Wittgenstein - Tra sottosuolo e sole

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Wittgenstein pensava al suo lavoro filosofico in termini profondamente etici. Lo afferma ... Nella sua opera matura, uscita postuma, le Ricerche filosofiche, scrive.
WITTGENSTEIN E L'ETICA di Piergiorgio Donatelli* Wittgenstein pensava al suo lavoro filosofico in termini profondamente etici. Lo afferma lui stesso. Parlando del Tractatus, scrive che "il senso del libro è un senso etico" (L. Wittgenstein, Lettere a Ludwig von Ficker, Roma, Armando, 1974, p. 72). Nella sua opera matura, uscita postuma, le Ricerche filosofiche, scrive che la filosofia è connessa a inquietudini profonde e che il lavoro del filosofo è rivolto a portare pace ai pensieri (Torino, Einaudi, 1983, §§111, 133). Il lavoro filosofico, scrive a un certo punto nei primi anni Trenta, è un lavoro su se stessi; le difficoltà da superare sono difficoltà della volontà e non dell'intelletto (Filosofia, Roma, Donzelli, 1996, p. 5). La ricerca di trasparenza Per comprendere l'insegnamento di Wittgenstein sull'etica dobbiamo mettere in primo piano il collegamento tra la sua concezione del lavoro filosofico e questa tensione etica. Wittgenstein ha scritto anche qualcosa sull'etica, ma molto poco. Ci sono le proposizioni alla fine del Tractatus e c'è la conferenza che tenne nel 1929. Alcune lezioni tenute a Cambridge nei primi anni Trenta riguardano anche temi etici. Ma non è molto fertile provare a leggere queste osservazioni indipendentemente dal fatto che Wittgenstein considerava che il suo intero lavoro filosofico era attraversato da uno spirito etico (P. Donatelli, Wittgenstein e l'etica, Roma-Bari, Laterza, 1998, cap. III). Ma qual era lo spirito del suo lavoro? C'è una prefazione che Wittgenstein scrive nel 1930, quando pensava di pubblicare in breve tempo il suo nuovo libro, che ci può aiutare. Egli scrive: "Essere apprezzato dal tipico uomo di scienza occidentale non mi importa affatto, perché costui non capisce lo spirito in cui io scrivo. La nostra cultura è caratterizzata dalla parola 'progresso'. […] Essa è tipicamente costruttiva. La sua attività consiste nell'erigere qualcosa di sempre più complesso. E anche la chiarezza serve a sua volta solo a questo scopo, non è fine a se stessa. Per me, al contrario, la chiarezza, la trasparenza sono fine a se stesse. A me non interessa innalzare un edificio, ma piuttosto vedere in trasparenza dinanzi a me le fondamenta degli edifici possibili" (Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1988, pp. 27-28). Non dovremmo qui contrapporre il concetto di progresso a quello di conservazione. È vero che il suo pensiero, qui e in molti luoghi, sembra in sintonia con un'atmosfera di crisi e di sfiducia nelle grandi correnti della civiltà occidentale che egli condivideva con altri pensatori della sua epoca. Ma insistere su questa linea non è molto proficuo. Wittgenstein ha in mente un'altra contrapposizione. Sostiene che c'è un modo di affrontare i problemi che si pongono in una determinata cultura, ed è quello di costruire qualcosa : di costruire una teoria che spieghi ciò che troviamo problematico, per esempio, ma non solo. Nelle parti precedenti della prefazione dà esempi vasti di ciò che intende con questo spirito costruttivo: parla della musica, dell'industria, dell'architettura, ma anche del socialismo e del fascismo. Credo che qui Wittgenstein stia esprimendo questa idea. Possiamo dare una risposta ai problemi che gli esseri umani si pongono costruendo una teoria, una teoria della natura umana, costruendo una nuova civiltà, cost ruendo nuovi apparati di produzione e così via. Ma c'è uno spirito diverso, che di fronte ai problemi degli esseri umani, non vuole costruire qualcosa di nuovo ma vuole vedere con chiarezza, cioè guadagnare una comprensione intima e nuova di quei problemi, di ciò che gli individui trovano interessante e che li coinvolge. Wittgenstein vuole rendere trasparente il terreno su cui gli esseri umani si muovono e non costruire qualcosa su quel terreno. La dimensione etica del silenzio

