Thomas Mann la montagna incantata - Hardwaregame.it

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E cosí il soggetto della Montagna incantata venne a trovarsi in un tale centro di ... Quando Thomas Mann faceva questa allusione a un ipotetico romanzo, esso ...
Thomas Mann la montagna incantata Titolo originale: Der Zauberberg. INTRODUZIONE. Delle circostanze nelle quali concepí La montagna incantata e del lunghissimo periodo di dodici anni, dal 1912 al '24, in cui l'opera andò prendendo forma e giunse alla maturazione e al compimento, Thomas Mann diede piú volte esplicite notizie, in particolare nel suo Saggio autobiografico del 1930 e poi, in parte con le stesse parole, nella lezione che, durante l'esilio americano, tenne nel maggio 1939 agli studenti dell'università di Princeton: lezione che è riportata integralmente in appendice a questo volume. Tali notizie, nonché alcuni importanti passi delle lettere recentemente pubblicate, ci dispensano dall'obbligo di parlarne dffusamente. Diremo soltanto che, come altre volte, l'argomento del progettato breve racconto che doveva essere un inserto nelle Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull, gli crebbe per cosí dire tra le mani. Le cose hanno una loro volontà. Già I Buddenbrook, concepito sul tipo dei brevi romanzi del norvegese Kielland, salirono a mille pagine, perché al nucleo, che doveva essere centrale, della storia di Hanno, il narratore si sentí portato ad aggiungere la storia dei suoi antenati, del padre, del nonno, del bisnonno. Così La morte a Venezia doveva essere un raccontino adatto alla rivista "Simplicissimus" e diventò un breve romanzo. E cosí il soggetto della Montagna incantata venne a trovarsi in un tale centro di "rapporti" da richiedere, per il tono discorsivo che aveva assunto e per la sua "ampiezza umoristica", molto piú spazio di quanto non fosse previsto. In quanto all'intenzione e alfine dell opera l'autore stesso ebbe a dire durante il lavoro: "L'interesse alla morte e alla malattia, ai fenomeni patologici, alla decadenza non è che una variata espressione dell'interesse alla vita, all'uomo, come dimostra lafacoltà umanistica di medicina: chi s'interessa ai fatti organici, alla vita, s'interessa in particolare alla morte; e potrebbe essere oggetto di un romanzo avente per tema la formazione spirituale dell'individuo, mostrare che l'esperienza della morte è infine un'esperienza di vita, e che conduce all'uomo". Quando Thomas Mann faceva questa allusione a un ipotetico romanzo, esso era già a buon punto. E ad opera compiuta confessò: Il mio progetto era di dare una storia grottesca dove il pensiero della morte che era stato il motivo della novella veneziana doveva essere volto al comico: qualcosa dunque come un dramma satiresco aggiunto a La morte a Venezia". E oltre a ciò si legge di "un'opera dal vasto orizzonte interiore, con elementi politici,filosofici e pedagogici, che costituisce un tentativo di rinnovare il Bildungsroman", sicché il romanzo rispecchia "unaformazione, un'educazione interiore, e al tempo stesso qualcosa di simile a una parodia". In queste poche righe ricorrono tutti gli elementi che compongono il grandioso affresco di questo libro.

Esso è la storia di unaformazione, un romanzo pedagogico, paragonabile ad altre opere della letteratura tedesca, come per esempio al Guglielmo Meister di Goethe o ad Enrico il Verde di Gottfried Keller. Hans Castorp, il giovane ingegnere amburghese, entrato in un mondo per lui nuovo, passa di stupore in stupore (in quel Thaumàzein che, secondo la saggezza antica, è fonte e principio di ogni conoscenza) e impàra. Comincia a imparare da suo cugino Joachim a muoversi in quel mondo d'alta montagna; continua ad imparare dai dibattiti di forze avverse, dalle discussioni dei due pedagoghi che si contendono il suo spirito, il sereno umanista italiano Settembrini,' liberale e assertore del progresso umano, e Naphta, l'ascetico e violento gesuita d'origine ebraica, comunista e dogmatico negatore dell'umanesimo progressista; impara dall'amore per Claudia e dalla personalità di Peeperkom fmché, potenziato e maturato, il colpo di tuono del 1914 lo fa scomparire alla nostra vista. Egli si evolve nel tempo, non è quindi un personaggio già compiuto e delineato, ma, a rigore, nonostante l'evoluzione e gli esperimenti non si può dire che raggiunga una forma conclusiva. Il suo ultimo destino infatti è incerto: non sappiamo quale sarà la sorte di Castorp avviato alla trincea. Ma questo è un carattere comune a tutti i romanzi: di essi è sempre possibile una continuazione, come dimostrano i romanzi ciclici e come la vita stessa conferma con l'illimitato susseguirsi delle generazioni. L'orizzonte interiore non solo è vasto, ma si direbbe sconfinato. E qui dobbiamo ammirare la sbalorditiva cultura dell'Autore quando guida il suo protagonista da una scoperta all'altra nei campi piú svariati: anatomia, fisiologia, patologia, farmacologia, botanica, radiologia, musica, psicologia, biologia, meteorologia, occultismo, filosofia, teologia, politica, ecc. Non importa se oggi, dopo mezzo secolo di studi scientifici, qualche sua ipotesi è crollata. Vero è che al suo occhio acuto nulla sfugge di quanto avviene intorno a noi e dentro di noi. L'uomo non ha misteri per lui, egli lo spia con precisione realistica nei gesti, nell'espressione di uno sguardo, nelle intenzioni, palesi o mascherate, e nei particolari anormali del fsico o del pensiero. Con un pessimismo che risale alla sua venerazione per Schopenhauer e Wagner egli scrive qui il grande poema della morte. La scelta stessa del luogo, un sanatorio di tubercolotici, destinati la maggior parte a morire di consunzione, ci rende pensosi e rivela quanto sia sentito il suo dolore per l'umanità sofferente. Ma se la morte (non senza l'amore, poiché "fratelli, a un tempo stesso, amore e morte ingenerò la sorte") domina la vita con tutti gli echi del romanticismo tedesco (basterà pensare a Novalis), se per arrivare alla salute dello spirito è necessario passare attraverso la malattia e la cognizione della morte, se al Paradiso si può salire soltanto dopo essere discesi nell'Inferno e aver scalato il Purgatorio, è chiaro che questo poema della morte è in sostanza un avviamento, un'iniziazione, un inno alla vita. Infatti, "l'unico modo sano e nobile, l'unico modo 'religioso' di considerare la morte consiste nel comprenderla e sentirla come parte e accessorio, come sola condizione della vita". E nel capitolo in cui si legge quello stupendo pezzo di bravura che è la descrizione della tormenta di neve e del sogno di Castorp intorpidito dal gelo, la simbolica visione di un mondo ideale, sereno e armonioso, e di un'umanità concorde e rispettosa del prossimo, gli apre gli orizzonti della mente e gli fa intendere il valore della morte e il mistero della sapienza e dell'amore.

Egli comprende che la morte è una grande potenza, che ad essa dobbiamo, sí, restare fedeli, ma senza dimenticare che la fedeltà alla morte e al passato è soltanto tetra voluttà e misantropia. Alla morte si oppone l'amore, al passato l'avvenire. Le riflessioni del giovane si condensano quindi nelle parole che possiamo considerare il punto piú alto del romanzo, in cui si assomma e si accentra il suo significato: "Per rispetto alla bontà e all'amore l'uomo ha l'obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri". Ma si adeguerà il nostro eroe a questa scoperta? Già la sera stessa, ritornato sano e salvo al sanatorio, mentre le sue intuizioni stanno impallidendo, egli non comprende piú esattamente il pensiero che ha concepito un'ora prima. La famosa ironia manniana adombra la visione ottimistica e la trasforma in una tragica delusione. un velo che si stende su tutto il libro. La vita intera, con i lati belli e con le brutture, è osservata mediante una lente spessa che ne svela i minini particolari, mediante il cannocchiale a rovescio che, senza perdere i particolari, concentra il quadro e permette di vederlo non solo nel suo insieme, ma anche con opportuno distacco. E di qui nasce non soltanto l'ironia del bonario sorriso (come quando leggiamo di quel commerciante che, finché era vivo", rivolgeva la sua attenzione al commercio dei fiori), ma anche la sottile e talvolta amara osservazione delle debolezze e contraddizioni umane, quel modo (che ricorda la romantica ironia heiniana) di assistere dall'alto agli avvenimenti narrati e di sorriderne, come se non fosse l'Autore a inventarli. Egli stesso una volta avverte che, al pari dei lettori, anche lui si prende la libertà di avere le sue idee personali su quanto viene narrando. E ha il diritto di stupirsene: "A questo punto sta per affacciarsi un fenomeno, del quale il narratore stesso farà bene a stupirsi, affinché il lettore non abbia a stupirsi troppo a sua volta". Lo scrittore non è di quelli che proiettano il racconto su uno schermo obiettivo e in quanto narratori scompaiono: egli invece è presente e partecipa alle vicende con i suoi commenti spesso ironici. Non fu lui stesso a dire che "già il fatto di aver rinnovato il Bildungsroman tedesco sulla base della tubercolosi è una parodia"? Il lettore, per parte sua, anche quando non è invitato afarlo, assiste con sempre desta curiosità alla vita multiforme che si svolge nella "provincia pedagogica" del sanatorio, al plastico movimento dei personaggi, tutti Vit'i e inconfondibili, al giuoco musicale wagneriano dei caratterizzanti motivi conduttori, al magico scoppiettio delle discussioni sui piú svariati argomenti che, oltre ai citati, spaziano dal cattolicesimo al pietismo protestante, dalla massoneria alla pena di morte, dalla tortura alla cremazione dei cadaveri, dalle produzioni del cinematografo a quelle del grammofono, e cosí via, ... traendo la sicura e convinta impressione che quest'opera (per la sua mole l'Autore la definí "un mostro") è unfedele, complesso, esauriente ritratto della civiltà occidentale di cinquant'anni fa e, nella sua incantata fusione di prosa e poesia, di vastità scientifica e di arte raffinata, il libro, forse, piú grandioso che sia stato scritto nella prima metà del secolo in cui viviamo. Ervino Pocar. Premessa.

La storia di Hans Castorp che ci accingiamo a raccontare - non già per amor suo (il lettore troverà in lui un giovane semplice, ma simpatico) bensí per amore della storia che ci sembra altamente degna di essere narrata (e qui dovremmo pure far notare in favore di Hans Castorp che si tratta della storia "sua", ché non a tutti capitano tutte le storie) - questa storia è molto lontana nel tempo, è, diremo cosí, già tutta coperta di nobile patina storica e va assolutamente raccontata nel tempo delrpiú remoto passato. Per una storia questo non sarebbe un danno, ma piuttosto un vantaggio; le storie infatti devono essere passate, e piú sono passate, si potrebbe dire, tanto meglio per esse in quanto storie e per il narratore, il mormorante evocatore del passato remoto. Essa però viene a trovarsi in una condizione, nella quale si trovano oggi anche gli uomini e tra questi non ultimi i narratori di storie: è molto piú vecchia dei suoi anni, la sua età non si può calcolare a giorni né la sua grave anzianità a giri di sole; deve, insomma, la misura del suo passato non proprio al "tempo"... Affermazione con la quale si vuole alludi cose chiaro, diremo che, se la nostra storia è cosí largamente passata, lo deve al fatto di svolgersi "prima" di un certo termine, di una crisi che frastagliò a fondo la vita e la coscienza... Si svolge o, per evitare a bella posta ogni presente, si svolse e si è svolta in addietro, in giorni remoti, nel mondo che precedette la grande guerra, dal cui principio sono cominciate tante cose che forse non hanno ancora cessato di cominciare. Prima dunque, anche se non molto tempo prima. Ma la natura remota di una storia non è tanto piú profonda, perfetta, fiabesca, quanto piú recente è il suo passato? Oltre a ciò potrebbe darsi che la nostra, per sua intima natura, abbia anche qualche altro punto di contatto con la fiaba. La narreremo ampiamente, con esattezza e a fondo... Quando mai, infatti, una storia è stata divertente o noiosa in proporzione allo spazio e al tempo che ha richiesto? Senza temere il discredito in cui versa la meticolosità siamo anzi propensi-a credere che soltanto ciò che va in profondità riesce a divertire. Perciò il narratore non smaltirà la storia di Hans in un batter d'occhio. I sette giorni della settimana non saranno sufficienti e nemmeno sette mesi. Meglio di tutto sarà che egli non preveda in anticipo quanto tempo terreno dovrà passare intanto che essa lo tiene impegnato. Non saranno, se Dio vuole, addirittura sette anni! E cosí possiamo cominciare. dere e accennare di passaggio alla problematicità e alla singolare duplice natura di questo misterioso elemento. Ma, per non rendere artificialmente oscuro uno stato di cose chiaro, diremo che, se la nostra storia è cosí largamente passata, lo deve al fatto di svolgersi "prima" di un certo termine, di una crisi che frastagliò a fondo la vita e la coscienza... Si svolge o, per evitare a bella posta ogni presente, si svolse e si è svolta in addietro, in giorni remoti, nel mondo che precedette la grande guerra, dal cui principio sono cominciate tante cose che forse non hanno ancora cessato di cominciare. Prima dunque, anche se non molto tempo prima.

Ma la natura remota di una storia non è tanto piú profonda, perfetta, fiabesca, quanto piú recente è il suo passato? Oltre a ciò potrebbe darsi che la nostra, per sua intima natura, abbia anche qualche altro punto di contatto con la fiaba. La narreremo ampiamente, con esattezza e a fondo... Quando mai, infatti, una storia è stata divertente o noiosa in proporzione allo spazio e al tempo che ha richiesto? Senza temere il discredito in cui versa la meticolosità siamo anzi propensi-a credere che soltanto ciò che va in profondità riesce a divertire. Perciò il narratore non smaltirà la storia di Hans in un batter d'occhio. I sette giorni della settimana non saranno sufficienti e nemmeno sette mesi. Meglio di tutto sarà che egli non preveda in anticipo quanto tempo terreno dovrà passare intanto che essa lo tiene impegnato. Non saranno, se Dio vuole, addirittura sette anni! E cosí possiamo cominciare. Capitolo primo... L'arrivo. Un semplice giovanotto era partito nel colmo dell'estate da Amburgo, sua città natale, per Davos-Platz nel Canton Grigioni. Andava in visita per tre settimane. Da Amburgo fin lassú però il viaggio è lungo, troppo lungo, a dir il vero, per un soggiorno cosí breve. Si passa attraverso parecchi paesi, in salita e in discesa, dall'altipiano della Germania meridionale sin giú alle rive del "Mare svevo" e col battello sulle sue onde tremolanti, sopra abissi che un tempo erano considerati inesplorabili. Di lí il viaggio si fraziona dopo esser progredito comodamente per linee dirette. Si hanno interruzioni e intoppi. Nei pressi di Rorschach, località in territorio svizzero, ci si affida di nuovo alla ferrovia, ma si arriva sol tanto fino a Landquart, una piccola stazione alpina dove si è costretti a cambiare treno. Dopo una sosta piuttosto lunga in quella zona ventosa e poco attraente, si prende una linea a scartamento ridotto, e nel momento in cui la locomotiva, piccola ma, come si vede, dotata d'insolita potenza di trazione, si mette in moto, comincia la parte propriamente avventurosa del viaggio, una salita ripida e costante che pare non debba finire mai. Infatti la stazione di Landquart si trova a un'altezza relativamente modesta; ora invece, per una via scoscesa tra rocce selvagge, si monta davvero verso l'alta montagna. Hans Castorp (cosí si chiamava il giovane), con una valigetta di coccodrillo, dono del suo tutore e zio, il console Tienappel (per dire subito anche questo nome), col suo cappotto invernale, che oscillava appeso a un gancio, e la coperta da viaggio arrotolata, si trovava solo sui cuscini grigi di un piccolo compartimento; teneva il finestrino aperto e, siccome il pomeriggio si faceva sempre piú fresco, il figlio di papà, delicatuzzo com'era, aveva alzato il bavero del soprabito estivo, ampio secondo la moda e foderato di seta. Sul sedile, accanto a lui c'era un libro in brossura, intitolato Ocean steamships che al principio del viaggio egli aveva ogni tanto compulsato; ora invece stava là trascurato, mentre l'invadente respiro della locomotiva ansimante ne insudiciava la custodia con bruscoli di carbone.

