa star – è Warhol. A differenza di Duchamp, il cui nome si manteneva in tutta la sua singolarità, al riparo da ogni simulazione della firma, in Warhol la distinzione fra il nome, che designa la singolarità dell’autore, e la firma, quale segno che rinvia al nome, viene cancellata: nome, firma e opera sono la stessa cosa34 . Secondo l’indagine storico-artistica, Warhol appartiene alla Pop Art, al trionfo dell’arte americana degli anni Sessanta; dunque al limite dell’arte moderna. Tuttavia, se pure va considerato, in qualità di affermato artista pop, alla stregua di Rauschenberg, Johns o Lichtenstein35 , se ne distanzia per il modo in cui concepisce l’inserimento dell’arte nella società di massa. Con Warhol l’arte non solo si rapporta, ma penetra con decisione nel sistema di comunicazione massmediati33
Cfr. A. Cauquelin, op. cit., p. 92. Cfr. ibid., p. 93. 35 Robert Rauschenberg (1925), Jasper Johns (1930), Roy Lichetenstein (1923-1997) appartengono tutti al gruppo della Pop Art americana. 34
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ca, con un’ampiezza tale non riscontrabile in nessun altro artista moderno. Tale prorompente inserimento nella rete ci induce a considerare Warhol come appartenente all’arte contemporanea, come commutatore della nuova società basata sul regime della comunicazione. È proprio sul tipo di questa totale integrazione col sistema dei mass media che occorre riflettere per cogliere tutta la complessità della proposta artistica ed esistenziale dell’artista americano. Tutta l’opera di Andy Warhol si regge su una profonda tensione fra moderno e postmoderno: egli parte dall’immagine dell’informazione moderna veicolata da giornali e riviste, dalla televisione, dalla pubblicità commerciale. Tale immagine diffonde i miti moderni della bellezza (Marilyn Monroe) , del benessere (la Coca-Cola), del successo (Elvis Presley), del potere (il presidente Mao), del denaro (Agnelli): Warhol la sottopone a un processo di trasformazione che la sottrae al business, diciamo di primo livello, quello direttamente competitivo e concorrenziale, per immetterla in un altro business, di secondo livello. Quest’ultimo, tuttavia, non si pone in alternativa al primo, bensì ne costituisce una sorta di duplicato oppositivo. Lo stesso Warhol, in un famoso aforisma, sostiene: «La Business Art è il gradino subito dopo l’arte. Io ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista del business. Dopo aver fatto la cosa chiamata ‘arte’, o comunque la si voglia chiamare, mi sono dedicato alla Business Art. Voglio essere un Business-Man dell’Arte o un Artista del Business. Essere bravi negli affari è la forma d’arte più affascinante»36 . Un’affermazione che suona come una provocazione. Ma se collocata nell’universo di Warhol, nel Warhol-sistema, si spoglia immediatamente della sua aria provocatoria. La figura dell’artista esiliato, lontano dal mondo, che, animato da un’esigenza di purezza, produce un’opera geniale dotata di un valore unico e incomparabile, si è dissolta con l’abbandono dell’estetico. All’arte “pura” si è sostituita la Business Art; al fare artistico, unico e creativo, si è sostituita una “produzione”. Se, nel primo caso, la presenza dell’artista creatore appare essenziale, nel secondo si registra evidentemente il primato dell’impersonalità. La Factory37 , in tal senso, si pone quale determinazione emblematica della nuova concezione dell’operatività artistica. La “azienda” warholiana ha assunto 36 A. Warhol, La filosofia di Andy Warhol, tr. it. di R. Ponte e F. Ferretti, Bompiani, Milano 1999, p. 78. 37 Nel 1962 Warhol fissava il suo studio in un loft al 321 della 47th Street a New York, chiamando il luogo Factory. Non si trattava di una fabbrica o di un’impresa industriale, sebbene il nome vi alludesse in senso ironico e provocatorio. Piuttosto essa era paragonabile a un atelier rinascimentale. Sotto l’attenta e lucida guida di Warhol lavorava un gruppo di giovani di diversa estrazione sociale, accomunati dal rifiuto della convenzione e dell’establishment: omosessuali, lesbiche, artisti, registi, studenti, attori, poeti. Rapidamente la Factory divenne un importante punto di riferimento della movimentata scena artistica newyorkese degli anni Sessanta e Settanta. Il 3 giugno 1968 Valerie Solanas, una delle più radicali attiviste del movimento femminista, fondatrice dello Scum (Society for Cutting Up Men, ovvero società per fare a pezzi gli uomini), entrò alla Factory e sparò a Warhol, il quale, gravemente ferito, passò alcuni mesi in ospedale, lottando tra la vita e la morte. La Solanas compì il folle gesto poiché riteneva che Warhol le avesse rubato una sceneggiatura. In seguito a questo drammatico attentato, l’ingresso alla Factory fu consentito solo alle persone fidate.