Nella fase matura della sua riflessione, il terreno che egli dissoda è in larga parte quello del linguaggio, della matematica, dei concetti psicologici. Solo raramente si occupa di problemi etici. In alcune osservazioni parla della musica e dell'architettura. Quindi l'etica, che rientra talvolta nelle sue osservazioni, va presa solo come uno tra i molti esempi del tipo di terreno che egli vuole dissodare. È invece l'idea stessa di dissodare il terreno, l'idea che abbiamo perso contatto con quel terreno – con le parole con cui esprimia mo consigli morali, con cui contiamo o con cui parliamo della vita mentali degli altri – che Wittgenstein considera etica. È questa la dimensione etica profonda nei cui termini caratterizza tutto il suo lavoro filosofico. Perciò il suo insegnamento nei confronti dell'etica riguarda il modo in cui lo spirito con cui Wittgenstein faceva filosofia può essere uno spirito che possiamo applicare a problemi che noi consideriamo morali. È un insegnamento che possiamo caratterizzare quindi come una forma di attenzione e di ascolto. Il suo insegnamento etico si trova in ciò che il suo metodo filosofico ci consente di vedere, nel tipo di chiarezza che ci aiuta a conquistare. Voglio suggerire qui due direzioni. La prima riguarda il Tractatus. L'idea che lo spirito del suo lavoro non sia quello di costruire ma di guardare al terreno, alle fondamenta di possibili edifici, è un'idea degli anni Trenta, quando Wittgenstein mette in discussione il Tractatus. Tuttavia lo spirito che questa idea descrive appartiene anche alla sua prima opera, ma vi trova un'espressione che poi Wittgenstein abbandonò. Nel Tractatus Wittgenstein pensa alla chiarezza come a un tipo di silenzio. Egli scrive che i problemi filosofici, di cui dà vari esempi lungo il libro, si risolvono riconoscendo che erano fraintendimenti, e cioè scomparendo. Alla fine del libro scrive infatti che chi ha compreso il suo autore deve riuscire a liberarsi di tutte le sue parole. Ora qui c'è un possibile insegnamento etico, che va nella direzione di riuscire a scorgere una dimensione etica nei silenzi. Per esempio, non nel contenuto delle parole ma in ciò che esse producono in noi, come se fossero dei gesti. Le parole delle persone ci possono toccare con un'intensità e una capacità di trasformazione che non sta nelle parole stesse, e che non possiamo spiegare in quel modo. Lo vediamo talvolta con le parole della letteratura. In una lettera a Engelmann del 1919 Wittgenstein scrive che "quando non ci si studia di esprimere l'inesprimibile, allora niente va perduto" (P. Engelmann, Lettere di Ludwig Wittgenstein, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 7). Un'altra direzione è quella indicata dalla filosofia matura di Wittgenstein. Qui lo spirito con cui egli dissoda il terreno prende un'altra strada ed è quella di vedere come le nostre parole abbiano un significato perché sono espressione di un terreno fatto di pratiche, di sentimenti e di atteggiamenti che ciascuno di noi condivide con gli altri. Qui l'insegnamento per l'etica va nella direzione di riconoscere cosa dà vita ai nostri scrupoli morali. Un libro di Cora Diamond, L'immaginazione e la vita morale (Roma, Carocci, 2006) indica bene come sviluppare questo approccio. Diamond mostra come le considerazioni morali, ciò che ci tocca nella nascita e nella morte, ciò che ci disturba nell'ingiustizia, e così via, ci parlino perché abbiamo sentimenti, atteggiamenti e concetti di un certo tipo. L'etica qui apprende da Wittgenstein una lezione su come risvegliare questo complesso insieme di percezioni e sentimenti con cui avvolgiamo le c ircostanze della vita. Possiamo procedere in etica costruendo una teoria, dell'obbligo, della giustizia, dei diritti e così via, che dia una soluzione a ciò che ci preoccupa. Un modo di leggere Wittgenstein è di arrivare a vedere che questa è una risposta, ma non è l'unica.

*Insegna Bioetica e Storia della filosofia morale presso la facoltà di Filosofia dell'Università di Roma 'La Sapienza'. Con E. Lecaldano ha curato Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni (Milano, LED, 1996). È

autore tra l'altro di Wittgenstein e l'etica (Roma-Bari, Laterza, 1998) e La filosofia morale (Roma-Bari, Laterza, 2001)

ETICA E DOMANDA DI SALVEZZA IN WITTGENSTEIN di Luigi Alici* L'interesse per il problema etico nel pensiero di Wittgenstein non è estraneo al clima culturale in cui nasce anche il 'Circolo di Vienna', che critica ogni forma di cognitivismo etico in nome di una 'grande divisione', fatta risalire a Hume, secondo la quale c'è un dislivello logicamente incolmabile fra proposizioni descrittive e proposizioni prescrittive. La posizione di Wittgenstein risente di questo clima e per molti versi lo alimenta: l'esperienza naturale non è in alcun modo 'impregnata' di valore morale. L'etica come condizione del mondo Tuttavia il suo modo di concepire l'etica ha una propria radicalità e originalità, che non si lascia racchiudere facilmente in altre correnti storiografiche. Un contributo formidabile alla ricostruzione della concezione etica del filosofo viennese è offerta dalla recentissima scoperta, nel 1996, di un quaderno di diari, scritti a Cambridge negli anni 1930-32 e a Skjolden, in Norvegia, fra il 1936 e il 1937, donato dalla sorella di Wittgenstein, Margarete, a un suo amico, Rudolf Koder, che era stato collega di Ludwig nella scuola elementare di Puchberg (Movimenti del pensiero. Diari 1930-32/1936-37, Macerata, Quodlibet, 1999). Nel suo Tractatus logico-philosophicus Wittgenstein esclude categoricamente l'etica dal novero delle proposizioni descrittive, quindi empiricamente verificabili. Come la filosofia, nemmeno l'etica è una dottrina; essa appartiene a un orizzonte che si sottrae per principio a ogni cattura rappresentativa: "È chiaro che l'etica non può formularsi. L'etica è trascendentale" (Tractatus logico-philosophicus, § 6.421). In un certo senso, l'etica va considerata in parallelo anche con la logica, benché a un livello molto diverso: entrambe, infatti, non trattano del mondo, ma sono una condizione del mondo. Il fatto che all'etica sia impedito qualsiasi accesso all'ambito del linguaggio, non significa però che essa sia in sé priva di rilevanza per la vita umana: al contrario, è una "tendenza fondamentale dell'animo umano" e, per questo, un'istanza di valore che accompagna costantemente la riflessione del filosofo viennese. Contrariamente a un’interpretazione accreditata per molti anni, per Wittgenstein la sottrazione dell'etica alla sfera linguistica non corrisponde al disegno neopositivistico della sua eliminazione, ma, al contrario, esprime la volontà di riconoscerle uno statuto privilegiato. Nel 1919, in una lettera egli scrive a proposito del Tractatus: "il senso del libro è un senso etico […] il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante" (Lettere a Ludwig von Ficker, Roma, Armando, 1974, p. 72). Ma già nei cosiddetti Diari segreti, che raccolgono appunti scritti in forma privata fra il 1914 e il 1916, quando il giovane soldato militava in un reparto di artiglieria sotto il fuoco delle batterie russe, affiora l'avvertimento di un radicalismo etico che cerca risposte globali alla domanda di salvezza appellandosi a un orizzonte soprannaturale: "Il difficile è vivere nel bene!! Ma la vita buona, è bella. 'Ma non la mia, bensì la tua volontà sia fatta'" (Diari segreti, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 109).