Due giornate di viaggio allontanano l'uomo (specie l'uomo giovane le cui radici sono ancora poco abbarbicate alla vita) dal mondo di tutti i giorni, da quelli che egli considerava doveri, interessi, affanni, previsioni, assai piú di quanto non abbia immaginato mentre la carrozza lo portava alla stazione. Lo spazio che rotando e fuggendo si dipana tra lui e la sua residenza sviluppa forze che di solito si credono riservate al tempo; di ora in ora provoca mutamenti interiori molto simili a quelli attuati dal tempo, che però in certo modo li superano. Come quest'ultimo, esso genera oblio, ma lo fa staccando la persona dai suoi rapporti e trasportando l'uomo in uno stato di libertà originaria... anzi, trasforma in un baleno persino il pedante borghese in una specie di vagabondo. Il tempo, si dice, è oblio; ma anche l'aria delle lontananze è un filtro dello stesso genere, e se anche dovesse agire meno a fondo, in compenso lo fa con maggiore rapidità. Tale fu anche l'esperienza di Castorp. Egli non aveva voluto attribuire particolare importanza a quel viaggio, né parteciparvi con tutta l'anima. Era stato invece del parere di sbrigarlo in fretta perché era necessario farlo, di ritornare tale e quale come era-partito e di riprendere la sua vita esattamente nel punto in cui per un momento aveva dovuto lasciarla. Fino al giorno prima era stato immerso nella solita cerchia di pensieri, aveva riflettuto sul recente passato, sul suo esame, e sull'immediato futuro, sul suo ingresso come praticante nella ditta Tunder & Wilms (cantiere navale, fabbrica di macchine e produzione di caldaie) e aveva sorvolato su quelle tre prossime settimane con quel tanto d'impazienza che il suo carattere consentiva. Ora però gli pareva che le circostanze richiedessero tutta la sua attenzione e non fosse lecito prenderle sotto gamba. Quel sentirsi sollevato in regioni nelle quali non aveva mai respirato, dove, come sapeva, regnavano condizioni di vita del tutto insolite, specificamente scarne e rarefatte, cominciò a eccitarlo, a mettergli addosso una certa ansietà. La sua casa e la vita ordinata erano non solo assai lontane, ma anzitutto molti metri piú in basso di lui, che ancora continuava a salire. Sospeso fra quelle e l'ignoto si domandava come se la sarebbe passata lassú. Non era forse prudente e pregiudizievole che, nato e avvezzo a respirare soltanto qualche metro sopra il livello del mare, si facesse trasferire all'improvviso in quelle regioni estreme senza essersi trattenuto almeno un paio di giorni in un luogo di media altezza. Desiderò di essere alla meta, perché una volta lassú, pensava, sarebbe vissuto come dappertutto senza dover riflettere, come ora durante la salita, in quali zone sconvenienti si trovasse. Guardò dal finestrino: il treno percorreva una curva su uno stretto passaggio; si vedevano le prime carrozze, si vedeva la locomotiva che faticando lanciava globi di fumo bruni, verdi e neri, che si disperdevano nell'aria. Acque rumoreggiavano in basso a destra; a sinistra c'erano abeti scuri che tra massi e rocce si levavano verso un cielo grigio come la pietra. S'incontravano gallerie tutte buie, e appena si rifaceva giorno, ampi abissi si spalancavano con villaggi sul fondo.

Poi si chiudevano, nuove gole seguivanlo con tracce di neve nelle fenditure e nei solchi. Si facevano fermate a misere stazioncine, stazioni di testa che il treno lasciava correndo in direzione opposta, ingenerando confusione perché uno non si orientava piú e non si rendeva conto dei punti cardinali. Grandiosi e vasti panorami di quel sacro fantasmagorico mondo di vette che è l'alta montagna, nel quale si stava salendo e entrando, si aprivano all'occhio riverente e, alle svolte, andavano di nuovo perduti. Castorp considerò che aveva lasciato sotto di sé la zona degli alberi da fronda, probabilmente anche, se ben si apponeva, quella degli uccelli canori, e questa idea del cessare e dell'impoverirsi fece sí che, preso da un leggero capogiro e malessere, si coprisse gli occhi per due secondi. Il turbamento passò ed egli notò che la salita era al termine, il valico superato. Sul fondovalle pianeggiante il treno procedeva piú spedito. Erano circa le otto, il giorno prevaleva ancora. Nel paesaggio lontano apparve un lago. Lo specchio era grigio, e neri boschi di abeti montavano dalle rive sulle al ture circostanti, piú su si andavano diradando, si perdevano e lasciavano dietro di sé le rocce brulle e grigiastre. Il treno si fermò a una piccola stazione, era Davos-Dorf, come Castorp udí annunciare, tra poco sarebbe arrivato a destinazione. A un tratto sentí accanto a sé la voce di Joachim Ziemssen, la calma voce amburghese di suo cugino che diceva: Ehi, tu, buon giorno, scendi pure! . E come si sporse, vide sotto il finestrino Joachim in persona sul marciapiede, in ulster marrone, a capo scoperto, con una cera sana come non mai in vita sua. Rideva e ripeté: Scendi pure, non far complimenti! Ma non sono ancora arrivato obiettò Castorp confuso, rimanendo seduto. Sí che sei arrivato. Questo è Dorf Di qui è piú breve per il sanatorio. Ho la carrozza. Dammi la tua roba. E ridendo, confuso, agitato per l'arrivo e per l'incontro, Castorp gli porse dal finestrino la valigetta e il cappotto, la coperta arrotolata intorno al bastone e all'ombrello e infine anche l'Ocean steamships. Poi infilò di corsa il corridoio e saltò sul marciapiede per salutare davvero e, per cosí dire, soltanto ora di persona, il cugino, saluto che fu senza effusioni come tra persone di modi freddi e riservati. E' strano a dirsi, ma sempre avevano evitato di chiamarsi per nome, unicamente per timore di un'eccessiva cordialità. Siccome però non era il caso di chiamarsi col cognome, si limitavano al tu. Era tra i due cugini una consuetudine radicata. Un uomo in livrea, col berretto gallonato, stette a guardare, mentre i due (il giovane Ziemssen sull'attenti! si stringevano la mano in fretta e con un po' d'imbarazzo; poi si avvicinò per chiedere a Castorp lo scontrino del bagaglio; era il portiere del Sanatorio Internazionale Berghof e fece capire che intendeva

ritirare il baule del cliente dalla stazione di Platz, mentre i signori con la carrozza si recavano direttamente a cena. L'uomo zoppicava alquanto sicché per prima cosa Castorp domandò a Ziemssen: E' un reduce di guerra? Perché zoppica Cosí? Già, grazie tante! fu la risposta un po' amara di Joachim. Reduce di guerra! Quello ce l'ha nel ginocchio - o almeno l'aveva perché poi si è fatto asportare la rotula. Hans Castorp cercò di capire piú presto che poté. Ah, vedo esclamò, mentre avviandosi alzava la testa e si guardava brevemente in giro. Tu però non vorrai darmi ad intendere di avere ancora un affare simile! Hai una cera come se portassi già la dragona e ritornassi dalle manovre. E guardò il cugino al suo fianco. Joachim era piú alto e piú grosso di lui, il ritratto della forza giovanile, quasi fatto apposta per portare la divisa. Era di quel tipo molto bruno che la sua bionda patria non di rado produce, e la pelle del viso già scura aveva preso in seguito alle scottature quasi il colore del bronzo. Con quegli occhioni neri e quei baffetti scuri sopra la bocca tumida, ben formata, sarebbe stato persino bello se non avesse avuto le orecchie sporgenti. Erano state il suo unico dispiacere e dolore nella vita fino a un certo momento. Ora aveva da pensare ad altro. Castorp continuò: Scenderai subito con me, no? Non vedo proprio nessun ostacolo. Subito con te? esclamò il cugino e gli rivolse i grandi occhi che, sempre cosí dolci, in quei cinque mesi avevano assunto un'espressione stanca, persino triste. Subito quando? Be', fra tre settimane. Ho capito. Tu pensi già di ritornartene a casa risposeJoachim. Aspetta, aspetta; sei appena arrivato. Certo, per noi quassú tre settimane non sono niente, ma per te che sei venuto in visita e conti di restare soltanto tre settimane, per te sono un cumulo di tempo. Prima ti devi assuefare al clima, che non è tanto facile, vedrai. Il clima poi non è la sola cosa singolare qui da noi. Qui, sta' attento, vedrai parecchie novità. E quello che dici di me non va cosí per le spicce - fra tre settimane a casa- vedi, sono idee di laggiú. Sono abbronzato, è vero, ma sono in massima parte le scottature della neve e non conta molto, lo dice sempre anche Behrens, e all'ultima visita generale ha detto che, sí, ci vorranno ancora sei mesi. Sei mesi? Sei matto? esclamò Castorp. Davanti al l'edificio della stazione che non era molto piú di una tettoia si erano appunto accomodati nella carrozzella gialla che li aspettava sullo spiazzo sassoso, e mentre i due sauri si mettevano a tirare, Castorp si agitava indignato sul duro cuscino. Sei mesi? Ma sono quasi sei mesi che sei qui! Non abbiamo tanto tempo...! Eh, il tempo ripeté Joachim annuendo piú volte e guardando davanti a sé senza badare alla sincera indignazione del cugino. Qui ti manipolano il tempo altrui come non puoi immaginare. Per loro tre settimane sono un giorno.

Vedrai, tutte cose che avrai modo di imparare disse, e aggiunse Qui si mutano i propri concetti. Hans Castorp lo osservava continuamente di fianco. Ti sei però rimesso in maniera stupenda affermò scotendo la testa. Credi? replicò Joachim. Già, lo penso anch'io! soggiunse e si assestò piú ritto sul cuscino; ma subito si rimise piú di sbieco. Sí, sto meglio dichiarò ma proprio guarito non sono ancora. A sinistra in alto, dove prima si sentivano rantoli, c'è ora soltanto un suono raschiante, che non è molto grave, ma in basso il raschio è ancora forte, e poi ci sono rumori anche nel secondo spazio intercostale. Come ti sei erudito esclamò Castorp. Oh, Dio mio, bella erudizione! Vorrei averla ormai dimenticata in servizio ribatté Joachim. Ma ho ancora catarro disse con una crollata di spalle fiacca a un tempo e violenta che non gli donava molto, e fece vedere a suo cugino un oggetto che trasse a metà dalla tasca dell'ulster a lui rivolta e poi ripose subito: una bottiglia piatta e curva di vetro azzurro con la chiusura metallica. Ce l'ha la maggior parte di noi quassú spiegò. Ha anche un suo nome fra noi, un nomignolo, molto comico. Stai guardando il paesaggio? Castorp che infatti guardava disse: Grandioso! . Ti pare? domandò Joachim. Per un tratto avevano seguito la strada tracciata irregolarmente, parallela alla ferrovia, lungo l'asse della valle, avevano poi attraversato a sinistra il binario ridotto e sorpassato un corso d'acqua, e ora trottavano piano per una strada in salita verso pendii boscosi, dove, su una terrazza erbosa, sorgeva un largo edificio, con una torre a cupola e la facciata verso sud-ovest, che da lontano, cosí ricca di logge e balconate, appariva bucata e porosa come una spugna; in quel momento si vi accendevano le prime luci. Imbruniva rapidamente. Un leggero rosso di sera che per un po' aveva animato il cielo uniformemente coperto era già impallidito, e nella natura regnava quello stato di transizione scialbo, esanime, triste, che precede l'immediato calare della notte. La valle popolata, lunga, distesa e un po' curva, s'illuminò da per tutto, sul fondo e qua e là sui due versanti, specialmente sul destro, piú esteso, a terrazze, sulle quali sorgevano le costruzioni. A sinistra i sentieri salivano sui pendii prativi e si perdevano nel nero cupo dei boschi di conifere. Le quinte dei monti piú lontani, verso lo sbocco dove la valle si restringeva, erano di un freddo azzurroardesia. Siccome si era levato il vento, il fresco della sera si faceva sentire. No, a dire il vero, non mi sembra poi tanto imponente disse Castorp. Dove sono i ghiacciai, i nevai, i solenni giganti della montagna? Questi cosi non sono neanche molto alti, mi sembra. Oh, alti sono obiettò Joachim. Tu vedi quasi da per tutto il limite della vegetazione arborea, è segnata in modo netto e visibile, gli abeti cessano, e cosí tutto cessa, è finita, rocce, come puoi osservare. Là in fondo, a destra dello Schwarzhorn, di quel pinnacolo là, trovi persino un ghiacciaio, vedi ancora l'aZZurro? Non è grande, ma è pur sempre un ghiacciaio come si deve, il ghiacciaio di Scaletta. Anche il Piz Michel e il Tinzenhorn nell'intervallo, di qui non li puoi vedere, sono sempre coperti di neve, tutto l'anno. Neve eterna commentò Hans Castorp.

Sí; eterna, se vuoi. Eh sí, l'altezza c'è. Ma noi stessi, devi considerare, siamo paurosamente in alto. Milleseicento metri sopra il livello del mare. Perciò le alture hanno minor risalto. E' stata infatti una bella rampicata! Ti posso dire che ho avuto paura. Milleseicento metri! Sarebbero, se ho fatto bene il conto, press'a poco cinquemila piedi. In vita mia non ero mai salito cosí in alto. E per curiosità Castorp prese come assaggio un profondo respiro di quell'aria ignota. Era fresca... e basta. Era priva di profumo, di contenuto, di umidità, entrava con facilità e all'anima non diceva nulla. Squisita! osservò cortesemente. Sí, è un'aria famosa. Questa sera però la regione non si presenta bene. Certe volte ha un aspetto migliore, specie con la neve. Ma ci si stanca di guardarla. Noi quassú, credi a me, ne siamo tutti indicibilmente stanchi affermò Joachim torcendo le labbra con un'espressione di nausea che parve esagerata e incontrollata, e neanche questo gli donava. Tu parli in modo cosí strano insinuò Castorp. Parlo in modo strano? )) ripeté Joachim con una certa apprensione rivolgendosi verso il cugino. No, no, scusa, mi è parso solo un momento si affrettò a dire Castorp. Ma aveva alluso alle parole "noi qùassú" che Joachim aveva pronunciate già per la terza o quarta volta e a lui erano sembrate in qualche modo deprimenti e singolari. Il nostro sanatorio, come vedi, è ancora piú in alto del paese aggiunse Joachim. Cinquanta metri. Nel l'opuscolo pubblicitario si legge cento, ma sono soltanto cinquanta. Piú in alto di tutti è il Sanatorio Schatzalp lassú, di qui non si vede. D'inverno quelli devono far scendere le loro salme con la guidoslitta, perché le strade non sono transitabili... Le loro salme? Ah, già. Ma, via! esclamò Castorp, e a un tratto si mise a ridere, d'un riso violento, irresistibile, che gli scoteva il petto e gli atteggiò il viso, un po' rigido per il vento freddo, a una smorfia un tantino dolorosa. Con la guidoslitta! E me lo dici cosí, calmo calmo? Sei proprio diventato cinico in questi cinque mesi! Niente affatto cinico ribatté Joachim scrollando le spalle. Perché mai? Per le salme è indifferente... D'altro canto può anche darsi che qui da noi si diventi cinici. Lo stesso Behrens è un vecchio cinico di questo genere: un magnifico tipo però, già studente battagliero e poi brillante chirurgo, a quanto pare; ti piacerà. C'è poi Krokowski, l'assistente: esemplare sveglio e accorto. Nel l'opuscolo si fa cenno della sua attività in modo specifico.

Coi pazienti fa analisi dell'anima. Cosa fa? Analisi dell'anima? Ma è ripugnante! esclamò Hans Castorp, la cui allegria aumentò ancora. Non riusciva piú a dominarla, oltre a tutto il resto l'analisi del l'anima lo aveva soggiogato, e ora rideva tanto che le lacrime gli sgorgavano di sotto alla mano con la quale, sporgendosi in avanti, si copriva gli occhi. Joachim a sua volta rise di cuore - pareva gli facesse bene -, sicché i due giovani scesero di ottimo umore dalla carrozza che, nell'ultimo tratto a passo d'uomo, per ripide svolte della salita, li aveva portati davanti all'ingresso del Sanatorio Internazionale Berghof.

N. 34. Lí a destra, fra l'ingresso e la porta vetrata c'era la stanzetta del portiere, e di là venne loro incontro un inserviente di tipo francese che seduto al telefono aveva letto i giornali, nella grigia livrea dello zoppo della stazione, e li guidò attraverso l'atrio, sul cui lato sinistro si aprivano stanze di soggiorno. Passando Castorp vi lanciò un'occhiata e vide che erano deserte. Domandò dove fossero i clienti e suo cugino rispose: Fanno la cura dello sdraio. Io avevo oggi libera uscita per venirti a prendere alla stazione. Altrimenti sto anch'io dopo cena coricato sul balcone. Poco mancò che Castorp fosse di nuovo preso dalla voglia di ridere. Come, anche di notte state coricati sul balcone? domandò con voce esitante... Sí, è il regolamento. Dalle otto alle dieci. Ma vieni, vieni a vedere la tua camera e a lavarti le mani. >) Montarono nell'ascensore, il cui meccanismo elettrico era messo in azione dal francese. Durante la salita Castorp si asciugò gli occhi. Sono in pezzi e sfinito dal ridere disse respirando dalla bocca. Mi hai parlato di tanta roba da matti... Quella dell'analisi dell'anima è stata il colmo, non ci voleva. Oltre a ciò devo essere anche un po' stanco del viaggio. Soffri anche tu di freddo ai piedi? Nello stesso tempo ho la faccia accaldata, è sgradevole. Mangiamo subito, no? Ho fame, mi pare. Si mangia bene quassú da voi altri? Passarono senza rumore sulla passatoia di cocco lungo il corridoio. Campane di vetro smerigliato mandavano dal soffitto una luce pallida. Dalle pareti coperte da una vernice a olio veniva un bagliore bianco e duro. In un punto comparve un'infermiera, in cuffia bianca e occhiali a stringinaso, il cui cordoncino le passava sopra l'orecchio. Si capiva che era di religione protestante, senza vera dedizione al mestiere, curiosa e irrequieta sotto il peso della noia.