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negli anni il ruolo di certificazione di successo e celebrità. Nel riconoscere, nell’attestare, e, quindi, nell’amplificare la fama e la visibilità di star hollywoodiane, personaggi dello spettacolo, ma anche prodotti di consumo di massa come la Coca-Cola o i detersivi Brillo, la Factory si situa con decisione nel cuore della rete, operando come un polo attrattivo fra i tanti. Una volta entrati in rete, occorre rimanervi; e per restarvi, l’unica via è quella dettata dalla rete stessa: si tratta di pubblicizzare l’esposizione, rendendola in qualche modo ossessiva e inevitabile. Ora, questa pubblicità appartiene alla stessa rete di comunicazione, della quale è opportuno controllare l’intero processo; ma tale processo rientra a pieno titolo nel campo del commercio, degli affari, del business. «È molto meglio fare della Business Art che della Art Art, perché la Art Art non riesce a reggere lo spazio che si prende come la Business Art. (Se la Business Art non regge il suo spazio esce dal mercato)»38 . Con la Business Art ci troviamo di fronte a una vera e propria trasformazione non solo dello statuto tradizionale dell’oggetto artistico, ma anche dell’operazione artistica. Se l’arte non ha più a che fare con la creazione spontanea e geniale, l’operare artistico si è ridotto a pura produzione meccanica. Baudrillard in proposito parla di snobismo macchinale39 . L’arte dell’Avanguardia del primo Novecento era già andata molto avanti nel processo di decostruzione del suo oggetto, ma Warhol si è spinto molto più lontano nell’annientamento dell’artista e dell’atto creativo. In ciò consiste il suo snobismo che, proprio perché macchinale, «ci alleggerisce di tutta l’affettazione dell’arte»40 . Mentre in Duchamp la macchina è ancora presente come meccanicità surrealista, ma non come macchinalità, ossia come realtà automatica del mondo moderno, con Warhol ci imbattiamo in una piena identificazione dell’artista con la macchinalità. Duchamp, come anche dadaisti e surrealisti, che hanno operato nella direzione di una decostruzione della rappresentazione e di una esplosione dell’opera d’arte, fanno tutti parte di un’avanguardia e rientrano nell’ambito dell’utopia critica. Warhol, invece, non appartiene a nessuna avanguardia e a nessuna utopia. Egli liquida l’utopia e si installa «nel cuore di nessun luogo»41 , che coincide con sé medesimo. Warhol si colloca nel cuore della rete, nell’ambito della quale altro non è che un centro che riflette la totalità della rete stessa. Chiuso su se stesso e, al contempo, aperto alla totalità del sistema, Warhol attraversa lo spazio dell’avanguardia e improvvisamente pone fine al ciclo dell’estetico. In tal modo egli realizza da un lato la liberazione dell’arte dalla sua utopia critica, dall’altro la liberazione del mondo dall’arte. Allo stadio di macchinalità raggiunto da Warhol ogni spazio critico regredisce fino a dileguarsi interamente; al posto della presenza rispettiva del soggetto e dell’oggetto si impone un nuovo spazio, paradossale, che coincide con la rispettiva scomparsa del soggetto e dell’oggetto. Dietro ogni immagine di Warhol non c’è il 38
A. Warhol, op. cit., p. 114. J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, tr. it. di G. Piana, R. Cortina, Milano 1996. 40 Ibid., p. 83. 41 Ibid. 39
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soggetto Warhol, ma semplicemente un centro fra i tanti della rete che si annulla nella totalità del sistema. L’agnosticismo di Warhol, come lo ha definito Baudrillard42 , si esprime nel fatto di non credere all’esistenza dell’arte. Forse l’arte esiste, ma non ci credo: così ragiona Warhol. Come l’agnostico non si affanna a glorificare Dio o a dimostrare la sua esistenza, così Warhol non si affanna a dimostrare l’esistenza dell’arte; per il semplice fatto che se ne può fare anche a meno. «Un artista è uno che produce cose di cui la gente non ha alcun bisogno ma che lui – per qualche ragione – pensa sia una buona cosa dargli»43 . Chiaro indizio della sensibilità postmoderna, la sfiducia nell’esistenza dell’arte conduce a credere soltanto nell’idea dell’arte, la quale, evidentemente, non ha nulla di estetico44 .