Tra l'assolutezza dell'etica e la domanda di salvezza Il 17 novembre 1929 Wittgenstein tiene a Cambridge un'importante conferenza sull'etica, pubblicata postuma. Il testo rispecchia alcune tesi del Tractatus, soprattutto per quanto riguarda il carattere soprannaturale dell'etica e la denuncia dell'abuso linguistico, ma lo stile filosofico è nuovo. Ora egli intende l'etica come la ricerca su ciò che ha valore, su ciò che è realmente importante e fa la vita meritevole di

essere vissuta. Il 'senso etico', quindi, è qualcosa di assoluto, e dunque assolutamente non riducibile all'ambito naturale, dove ogni giudizio di valore relativo è una pura asserzione sui fatti. Proprio per questo, "l'etica, se è qualcosa, è soprannaturale". Ecco il grande paradosso, che nasce da un vero e proprio 'urto' tra etica e linguaggio; se la dimensione etica potesse essere costretta dentro la dimensione linguistica finirebbe per scardinarla, poiché svuoterebbe il linguaggio di tutte le sue funzioni ordinarie ed empiriche: "Se un uomo potesse scrivere un libro di etica che fosse veramente un libro di etica, questo libro distruggerebbe, con un'esplosione, tutti gli altri libri del mondo" (Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Milano, Adelphi, 1967, p. 11). In quanto sorge dal desiderio di intercettare il significato ultimo della vita, il bene assoluto, l'assoluto valore, l'etica dunque non può essere una scienza. Essa non aggiunge nulla alla nostra conoscenza. Ogni teoria scientifica, infatti, in senso proprio non ha alcun valore assoluto e non contribuisce a rispondere alla grande domanda intorno al senso della vita. Questo gli era chiaro sin dai tempi del Tractatus: "Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati" (Tractatus logico-philosophicus, § 6.52). Nei Diari questo avvertimento è particolarmente forte e si manifesta, da un lato nella consapevolezza della fragilità umana dinanzi all'assolutezza etica (accrescendo in Wittgenstein un senso acuto dell''indecenza' della propria vita, che va ben oltre l'esperienza personale della omosessualità), dall'altro riaccende una domanda di salvezza, che si trasforma in un'autentica invocazione religiosa. Esiste un rapporto stretto in Wittgenstein tra etica e religione: l'etica è una sorta di stupore originario dinanzi alla domanda ineffabile intorno al senso della vita, mentre per identificare il senso della vita con Dio occorre passare dalla originarietà dell'etico all'ulteriorità del religioso, affidato alla fede nella promessa salvifica di una rivelazione positiva. Riconoscendo che l'istanza etica rinvia a una luce originaria che l'uomo sembra incapace di guardare e di cui, nello stesso tempo, non può fare a meno, Wittgenstein prende nettamente le distanze da ogni forma di naturalismo etico (che riduce il valore a un fatto), senza però cadere nelle forme opposte dell'emotivismo (che assegna alle proposizioni etiche una funzione puramente imperativa). L'etica resta quindi confinata in una sorta di orizzonte ineliminabile e inesprimibile: essa continua a essere un appello assoluto, che non offre risposte articolabili e di conseguenza non può neppure essere insegnata.

*Insegna Filosofia morale nell'Università degli studi di Macerata. Tra le opere più recenti: Il terzo escluso (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2004); Forme della reciprocità. Comunità, istituzioni, ethos , (a cura di), Bologna, Il Mulino, 2004. Pubblicato il 14/3/2006

CHE COS'È LA FILOSOFIA PER WITTGENSTEIN? di Chiara Cappelletto* La concezione che Ludwig Wittgenstein ha della filosofia corrisponde per molti versi al modo in cui essa è entrata quasi per caso nella sua vita, dove biografia e pensiero sono momenti tra loro complementari: "Il lavoro filosofico è propriamente […] un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (E su cosa si pretende da esse)". (Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1988, p. 43). Nato in una famiglia di colti industriali della Vienna di fine secolo, Wittgenstein compì studi a indirizzo tecnico a Linz. Lesse a scuola I principi della meccanica di Hertz e avrebbe voluto studiare con il grande fisico Boltzmann, di cui apprezzava gli scritti di filosofia della scienza. Dopo il suicidio di Boltzmann, si trasferì a Berlino, per specializzarsi in ingegneria meccanica, e partì quindi per l'Inghilterra dove approfondì le sue conoscenze nel settore aereonautico. A Manchester un compagno di studi gli consigliò i Principia mathematica di Bertrand Russell: Wittgenstein è dunque, innanzitutto, un ingegnere che si dedica alla matematica pura e alla logica. Il carattere tecnico-scientifico della sua preparazione ne segna l'approccio alla filosofia, di cui ignorò sempre la storia e lo studio disciplinato dei classici. Egli non intende dunque la filosofia come una messe di conoscenze, un insieme di verità di cui entrare in possesso, né un metodo dato: "Non c'è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire ci sono differenti terapie" (Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1999, § 133). Si tratta allora di indagare i modi in cui si configurano le singole descrizioni linguistiche degli aspetti del mondo che veniamo a conoscere, educando a vederle con la massima perspicuità.