In due posti del corridoio, sul pavimento, davanti alle porte numerate e verniciate di bianco, c'erano certi globi, grandi recipienti panciuti dal collo corto, dei quali Castorp dimenticò sul momento di chiedere spiegazioni. Eccoti qua disse Joachim. Numero trentaquattro. A destra sto io, a sinistra una coppia russa... un po' trasandata e rumorosa, devo dire, ma non si è potuto fare altrimenti. Be', che ne dici? La porta era doppia, con attaccapanni nel vano interno. Joachim aveva acceso la lampada del soffitto, e alla sua luce tremula la camera si presentò serena e tranquilla, coi mobili bianchi, pratici, la tappezzeria pure bianca, resistente, lavabile, il pavimento di linoleum pulito, e le tende di lino semplici, di gusto moderno, con ricami graziosi. La porta del balcone era aperta; si vedevano i lumi nella valle e si udiva una lontana musica da ballo. Il buon Joachim aveva messo alcuni fiori in un vasetto sul cassettone... quel che aveva potuto trovare fra un'erba e l'altra, un po' di millefoglie e alcune campanule, colte con le sue mani sul versante. Molto gentile disse Castorp. Che bella camera! Qui si può stare bene e volentieri qualche settimana. Ieri l'altro è morta qui un'americana raccontò Joachim. Behrens aveva detto subito che sarebbe finita prima del tuo arrivo, e poi potevi avere la camera. C'era qui il suo fidanzato, un ufficiale della marina inglese, ma non si mostrò proprio coraggioso. Tutti i momenti usciva nel corridoio per piangere, come un ragazzino. Poi si spalmava le guance di cold-cream perché era sbarbato e le lacrime gli bruciavano sulla pelle. L'altra sera l'americana ebbe ancora due sbocchi di sangue, di prim'ordine, e fu finita. Ma l'hanno portata via ieri mattina, poi hanno beninteso suffumicato radicalmente, con la formalina, capisci, dicono che è tanto buona per questi scopi. Hans Castorp accolse il racconto con eccitata distrazione. In piedi, con le maniche rimboccate davanti al largo lavabo, i cui rubinetti nichelati scintillavano alla luce elettrica, gettò appena di sfuggita un'occhiata al letto di metallo bianco con la coperta pulita. Suffumicato, questa è buona commentò loquace e un po' a sproposito lavandosi e asciugandosi le mani. Già, formaldeide, neanche il bacillo piú robusto le resiste... H2CO, ma pizzica il naso, vero. S'intende, la piú rigorosa pulizia è condizione fondamentale... E continuò spedito: Che volevo dire?... Probabilmente l'ufficiale di marina si radeva col rasoio di sicurezza, direi, eppure è piú facile ferirsi con quei cosi che con un rasoio libero bene affilato. Questa almeno è la mia esperienza, io alterno l'uno e l'altro... Eh sí, l'acqua salsa fa male alla pelle irritata, usava il cold-cream, penso, per consuetudine di servizio, non ci trovo nulla di strano... . E continuò a chiacchierare, disse che nel baule aveva duecento "Maria Mancini" - il suo sigaro -, il controllo alla frontiera era stato molto alla buona... e recò i saluti di varie persone della sua città. Ma non c'è riscaldamento qui? domandò a un tratto e corse a posare le mani sui tubi...

No, qui ci tengono piuttosto al fresco rispose Joachim. Ci vuol altro perché in agosto si accendano i caloriferi! Agosto, agosto ! esclamò Castorp. Ma io ho freddo! Ho un freddo cane, per tutto il corpo, intendo, poiché in viso si vede che sono accaldato... to', senti come scotto! La pretesa che gli si toccasse il viso non s'intonava affatto al carattere di Castorp e a lui stesso parve incresciosa. Joachim non la prese sul serio e si limitò a dire: E' l'aria e non ha importanza. Anche Behrens ha le guance blu tutto il giorno. Certuni non si abituano mai. Be', go on, altrimenti non si becca piú niente da mangiare. Fuori ricomparve l'infermiera, che li osservò curiosa e miope. Ma al primo piano Castorp si fermò all'improvviso, paralizzato da un rumore veramente orrendo, che si fece udire a breve distanza dietro alla svolta del corridoio, un rumore non forte, ma cosí decisamente ripugnante che Castorp fece una smorfia e guardò il cugino con gli occhi spalancati. Era tosse, evidentemente... una tosse maschile; ma tale che non assomigliava a nessun'altra che egli avesse mai udita; anzi, al paragone, ogni altra tosse a lui nota era stata una magnifica e sana manifestazione di vita,... una tosse senza alcun piacere o amore, che non veniva a colpi giusti, ma era come un raccapricciante e impotente frugare dentro la fanghiglia d'un dissolvimento organico. Eh sí avvertí Joàchim qui andiamo male. Un aristocratico austriaco, sai, uomo elegante, nato per fare il gentleman rider. E ora è a questo punto. Ma va ancora in giro. Mentre proseguivano, Castorp parlò casualmente della tosse del cavallerizzo. Devi considerare disse che non ho mai sentito una cosa simile, che per me è del tutto nuova, e naturalmente mi fa impressione. Ci sono varie specie di tosse, secche e sciolte, e quella sciolta è ancora la meno peggio, come dicono tutti, meglio che abbaiare cosí. Quando nella mia giovinezza - ("nella mia giovinezza" disse) - ebbi l'angina, abbaiavo come un lupo, e tutti furono lieti, ricordo ancora, quando si sciolse. Ma una tosse come questa non c'è mai stata, almeno per me... Non è piú una tosse viva. Non è secca, ma non si può nemmeno definirla sciolta, non è neanche lontanamente la parola giusta. Sembra quasi di vedere dentro alla persona, in uno spettacolo... di limo e pantano... Via interruppe Joachim io la sento tutti i giorni, inutile che tu me la descriva. Ma Castorp dopo aver udito quella tosse non riusciva a calmarsi e piú volte assicurò che gli pareva di vedere dentro al cavallerizzo, e quando entrarono nel ristorante, i suoi occhi stanchi del viaggio avevano un luccicore eccitato.

Nel ristorante.

Il ristorante era luminoso, elegante e familiare. Era situato subito a destra del vestibolo, di fronte alle stanze di soggiorno, e serviva, come spiegò Joachim, specialmente ai clienti arrivati di fresco, che mangiavano fuori ora, e a quelli che ricevevano visite. Ma vi si festeggiavano anche compleanni e imminenti partenze, nonché i buoni risultati di visite generali. Certe volte, disse Joachim, vi si faceva baldoria; si serviva anche sciampagna. In quel momento non c'era che una donna sulla trentina la quale leggeva un libro, e intanto canterellava tra sé e batteva di continuo leggermente il medio della sinistra sulla tovaglia. Quando i giovani si furono seduti, cambiò posto per voltare loro le spalle. Era misantropa, spiegò Joachim sottovoce, e mangiava sempre nel ristorante con un libro davanti. Correva voce che fin da ragazzina fosse entrata in sanatori per malattie polmonari e da allora non fosse mai vissuta nel mondo. Be', tu in confronto, coi tuoi cinque mesi, sei ancora un giovane principiante e lo sarai anche quando avrai un anno sul groppone disse Hans Castorp a suo cugino; dopodiché Joachim prese la lista delle vivande con una scrollata di spalle che prima non era stata nelle sue consuetudini. Avevano occupato la tavola rialzata vicino alla finestra, il posto piú bello. Contro la tendina color crema erano seduti l'uno di fronte all'altro, il viso acceso dalla lampadina elettrica che sulla tavola era velata di rosso. Castorp giunse le mani lavate da poco e se le fregò nell'attesa, come era solito fare quando si vedeva a tavola... forse perché i suoi antenati avevano pregato davanti alla minestra. Li serviva una ragazza cortese, dalla pronuncia gutturale, in abito nero col grembiule bianco, col viso largo di un colore straordinariamente sano, e Castorp apprese ridendo che lí le chellerine erano chiamate Saaltochter (figlie di sala). Le ordinarono una bottiglia di Gruaud Larose, che Castorp mandò indietro affinché fosse portata a una temperatura migliore. I cibi erano eccellenti. Furono serviti una zuppa d'asparagi, pomodori ripieni, arrosto con vari contorni, un dolce di particolare bontà, diversi formaggi e frutta. Castorp mangiò molto, benché il suo appetito non si rivelasse gagliardo come egli aveva previsto. Ma era avvezzo a mangiar molto, anche quando non aveva fame, e precisamente per la stima che aveva di se stesso. Joachim non fece molto onore alle portate. Era stufo di quella cucina, disse, lo erano tutti lassú, ed era costume di dir male del vitto; poiché quando si stava lí da tempo immemorabile... Per contro bevve di quel vino con piacere, anzi con un certo entusiasmo, ed evitando accuratamente le frasi troppo sentimentali, espresse piú volte la sua soddisfazione di avere qualcuno con cui scambiare una parola ragionevole. E' una manna che tu sia venuto! esclamò, e la sua voce calma era commossa. Per me, posso dire che è un vero avvenimento. E' un diversivo una buona volta...

un taglio, intendo, una cesura in questa eterna, illimitata monotonia... Ma qui il tempo vi dovrebbe passar veloce osservò Castorp. Veloce e lento, come vuoi rispose Joachim. Non passa affatto, ti dirò, non è nemmeno tempo, e non è vita... no, non lo è disse scotendo il cipo e riprendendo il bicchiere. Anche Castorp beveva, benché avesse la faccia affocata. Ma per tutto il corpo sentiva ancora freddo e nelle membra aveva una particolare inquietudine lieta e tuttavia un poco dolorosa. Le sue parole si accavallavano, spesso ne diceva una per un'altra e ci passava sopra con un gesto sprezzante. Anche Joachim però era vivace, e la loro conversazione si fece tanto piú libera e allegra quando la signorina, che canterellava e batteva il dito, a un tratto si alzò e uscí. Mangiando gesticolavano con le forchette, si facevano seri col boccone in bocca, ridevano, annuivano, alzavano le spalle e non avevano ancora inghiottito che già ripigliavano a parlare. Joachim chiese notizie di Amburgo e portò il discorso sulla progettata regolazione dell' Elba. Un avvenimento storico! asserí Castorp. Storico per lo sviluppo della nostra navigazione... non sarà mai apprezzato abbastanza. Cinquanta milioni mettiamo in bilancio come contributo immediato, e sta pur sicuro, sappiamo che cosa facciamo. Ma, nonostante l'importanza che attribuiva alla regolazione dell'Elba, abbandonò subito questo argomento e volle che Joachim gli parlasse ancora della vita che faceva "quassú" e degli ospiti, cosa che il cugino fece volentieri per potersi alleggerire e sfogare. Dovette ripetere la faccenda delle salme che si spedivano giú in guidoslitta e assicurare di nuovo espressamente che era la pura verità. Siccome Castorp aveva ripreso a ridere, rise anche lui, pareva se la godesse, e riferì altre cose buffe per dar esca all'allegria. C'era a tavola con lui, raccontò, una signora Stohr, malata abbastanza seriamente, moglie di un musicista di Cannstatt - la persona piú ignorante che gli fosse capitato d'incontrare. "Desinfezzione" diceva... ma seriamente. E chiamava l'assistente Krokowski "l'esistente". E questa roba bisognava mandarla giú senza batter ciglio. Oltre a ciò era maldicente e pettegola, come del resto quasi tutte lassú, e di un'altra, della signora Iltis, andava dicendo che portava un cortiletto. Cosí lo chiama!... è impagabile! E riversi, abbandonati sùlla spalliera della sedia, risero fino a far sussultare il ventre e a farsi venire entrambi il singhiozzo. Ma intanto Joachim si rannuvolò e ripensò alla sua sorte. Ecco, qui siamo e ridiamo cominciò con espressione dolente, interrotto ogni tanto dalle scosse del diaframma e dire che chi sa quando uscirò di qui, perché quando Behrens dice sei mesi, fa un calcolo stretto, bisogna sempre aspettarsi qualcosa di piú. Ma è dura, dillo tu, è ben triste per me. Ero già ammesso e tra un mese darei l'esame di ufficiale.

Cosí invece sto qui a oziare col termometro in bocca e a contare gli spropositi di questa ignorante signora Stohr e perdo il mio tempo. Un anno conta molto alla nostra età, nella vita laggiú segna un mucchio di mutamenti e progressi. E io devo star qui a stagnare come una pozzanghera... proprio cosí, come un fetido stagno, non è un paragone balordo... Stranamente Castorp rispose soltanto con una domanda: chiese se si poteva avere del porter, e suo cugino, guardandolo un po' meravigliato, s'accorse che stava addormentandosi... anzi, dormiva già. Ma tu dormi! esclamò. Vieni, è tempo di andare a letto, per tutti e due. Il tempo non esiste ribatté Castorp con la lingua torpida. Ma lo seguí un po' curvo e con le gambe rigide come uno che sia trascinato a terra dalla stanchezza... raccolse però le sue forze quando nell'atrio ormai debol mente illuminato udí Joachim che diceva: Ecco là Krokowski. Dovrò, credo, presentarti rapidamente. Il dottor Krokowski stava seduto alla luce, davanti al caminetto di una delle salette di soggiorno, accanto alla porta scorrevole, e leggeva un giornale. Si alzò quando i due giovani gli si avvicinarono eJoachim sull'attenti disse: Permetta, dottore, che le presenti mio cugino Castorp; di Amburgo. E' appena arrivato. Il dottor Krokowski salutò il nuovo ospite con una certa cordialità serena, vigorosa, incoraggiante, quasi a indicare che davanti a lui era superflua ogni soggezione e conveniente soltanto una lieta fiducia. Aveva su per giú trentacinque anni, le spalle larghe, era grasso, notevolmente piú piccolo dei due che gli stavano davanti, sicché doveva reclinare la testa.per guardarli in viso... Era straordinariamente pallido, di un pallore diafano, persino fosforescente, messo anche in risalto dal fuoco scuro degli occhi, dal nero delle sopracciglia e dalla barba piuttosto lunga, terminante in due punte, che mostrava già qualche filo bianco. Portava un vestito nero a sacco, già un po' liso, scarpe basse tipo sandalo, nere, traforate, calzini spessi, di lana grigia, e un colletto morbido arrovesciato, come Castorp ne aveva visto soltanto da un fotografo di Danzica, e infatti conferiva al dottore un'impronta da studio fotografico. Con un sorriso cordiale che gli scoprí tra baffi e barba i denti giallastri strinse la mano al giovane dicendo con voce baritonale e con pronuncia forestiera un po' strascicata: Benvenuto, signor Castorp ! Le auguro di abituarsi presto e di trovarsi a suo agio tra noi. Viene da noi come paziente, se la domanda è lecita? Era commovente vedere come Castorp si desse da fare per mostrarsi garbato e dominare la sonnolenza. Si stizzì di essere cosí poco in forma e con la diffidente autocoscienza dei giovani scorse nel sorriso e nel tono incoraggiante del dottore indizi di indulgente ironia. Rispose menzionando le tre settimane e anche l'esame e aggiungendo che, grazie a Dio, era perfettamente sano. Davvero, domandò l'assistente sporgendo la testa di sbieco quasi celiando e rafforzando il sorriso... Ma allora lei è un fenomeno ben degno di studio! Io infatti non ho ancora incontrato un uomo perfettamente sano.

Che esame ha dato, se è lecito? Sono ingegnere rispose Hans Castorp con modesto sussiego. Ah, ingegnere! E il sorriso del dottor Krokowski si ritirò, per cosí dire, perdette sul momento un po' di vigore e di cordialità. Molto bene. E qui non ricorrerà a nessuna cura medica, né fisica né psichica? No, no, grazie mille! esclamò Castorp e per poco non si ritraeva d'un passo. Qui proruppe ancora vittorioso il sorriso del dottore che, mentre stringeva di nuovo la mano al giovane, disse ad alta voce: Be', dorma bene, signor Castorp... in piena coscienza della sua perfetta salute! Dorma bene e arrivederci! Cosí congedò i due giovani e si risedette col suo giornale. L'ascensore non faceva piú servizió, sicché salirono le scale a piedi, taciturni, e un po' confusi dall'incontro col dottor Krokowski. Joachim accompagnò il cugino al numero trentaquattro dove il claudicante aveva regolarmente consegnato il bagaglio del nuovo arrivato, e chiacchierarono ancora un quarto d'ora, mentre Castorp tirava fuori la biancheria da notte e l'occorrente per lavarsi fumando una sigaretta grossa e leggera. Non ricorse al sigaro, e ciò gli parve strano e fuori dell'ordinario. Ha un'aria ragguardevole commentò mandando fuori il fumo aspirato. Pallido come la cera. Ma, senti, ha una calzatura orrenda. Calzini di lana grigia, e poi quei sandali! Che si sia offeso alla fine? E' un po' suscettibile ammise Joachim. Non dovevi respingere cosí bruscamente la cura medica, almeno quella psichica. Non vede di buon occhio chi si sottrae. Io non gli sono molto simpatico, perché non ho abbastanza fiducia in lui. Di quando in quando però gli racconto un sogno, perché abbia qualcosa da analizzare. Be', vuol dire che l'ho urtato conchiuse Castorp indispettito; era scontento di sé per aver arrecato quell'offesa, e anche la stanchezza gli fu addosso con tutto il suo peso. Buona notte disse. Non mi reggo piú. Alle otto vengo a prenderti per la colazione soggiunse Joachim e uscí. Prima di coricarsi Castorp fece soltanto pulizia sommaria. Il sonno lo vinse non appena ebbe spento la lampada sul comodino; ma fu scosso ancora da un sussulto al ricordo che due giorni prima una persona era morta in quel letto. Non sarà stata la prima volta disse fra sé, come se questo lo potesse tranquillare. E' un letto di morte, ecco, un comune letto di morte. E si addormentò. Ma era appena addormentato allorché cominciò a sognare e sognò quasi ininterrottamente fino al mattino successivo. Vedeva soprattutto Joachim Ziemssen che in una strana positura contorta su una guidoslitta scendeva per un percorso obliquo. Era d'un pallore fosforescente come quello del dottor Krokowski, davanti al quale era seduto alla guida il gentleman rider, dall'aspetto molto vago, come di uno che si sia soltanto udito tossire. Ciò è del tutto indifferente... per noi quassú diceva il cugino contorto, perché era lui, non il cavallerizzo, a tossire in quel modo limaccioso e spaventevole.