L’arte e la rete Senza dubbio Andy Warhol deve essere assunto quale paradigma di una nuova figura di artista che si afferma con l’avvento e lo sviluppo dei mass media e della società consumistica globalizzata che ne deriva. Nessun artista ha saputo, al pari di Warhol, sfruttare tutte le potenzialità offerte dal sistema-rete: dalla galleria di Leo Castelli alla Factory, dall’opera grafica al cinema, dalla promozione dei Velvet Underground45 all’edizione di Interview46 . Tutto questo fa parte dell’“universo-Warhol”: una fervida operatività multidirezionale che si espande all’insegna di uno dei “dogmi” del postmoderno: la comunicazione. Se l’arte “pura” rimane celata dietro un alone di segretezza e discrezione, chiusa e protetta da un luogo che la preserva da qualsiasi processo di dissoluzione della sua aura, la Business Art penetra con decisione nei circuiti comunicazionali tentando di raggiungere, nel tempo più breve, la massima espansione possibile. Ora dobbiamo porci un interrogativo: l’artista che entra nella rete conserva pienamente la propria libertà creativa o rimane asservito alle leggi della rete stessa? Rispondere a questa domanda significa fare luce sulla nuova realtà che caratterizza l’arte dal momento del suo ingresso nei circuiti della comunicazione massmediatica. Più che un mezzo che si offre all’artista, la rete sembra configurarsi propriamente come un mondo, quindi qualcosa di radicalmente differente da un mezzo; infatti a differenza del “mezzo”, che ciascuno può impiegare per un fine liberamente scelto, con il “mondo” non si dà altra libertà se non quella di prendervi parte o starsene in disparte47 . La rete si configura come una nuova topologia, un nuovo “mondo” la cui organizzazione è garantita dalle leggi imposte dalla rete medesima. 42
Cfr. ibid., p. 87. A. Warhol, op. cit., p. 114. 44 Cfr. J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, cit., pp. 87-88. 45 Dal 1966 Warhol comincia una collaborazione con il gruppo rock dei Velvet Underground. 46 Interview è il nome della rivista fondata da Warhol nel 1969. Nata come pubblicazione di cinema underground, nel 1973 si trasforma in mensile di spettacolo, moda, arte e attualità mondana, sotto la direzione di Bob Colacello. Interview è ancora oggi una delle più famose riviste americane. 47 Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 626-627. 43
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Nel pensiero contemporaneo la nozione di rete sembra assumere il ruolo svolto dal concetto di organizzazione nella scienza ottocentesca48 : ciò che importa oggi non è tanto il richiamo a norme razionali atte a legittimare i meccanismi disciplinari, quanto piuttosto l’instaurazione e la persistenza di schemi comunicazionali indipendenti da ciò che attraverso di loro viene veicolato. Con l’avvento del postmoderno il conflitto fra ordine e libertà, che costituisce il dramma della modernità, sembra giungere a soluzione. L’interesse filosofico del concetto di rete, come sottolinea Mario Perniola49 , dipende dalla possibilità di intendere tale nozione come un ordine senza fondamento e una libertà senza soggetto. In tale direzione Heidegger50 considera da un lato il Gefüge (struttura) come una dimensione più ampia del sistema, e dall’altro l’Offene (l’aperto) come una dimensione più ampia della liberazione. Pensare l’ordine come sistema disciplinare e la libertà come emancipazione del soggetto significa restare nell’ambito della modernità, l’età della scienza e dell’umanesimo. Se l’arte intesa come carcere, come chiusura è solidale con la modernità, l’arte contemporanea (nel senso sopra specificato che la identifica con il postmoderno) non è un carcere ma una rete, dove l’immagine di chiusura lascia il posto a quella di un’apertura nel sistema. Ciò naturalmente comporta un nuovo e differente approccio alla stessa nozione di arte, privata ora di quei caratteri di opposizione pregiudiziale alla società caratteristici della concezione romantica. Nel momento in cui si realizza la totale integrazione dell’opera d’arte nel sistema-rete tende a dissolversi anche il legame strutturale fra mercato e oppositività artistica: l’arte che entra in rete eredita dal circuito economico i meccanismi del mercato, e in tal modo da “Art Art” si trasforma in “Business Art”. Lo statuto tradizionale della categoria artistica è l’insieme delle determinazioni fondamentali del modo di essere dell’operazione artistica e del prodotto da tale operazione. Tanto l’operazione quanto il prodotto si pongono come una totalità compiuta: l’operazione, nella misura in cui diviene cosciente di se stessa, non tollera la presenza di nessun’altra operazione; il prodotto, nella misura in cui si pone come opera d’arte, annulla tutti i prodotti esterni51 . Con la nuova concezione dell’arte, invece, quella totalità compiuta che accomunava operazione e prodotto appare dapprima scissa (nell’Avanguardia, ancora sotto l’egida del moderno), per poi ricomporsi in una nuova totalità (con Warhol, ad esempio, nel postmoderno), che altro non è se non la totalità della rete. Se da un lato l’operazione artistica diventa ora mera operazione commerciale, dall’altro l’opera è oggetto di un ingente potenziamento del suo valore. Ci troviamo di fronte all’«estasi del valore, che fa esplodere la nozione di mercato dell’arte e annienta al tempo stesso l’opera d’arte 48