Condizioni di senso e compito della filosofia Questa pluralità dei metodi risponde all'esigenza di restare aderenti a ciò che si dice di volta in volta. Questa istanza è regolata da un criterio cui Wittgenstein si atterrà sempre, per il quale "dire 'mi meraviglio di questo e di quest'altro' ha senso solo se posso immaginarmi che le cose non stiano così. […] Ma non ha senso dire che mi meraviglio per l'esistenza del mondo, poiché non posso immaginarlo come non esistente" (Sull'etica, in Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Milano, Adelphi, 1976, pp. 1-18, qui pp. 13-14). Ritroviamo tale posizione, espressa in questi termini nel 1929, ancora sullo sfondo di Della certezza, del 1951, che prende l'avvio dalla critica dell'evidenza di alcuni truismi difesi da George Edward Moore (per esempio: "esiste un corpo umano che è il corpo", "questo calamaio è alla sinistra di questa penna"), che Wittgenstein critica analizzando la grammatica del nostro linguaggio. La filosofia, a parer suo, deve infatti descrivere fin nel dettaglio i modi in cui usiamo parole e proposizioni, poiché è a causa di un loro uso pervertito che si sviluppano teorie filosofiche incapaci di dar conto della ragione per cui si sostengono o meno certe verità. La frase "il mondo non esiste", o "il mio corpo esiste", è logicamente insensata perché si fonda sul presupposto metafisico dell'esistenza, dell'esserci. La filosofia deve dunque delineare le condizioni di senso che rendono corretta una certa espressione linguistica. La prima di queste condizioni è che noi parliamo in un mondo che ci preesiste, e rispetto alla cui esistenza non è possibile sollevare alcun dubbio scettico, perché la sua sola formulazione è la prova che disponiamo di un linguaggio che ci rende membri di un gruppo, al cui interno giocare a scacchi o far filosofia sono attività equivalenti. In ciascuna di esse si esprime infatti la natura umana. Perciò Wittgenstein scrive: "La mia vita mostra che so" (Della certezza, Torino, Einaudi, 1999, § 7). La conoscenza non è che l'espressione di quanto apprendiamo nella nostra vita: sappiamo ciò che abbiamo imparato.

La filosofia è un modo di osservare Disciplinare la descrizione dell'esperienza non significa approntare una precettistica. Le stesse definizioni dei concetti che proprio Wittgenstein ha elaborato, quali 'gioco linguistico' e 'forma di vita', si declinano a seconda del contesto d'uso in cui vengono messe in pratica. Egli ha infatti espunto dalla filosofia ogni ambizione fondazionalistica. Ciò corrisponde al carattere sperimentale della sua ricerca e all'impossibilità di catalogarne i risultati: la sua filosofia mostra il modo in cui il pensiero può articolarsi, ma non cosa deve pensare; è una filosofia del come, non del che cosa. D'altra parte, le cose si danno immediatamente allo sguardo e ricercarne una spiegazione celata dietro l'apparenza significherebbe solamente compiere un'opera di mistificazione. Wittgenstein è persuaso – come lo era stato Goethe con cui ha molte e decisive affinità, tanto che si può parlare di una morfologia wittgensteiniana – che la filosofia sia la forma secondo cui noi osserviamo le cose, le quali appaiono per come effettivamente sono – una fiducia nella giustezza dell'apparenza che si contrappone al tratto metafisico di molto pensiero occidentale –. Non c'è dunque progressione in questo lavoro di ricerca, la filosofia fa vedere meglio, non di più: "Il mio metodo - scrive Wittgenstein - è quello di rilevare errori nel linguaggio. Sto usando la parola 'filosofia' per l'attività di rilevazione di tali errori" (Wittgenstein's Lectures, Cambridge, 1932-1935, pp. 27-28). La filosofia è un'attività terapeutica In questa rilevazione consiste la natura 'terapeutica' della sua filosofia che riporta "le parole dal loro uso metafisico al loro uso corretto [normale] nel linguaggio. […] Tale è l'aspetto della soluzione di tutte le difficoltà filosofiche" (Filosofia, Roma, Donzelli, 1996, § 88). Come si arrivi a dare una presentazione perspicua dei fatti linguistici, attraverso cui si descrivono quelli antropologici, non è però immediatamente chiaro a Wittgenstein. Se infatti egli afferma fin dal Tractatus che la filosofia deve rischiarare linguisticamente il pensiero e non formulare teorie sul linguaggio in cui il pensiero si esprime, tuttavia, per mostrare che alcune proposizioni filosofiche non sono sostenibili, occorre prima aver descritto come funziona correttamente il linguaggio, e cioè averne elaborato una teoria, ma proprio l'elaborazione di una teoria filosofica del linguaggio è insensata nel momento in cui postula una sua 'essenza'. Wittgenstein risolve il paradosso intendendo la filosofia come un'attività che procede con la costruzione e l'esibizione di esempi di casi linguistici che affidano al lettore dei suoi scritti il compito di pensare per conto proprio (cfr. Filosofia e Ricerche filosofiche).