Per questo Castorp piangeva amaramente e si convinceva di dover correre in farmacia a procurarsi il coldcream. Ma sul margine della via era seduta la signora Iltis col muso aguzzo e teneva in mano quello che doveva essere il suo "cortiletto", e invece teneva il rasoio di sicurezza. Ciò provocò di nuovo il riso di Castorp che in tal modo fu sballottato fra emozioni diverse finché l'alba si affacciò alla porta semiaperta del balcone e lo svegliò. Capitolo secondo... La bacinella battesimale e il duplice aspetto del nonno Hans Castorp aveva soltanto pallidi ricordi della sua vera casa paterna; aveva appena conosciuto padre e madre. Gli erano morti nel breve periodo tra i suoi quattro e sei anni, prima la madre, cosí all'improvviso, in attesa del parto, in seguito a un'occlusione dei vasi, un'embolia, come la chiamò il dottor Heidekind, che, causata da una nevrìte, provocò l'immediata paralisi cardiaca... Stava appunto ridendo, seduta sul letto, parve che si rovesciasse dal ridere, ricadde invece perché era morta. Non era cosa facile da capire per Hans Hermann Castorp, il padre, che, teneramente attaccato a sua moglie e per parte sua non molto robusto, non seppe darsene pace. Da allora la sua mente rimase sconvolta e menomata; nel suo stordimento combinò affari sbagliati per cui la ditta Castorp & Figlio subí sensibili perdite; nella seconda primavera successiva, durante un'ispezione ai magazzini nel porto ventoso si buscò una polmonite, e poiché il suo cuore scosso non resistette al febbrone, morí, nonostante le cure prodigategli dal dottor Heidekind, entro il quinto giorno e, con un cospicuo intervento della cittadinanza, seguí la moglie nella tomba della famiglia Castorp, situata in bellissima posizione nel cimitero di Santa Caterina, in vista dell'Orto Botanico. Suo padre, il senatore, gli sopravvisse, sia pure di poco, e il breve periodo fino alla sua morte (anche lui morí di polmonite, fra grandi sofferenze e con lunga agonia, perché, a differenza del figlio, Hans Lorenz Castorp era di costituzione salda, tenacemente attaccata alla vita e difficile da abbattere), quel periodo, dico, un anno e mezzo soltanto, fu vissuto dall orfano Hans Castorp nella casa del nonno, una casa costruita al principio del secolo scorso su un breve tratto di terreno, secondo il gusto del classicismo nordico, con semicolonne ai lati del portone d'ingresso che si apriva nel mezzo del pianterreno rialzato di cinque gradini, e con due piani superiori oltre al piano nobile, le cui finestre arrivavano fino ai pavimenti ed erano munite di cancelletti di ghisa. Lí c'erano soltanto locali di rappresentanza, compresa la luminosa sala da pranzo, ornata di stucchi, le cui tre finestre con le tende color vino davano sul giardinetto retrostante; e in quei diciotto mesi nonno e nipote, soli, desinavano là tutti i giorni verso le quattro, serviti dal vecchio Fiete che portava gli orecchini e la marsina coi bottoni d'argento, e insieme con la marsina una cravatta di batista uguale a quella del padrone, e come lui vi affondava il mento raso; il nonno gli dava del tu e parlava con lui il dialetto bassotedesco, non già per celia (non aveva il senso dell'umorismo), ma con tutta serietà e perché cosí faceva con la gente del popolo, coi magazzinieri, postini, cocchieri e domestici.

A Hans Castorp piaceva, e molto gli piacevano le risposte di Fiete, pure in basso-tedesco, mentre servendo si chinava da sinistra verso il padrone per parlargli all'orecchia destra, dalla quale il senatore ci sentiva molto meglio che da quella sinistra. Il vecchio afferrava, annuiva e continuava a mangiare, ben ritto fra l'alta spalliera della sedia di mogano e la tavola, appena appena chino sul piatto, e di fronte a lui il nipote osservava in silenzio, con profonda e inconsapevole attenzione, i gesti fini e misurati, coi quali le vecchie e belle mani del nonno, bianche e scarne, dalle unghie convesse e appuntite, ornate del verde anello gentilizio sull'indice destro, disponevano sulla punta della forchetta un boccone di carne, legumi e patate, e lo portavano alla bocca, mentre la testa si sporgeva leggermente. Hans guardava le proprie mani ancora impacciate e vi sentiva l'insita possibilità di tenere e maneggiare in avvenire il coltello e la forchetta esattamente come il nonno. Restava poi da vedere se sarebbe mai arrivato ad affondare il mento in una cravatta come quella che empiva la larga apertura del singolare colletto il quale con le punte aguzze sfiorava le guance del nonno. Per farlo bisognava raggiungere l'età di lui, e già allora nessuno al mondo, tranne lui e il suo vecchio Fiete portava piú simili cravatte e colletti. Era un peccato, perché al piccolo Hans piaceva molto vedere il nonno che infilava il mento in quella cravatta alta e bianca come la neve; gli piaceva ancora in seguito, nel ricordo, quando fu adulto: v'era qualcosa che egli approvava dal fondo dell'anima. Quando, finito di mangiare, avevano piegato, arrotolato e infilato il tovagliolo nell'anello d'argento, operazione che a quel tempo Hans non riusciva a eseguire con facilità, perché il tovagliolo era grande come una piccola tovaglia, il senatore si alzava in piedi davanti alla sedia che Fiete ritirava, e passava con passo strascicato nel "gabinetto" a prendere il sigaro; e talvolta anche il nipote lo seguiva. L'origine di quel "gabinetto" risaliva a quando si era costruita la sala da pranzo con tre finestre, distesa su tutta la larghezza della casa, di modo che non era rimasto, come di solito in quel tipo di case, spazio per tre salotti, ma soltanto per due, uno dei quali però, perpendicolare alla sala da pranzo, con una sola finestra sulla strada, era riuscito sproporzionatamente fondo. Perciò se ne era separata circa la quarta parte in profondità, cioè quel "gabinetto", un piccolo locale che riceveva la luce dal l'alto, semibuio e con scarsa mobilia: uno scaffaletto con la scatola dei sigari del nonno, un tavolino da giuoco, il cui cassetto conteneva cose attraenti: carte da whist, gettoni, tavolette con linguine ribaltabili per segnare i punti, una lavagna con stiletti di gesso, bocchini di carta per i sigari e altro ancora; c'era infine in un angolo una bacheca rococò di palissandro i cui vetri erano internamente rivestiti di tendine di seta gialla. Nonno diceva talvolta il piccolo Hans nel "gabinetto" alzandosi in punta di piedi per avvicinarsi all'orecchia del vecchio fammi vedere, per favore, la bacinella battesimale ! E il nonno che già aveva spinta indietro la falda della lunga e morbida giacca e cavato dalla tasca il mazzo delle chiavi, apriva con queste la bacheca dal cui interno giungeva al ragazzo un caratteristico odore gradevole e strano ! Vi erano conservati ogni sorta di oggetti fuori uso e appunto perciò interessanti: una coppia di arcati candelabri d'argento, un barometro rotto con figurine di legno intagliato, un albo di dagherrotipi, uno stipo da liquori in legno di cedro, un piccolo turco, duro al tatto sotto l'abito di seta variopinto, con in corpo un congegno di

orologeria che a suo tempo lo aveva fatto correre sulla tavola, ma da un pezzo ormai era fuori servizio, un antiquato modello di nave e in fondo persino una trappola per i topi. Ora, il vecchio toglieva da un cassetto di mezzo una bacinella d'argento, rotonda e alquanto annerita, posata sopra un piatto pure d'argento, e presentava al ragazzo i due oggetti separandoli l'uno dall'altro e rigirando ciascuno di qua e di là, mentre ripeteva le spiegazioni già date altre volte. In origine piatto e bacino non erano accoppiati, come si vedeva benissimo e come il piccolo si faceva spiegare di nuovo; ma, diceva il nonno, da circa cent'anni, da quando cioè era stata acquistata la bacinella, servivano a un uso comune. Il bacino era bello, di forma semplice e nobile, foggiato secondo il gusto severo dei primi anni dell'ultimo secolo. Liscio e massiccio posava su un piede rotondo e aveva l'interno dorato; ma col tempo l'oro era sbiadito riducendosi a un velo giallognolo. Unico ornamento era una ghirlanda di rose e di foglie dentate a sbalzo intorno all'orlo. Il piatto era molto piú antico, come si poteva leggere sul piano interno. "Milleseicentocinquanta" vi era inciso in cifre ornate di ghirigori; il numero stava dentro una cornice di aggrovigliate incisioni, alla "maniera moderna" di allora, gonfia e capricciosa, con stemmi e arabeschi, mezzo stella e mezzo fiore. Sul rovescio invece erano graffiti con varia scrittura i nomi di coloro che nel volger del tempo erano stati i proprietari dell'oggetto; ce n'erano già sette, accompagnati dal millesimo dell'adizione dell'eredità, e il vecchio con tanto di cravatta li indicava a uno a uno con l'indice inanellato. C'era il nome del padre, quello del nonno stesso e quello del bisnonno, dopo di che il prefisso "bis" si raddoppiava, triplicava, quadruplicava sulle labbra del narratore, mentre il ragazzino, con la testa reclinata su una spalla stava ad ascoltare - gli occhi fissi e pensosi o anche spensieratamente trasognati e le labbra assorte e assonnate - quei bis-bis-bis-bis, una sibilante voce di tomba e di tempo sommerso che però esprimeva anche un legame piamente conservato fra il presente, la sua propria vita, e il lontano passato e gli faceva un effetto del tutto particolare: quello cioè che il suo viso esprimeva. Gli sembrava di respirare, a quelle parole, un'aria fredda e muffita, l'aria della chiesa di Santa Caterina o della cripta di San Michele, di avvertire l'atmosfera di luoghi nei quali, col cappello in mano, si assume un'andatura rispettosa, dondolante in avanti, senza l'appoggio dei tacchi; gli pareva di udire anche il silenzio remoto e chiuso di siffatti luoghi risonanti; sentimenti religiosi si mescolavano, al suono di quella sillaba, con quelli della morte e della storia, e tutto ciò faceva al ragazzo una vaga impressione benefica, anzi può darsi che proprio per quel suono, per udirlo e ripeterlo, avesse chiesto di nuovo il permesso di rivedere la bacinella battesimale. Il nonno riponeva poi il recipiente sul piatto e faceva vedere al nipotino la cavità liscia, lievemente dorata, che rifletteva la luce incidente dall'alto. Sono quasi otto anni diceva da quando ti tenemmo qui sopra e l'acqua, con la quale venivi battezzato, ricadde qua dentro... Il sagrestano Lassen di San Giacomo la versò nella mano cava del buon pastore Bugenhagen, che la fece scorrere sopra il tuo ciuffo giú nella bacinella.

Ma l'avevamo riscaldata, quell'acqua, perché non ti spaventassi e non piangessi, e infatti non piangesti, anzi, al contrario, avevi gridato prima, sicché non fu facile per Bugenhagen tenere il discorso, quando invece arrivò l'acqua, stesti zitto, e fu rispetto per il santo sacramento, speriamo. Nei prossimi giorni si compiranno quarantaquattro anni, dacché il battezzando fu il tuo babbo, buon'anima, e l'acqua dalla sua testa cadde qua dentro. Fu qui in casa, nella sua casa paterna, nella sala di là, davanti alla finestra centrale, e a battezzarlo fu ancora il vecchio pastore Hesekiel, quello stesso che da giovane per poco non venne fucilato dai francesi, perché aveva predicato contro le loro ruberie ed estorsioni... Ora anche lui è da tanto tanto tempo in paradiso. Ma settantacinque anni or sono io stesso fui battezzato, pure nella sala, e mi tennero con la testa sopra la bacinella, posata cosí sul piatto, e il sacerdote pronunciò le stesse parole come per te e per tuo padre, e allo stesso modo l'acqua calda e limpida scese dai miei capelli (non erano allora molto piú abbondanti di quelli che ho in testa oggi) in questa bacinella dorata. Il ragazzino alzava gli occhi verso la testa scarna del vegliardo la quale stava di nuovo china sul bacino come nel momento trapassato e lontano che egli aveva evocato, ed era preso da un sentimento già provato, dalla sensazione un po' trasognata, un po' inquietante di qualcosa che si movesse e nel medesimo tempo stesse ferma, di una stabilità mutevole, che fosse ripetizione e vertiginosa uniformità... una sensazione a lui nota da casi precedenti, dalla quale aveva atteso e desiderato di essere nuovamente colpito: per amore di essa, almeno in parte, aveva tenuto a farsi mostrare l'oggetto ereditario, fisso e ad un tempo in moto. Riflettendo piú tardi, il giovane scoprí che l'immagine del nonno gli era rimasta impressa molto piú addentro, piú precisa e significativa che quella dei suoi genitori: e ciò era dovuto forse alla simpatia e alla speciale parentela fisica, poiché il nipote somigliava al nonno, per quanto un viso roseo di primo pelo può somigliare a un canuto e rigido settantenne. Il fatto era però soprattutto significativo per il vecchio che senza alcun dubbio era stato la vera figura caratteristica, la personalità pittoresca della famiglia. In quanto alla vita sociale, il tempo era passato sopra la persona di Hans Lorenz Castorp e sopra le sue opinioni e velleità assai prima del suo decesso. Era stato profondamente cristiano, nella comunità riformata, di mentalità rigorosamente conservatrice, portato alla restrizione aristocratica della cerchia sociale, della quale era possibile avere il governo, con un'ostinazione come se vivesse nel secolo decimoquarto, quando gli artigiani, contro la tenace resistenza dell'antico libero patriziato, avevano cominciato a conquistare seggi e voti nel consiglio cittadino, ed era restio a ogni innovazione. La sua attività si era svolta in decenni di vivace sviluppo e di molteplici rivolgimenti, decenni di progresso a marce forzate che avevano posto assai grandi e continue esigenze al coraggio e allo spirito di sacrificio del pubblico. A lui però, al vecchio Castorp, poco era importato, vivaddio, se lo spirito dei tempi nuovi aveva riportato le ben note, splendide vittorie. Egli aveva tenuto alle usanze dei padri e alle vecchie istituzioni molto piú che a temerari ampliamenti del porto e ad empie buffonate da metropoli, aveva cercato di frenare e smorzare dov'era possibile, e se fosse

dipeso da lui, la pubblica amministrazione avrebbe conservato ancora l'atmosfera idillica e patriarcale come a suo tempo nel suo ufficio privato. Cosí il vecchio, in vita e dopo, si presentava all'occhio dei cittadini, e se anche il piccolo Hans non capiva niente di affari di stato, il suo occhio puerile, tranquillo e osservatore, faceva in sostanza le medesime osservazioni: osservazioni mute e pertanto non critiche, piuttosto soltanto piene di vita, che d'altronde anche in seguito, nella cosciente memoria, conservarono in pieno la loro impronta ostile alla parola e all'analisi, null'altro che affermativa. C'entrava, come s'è detto, la simpatia, quella parentela e affinità di carattere che salta un anello e non è affatto rara. Figli e nipoti osservano per ammirare, ammirano per imparare e sviluppare ciò che in loro è preformato per via ereditaria. Il senatore Castorp era magro e alto di statura. Gli anni gli avevano curvato la schiena e il collo, ma egli cercava di compensare la curva con una pressione in senso contrario; la bocca, le cui labbra non erano piú sorrette dai denti, ma posavano direttamente sulle nude gengive (si metteva la dentiera soltanto per mangiare) si stirava con dignitoso sforzo verso il basso, e con ciò, ma anche come ripiego contro un'incipiente debolezza della testa, si attuava quel portamento nobilmente sostenuto e l'appoggio del mento che tanto piaceva al piccolo Hans. Egli aveva un debole per la tabacchiera- era una scatoletta ovale di tartaruga, con intarsi d'oro - e per questo motivo usava fazzoletti rossi, le cui cocche gli sporgevano dalla tasca posteriore dell'abito da passeggio. Se per un verso era un'allegra debolezza della sua persona, faceva però l'effetto di una licenza senile, di una delle negligenze che la vecchiaia o si permette volutamente e con giovialità o si tira dietro con venerabile incoscienza; in ogni caso fu la sola che l'acuto occhio infantile di Hans Castorp notasse nel portamento del nonno. Ma tanto per il ragazzo settenne, quanto, piú tardi, nei ricordi dell'adulto, la figura quotidiana del vecchio non era quella vera e reale. Nella realtà si presentava diversamente, molto piú bella e piú giusta del solito... vale a dire come appariva in un dipinto, un ritratto in grandezza naturale, che prima era stato nella stanza di soggiorno dei genitori e poi aveva traslocato insieme col piccolo Hans sulla Esplanade, dove era stato appeso nel salotto sopra il grande divano di seta rossa. Vi si vedeva Hans Lorenz Castorp nell'uniforme di consigliere comunale: in quella divisa cittadina severa e persino timorata, d'un secolo trascorso che una comunità sostenuta e ad un tempo audace aveva portato con sé attraverso i tempi e mantenuto per le occasioni di gala, al fine di trasformare nelle cerimonie il passato in presente, il presente in passato, e di manifestare il costante collegamento fra le cose, la veneranda sicurezza della sua firma commerciale. Il senatore Castorp vi appariva con tutta la persona su un lastrico rossiccio, davanti a una fuga di pilastri e archi a sesto acuto.