Cfr. M. Perniola, “Arte e carcere”, in L. Russo (a cura di), Oggi l’arte è un carcere?, Aesthetica, Palermo 1982, pp. 11-24. 49 Cfr. ibid. 50 Cfr. M. Heidegger, Schellings Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit, Tübingen 1971. 51 Cfr. M. Perniola, L’alienazione artistica, Mursia, Milano 1971, pp. 18-19.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura in quanto tale»52 . Nella concezione moderna l’opposto complementare dell’arte è l’economia. Come l’arte monopolizza il significato, così l’economia monopolizza la realtà; mentre la prima è il significato separato dalla realtà, la seconda è la realtà separata dal significato. «Alla idealità dell’arte è complementare la materialità dell’economia. [. . . ] L’idealità dell’arte riguarda tanto l’operazione artistica quanto il prodotto. L’operazione è ideale non perché priva di manifestazioni esteriori, [. . . ] ma perché rimanda al suo prodotto senza risolversi in esso; così l’opera d’arte è ideale perché a sua volta rimanda all’operazione che l’ha prodotta senza risolversi in essa»53 . Così come l’operazione artistica termina in un prodotto libero, autonomo, analogamente l’opera d’arte si pone quale prodotto di un’operazione spontanea. C’è, tuttavia, un residuo che accomuna tanto l’operazione che l’opera: si tratta della sfera del desiderio, dell’immaginazione, del simbolico, di ciò che non si dà immediatamente né con l’opera né con il processo che la realizza. L’operazione tenta di soddisfare il desiderio da cui nasce attraverso l’opera d’arte, al tempo stesso l’opera d’arte cerca di risolvere il mondo desiderato nel prodotto dell’operazione artistica. Ma né l’una né l’altra riescono in tali tentativi: la loro totalità, infatti, è soltanto ideale, in quanto non comprende la sfera economica, la realtà materiale54 . La nuova concezione postmoderna della categoria artistica, basata sulla nozione di rete, sembra fornire una soluzione al problema. L’arte che si è fatta business risulta essere pienamente integrata nella sfera economica; grazie al dinamismo multipolare delle reti comunicazionali sia l’opera che l’operazione artistica si inseriscono energicamente nei circuiti economico-commerciali. Ora che tanto l’opera quanto il processo che la conduce a realizzazione si sono trasformati rispettivamente in un prodotto commerciale e in un’operazione commerciale, quella totalità soltanto ideale (in quanto separata dalla realtà materiale economica) cede il posto a una nuova totalità, non ideale ma reale. Paradossalmente, tuttavia, in questa nuova totalità reale l’immaginario si sostituisce alla realtà: l’immaginario è il regno del sogno, della specularità, del narcisismo; a esso manca sia il carattere mediato e allusivo del simbolico, sia l’aspra e dura traumaticità del reale55 . Una domanda, ora, si impone: con la fine della modernità si assiste, dunque, a un inesorabile processo di morte dell’arte? Da un lato, come sostiene Debray, è il denaro ad aver “salvato” l’arte. «L’arte, fortunatamente, è un mercato e noi divinizziamo la prima perché abbiamo divinizzato in primo luogo e soprattutto il secondo. O, piuttosto, il miracolo della sopravvivenza viene dall’incontro tra le caratteristiche fisiche dell’oggetto d’arte [. . . ] e le proprietà miracolose del denaro. Ossia, l’alleanza di due feticismi in uno solo»56 . D’altra parte i nuovi criteri di 52
J. Baudrillard, Il delitto perfetto, cit., p. 85. M. Perniola, L’alienazione artistica, cit., pp. 20-22. 54 Ibid. 55 Cfr. M. Perniola, L’arte e la sua ombra, cit., p. 14. 56 R. Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, tr. it. di A. Pinotti, Il Castoro, Milano 1999, p. 197. 53
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giudizio e valutazione della categoria artistica che l’epoca postmoderna inevitabilmente impone, suggeriscono un’ipotesi più ottimista sulla sopravvivenza dell’arte. Infatti, se esiste un nocciolo duro, un nucleo inviolato nell’arte, questo non deve essere cercato nel soggetto, nell’artista, nel suo desiderio di espressione, quanto piuttosto nell’opera, nella sua radicale estraneità, nella sua irriducibilità a un’unica identità, nella sua essenziale enigmaticità. L’arte, in sostanza, sembra non potersi mai dissolvere interamente nel mercato, nella comunicazione, nella rete; pur aderendo alle leggi e ai parametri economici dettati dai circuiti in cui è inserita, essa custodisce un nucleo insondabile e incomunicabile, un fondo buio che è la fonte di un’infinità di interpretazioni.
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