*Ricercatrice di Filosofia presso l'Università degli Studi di Milano, si occupa di teoria dell'immagine e della forma nel pensiero filosofico novecentesco. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il rito delle pulci. Wittgenstein morfologo, Milano, Il Castoro, 2004.

IL LINGUAGGIO NELLA FILOSOFIA DI WITTGENSTEIN di Sara Fortuna* La fama e l'importanza del pensiero di Wittgenstein sono legate a una riflessione che ruota intorno al linguaggio. A essa viene fatta risalire da alcuni studiosi la svolta linguistica (linguistic turn) della filosofia del Novecento, affidata a due opere, tra le più influenti del pensiero contemporaneo, il Tractatus logicophilosophicus e le Ricerche filosofiche (v. F. D'Agostini, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni, Milano, Cortina, 1997, pp.123-131).

Il linguaggio come raffigurazione di stati di cose Il Tractatus propone una concezione sofisticata di referenzialismo linguistico. Wittgenstein racconta di essere stato condotto a questa idea sulla natura del linguaggio guardando un plastico che riproduceva un incidente automobilistico: il linguaggio, insomma, proprio come il plastico, rappresenta il mondo; lo fa attraverso proposizioni sensate, ma anche con immagini o modelli tridimensionali, che possono raffigurare correttamente o scorrettamente stati di cose. C'è però una condizione fondamentale perché il linguaggio possa parlare del mondo ed è che mondo e linguaggio condividano la stessa forma logica. Quest'ultima non può essere detta, in quanto non si riferisce a nessun fatto del mondo, ma è piuttosto la condizione del riferimento, che può essere solo mostrata. La filosofia si trova perciò in una condizione paradossale perché le stesse proposizioni con cui descrive questo fatto si rivelano destituite di ogni senso e il Tractatus si chiude con un movimento di autoannullamento: "Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate (unsinnig), se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v'è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo" e "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" (Tractatus logico-philosophicus, Torino, Einaudi, 1998, §§ 6.54, 7).

La critica alla concezione referenzialistica Wittgenstein sottopone più tardi questa concezione della natura del linguaggio a una critica serrata che confluisce nelle Ricerche filosofiche. Il linguaggio non funziona come una nomenclatura; le parole non sono cioè un insieme di etichette che è possibile apporre idealmente agli oggetti a cui si riferiscono. Il linguaggio umano è piuttosto un intreccio eterogeneo di attività che includono un vasto ambito di pratiche, che Wittgenstein chiama giochi linguistici, costituite da componenti linguistiche e non linguistiche. Dei giochi linguistici fanno parte, per esempio, ordinare e eseguire l'ordine dato, riferire un avvenimento e fare congetture rispetto a esso, inventare una storia e leggerla, fare una battuta e raccontarla, cantare in girotondo, chiedere, ringraziare, imprecare ecc. (Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1999, § 23). Il significato corrisponde dunque nella maggior parte dei casi al suo uso all'interno di un determinato contesto. Giochi linguistici e somiglianze di famiglia La nozione di gioco linguistico si riferisce dunque a molteplici e mutevoli pratiche linguistiche, che sono tra loro correlate attraverso una rete aperta di analogie, le somiglianze di famiglia: "Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola, - ma che sono imparentati l'uno con l'altro in molti modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti

'linguaggi'" (Ricerche filosofiche, cit., § 65). Il modo in cui le Ricerche filosofiche concepiscono i tratti che legano i diversi membri di una famiglia costituisce una sfida alla teoria dei concetti tradizionale, ripresa e sviluppata in epoca contemporanea dalla psicologia con la teoria del prototipo. Nessun membro deve possedere una o più caratteristiche comuni a tutti gli altri membri, come affermava invece la concezione classica dei concetti. Per far parte, nell'esempio wittgensteiniano, della stessa famiglia dei giochi è sufficiente che sia possibile collegare due membri qualsiasi attraverso una serie di altri membri che abbiano ognuno almeno una caratteristica comune con quelli che lo seguono e lo precedono, secondo il modello di una catena o piuttosto di una rete. La svolta metodologica delle Ricerche I giochi linguistici hanno anche una funzione metodologica: sono attività linguistic he primitive che il filosofo deve immaginare allo scopo di fornire essenziali "termini di paragone che gettano luce, attraverso somiglianze e dissimiglianze, sullo stato del nostro linguaggio" (Ricerche filosofiche, cit., § 130). Immaginare un linguaggio significa, al tempo stesso, immaginare una forma di vita, in cui lo sviluppo di pratiche linguistiche convenzionali rette da regole condivise è sempre condizionato dall'esistenza di una serie di comportamenti non linguistici, che Wittgenstein chiama reazioni primitive e che considera fondamentali per l'evoluzione di concetti linguistici complessi. Se non esistessero le espressioni corporee delle emozioni e dell'affettività, per esempio reazioni primitive di dolore, relativamente uniformi nelle modalità di produzione e di comprensione, i genitori non potrebbero insegnare al bambino i giochi linguistici con il concetto di dolore, con cui il bambino impara a sostituire le espressioni primitive del grido o del pianto (Ricerche filosofiche, cit., § 244). Inoltre, il fatto che si apprendano prioritariamente, attraverso manifestazioni corporee osservabili, le nozioni del cosiddetto mondo interno rivela, secondo Wittgenstein, che l'idea che esista anzitutto un accesso soggettivo ai fenomeni mentali e dunque un linguaggio privato che a essi si riferisce è frutto di un fraintendimento a cui ci inducono, come spesso accade, gli stessi concetti linguistici di cui ci serviamo. Anche le nozioni della sfera psicologica si formano e si sviluppano in un contesto collettivo, soc iale, all'interno di pratiche primitive o complesse. Di esse si possono seguire le evoluzioni anche immaginando membri intermedi, forme di interazioni più elementari di quelle del nostro linguaggio, ma già del tutto distinte da concetti primitivi animali, come accade descrivendo diversi concetti di paura o di dolore, più o meno complessi e descrivendo le forme di transizione tra di essi. Il metodo di inventare giochi linguistici giocati da tribù immaginarie diverse dalla nostra, viene inaugurato all'inizio delle Ricerche filosofiche con la presentazione di un linguaggio primitivo completo con cui interagiscono un muratore e il suo assistente, che risponde agli ordini pronunciati dal primo andando a prendere i materiali che gli sono stati richiesti. Wittgenstein ricorda che è possibile applicare sistematicamente questo metodo: "È facile immaginare un linguaggio che consista soltanto di informazioni e di ordini dati in combattimento. – O un linguaggio che consista soltanto di domande e di un'espressione per dire sì e no. E innumerevoli altri" (Ricerche filosofiche, cit., § 19). Sono esempi volti a mettere in luce che, nel linguaggio umano, l'apprendimento delle parole e la formazione dei concetti avvengono sempre all'interno di un addestramento complessivo, in cui componente linguistica e componente operativa sono strettamente integrate.