Stava in piedi, il mento abbassato, la bocca tirata all'ingiú, gli occhi azzurri, intelligenti, fissi a guardare lontano, con, sotto, i sacchi lacrimali, il soprabito nero, fin sotto al ginocchio, simile a una veste talare, che aperto davanti recava lungo l'orlo e il lembo una larga guarnizione di pelliccia. Dalle larghe e orlate maniche a sbuffo sbucavano sottomaniche piú strette, di stoffa semplice, e polsini di pizzo coprivano le mani fino alle nocche. Le snelle gambe del vecchio erano infilate in calze di seta nera, i piedi in scarpe con le fibbie d'argento. Intorno al collo portava la larga gorgiera inamidata e pieghettata, premuta davanti e sollevata ai due lati, di sotto alla quale pendeva per giunta una pettorina di batista pieghettata. Sotto il braccio teneva l'antiquato cappello con la tesa larga e la cupola rastremata verso il cocuzzolo. Era un eccellente ritratto, eseguito da un artista di grido, tenuto con buon gusto nello stile dei vecchi maestri, suggerito dal soggetto, che richiamava nello spettatore ogni sorta di immagini ispano-olandesi del tardo medioevo. Il piccolo Hans l'aveva guardato spesso, beninteso non con intendimento d'arte, però con un'intelligenza piú generica e persino penetrante; e benché avesse veduto il nonno come era rappresentato sulla tela un'unica volta nella realtà, in occasione di un solenne corteo avviato al municipio, e anche allora solo di sfuggita, non poteva, come abbiamo detto, fare a meno di considerare la figura del quadro come la vera e reale e di vedere nel nonno di tutti i giorni un uomo, per cosí dire, interinale, adattato per ripiego e in maniera inadeguata. Infatti la curiosa diversità dall'aspetto di tutti i giorni era evidentemente dovuta a quell'incompleto, forse un po' goffo adattamento, vi erano resti indelebili e allusioni alla sua vera e pura personalità. Il colletto con le punte alte, per esempio, e l'ampia cravatta bianca erano fuori di moda; ma ciò non si poteva assolutamente dire dell'ammirevole indumento, di cui quello era soltanto l'allusione interinale, cioè della gorgiera spagnola. Lo stesso valeva per l'inusitato cilindro che il nonno portava per via, al quale poi in una superiore realtà corrispondeva il feltro dalla larga tesa nel dipinto; e per il lungo abito da passeggio a pieghe, il cui vero e proprio originale era, secondo il piccolo Hans, la veste talare orlata di pelliccia. E cosí fu intimamente d'accordo che il nonno facesse pompa di sé in tutta la sua realtà e perfezione, quando si trattò di prendere commiato da lui. Fu nella sala, in quella medesima sala dove si erano seduti tante volte a tavola, l'uno dirimpetto all'altro; Hans Lorenz Castorp giaceva nel mezzo sulla bara circondata e assiepata di corone, nella cassa con guarnizioni d'argento. Aveva lottato fino all'ultimo contro la polmonite, con tenacia, benché, a quanto pareva, si fosse soltanto adattato a stare in questa vita presente, e ora, non si capiva bene se vincitore o sconfitto, ma in ogni caso con espressione severa e pacificata e notevolmente mutato e col naso appuntito dall'agonia, giaceva sul letto parato a lutto, la metà inferiore nascosta da una coperta sulla quale c'era un ramo di palma, la testa sorretta dal guanciale di seta, di modo che il mento posava bellamente nell'incavo anteriore dell'onorifica gorgiera; e fra le mani, semicoperte dai polsini di pizzo - le dita assestate con artificiosa naturalezza non negavano di essere fredde e inanimate era stato infilato un crocefisso d'avorio, sul quale pareva che egli, a palpebre abbassate, tenesse lo sguardo fisso.

Hans Castorp aveva visto piú volte il nonno al principio dell'ultima malattia, ma non piú verso la fine. Gli avevano risparmiato interamente la vista dell'agonia, che d'altronde si era svolta soprattutto di notte; ne aveva avuto sentore solo indirettamente, attraverso l'angosciata atmosfera della casa, nonché gli occhi rossi del vecchio Fiete, l'andare e venire dei dottori; ma il risultato, davanti al quale venne a trovarsi In quella sala, poteva riassumersi nel fatto che il nonno era ormai solennemente dispensato dall'adattamento interinale e aveva assunto in via definitiva la sua vera e propria figura: risultato lodevole, anche se il vecchio Fiete piangeva e scoteva continuamente la testa, e se Hans stesso piangeva, come aveva pianto alla vista della mamma deceduta all'improvviso e del suo babbo che poco dopo l'aveva seguita, anche lui silenzioso e straniato. Era infatti già la terza volta in cosí breve giro d'anni, in cosí giovane età, che la morte colpiva la mente e i sensi - in modo particolare anche i sensi - del piccolo Hans; la scena e l'impressione non erano piú nuove per lui, ma piuttosto molto familiari, e come già le prime due volte si era mantenuto calmo e ragionevole, sia pure con naturale afflizione, cosí fece ora, e in misura ancor maggiore. Ignaro dell'importanza pratica che quegli avvenimenti potevano avere per la sua vita o anche indifferente, data la sua età, con la fiducia che in un modo o nell'altro il mondo avrebbe provveduto per lui, aveva mostrato davanti ai feretri una certa freddezza, anch'essa puerile, e un'attenzione obiettiva, cui la terza volta, col sentimento e con l'espressione d'una competente esperienza, si aggiunse una particolare sfumatura di saccenteria... Senza dire dell'ovvia reazione costituita dalle frequenti lacrime derivanti dalla commozione e dal contagio altrui. Nei due o tre mesi dopo la perdita del babbo aveva dimenticato la morte; ora se ne rammentò, e tutte le impressioni di allora risorsero esattamente come allora, tutte insieme e penetranti, nella loro incomparabile peculiarità. Analizzate ed espresse con parole, si sarebbero presentate press a poco come segue. La morte era una faccenda pia, sensata e tristemente bella, cioè spirituale, e nello stesso tempo ben diversa, anzi contraria, molto corporea, molto materiale, che a rigore non si poteva definire né bella, né sensata, né pia, e nemmeno triste. Il lato spirituale e solenne si esprimeva attraverso la pomposa composizione della salma, la magnificenza dei fiori e le foglie di palma, che, com'è noto, significano la pace celeste; oltre a ciò e ancora piú eloquentemente, attraverso la croce posta tra le morte dita di quello che era stato il nonno, il Redentore benedicente di Thorwaldsen, ritto alla testa del feretro, e i candelabri che si ergevano ai due lati e per l'occasione avevano preso anch'essi un'aria di chiesa. Era chiaro che tutti questi provvedimenti trovavano il loro piú preciso e miglior significato nel pensiero che ora il nonno aveva assunto per sempre la sua vera e reale figura. Oltre a questo però - e il piccolo Hans se ne accorse, anche se non lo ammise a parole - essi avevano, tutti insieme, ma in particolare la massa dei fiori e fra questi particolarmente le tuberose presenti in gran numero, anche un altro significato e uno scopo prosaico, di mascherare cioè, far dimenticare e non avvertire l'altro lato della morte, quello né bello, né propriamente triste, ma piuttosto quasi sconveniente, bassamente corporeo.

A questo lato si collegava il fatto che il nonno morto appariva cosí estraneo, a rigore anzi non come il nonno, ma come un fantoccio di cera in grandezza naturale, che la morte aveva sostituito alla sua persona, e al quale era dedicato tutto quello sfoggio pietoso e onorevole. Colui o, piú esattamente, quella cosa che era lí distesa, non era dunque il nonno stesso, bensí un involucro... che, Hans Castorp lo sapeva, non era fatto di cera, ma della sua propria materia; "soltanto" di materia: e questo era il particolare sconveniente e forse neanche triste... cosí poco triste come non sono tristi le cose che hanno a che fare col corpo e "soltanto con esso. Il piccolo Hans osservava la materia, gialla come cera, liscia, soda, caseosa di cui erano fatti il morto simulacro in grandezza naturale, il viso e le mani di quello che era stato il nonno. In quel momento una mosca si posò sulla fronte immobile e cominciò a muovere su e giú la proboscide. Il vecchio Fiete la scacciò con cautela, badando a non toccare la fronte e oscurandosi convenientemente in viso, come se non gli fosse lecito e non volesse saperne di quel suo gesto... con un'espressione di costumatezza dovuta certo al fatto che ormai il nonno era soltanto un corpo e nulla piú; ma, levatasi a volo, la mosca descrisse un arco e si riaccomodò sulle dita del nonno, presso la croce d'avorio. Intanto però Hans credette di avvertire piú nettamente quell'esalazione, che già conosceva da prima, sottile, ma di una caratteristica insistenza, che con sua vergogna gli rammentava un compagno di scuola, affetto da un male molesto e perciò da tutti scansato, e che il profumo delle tuberose senza parere era chiamato a sopraffare, senza riuscirci, ad onta della grande abbondanza e intensità. Egli visitò piú volte la salma: una volta solo col vecchio Fiete, la seconda volta insieme col suo prozio Tienappel, il negoziantè di vini, e i due zii James e Peter, poi ancora una terza volta quando un gruppo di lavoratori del porto vestiti a festa sostò alcuni istanti davanti alla cassa aperta per prendere commiato dal defunto principale della ditta Castorp & Figlio. Venne poi il funerale, con la sala piena di gente, dove il-pastore Bugenhagen della chiesa di San Michele, quello stesso che aveva battezzato Hans, indossata la gorgiera spagnola, tenne il discorso commemorativo e poi, nella carrozza, la prima dietro il carro funebre, seguita da una lunga lunga fila, conversò molto affabilmente col piccolo Hans... finché anche quel periodo di vita fu conchiuso, e poco dopo Hans Castorp cambiò casa e ambiente: era già la seconda volta che lo faceva nella sua giovane esistenza.

Dai Tienappel. E le concezioni morali di Hans Castorp. Non fu un danno per lui, poiché entrò in casa del console Tienappel che era stato nominato suo tutore, e là non gli mancò niente; non solo per la sua persona, ma anche per la cura dei suoi interessi, dei quali non sapeva ancora nulla. Infatti in console Tienappel, uno zio della defunta mamma di Hans, amministrò l'eredità dei Castorp, mise in vendita gli immobili, si assunse anche la liquidazione della ditta Castorp & Figlio, Importazione ed Esportazione, e ne ricavò ancora un quattrocentomila marchi, l'eredità di Hans Castorp, che il console

investí in titoli di assoluta sicurezza; e, senza pregiudizio dei suoi sentimenti di parentela, al principio di ogni trimestre detraeva per sé dagli interessi in scadenza il due per cento di provvigione. La casa dei Tienappel sorgeva in fondo a un giardino sul Harvestehuder Weg e dava su uno spiazzo, dove non era tollerata nemmeno la piú piccola erbaccia, su giardinetti pubblici coltivati a rosai e poi sul fiume. Pur possedendo una bella carrozza, il console andava ogni mattina a piedi nel suo negozio nella città vecchia, per fare un po di moto, perché talvolta soffriva di ingorghi sanguigni alla testa, e alle cinque di sera ritornava allo stesso modo per pranzare in casa propria con tutti gli agi. Era un pezzo d'uomo, vestito delle migliori stoffe inglesi, con gli occhi celesti sporgenti dietro gli occhiali d'oro, il naso florido, la barba da marinaio brizzolata e un acceso brillante al grosso mignolo della sinistra. Sua moglie era morta da un pezzo. Aveva due figli, Peter e James, uno dei quali era in marina e poco in casa, l'altro lavorava nel paterno commercio di vini ed era il designato erede della ditta. Chi governava la casa da anni era Schalleen, la figlia d'un orafo di Altona, la quale intorno ai polsi cilindrici portava volantini bianchi inamidati. Lei garantiva che a colazione e a cena la tavola fosse ben fornita di piatti freddi, granchi di mare e salmone, anguilla, petto d'oca e roast-beef con tomato catsup; lei vigilava i servitori avventizi quando il console dava un pranzo agli amici, e lei faceva alla meglio da mamma al piccolo Hans. Questi crebbe in un clima infame, al vento e all'umidità, crebbe se cosí si può dire, in impermeabile giallo, ma in complesso, ci si sentiva bene. Vero è che fin da principio era un po' anemico, lo disse anche il dottor Heidekind, che gli fece somministrare ogni giorno, dopo scuola, con la terza colazione un buon bicchiere di porter: bevanda, come tutti sanno, sostanziosa, cui il dottor Heidekind attribuiva effetti ematopoietici, e in ogni caso moderava la vitalità di Hans in maniera per lui apprezzabile e favoriva la sua tendenza a "sonnecchiare", come diceva lo zio Tienappel, a sognare, cioè a fantasticare con le labbra allentate e senza pensiero in testa. Per il resto era sano e a posto, buon giocatore di tennis e vogatore, anche se, invece di manovrare i remi da sé, preferiva starsene le sere d'estate sulla terrazza del traghetto di Uhlenhorst, con una buona bibita davanti. ad ascoltare la musica e a osservare le barche illuminate fra le quali, sull'acqua dai riverberi multicolori, passavano i cigni; e quando lo si udiva parlare calmo, assennato, con voce un po' cavernosa e monotona, con un tantino di bassotedesco, e persino al solo guardarlo in quella sua bionda inappuntabilità, con la testa di buon taglio, dall'impronta in certo modo antica, che esprimeva una boria ereditaria e incosciente sotto forma di una asciutta sonnolenza, nessuno poteva dubitare che quel Castorp fosse un genuino e onesto prodotto locale, magnificamente a posto... lui stesso, se si fosse soltanto esaminato a questo proposito, non ne avrebbe dubitato nemmeno un istante. Con l'atmosfera della grande città marinara, quell'umida atmosfera di traffici mondiali e di benessere che era stata la gioia dei suoi padri, egli era pienamente d'accordo e la respirava con naturalezza e diletto. Fiutando le esalazioni d'acqua, carbone e catrame, l'afrore dei mucchi di generi coloniali, vedeva le enormi gru a vapore girevoli che sulle banchine del porto imitavano la flemma, l'intelligenza e la forza elementare

di elefanti al lavoro, quando dal ventre di mercantili ancorati scaricavano tonnellate di sacchi, balle, casse, botti, damigiane in carri ferroviari e capannoni. Vedeva i commercianti in impermeabile giallo, uguale al suo, affluire a mezzogiorno alla borsa, dove, per quanto ne sapeva lui, si svolgevano aspre battaglie e si poteva trovare assai facilmente l'occasione di distribuire in tutta fretta inviti a pranzo per conservare il proprio credito. Vedeva (e questa fu in seguito la sua particolare cerchia d'interessi) il brulicame dei cantieri, vedeva nei bacini di carenaggio i corpi giganteschi di navi delle linee asiatiche e africane, alte come torri, con le eliche e la chiglia scoperte, sorrette da puntelli grossi come tronchi d'albero, all'asciutto nella loro sontuosa goffaggine, invase da eserciti nani di operai intenti a strofinare, martellare, verniciare; vedeva ergersi sugli scali coperti, entro una nebbia fumosa, le scheletriche ossature di navi in costruzione, e ingegneri con in mano il progetto e il piano della sentina, impartire istruzioni ai costruttori: tutte scene familiari a Hans Castorp fin dall'adolescenza che in lui suscitavano la sensazione di farne parte, al trovarsi come a casa propria, sensazioni che arrivavano alla massima intensità quando, la domenica mattina, con James Tienappel e col cugino Ziemssen -Joachim Ziemssen - nell'Alsterpavillon mangiava per prima colazione panini con carne affumicata e un bicchiere di vecchio Porto e poi, succhiando voluttuosamente il sigaro, si appoggiava alla spalliera della sedia. Era infatti genuino specialmente in questo: che gli piaceva viver bene e anzi, nonostante l'aspetto affinato di persona anemica, assaporare con energica intensità i piaceri materiali della vita, come uno smoderato poppante al seno materno. Con suo agio e non senza dignità reggeva sulle spalle l'avanzata civiltà che il superiore ceto dominante della democrazia cittadina, dedita ai commerci, trasmette ai suoi figli. Faceva sempre il bagno come un pupo e si vestiva dal sarto nel quale avevano fiducia i giovani del suo ambiente. Della sua piccola provvista di biancheria, accuratamente marcata, disposta nei tiretti inglesi dell'armadio, aveva egregiamente cura Schalleen; persino quando era studente, lontano, Hans la mandava regolarmente a casa affinché fosse lavata e rammendata (la sua massima era che in Germania fuori di Amburgo non si sa stirare), e il polsino gualcito d'una delle sue belle camicie di colore lo avrebbe messo in grande disagio. Le sue mani, benché non proprio di forme aristocratiche, erano curate e di pelle fresca, con un anello a catena, di platino, e col sigillo di famiglia ereditato dal nonno; e i denti, un po' troppo deboli e qua e là guasti, erano otturati in oro. Quando stava in piedi o camminava spingeva un po' avanti la pancia, e ciò non gli conferiva davvero un'aria marziale; ma il suo portamento a tavola era distinto. Volgeva con garbo il busto eretto verso il vicino col quale conversava (con intelligenza e con qualche inflessione dialettale), e tirava i gomiti leggermente a sé quando scalcava il suo pezzo di pollame o estraeva abilmente con le opportune posate la polpa rosea da una pinza di aragosta. La prima cosa che gli occorreva dopo il pasto era la coppa d'acqua profumata per le dita, la seconda la sigaretta russa che, evitando il dazio, egli acquistava sotto mano attraverso bonarie frodi. Essa precedeva il sigaro, una gustosissima marca di Brema, detta ' Maria Mancini", della quale si parlerà in seguito, e i suoi aromatici veleni si accoppiavano in modo soddisfacente con quelli del caffè.