La riflessione sul linguaggio come tentativo di vedere rettamente il mondo.

È essenziale aver chiaro però qual è per Wittgenstein lo scopo dell'attività di inventare membri inte rmedi, fare esperimenti mentali per immaginare forme di vita alternative, legate alla nostra da una rete di analogie e differenze: l'obiettivo è quello di ottenere una rappresentazione perspicua ( übersichtliche Darstellung), uno sguardo d'insieme (Übersicht) sul complesso intreccio di attività da cui è costituito il nostro linguaggio, una modalità in grado di eliminare i fraintendimenti, le oscurità e le trappole a cui esso costantemente ci pone di fronte: "Una delle fonti principali della nostra incomprensione è il fatto che non vediamo chiaramente l'uso delle nostre parole. – La nostra grammatica manca di perspicuità. – La rappresentazione perspicua rende possibile la comprensione, che consiste appunto nel fatto che noi 'vediamo connessioni'. Di qui l'importanza del trovare e dell'inventare membri intermedi" (Ricerche filosofiche, cit., § 122). L'attività filosofica non realizza però questo in vista di un'attività scientifica e conoscitiva, non considera se stessa come elaborazione di teorie e dottrine, ma come pratica terapeutica di chiarificazione dei nostri concetti ordinari, strenuo esercizio di analisi del linguaggio, che Wittgenstein, fin dalla riflessione del Tractatus, ritiene debba condurci a un compito essenzialmente etico: quello di vedere le cose rettamente, cambiando in modo sostanziale l'aspetto sotto cui il mondo ci appare. *Insegna Teoria dei linguaggi all'Università di Roma 'La Sapienza'. Ha scritto saggi su percezione, fisiognomica e origine del linguaggio, tra cui A un secondo sguardo. Mobile confine tra percezione e linguaggio (Roma, Manifestolibri, 2002), sulla riflessione sul linguaggio dell'ultimo Wittgenstein. Pubblicato il 14/3/2006

WITTGENSTEIN E L'ESTETICA di Gabriele Tomasi* Wittgenstein non ha scritto molto sull'estetica e forse il poco che ha scritto non era specificamente inteso come un contributo a quest'ambito della ricerca filosofica. Oltre a poche osservazioni nel Tractatus logicophilosophicus e nelle Ricerche filosofiche, le fonti principali per ricostruire le sue concezioni al riguardo sono le allusioni o le analogie con l'arte che si incontrano negli scritti (per esempio la comparazione tra il comprendere una proposizione e il comprendere un tema musicale nel § 527 delle Ricerche), alcune annotazioni dei Quaderni 1914-1916 e della raccolta Pensieri diversi, conversazioni con amici, gli appunti di G.E. Moore e A. Ambrose e quelli presi da studenti alle lezioni sull'estetica tenute da Wittgenstein rispettivamente nel 1933 e nel 1938 a Cambridge. Nonostante una base testuale piuttosto ristretta, la sua influenza sull'estetica contemporanea è ben rintracciabile (si pensi a figure come S. Cavell, B. Tilghman, M. Weitz, R. Wollheim, P. Ziff), tanto che non appare fuorviante parlare di una tradizione wittgensteiniana nella filosofia dell'arte. Tale tradizione si è prevalentemente costituita trasferendo singoli temi della filosofia di Wittgenstein in discussioni di rilievo estetico. Non meno significativo è però quanto si ricava dalle sue osservazioni di contenuto esplicitamente estetico, benché, in accordo con la sua concezione della filosofia, esse non siano dirette alla costruzione di una teoria dell'arte o della valutazione estetica. Questo non vuol dire che egli non avesse un interesse per tali questioni; è vero anzi il contrario; esse lo appassionavano, come attesta la seguente osservazione: "Gli interrogativi scientifici possono, sì, interessarmi, ma mai avvincermi davvero. Solo gli interrogativi concettuali ed estetici possono farlo" (Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1980, p. 149). Sull'uso di 'bello' Ci si deve però chiedere in cosa consistessero, per Wittgenstein, le domande estetiche e ricordare che egli non considerava la filosofia una dottrina, bensì un'attività critica il cui scopo era il rischiaramento logico dei pensieri (cfr. Tractatus logico-philosophicus, Torino, Einaudi, 1998, § 4.112); conformemente a tale idea, e posto che l'estetica entri nell'ambito dell'attività filosofica, ne consegue che essa non può essere impegnata a scoprire una qualche verità sull'arte, sulla bellezza, sulla natura dei giudizi estetici ecc.; anche in estetica, si potrebbe dire, la descrizione deve prendere il posto della spiegazione (cfr. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1999,§ 109). In ciò che segue, vorrei provare a dare almeno un'idea del modo in cui Wittgenstein concepiva l'estetica, partendo da alcune sue osservazioni sul concetto tradizionalmente centrale in questo ambito, cioè quello di bellezza. Mi baserò soprattutto su passi dalle lezioni del 1938 e su alcune annotazioni contenute nella raccolta Pensieri diversi. Le lezioni del 1938 si aprono significativamente con quest'osservazione: "L'argomento (Estetica) è molto vasto e del tutto frainteso, per quanto posso vedere. L'uso di un termine come 'bello' è persino più atto a essere frainteso, se si guarda alla forma linguistica delle proposizioni in cui compare, di molti altri termini. 'Bello' … è un aggettivo, e si è quindi inclini a dire 'Questo ha una certa qualità, quella di essere bello" (Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa , Milano, Adelphi, 1976, p. 53). L'attacco dell'osservazione fa pensare che per Wittgenstein si tratti, almeno in parte, di ridefinire lo scopo dell'estetica o forse, come si legge nella conclusione della terza lezione del 1938, "di cambiare lo stile di pensiero"(ivi, p. 97). Egli sembra imputare all'estetica (tradizionale) una certa ristrettezza e un fraintendimento del proprio oggetto. La seconda parte dell'osservazione offre un'indicazione importante, per capire a cosa potrebbe riferirsi. Wittgenstein sta forse implicitamente suggerendo che la focalizzazione

dell'attenzione sulla bellezza, restringendo il campo, ha fatto perdere di vista la rilevanza di altre nozioni; il punto critico esplicitamente marcato è però la considerazione della forma aggettivale della nozione. Ciò che ha in mente sembra essere il fatto che tale considerazione porta a ritenere, da un lato, che tutti i giudizi estetici siano della forma soggetto-predicato (il che comporta, ancora una volta, una visione ristretta della materia; ciò che conta, a volte, non è la forma dell'espressione, bensì la reazione), dall'altro, che 'bello' indichi una proprietà, che la parola stia per una qualità. Ritenere che la bellezza sia una qualità di una cosa, significa però adottare una visione semplificata del rapporto tra linguaggio e realtà, ossia l'idea secondo cui ogni aggettivo sta per una proprietà dell'oggetto cui si riferisce il soggetto di una proposizione della forma soggetto-predicato. Questo è il motivo per cui la forma delle proposizioni in cui 'bello' compare può portare a fraintendere il concetto di bellezza (cfr. K. S. Johannessen, Wittgenstein and the Aesthetic Domain, in P. B. Lewis (ed.), Wittgenstein, Aesthetics and Philosophy, Aldershot, Ashgate, 2004, pp. 11-36, qui pp. 26-27; le presenti riflessioni dipendono in più punti da questo saggio). Per Wittgenstein le cose non stanno come l'uso aggettivale di 'bello' porta a pensare; a suo avviso, considerare il linguaggio "come forma delle parole e non come uso che della forma delle parole si è fatto" è "l'errore più grave commesso dai filosofi della presente generazione"(Lezioni, cit., p. 55). Egli invita piuttosto a considerare i contesti, le situazioni in cui le parole occorrono: "Non ci stiamo concentrando sulle parole 'buono' o 'bello', […] ma sulle occasioni in cui vengono dette – sulla situazione enormemente complicata in cui l'espressione estetica è importante" (ivi, p. 56). L'osservazione fa pensare a quanto, nelle Ricerche, sarà messo in evidenza con la parola 'giuoco linguistico' e cioè "il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un'attività, o di una forma di vita"(Ricerche, cit., § 23). In effetti, per Wittgenstein le situazioni in cui facciamo un uso estetico delle parole hanno la complessità di un mondo culturale (Lezioni, cit., p. 65). La difficoltà di liberarsi dal concetto di bellezza Questo dato non va dimenticato, quando si legge che "forse, la cosa più importante in rapporto con l'estetica è ciò che si può chiamare reazione estetica, per esempio, insoddisfazione, disgusto, disagio" (ivi, p. 73). Tale reazione, infatti, si dà e può essere compresa, o meglio, può essere compreso ciò che essa rivela, solo nel complesso contesto di una cultura condivisa. Non meno che sul ruolo dello sfondo, delle situazioni assai complesse in cui usiamo le parole dell'estetica, Wittgenstein insiste sull'importanza del primo piano, cioè di guardare da vicino ciò che accade nella situazione estetica. Così, per quanto riguarda la nozione di bellezza, contro la credenza, indotta dall'uso aggettivale di 'bello', che tutte le cose belle hanno qualcosa in comune, una comune qualità catturabile dal pensiero, egli rimarca la varietà dei contesti in cui la parola è usata: essi parlano per sé, perché non c'è niente di comune nei vari usi di 'bello'. Di fatto, la parola è usata per mille cose diverse. La bellezza di un volto è diversa da quella dei fiori o degli animali e se discutiamo ciascuno di que sti usi, emergono diversità che mostrano, secondo Wittgenstein, che si giocano dei giochi completamente diversi. Per il discorso sulla bellezza egli sembra ammettere solo una base analogica; di fatto la bellezza deve essere discussa nei termini propri degli oggetti cui è attribuita (cfr. Pensieri diversi, cit., pp. 55-56). Qualcosa del genere sembra valere anche per le opere d'arte; anche in questo caso si deve abbandonare la ricerca di un significato comune di 'bellezza' e concentrarsi sul carattere proprio di ogni singola opera, ovvero prestare attenzione alle circostanze correlate all'uso di 'bello' o di altri termini estetici; esse sono infatti costitutive del loro significato (ivi, p. 56). Per altro verso, Wittgenstein contesta la centralità della nozione di bellezza e accenna alla difficoltà di liberarsi 'dalle tenaglie' di tale concetto (ivi, p. 148). Egli stesso è stato preso in esse e ha concesso un qualche credito all'idea che il bello sia il fine dell'arte (cfr. l'entrata del 21.10.16 nei Quaderni 1914-1916). Se, con riguardo almeno alla comprensione dello sviluppo