Dalle sue provviste di tabacco Castorp teneva lontano il dannoso influsso del riscaldamento a vapore e le teneva in cantina dove scendeva ogni giorno per infilare nell'astuccio il fabbisogno della giornata. Soltanto còn riluttanza avrebbe mangiato il burro che gli avessero presentato in un sol pezzo anziché in riccioli scanalati. Come si vede, badiamo a dire tutto quanto possa acquistargli simpatie, ma lo giudichiamo senza passione e non lo facciamo né migliore né peggiore di quanto non fosse. Hans Castorp non era né un genio né uno sciocco, e se per definirlo evitiamo il vocabolo "mediocre", lo facciamo per motivi che non hanno nulla a che vedere con la sua intelligenza e poco anche con la sua schietta persona, per rispetto cioè del suo destino, al quale incliniamo ad attribuire un certo significato superpersonale. La sua intelligenza poté appagare le esigenze del liceo scientifico senza doversi affaticare troppo... cosa che in nessuna circostanza e per nessuno scopo sarebbe stato disposto a fare, non tanto per timore di farsi male quanto perché non ne vedeva assolutamente la ragione o, per dir meglio, una ragione "assoluta"; e per questo forse non lo vogliamo chiamare mediocre, perché in qualche modo sentiva la mancanza di tali ragioni. L'uomo non vive soltanto la sua vita personale come individuo, ma - cosciente o incosciente - anche quella della sua epoca e dei suoi contemporanei, e qualora dovesse considerare dati in modo assoluto e ovvio i fondamenti generali e obiettivi della sua esistenza ed essere altrettanto lontano dall'idea di volerli criticare quanto lo era in realtà il buon Castorp, è pur sempre possibile che senta vagamente compromesso dai loro difetti il proprio benessere morale. Il singolo può avere di mira parecchi fini, mete, speranze, previsioni, donde attinge l'impulso ad elevate fatiche e attività; se il suo ambiente impersonale, se l'epoca stessa, nonostante l'operosità interiore, è in fondo priva di speranze e prospettive, se furtivamente gli si rivela disperata, vana, disorientata e al quesito formulato, coscientemente o no, ma pur sempre formulato, di un ultimo significato, ultrapersonale, assoluto, di ogni fatica e attività, oppone un vacuo silenzio, ecco che proprio nel caso di uomini dabbene sarà quasi inevitabile un'azione paralizzante di questo stato di cose, la quale, passando attraverso il senso morale psichico, finisce con l'estendersi addirittura alla parte fisica e organica dell'individuo. Per aver voglia di svolgere un'attività notevole che sorpassi la misura di ciò che è soltanto imposto, senza che l'epoca sappia dare una risposta sufficiente aLlá domanda "a qual fine?", occorre o una solitudine e intimità morale che si trova di rado ed è di natura eroica o una ben robusta vitalità. Né questo né quello era il caso di Castorp, sicché si dovrà pur dire che era mediocre, sia pure in un senso molto onorevole. Qui non abbiamo parlato del contegno del giovane soltanto durante gli anni di scuola, ma anche negli anni successivi, quando egli aveva già scelto la sua professione civile. In quanto alle promozioni scolastiche, diremo che dovette persino ripetere qualche classe. In complesso però la sua origine, la sua urbanità e infine una buona, anche se non appassionata disposizione alla matematica lo aiutarono a dargli una spinta, e quando ebbe in mano il diploma di maturità, decise di frequentare la scuola allievi ufficiali,... soprattutto, a dir il vero, perché cosí prolungava una condizione abituale, provvisoria e indecisa, e acquistava tempo per riflettere su che cosa avrebbe

preferito diventare; da un pezzo infatti non ne aveva un'idea chiara, non l'aveva ancora nemmeno nell'ultima classe, e quando la decisione fu presa (che l'avesse presa lui, sarebbe quasi dir troppo) sentì che forse si sarebbe anche potuto prenderne un'altra. E' vero però che gli erano sempre piaciute molto le navi. Da ragazzo aveva riempito i fogli dei suoi taccuini con disegni a matita di battelli da pesca, chiatte da ortaggi, cinquealberi, e quando a quindici anni aveva potuto assistere, da un posto privilegiato, al varo del nuovo piroscafo Hansa, a due eliche, di Blohm & Voss, aveva eseguito all'acquerello una riproduzione, bene azzeccata e minuta fin nei particolari, della bella nave snella, e il console Tienappel l'aveva appesa nel suo ufficio privato: in particolare il trasparente verde-bottiglia del mare agitato vi era riprodotto con tanto amore e tale abilità che qualcuno ebbe a dire al console come lí ci fosse dell'ingegno e come se ne potesse ricavare un buon pittore di marine... giudizio che Tienappel poté tranquillamente riferire al suo pupillo, perché questi si limitò a riderne bonariamente e non prese neanche di sfuggita in considerazione simili idee esaltate, da morti di fame. Molto non possiedi gli diceva qualche volta lo zio Tienappel. Il mio denaro andrà un giorno per la massima parte a James e Peter, cioè rimarrà nell'azienda e Peter avrà la sua rendita. Il tuo è impiegato bene e ti darà interessi sicuri. Ma oggi, vivere d'interessi non è uno scherzo, quando non si possiede almeno il quintuplo di quello che hai tu, e se vuoi essere qualcuno in questa città e vivere come sei abituato, devi pensare a guadagnare parecchio, ricordati, figlio mio. Hans Castorp ricordò e cercò una professione che gli permettesse di far bella figura con se stesso e con gli altri. E quando ebbe scelto - lo fece per suggerimento del vecchio Wilms, della ditta Tunder & Wilmsj il quale giocando la solita partita domenicale a whist disse al console Tienappel che Hans avrebbe dovuto studiare ingegneria navale, un'idea, e entrare al suo servizio, al giovane avrebbe badato lui - aveva un'ottima opinione di quella attività e pensava che era, sí, una professione maledettamente complessa e faticosa, ma anche eccellente, grandiosa e importante, e in ogni caso, per quel tipo pacifico che era, di gran lunga preferibile a quella di suo cugino Ziemssen, figlio della sorellastra della sua povera mamma, il quale a tutti i costi voleva far l'ufficiale. E dire che Joachim Ziemssen non era molto valido di petto, ma appunto perciò forse una vita all aria aperta, nella quale non era il caso di parlare seriamente di lavoro e sforzo intellettuale, poteva essere confacente per lui, come Hans giudicava con una punta di disprezzo. Aveva infatti il massimo rispetto del lavoro, benché, sappiamo, il suo lo affaticasse un tantino. Qui ritorniamo ai nostri precedenti accenni i quali concernevano l'ipotesi che i pregiudizi recati dall'epoca alla vita personale possono influire addirittura sull'organismo fisico dell'uomo. Come avrebbe dovuto Hans Castorp avere stima del lavoro? Sarebbe stato un atteggiamento non naturale. Stando le cose come stavano, il lavoro doveva essere per lui la cosa assolutamente piú stimabile, in fondo non c'era nulla che fosse piú degno di stima, era il principio che segnava la bravura o non bravura dell'uomo, l'assoluto dell'epoca corrente, esso rispondeva, per cosí dire, a se stesso. Il rispetto che egli ne aveva era quindi religioso e, secondo lui, di non dubbia natura.

Lo amava? Questo era un altro paio di maniche: non poteva farlo, per quanto lo stimasse, per la semplice ragione che il lavoro non gli conferiva. Lo sforzo gli stirava i nervi, lo sfiniva subito ed egli confessava schiettamente che gli piaceva molto piú il tempo libero, senza il peso della fatica, il tempo aperto davanti a lui, non suddiviso da ostacoli che bisognasse superare a denti stretti. Questo contrasto nei suoi rapporti col lavoro lo si dovrebbe, a rigore, risolvere. Non poteva darsi che tanto il suo corpo quanto lo spirito - prima lo spirito e attraverso di esso anche il corpo - si sarebbero applicati al lavoro con piú gioia e tenacia se in fondo all'anima, dov'egli stesso non si raccapezzava, fosse stato capace di credere nel lavoro come valore assoluto, come principio rispondente a se stesso, e di trovarvisi quindi maggiormente rassicurato? Con ciò si ripropone il quesito se sia stato un mediocre o piú che mediocre, al quale non vogliamo dare una risposta precisa. Non siamo qui per fare il panegirico di Hans Castorp, ma ammettiamo l'ipotesi che nella sua vita il lavoro abbia soltanto leggermente ostacolato il puro godimento dei "Maria Mancini". A fare il servizio militare non fu obbligato. La sua intima natura vi era contraria e lo seppe impedire. Poteva anche darsi che il capitano medico dottor Eberding, il quale frequentava la casa del Harvestehuder Weg, nelle conversazioni col console Tienappel, avesse appreso che il giovane Castorp avrebbe considerato la costrizione alle armi come un sensibile disturbo dei suoi studi appena incominciati altrove. La sua testa che lavorava con calma e lentezza, tanto piú che egli anche fuori di casa aveva conservato la tranquillante consuetudine di annaffiare la colazione col porter, si empí di geometria analitica, di calcolo differenziale, meccanica, teoria delle proiezioni e statica grafica, calcolò stazze lorde e stazze nette, stabilità, proporzione di equilibrio e metacentro, anche se talvolta gli toccò sudare. I suoi disegni tecnici, quegli spaccati di ossature, quei tracciati di linee d'immersione e sezioni longitudinali non erano cosí ben riusciti come la rappresentazione pittorica della Hansa in alto mare, ma quando si trattava di aiutare l'intuizione astratta con la concreta, di ombreggiare con l'inchiostro di China e di tracciare una sezione segnando i materiali con colori allegri, Castorp superava in abilità la maggior parte dei compagni. Quando ritornava a casa per le vacanze, molto pulito, molto ben vestito, coi baffetti rossicci sul viso assonnato di giovane patrizio evidentemente incamminato verso posti cospicui, coloro che si occupavano di faccende comunali e s'intendevano di condizioni di famiglie e di persone - e sono i piú in uno stato-città con proprio governo - i suoi concittadini, insomma, gli lanciavano occhiate indagatrici: e si chiedevano in quale pubblica attività si sarebbe un giorno inserito. Aveva infatti tradizioni dietro di sé, un nome buono e antico, e un giorno quasi immancabilmente si sarebbe dovuto fare i conti con lui in quanto coefficiente politico. Allora egli si sarebbe trovato in mezzo alla cittadinanza o nel consiglio comunale a dettar leggi, avendo una carica onorifica avrebbe collaborato ai compiti della sovranità, sarebbe appartenuto a una sezione amministrativa, forse alla deputazione di finanza o magari all'edilizia, e la sua voce sarebbe stata ascoltata e avrebbe contato. Si era anche curiosi di sapere a quale partito si sarebbe iscritto a suo tempo il giovane Castorp.

L'aspetto esteriore poteva ingannare, ma tutto sommato aveva l'aria di non presentarsi come quelli sui quali i democratici potevano fare assegnamento, e la somiglianza col nonno era manifesta. Che dovesse seguirne le orme, diventare un cuneo d'arresto, un elemento Conservatore? Certo era possibile... come era possibile il contrario. In fin dei conti era ingeghere, un futuro costruttore di navi, un uomo del traffico mondiale e della tecnica. E allora poteva capitare che si mettesse coi radicali e diventasse uno spavaldo, un profano demolitore di edifici antichi e di bellezze del paesaggio, spregiudicato come un ebreo e irriverente come un americano, pronto a preferire la indiscreta rottura con la dignità tradizionale a un ponderato sviluppo di condizioni di vita naturali, e a lanciare lo stato in esperimenti temerari: anche questo era possibile. Avrebbe avuto nel sangue la convinzione che le Loro Saggezze, alle quali le due sentinelle davanti al Municipio presentavano le armi, sapevano tutto meglio di tutti, o se la sarebbe sentita di appoggiare i cittadini all'opposizione? Nei suoi occhi azzurri sotto le ciglia rossicce non si leggeva una risposta a queste interrogazioni della curiosità cittadina, né egli stesso, Hans Castorp, incerto com'era, avrebbe saputo darla. Quando cominciò il viaggio, nel quale l'abbiamo incontrato, aveva ventitré anni. Allora aveva frequentato quattro semestri al Politecnico di Danzica e ne aveva passati altri quattro alle Scuole superiori tecniche di Brunswick e Karlsruhe, aveva poco prima superato senza gloria e squilli di fanfara, ma con discreto decoro, il primo esame importante e si accingeva a entrare come ingegnere volontario da Tunder & Wilms per ricevere nei cantieri l'istruzione pratica. A questo punto la sua strada fece anzitutto la svolta seguente. Per l'esame aveva dovuto sgobbare di buzzo e a lungo e quando arrivò a casa aveva un aspetto ancor piú scialbo di quanto non consentisse il suo tipo. Il dottor Heidekind, vedendolo, brontolava ogni volta ed esigeva un cambiamento d'aria, ma radicale. Norderney, diceva, o Wyk nell'isola di Fohr non erano sufficienti questa volta, e se volevano sentire il suo parere, Hans, prima di entrare nel cantiere, doveva passare qualche settimana in alta montagna. Tutto bene, disse il console Tienappel al suo pupillo e nipote, ma in tal caso le loro vie divergevano in quell'estate, perché lui, Tienappel, non l'avrebbero tirato sui monti neanche con gli argani. Non era roba per lui, a lui occorreva una pressione atmosferica ragionevole, al trimenti gli veniva qualche accidente. Andasse pure Hans in alta montagna, ma solo, per favore. Perché non andava a trovare Joachim Ziemssen? Era una proposta ovvia. Joachim infatti era malato... non malato come Hans, ma in misura veramente incresciosa, c'era stato persino un attimo di spavento. Era stato sempre soggetto a catarri o a febbre, e un giorno eccoti davvero uno sputo sanguigno, e Joachim in quattro e quattr'otto aveva dovuto andare a Davos con suo profondo rammarico e dolore, poiché era sul punto di attuare i suoi desideri. Per volere dei suoi aveva studiato legge un paio di semestri, ma un impulso irresistibile gli aveva fatto cambiare rotta, aveva chiesto di fare l'aspirante ufficiale e l'avevano anche preso.

E ora viveva da oltre cinque mesi nel Sanatorio Internazionale Berghof (diretto dal consigliere aulico dottor Behrens) e si annoiava quasi a morte, come scriveva nelle cartoline. Se dunque Hans Castorp era disposto a pensare un pochino anche ai fatti suoi prima di occupare il posto da Tunder & Wilms, nulla era piú ovvio che anche lui si recasse lassú per far compagnia al suo povero cugino: era la soluzione piú gradevole per tutti e due. L'estate era già avanzata quando egli si decise a partire. Si era già alla fine di luglio. E partí per tre settimane. Capitolo terzo... Accigliamento costumato. Hans Castorp aveva temuto di non sentire la sveglia, poiché era stato stanchissimo, invece era in piedi prima del necessario ed ebbe fin troppo tempo per soddisfare ampiamente le sue consuetudini mattutine, di raffinata civiltà, fra le quali erano di somma importanza una vaschetta di gomma nonché una ciotola di legno con sapone verde alla lavanda e il relativo pennello da barba, e per accompagnare alla pulizia e alla cura del corpo il compito di disfare il bagaglio e di sistemare la sua roba. Mentre si passava la pialla argentata sulle guance coperte di schiuma fragrante, ricordò i suoi sogni confusi e con un indulgente sorriso, col senso di superiorità dell'uomo che si fa la barba alla luce diurna della ragionevolezza, scosse la testa a tutte quelle sciocchezze. Non che si sentisse molto riposato, ma fresco era come il nuovo giorno. Mentre si asciugava le mani, uscí, le guance incipriate, in mutande di filo di Scozia e pantofole di marrocchino rosso, sul balcone che era unico, ma suddiviso ad ogni camera da tramezzi di vetro opaco i quali non arrivavano fino alla ringhiera. La mattina era fredda e nuvolosa. Estesi banchi di nebbia stagnavano davanti alle alture di fianco, mentre una nuvolaglia bianca e grigia si ammassava sulle montagne piú lontane. Lembi e squarci di azzurro apparivano qua e là, e quando ne sbucava un'occhiata di sole, il paese sul fondovalle spiccava bianco contro le nere abetaie dei versanti. Da qualche parte si faceva musica mattutina, forse in quel medesimo albergo dove c'era stato un concerto la sera prima. Accordi corali arrivavano smorzati, dopo un intervallo si udí una marcia, e Castorp, che era appassionato di musica, perché gli faceva un effetto simile a quella del porter a colazione, cioè profondo e calmante, tale da stordire e suadere ad appisolarsi, ascoltò con piacere, la testa reclinata su una spalla, a bocca aperta e con gli occhi leggermente arrossati. Di sotto, si curvava l'ansa della salita al sanatorio, che egli aveva percorsa la sera prima. Genziane stellate, dal gambo breve, fiorivano tra l'erba umida del pendio. Una parte del ripiano era cintata a giardino; là c'erano viottole inghiaiate, aiuole di fiori e una grotta artificiale ai piedi di un superbo abete bianco.

Una tettoia coperta di zinco, dov'erano allineate sedie a sdraio, si apriva verso sud, e di fianco era rizzata un'asta verniciata di marrone, alla cui fune si svolgeva ogni tanto il panno d'una bandiera: bandiera di fantasia, verde e bianca, con nel mezzo il simbolo dell'arte sanitaria, la verga coi serpenti attorcigliati. Nel giardino passeggiava una donna attempata di aspetto tetro, persino tragico. Tutta vestita di nero, i capelli brizzolati e in disordine avvolti in un velo nero, camminava irrequieta per le viottole, con passo uniformemente veloce, le ginocchia curve, le braccia rigide in avanti e, la fronte aggrottata, guardava, di sotto in su, con gli occhi neri come il carbone fissi davanti a sé, sotto i quali le pendevano borse di pelle floscia. Il viso non piú giovane, pallido come quello delle meridionali, con la bocca larga, smunta, stirata da un lato, rammentò a Castorp il ritratto d'una famosa attrice tragica, che gli era capitato una volta davanti agli occhi, ed era uno spettacolo inquietante vedere quella donna pallida e nera che, evidentemente senza rendersene conto, adattava il passo lungo e crucciato al ritmo della marcia lontana. Castorp la guardò dall'alto con pensosa simpatia ed ebbe l'impressione che la sua triste figura oscurasse il sole del mattino. Ma nello stesso tempo afferrò anche un'altra cosa con l'udito, rumori che provenivano dalla camera attigua a sinistra, dalla camera, secondo le indicazioni di Joachim, dei coniugi russi, rumori che a loro volta non si accordavano alla mattina fresca e serena, ma pareva piuttosto che la insozzassero con qualcosa di viscoso. Ricordò che già la sera precedente aveva avvertito rumori simili, ma la stanchezza gli aveva impedito di prestarvi attenzione. Era un lottare, ridacchiare, ansimare, la cui natura scabrosa non poté a lungo rimanere nascosta al giovane, benché sulle prime si sforzasse bonariamente di darne un'interpretazione ingenua. La sua bonarietà si sarebbe potuto chiamarla anche con altri nomi, per esempio con quello un po' insipido di purezza d'anima, o quello serio e bello di pudore, o quelli avvilenti di disgusto del vero e ipocrisia, o persino quello di timidezza mistica e religiosa: c'era un poco di tutto ciò nel contegno di Castorp verso i rumori della camera attigua, e in termini fisionomici esso Si palesò in un costumato accigliamento del viso, come se egli non dovesse né volesse saperne di quei rumori: un'espressione di morigeratezza che non era del tutto originale, che egli però assumeva in determinate occasioni. Con quell'espressione dunque si ritirò dal balcone nella camera, per non continuare a sorprendere fatti che a lui sembravano seri, anzi impressionanti, benché si manifestassero con risate. Nella camera però si udiva anche meglio il tramestio di là dalla parete. Era o sembrava una caccia intorno ai mobili, una sedia fu rovesciata, si faceva ad acchiapparsi, si udivano schiocchi e baci, e ora per giunta la scena invisibile era accompagnata dalle lontane note di un valzer, dalle melodiche e consunte frasi di una canzone popolare. Castorp, in piedi, con la salvietta fra le mani, ascoltava controvoglia. A un tratto arrossí sotto la cipria, perché il momento chiaramente atteso era giunto e il giuoco, senz'ombra di dubbio, era passato alla fase animalesca. Accidenti! Dio buono, pensò spostandosi per terminare di vestirsi con movimenti volutamente rumorosi. Be', sono coniugi, che Dio li benedica, fin qui niente di male.

Ma la mattina, a giorno fatto, è un po' troppo. E a me pare proprio che nemmeno ieri sera siano stati quieti. In fin dei conti sono malati, se si trovano qui, o almeno uno di loro, e potrebbero avere qualche riguardo. Ma il vero scandalo, pensò con dispetto, è ovviamente che i muri siano cosí sottili e si senta tutto, un'indecenza! Costruiti, si sa, con poca spesa, una vergogna! Chi sa se li incontrerò poi o sarò magari presentato? Sarebbe veramente penoso. - E qui Hans Castorp si meravigliò vedendo che il rosso e, salitogli poco prima alle guance rase di fresco, non si dileguava, o almeno il senso di calore che lo aveva accompagnato persisteva e non era nient'altro che quel caldo secco in viso che lo aveva infastidito la sera precedente e, dopo essere scomparso nel sonno, ora, in quest'occasione, si era rifatto sentire. Ciò non contribuí a renderlo ben disposto verso la coppia vicina, sporgendo le labbra mormorò invece contro di loro un epiteto assai sprezzante e commise poi l'errore di rinfrescarsi ancora una volta il viso con l'acqua, aggravando notevolmente il malanno. Perciò era di malumore e incerto quando rispose a suo cugino che l'aveva chiamato bussando alla parete, e vedendo entrare Joachim non si può dire che desse un'impressione di freschezza e letizia mattutina.

La colazione. Buon giorno salutò Joachim. Questa sarebbe stata la tua prima notte quassú. Soddisfatto? Era-pronto per uscire, in abito sportivo, scarpe robuste e ben lavorate, e sul braccio portava l'ulster, nella cui tasca laterale si vedeva il rilievo della bottiglia piatta. Anche ora era senza cappello. Grazie rispose Castorp non c'è male. Non voglio però dare un giudizio. Ho fatto sogni confusi e poi questa casa ha il difetto che si sente tutto. E un po' seccante. Chi è quella donna in nero là fuori in giardino? Joachim capí subito a chi alludeva. Oh, è " Tous-les-deux" disse. Qui la chiamano tutti cosí, perché è la sola cosa che la si sente dire. Sai, è messicana, non sa una parola di tedesco, e quasi nulla di francese, soltanto qualche parola. E' qui da cinque settimane presso il figlio maggiore, un caso disperato che arriverà presto alla fine... ce l'ha ormai dappertutto, è avvelenato da parte a parte, si può dire, infine è come un tifo, dice Behrens... orribile in ogni caso per tutti i suoi. Quindici giorni fa arrivò il secondo figlio perché voleva vedere ancora una volta suo fratello - un ragazzo bellissimo, ti dico, come anche l'altro - entrambi sono ragazzi stupendi, le donne avevano perso la testa. Bene, il minore aveva avuto laggiú qualche colpo di tosse, ma del resto stava benissimo. Appena arrivato qua, figurati, gli sale la temperatura... ma subito a 39 e 5, febbre altissima, capisci, si mette a letto, e se riesce a cavarsela, dice Behrens, avrà piú fortuna che giudizio. In ogni caso era ora, dice, che venisse quassú...

E da quel momento la madre va attorno cosí, quando non è con loro, e a chi le rivolge la parola risponde soltanto: "Tous les deux!" - perché altro non sa dire, e qui non c'è nessuno che capisca lo spagnolo. Ho inteso disse Castorp. Chi sa se lo dirà anche a me, quando le fossi presentato? Sarebbe strano... voglio dire, sarebbe buffo e pauroso ad un tempo soggiunse, e aveva gli occhi come il giorno precedente: infiammati e grevi come avesse pianto a lungo, e di nuovo con quel luccicore che vi aveva acceso la strana tosse del cavallerizzo. In genere, gli pareva di aver soltanto ora ripreso contatto coi fatti del giorno prima, come se ora ritrovasse se stesso, mentre ciò non era ancora avvenuto dopo il suo risveglio. Ed era pronto, dichiarò colando qualche goccia di lavanda sul fazzoletto e portandoselo alla fronte e sotto gli occhi. Se non ti dispiace possiamo andare a colazione tous les deux disse scherzando con un'aria di eccessiva spavalderia, per cui Joachim lo sfiorò con una occhiata e con un singolare sorriso, malinconico e un po' ironico pareva,... perché, era affar suo. Assicuratosi di aver con sé da fumare, Castorp prese bastone, soprabito e cappello, sí, anche questo, per sfida, perché era troppo sicuro del suo stile e della sua buona educazione da assoggettarsi cosí facilmente e per tre sole settimane a usi nuovi e altrui... e cosí si avviarono, scesero le scale, e nei corridoi Joachim indicava questa o quella porta e diceva i nomi degli inquilini, nomi tedeschi e altri, di svariato suono forestiero, aggiungendo brevi osservazioni sul loro carattere e sulla gravità del male. Incontrarono anche persone che ritornavano già dalla colazione, e quando Joachim augurava il buon giorno a qualcuno, Castorp si levava cortesemente il cappello. Era eccitato e nervoso come il giovane che sta per comparire davanti a numerose persone sconosciute ed è assillato dalla precisa convinzione di avere gli occhi foschi e il viso arrossato - che poi era vero soltanto in parte, perché si presentava piuttosto pallido. Prima che mi dimentichi esclamò a un tratto con improvvisa premura. A quella signora in giardino puoi presentarmi, fin che vuoi, non ho niente in contrario. Mi dica pure: "tous les deux", non m'importa, ormai sono preparato, capisco cosa vuol dire e saprò fare una faccia di circostanza. Ma non desidero essere presentato ai coniugi russi, hai inteso? Non ne voglio sapere. Sono persone troppo maleducate, e se dovrò stare tre settimane vicino a loro e non s'è potuto fare diversamente, non li voglio conoscere, è un mio diritto, sia ben chiaro che non voglio. Capisco rispose Joachim. Tanto ti hanno disturbato? Sí, sono, dirò cosí, barbari, incivili insomma, te l'avevo già detto. Lui viene sempre a tavola con una casacca di pelle... logora che bisogna vedere, mi meraviglio che Behrens non intervenga. E lei non è proprio elegantissima, nonostante il cappellino piumato... ma puoi stare tranquillo, stanno lontano da noi, alla tavola dei "russi incolti" poiché c'è anche una tavola dei "russi ammodo", alla quale si siedono soltanto russi piú distinti... ed è difficile che tu li incontri, anche volendo. In genere non è agevole far conoscenze, non fosse altro perché fra gli ospiti ci sono molti stranieri, io stesso, pur essendo qui da tanto tempo, ne conosco ben pochi di persona. Dei due chi è il malato? domandò Castorp. Lui o lei? Lui, credo.

Sí, soltanto lui rispose Joachim visibilmente distratto, mentre appendevano il soprabito agli attaccapanni davanti alla sala da pranzo. Poi entrarono nella sala luminosa, dalla volta piatta, dove si udiva un incrociarsi di voci, un acciottolio di stoviglie, e le cameriere accorrevano con bricchi fumanti. Nella sala da pranzo c'erano sette tavole, la maggior parte disposte nel senso della lunghezza, soltanto due per traverso. Erano tavole piuttosto grandi, per dieci persone ciascuna, anche se i coperti non erano dappertutto al completo. Fatti soltanto pochi passi di sbieco nella sala, Castorp si trovò già al suo posto, apparecchiato sul lato breve della tavola, al centro davanti, fra le due tavole messe per traverso. In piedi, dietro alla sua sedia, Hans Castorp s'inchinò rigido e cortese verso i commensali, ai quali Joachim lo presentò cerimoniosamente; egli quasi non li vide e meno ancora ne afferrò i nomi. Gli si impresse soltanto il nome e la figura della signora Stohr, e notò che aveva il viso rosso e i capelli unti, di un biondocenere. Che facesse quelle tali topiche era credibile, bastava vedere l'espressione caparbia e ignorante della sua faccia. Poi si sedette e avvertí con piacere che la prima colazione era considerata un pasto serio. C'erano coppe di marmellata e miele, ciotole di riso cotto nel latte e di pappa d'avena, vassoi con uova strapazzate e carne fredda, burro a dovizia; uno sollevò la campana di vetro sopra un lacrimante formaggio svizzero per tagliarsene una fetta; e nel mezzo della tavola c'era anche una fruttiera con frutta fresca e secca. Una cameriera in bianco e nero domandò a Castorp che cosa preferisse: cacao, caffè o tè. Era piccola come una bimba, col viso lungo e non piú giovane... una nana, com'egli notò con spavento. Guardò suo cugino, ma poiché questi si limitò a contrarre con indifferenza le spalle e le sopracciglia, come per dire: "E dunque?", si adattò alle circostanze, ordinò con particolare gentilezza il tè, perché era stata una nana a interrogarlo, e si mise a mangiare riso nel latte con zucchero e cannella, mentre girava lo sguardo sugli altri cibi che desiderava gustare e sugli ospiti seduti alle sette tavole, colleghi e compagni di sventura di Joachim, i quali erano tutti internamente malati e facevano colazione chiacchierando. La sala era costruita in quello stile moderno che alla piú pratica semplicità sa conferire una certa nota fantastica. Non era molto fonda in proporzione alla lunghezza e intorno correva una specie di corridoio con una fila di credenze, che con grandi arcate si apriva verso l'interno dov'erano le tavole. I pilastri, rivestiti fino a metà dell'altezza di legno impiallacciato di sandalo lucido, poi imbiancati come la parte superiore delle pareti e il soffitto, erano ornati di fasce a vari colori, con allegri e ingenui disegni ripetuti che continuavano lungo le cornici della volta piatta. Alcuni lampadari elettrici, di ottone lustro, abbellivano la sala, ciascuno formato da tre cerchi sovrapposti e collegati con graziosi graticci; dal cerchio inferiore pendeva un giro di campane di vetro smerigliato, somiglianti a piccole lune.

Si accedeva per quattro porte vetrate: due nella parete di fronte che davano su una veranda esterna, una terza a sinistra che conduceva nell'atrio anteriore, e quella dalla quale Castorp era entrato passando da un vestibolo, poiché Joachim l'aveva fatto scendere da una scala diversa da quella della sera precedente. Alla sua destra aveva una donna modesta in nero con un po' di peluria sulla pelle e le guance arrossate e opache, nella quale gli parve di ravvisare una specie di cucitrice o sarta a giornata, probabilmente perché prendeva soltanto caffè con panini imburrati e perché egli aveva sempre collegato l'idea della sarta a giornata con quella del caffè e dei panini col burro. Alla sua sinistra stava una signorina inglese, anch'essa già avanti negli anni, molto brutta, con dita secche e freddolose, che leggeva lettere da casa in scrittura rotondeggiante e intanto beveva un tè color sangue. Accanto a lei seguivano Joachim e la signora Stohr in camicetta di lana scozzese: mentre mangiava teneva la sinistra a pugno vicino alla guancia e si vedeva lo sforzo che faceva per assumere, parlando, un'espressione fine e civile, ritraendo il labbro superiore dai lunghi e sottili denti da lepre. Un giovanotto coi baffi radi e il viso di chi abbia in bocca un cattivo sapore andò a sedersi accanto a lei e mangiò in perfetto silenzio. Entrato quando Castorp era già seduto, abbassò, ancora camminando e senza guardar nessuno, il mento sul petto in segno di saluto e si accomodò rifiutando nettamente col suo contegno di farsi presentare al nuovo venuto. Forse era troppo malato per avere ancora senso e rispetto di siffatte esteriorità o per interessarsi a chi gli stava intorno. Per un po' ebbe di fronte una ragazza straordinariamente magra, d'un biondo chiaro, che vUotò sul piatto una bottiglia di yoghurt, mandò giú a cucchiaiate la sua vivanda di latte e si allontanò quasi subito. La conversazione a tavola non fu animata. Joachim chiacchierò per cortesia con la signora Stohr, s'informò della sua salute e apprese con garbato rincrescimento che questa lasciava parecchio a desiderare. Lei si lamentò di "fiacchezza". Sono tanto fiacca! disse strascicando le parole con affettazione incivile. Aggiunse che appena alzata aveva già 37 e 3 e chi sa come sarebbe andata nel pomeriggio. La sarta a giornata confessò di avere la stessa temperatura, ma dichiarò che invece si sentiva in agitazione, interiormente tesa e inquieta, come se fosse in attesa di qualcosa di particolare e decisivo, mentre non lo era affatto, e doveva essere un'eccitazione fisica senza cause psichiche. Dunque non doveva essere una sarta, parlava un linguaggio preciso e quasi dotto. D'altra parte quell'agitazione o almeno il fatto di parlarne parve a Castorp sconveniente, persino urtante, in una creatura cosí meschina e modesta. Domandò alla cucitrice e poi alla signora Stohr da quanto tempo fossero lassú (quella ci stava da cinque mesi, questa da sette), racimolò il suo inglese per chiedere alla vicina di destra che tè stesse bevendo (era un infuso di coccole di rosa canina) e se fosse buono, e quella rispose di sí con fervido entusiasmo; poi osservò la sala dove si andava e veniva: la prima colazione non era un pasto strettamente comune. Aveva avuto qualche timore di scene paurose, ma si vide deluso: tutto si svolgeva allegramente, non si aveva l'impressione di trovarsi in un luogo di dolore.