della musica, riconoscerà poi, che "il concetto de 'il bello' ha creato qualche danno" (Pensieri diversi, cit., p. 108), su un piano generale sottolineerà che è un diverso tipo di parole che, per lo più, tendiamo a usare davanti alle opere d'arte e cioè parole come 'corretto', 'scorretto', 'giusto', 'sbagliato' (Lezioni, cit., p. 57). Per lo più, perché "quando parliamo di una sinfonia di Beethoven non parliamo di correttezza"(ivi, p. 64); le grandi opere sembrano determinare da sé la regola che è loro propria. L'incontro con l'opera d'arte Nel campo estetico, Wittgenstein ritiene che vi sia qualcosa da imparare in particolare dalle situazioni in cui sorgono disaccordi relativamente a singole opere d'arte e questo perché i paralleli, le comparazioni, le indicazioni, le espressioni cui gli interlocutori ricorrono nella discussione, possono mettere in luce ciò su cui poggia il giudizio. Il quadro che risulta dalle lezioni di estetica appare piuttosto diverso da quello ricavabile dalle osservazioni contenute nei Quaderni 1914-1916. Se queste ultime potevano far pensare alla singola opera come a un tutto limitato, per sé espressivo di contenuti posti al di là di quanto il linguaggio può comunicare, nelle lezioni l'attenzione appare spostata al significato delle parole con cui parliamo delle opere, si rivolge ai fattori che concorrono a costituire il significato di un'espressione nella pratica della discussione estetica, per esempio per convincere qualcuno che un'opera è bella. Più esattamente: per cercare di portare la nostra interlocutrice o il nostro interlocutore (benché possano non cambiare la loro opinione) a comprendere ciò che apprezziamo in un'opera particolare, a vedere o a sentire in un certo modo, a prestare attenzione a certe cose, a fare certe comparazioni. Il punto, in una discussione estetica, è l'ottimizzazione dell'esperienza dell'opera, l'affinamento della ricettività per le qualità che essa può presentare. Se poi non si riesce a portare l'interlocutrice o l'interlocutore a vedere ciò che noi vediamo, non si ha altra scelta che considerare la discussione giunta a un termine. L'estetica, così come Wittgenstein la concepisce, concerne la chiarificazione di aspetti del discorso che costituisce la situazione estetica base: l'incontro con un'opera d'arte. Che i problemi estetici siano intesi come "problemi sugli effetti delle arti su di noi" (Lezioni, cit., p. 97) può apparire una concezione di basso profilo dell'estetica; tuttavia non è così; una spiegazione estetica non è una spiegazione causale o, meglio, nell'effetto delle arti su di noi c'è più di quanto può essere catturato dai metodi e dalle descrizioni delle scienze (cfr. O. Hanfling, Wittgenstein on Language, Art and Humanity, in R. Allen, M. Turvey (eds.), Wittgenstein, Theory and the Arts, Routledge, London and New York 2001, pp. 75-91, qui pp. 86-89). Se consideriamo significativa la reazione estetica di una persona, è perché riteniamo che sorga o sia connessa ad altre cose che fa o pensa e dunque abbia un ruolo nella sua vita. Come sia da intendere una reazione, non risulta però da evidenze neutrali, è piuttosto questione di come si vedono le cose; il significato di una reazione è, per così dire, questione di riconoscimento. Perciò, come osserva P. Lewis ('Introduction', in Wittgenstein, Aesthetics, cit., p. 7), la descrizione del modo in cui reagiamo alla musica, all'architettura, alla poesia ecc., mostra come la comprensione dell'arte sia una manifestazione della vita dell'uma nità (cfr. Pensieri, cit., pp. 131-134). *Insegna Storia dell'estetica alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Padova. I suoi libri includono La bellezza e la fabbrica del mondo. Estetica e metafisica in G.W. Leibniz , Pisa, ETS, 2002; Ineffabilità. Logica, etica, senso del mondo nel 'Tractatus' di Wittgenstein , Pisa, ETS (in corso di stampa). Pubblicato il 14/3/2006