Giovani abbronzati dell'uno e dell'altro sesso entravano canterellando, parlavano con le cameriere e attaccavano la colazione con formidabile appetito. C'erano anche persone piú mature, coniugi, un'intera famiglia con figlioli, la quale parlava russo, e anche adolescenti. Le donne portavano quasi tutte giacche aderenti di lana o seta, cosí detti sweater, bianchi o di colore, col colletto rovesciato e tasche laterali, ed era bello vederle chiacchierare in piedi, le mani affondate in quelle tasche. Ad alcune tavole si facevano vedere fotografie, senza dubbio nuove, da dilettanti; a un'altra si scambiavano francobolli. Si parlava del tempo, di come si era dormito, della temperatura che si era misurata in bocca la mattina. I piú erano allegri... senza particolare motivo probabilmente, soltanto perché non avevano apprensioni immediate e perché erano in molti. Certo però, alcuni stavano a tavola con la testa fra le mani, a guardare fisso davanti a sé. Gli altri lasciavano che guardassero fisso e non si curavano di loro. A un tratto però Castorp, seccato e offeso, ebbe un guizzo convulso. Una porta si era chiusa di colpo, la porta a sinistra che dava direttamente nell'atrio: qualcuno l'aveva chiusa con forza o sbattuta dietro di sé, con un fracasso che Castorp aveva sempre odiato a morte e non poteva soffrire. Quell'odio risaliva forse all'educazione avuta o forse a un'innata idiosincrasia... fatto è che detestava il rumore di una porta sbattuta e sarebbe stato capace di picchiare chi se ne rendeva colpevole. In questo caso la porta era tutta a incastri di vetro, che contribuirono a rafforzare il colpo: un tintinnio fragoroso. "Vergogna!" pensò Castorp furibondo, chi sarà questo maleducato? Ma siccome in quel momento la cucitrice gli rivolgeva la parola, non ebbe il tempo di accertare chi fosse il malfattore. Ma aveva le sopracciglia corrugate e, mentre rispondeva alla cucitrice, il viso dolorosamente stirato. Joachim domandò se i dottori erano già passati. Sí, avevano fatto il primo giro, gli rispose qualcuno, ed erano usciti dalla sala proprio quando i due cugini entravano. Era ora quindi di andare e non indugiare, osservò Joachim. Un momento per la presentazione si sarebbe trovato durante la giornata. Ma sulla soglia per poco non cozzavano contro il consigliere Behrens che entrava a passo veloce, seguito dal dottor Krokowski. Ohilà, attenzione, signori! esclamò Behrens. Ci potevano andare di mezzo i calli per entrambe le parti! Parlava con forti inflessioni basso-sassoni, masticando apertamente le parole. Ah, è lei dunque disse a Castorp che Joachim presentò accostando i tacchi; Piacere! E porse al giovane la mano, larga come una pala. Era un uomo ossuto, quasi tre teste piú alto di Krokowski, i capelli tutti bianchi, la nuca sporgente, grandi occhi azzurri prominenti, soffusi di sangue, lacrimosi, il naso camuso e i corti baffetti di sghembo in seguito a una piega unilaterale del labbro superiore.

Ciò che Joachim aveva detto delle sue guance era proprio vero: erano blu, sicché la testa si presentava molto colorita rispetto al bianco camice di chirurgo, un camiciotto con cintura che gli scendeva fino alle ginocchia, sicché sotto si vedevano i calzoni a righe e due piedi enormi in stivali gialli con legacci, un po' logori. Anche il dottor Krokowski era in abito professionale, ma il suo camice era nero, di alpaca, a casacca con elastici ai polsi, e dava non poco risalto al suo pallore. Faceva soltanto la parte dell'assistente, senza salutare a sua volta i presenti, ma una piega critica delle labbra rivelava che quel suo posto in sottordine gli faceva una strana impressione. Cugini? domandò il consigliere aulico agitando la mano fra l'uno e l'altro e guardando i giovani di sotto in su con quei suoi occhi azzurri soffusi di sangue. Vuol indossare anche lui l'onorata? chiese a Joachim con un cenno del capo verso Castorp. Ih, Dio guardi, vero?... Ho visto subito e ora si rivolse direttamente a Hans che lei ha un non so che di borghese, un certo modo... senza il trambusto d'armi di questo caporale. Lei sarebbe un paziente migliore di lui, scommetterei. Sa, io noto subito chi può essere un paziente come si deve, ci vuol talento, talento ci vuole per ogni cosa, e questo mirmidone qui non ne ha nemmeno un briciolo. Per le esercitazioni forse, non so, certo non per fare il malato. Ma lo sa che vuol sempre andar via? Sempre se ne vuole andare, mi tira e mi tormenta e non vede l'ora di correre laggiú a farsi squartare. Che zelo esagerato ! Neanche mezzo annetto ci vuol regalare. Eppure si sta molto bene qui da noi... dica lei, ziemssen, se non si sta bene qui ! Be', suo cugino ci saprà apprezzare meglio, saprà divertirsi. Le donne non mancano... qui ne abbiamo di graziosissime. Almeno di fuori parecchie sono pittoresche. Ma lei dovrebbe acquistare un po' di colore, capisce? altrimenti ci scapita con le signore. Verde è bensí l'aurea pianta della vita, ma in viso il verde non è proprio il colore piú adatto. Anemia totale naturalmente e cosí dicendo si avvicinò senz'altro a Castorp e gli abbassò una palpebra con l'indice e il medio. S'intende, anemia totale, come ho detto. La vuol sapere? Non ha avuto una cattiva idea abbandonando a se stessa la sua Amburgo per qualche tempo. E' un istituzione profittevole, quell'Amburgo, ci ha sempre fornito un discreto contingente con la sua gaia e umida meteorologia. Ma se in quest'occasione permette che le dia un consiglio non impegnativo... del tutto sine pecunia, intendiamoci,... faccia, fin tanto che è qui, esattamente tutto quanto fa suo cugino. Nel caso suo non si può far nulla di piú astuto che vivere qualche tempo come uno che ha una leggera tubercolosi polmonare e metter su un po' di albumina. Qui da noi il ricambio di albumina è una strana faccenda... Benché la combustione generale sia maggiore, il corpo ciò nonostante acquista in albumina...

Be', e lei, Ziemssen, ha dormito bene? Benissimo, vero? Via, dunque, ora per la passeggiata all'aria aperta! Ma non piú di mezz'ora! E poi il sigaro di mercurio in bocca! E notare tutto, mi raccomando, Ziemssen! Ordine superiore! Con coscienza! Sabato voglio vedere la curva. Suo cugino misuri anche lui. Misurare non può far male. Buon giorno, signori! Buon divertimento! Buon giorno... Buon giorno... E il dottor Krokowski gli si accodò, mentre filava a vele spiegate, le braccia ciondoloni, le palme delle mani volte all'indietro, chiedendo a destra e a sinistra se avevano dormito bene e ricevendo da tutti risposta affermativa.

Una burla. Il viatico. Allegria interrotta. Molto simpatico commentò Castorp allorché, dopo un cordiale scambio di saluti col portiere zoppo che nel suo sgabuzzino assortiva la corrispondenza, uscirono al l'aperto. Il portone era sul fianco sudorientale dell'edificio imbiancato, la cui parte mediana superava di un piano le due ali ed era coronata dalla torretta dell'orologio coperta di lamiera color ardesia. Uscendo da questa parte non si costeggiava il giardino cintato, ma ci si trovava subito all'aperto, di fronte a prati scoscesi, coperti di abeti isolati di media altezza, e di mughi contorti. La via che presero - a rigore era l'unica che si potesse prendere, oltre alla carrozzabile che scendeva a valle - li portò in lieve salita verso sinistra lungo il lato posteriore del sanatorio, il lato della cucina e dei servizi, con i bidoni della spazzatura ai cancelli delle scale dei sotterranei, e proseguiva per un buon tratto nella stessa direzione, faceva poi uno stretto gomito e saliva piú ripida, a destra, fra gli alberi radi del versante. Era una strada dura, rossastra, ancora un po' umida, al cui margine si vedeva ogni tanto un masso. I cugini notarono che non erano soli a fare la passeggiata. Ospiti che avevano finito di far colazione subito dopo di loro li seguivano a breve distanza e interi gruppi, già sulla via del ritorno, venivano loro incontro col passo pesante di chi scende. Molto simpatico! ripeté Castorp. E che parlantina! Mi divertivo ad ascoltarlo. Sigaro di mercurio per termometro è una trovata, io l'ho afferrato subito... Ma ora me ne accendo uno vero disse fermandosi non resisto piú. Da ieri a mezzogiorno non ho fatto una fumata decente... Scusa un momento! E dall'astuccio di cuoio col monogramma d'argento tolse un "Maria Mancini", un bell'esemplare di prima scelta, appiattito da un lato, come a lui piaceva molto, ne mozzò la cima con un piccolo arnese tagliente che portava alla catena dell'orologio, fece scattare l'accendisigaro e con alcune voluttuose sbuffate accese il sigaro piuttosto lungo, smussato in cima. Ecco disse. Ora continuiamo pure la passeggiata.

Tu naturalmente non fumi per eccesso di zelo. Non ho mai fumato obiettò Joachim. Perché dovrei fumare proprio qui? Non capisco davvero asserí Castorp. Non capisco come si possa non fumare... ci si rimette, dirò cosí, la parte migliore della vita e in ogni caso un piacere squisito. Quando mi sveglio, sono lieto all'idea che durante il giorno potrò fumare, e quando mangio, di nuovo me la godo, anzi posso dire che mangio soltanto per poter fumare, anche se dicendo cosí esagero naturalmente un pochino. Ma un giorno senza tabacco sarebbe per me il colmo dell'insulsaggine, una giornata del tutto vuota e senza attrattive, e se la mattina dovessi prevedere: oggi non avrò niente da fumare... credo che non avrei neanche il coraggio di alzarmi, in verità, rimarrei a letto. Vedi: se hai un buon sigaro - s'intende che non deve sfiatare o tirar male, che è molto spiacevole - se hai un buon sigaro, dico, ti senti al sicuro, non ti può capitare nessun malanno. E' come star coricati in riva al mare, stai appunto coricato sulla sabbia, e non ti occorre nient'altro, né lavoro né divertimento... Grazie a Dio, in tutto il mondo si fuma, non lo si ignora, per quanto ne so, in nessun luogo, dovunque uno possa essere sbalestrato. Persino gli esploratori polari fanno abbondante provvista di tabacco da fumo contro i loro strapazzi, e ciò, nelle mie letture, mi ha sempre ispirato simpatia. Poiché uno può star molto male... poniamo che io fossi in pessime condizioni; fin tanto che ho il mio sigaro, sopporterei, lo so, il sigaro mi aiuterebbe a superare il male. Però è un po' meschino osservò Joachim che tu vi sia cosí attaccato. Ha ragione Behrens: sei un borghese... lui lo disse piú per farti un elogio, ma sei un borghese inguaribile, ecco la verità. Vero è che sei sano e puoi fare come vuoi aggiunse, mentre i suoi occhi apparivano stanchi. Già, sano, salvo l'anemia ribatté Castorp. E per giunta mi ha detto che sono verde. Ma è vero, anch'io mi sono accorto che in confronto con voi quassú sono letteralmente verde, a casa non l'avevo notato. E poi è stato gentile a darmi subito consigli, del tutto sine pecunia, come dice. Volentieri seguirò i suoi suggerimenti e mi regolerò sulle tue consuetudini di vita... Che altro potrei fare d'altronde quassú tra voi? e non sarà certo un male se, come Dio vuole, metterò un po' d'albumina, benché, ammetterai, sia un modo di dire antipatico. Joachim passeggiando tossicchiò un paio di volte... la salita lo doveva affaticare. Alla terza volta si fermò corrugando le sopracciglia. Va pure avanti disse. Castorp si affrettò a procedere senza voltarsi. Poi rallentò il passo e infine quasi si fermò perché gli pareva di avere un notevole vantaggio su Joachim. Ma non si voltò indietro. Un gruppo di ospiti dell'uno e dell'altro sesso gli venne incontro: li aveva visti venire per la strada piana, in alto, a metà del versante, e ora scendevano, puntando i piedi, direttamente verso di lui e si udivano le loro diverse voci. Erano sei o sette persone di varia età, alcuni giovanissimi, un paio già piú avanti negli anni.

Li guardò con la testa reclinata su una spalla e pensò a Joachim. Erano abbronzati, a capo scoperto, le donne in sweater di colore, gli uomini per lo piú senza soprabito e persino senza bastone, come gente che senza cerimonie e con le mani in tasca fa quattro passi davanti a casa. Siccome venivano in discesa - che non richiede una seria fatica, ma soltanto un allegro frenare e puntare le ginocchia, per evitare di correre e inciampare, e in sostanza non è altro che un lasciarsi cadere - la loro andatura aveva un che di alato e leggero che si comunicava al loro volto, a tutto il loro aspetto, e poteva far nascere il desiderio di essere dei loro. Ora erano vicini a Castorp che ne vedeva chiaramente il viso. Non tutti erano abbronzati, due donne davano nell'occhio col loro pallore: l'una sottile come una verga, la pelle color avorio, l'altra piú piccola e grassa, imbruttita dalle lentiggini. Tutti lo guardarono con un sorriso generale e impertinenze. Una giovane alta in sweater verde, coi capelli mal pettinati e gli occhi stupidi, socchiusi, passò rasente a Hans Castorp quasi sfiorandolo col braccio, e fischiando... Roba da matti! Gli fischiò addosso, ma non con le labbra, non le sporse nemmeno, anzi le tenne strette. Da lei veniva un fischio straordinariamente sgradevole, roco, acuto, eppure cavernoso, tenuto e degradante sul finire - da far pensare al fischio di quei porcellini elastici nelle fiere che si afflosciano emettendo come un lamento l'aria con cui vengono gonfiati - il suono uscí non si sa come dal suo petto, e cosí lei passò oltre con tutta la compagnia. Castorp rimase di stucco, con gli occhi fissi in lontananza. Poi si volse di scatto e comprese che almeno quel fischio disgustoso doveva essere uno scherzo, una canzonatura concertata; mentre quelli si allontanavano, capí dalle loro spalle che ridevano, e un giovanotto tarchiato con le labbra gonfie che, le mani nelle tasche dei calzoni, teneva la giacca sollevata in modo piuttosto indecoroso, si voltò francamente a guardarlo ridendo... Joachim si era appressato e salutò il gruppo mettendosi quasi sull'attenti secondo la sua cavalleresca usanza e inchinandosi, i tacchi uniti, e con uno sguardo dolce si rivolse poi al cugino. Perché fai codesta faccia? domandò. Quella ha fischiato! rispose Castorp. Passandomi davanti ha fischiato dal ventre; me lo vuoi Spiegare? Via esclamò Joachim con una risata sprezzante. Non dal ventre, è assurdo. Era la Kleefeld, Hermine Kleefeld, che fischia col pneumototace. Con che cosa? Era molto agitato e non capiva ancora perché. Pencolava fra il riso e il pianto, e soggiunse: Non puoi pretendere che io sappia il vostro gergo . Andiamo ! cammina! lo invitò Joachim. Te lo posso spiegare anche camminando. Stai lí come se avessi messo le radici! Riguarda la chirurgia, come puoi immaginare, è un'operazione che quassú si eseguisce di frequente. Behrens ne ha una gran pratica... Quando un polmone è molto compromesso, capisci, l'altro invece sano o relativamente sano, quello malato viene dispensato per qualche tempo dalla sua attività, affinché stia a riposo...

Vale a dire: ti fanno un taglio qui nel fianco, non so con precisione in qual punto, ma Behrens se ne intende magnificamente. E allora vi si immette un gas, azoto, capisci, e il lobo polmonare intaccato è messo fuori servizio. Beninteso il gas non si mantiene a lungo, anzi ogni quindici giorni circa bisogna rinnovarlo... ti gonfiano come una pompa, cosí te lo devi figurare. E se si continua per un anno e piú, il polmone in virtú del riposo può anche guarire. Non sempre, s'intende, è anzi una faccenda arrischiata. Ma pare che col pneumotorace si siano già ottenuti buoni risultati. Tutti ce l'hanno, quelli che hai visto un momento fa. C'era anche la signora Iltis - quella con le lentiggini - e la signorina Levi, la magra, ricordi? è stata a letto tanto tempo. Si sono raccolti in gruppo, perché un'istituzione come il pneumotorace unisce naturalmente le persone, e si dicono Associazione Polmone Unico, sotto questa insegna sono conosciuti. Ma l'orgoglio dell'Associazione è Hermine Kleefeld, perché col pneumotorace riesce a fischiare... è una sua capacità, non tutti lo sanno fare. Come ci riesca non saprei dire, nemmeno lei lo sa descrivere chiaramente. Ma quando cammina in fretta, fischia dall'interno, e ne approfitta per spaventare la gente, specie i malati venuti da poco. Credo però che in questo modo faccia spreco di azoto, perché la devono gonfiare ogni settimana. Ora Castorp si era messo a ridere: alle parole di Joachim la sua eccitazione si era volta in allegria, e mentre egli proseguiva un po' curvo coprendosi gli occhi, le sue spalle erano scosse da un riso veloce e sommesso. Sono proprio iscritti? domandò, e non gli riusciva facile parlare per lo sforzo di trattenere il riso, la sua voce era piagnucolosa e leggermente afflitta. Hanno il loro Statuto? Peccato che tu non sia socio, perché mi potrebbero accettare come socio onorario... o compagno di baldoria... dovresti pregare Behrens che ti ponga parzialmente fuori servizio. Forse sapresti fischiare anche tu, se ti ci mettessi d'impegno, in fin dei conti lo si potrebbe imparare... E' la cosa piú buffa che abbia sentito in vita mia! soggiunse con un profondo sospiro. Via, perdona se ne parlo in questo tono, ma loro stessi sono di ottimo umore, i tuoi pneumatici amici. E come venivano avanti!... Pensare che si trattava dell Associazione Pol mone Unico! - Fii - la sento fischiare... quella matta! E' una spavalderia bell'e buona! Perché sono cosí spavaldi, me lo sai dire? Joachim cercò una risposta. Dio mio disse sono tanto liberi... Voglio dire, sono tutti giovani, il tempo non conta per loro, e poi può darsi che siano prossimi a morire. Perché dovrebbero star seri? Certe volte penso: morte e malattia, a rigore, non sono cose serie, sono piuttosto come un bighellonare ozioso; serietà, se vogliamo essere precisi, c'è soltanto nella vita laggiú. Credo che col tempo lo capirai anche tu, se rimani un po' qui. Certo confessò Castorp. Lo credo persino con certezza. Ho già preso vivo interessamento a voi altri quassú, e quando ci si interessa, la comprensione, vero? viene da sé...

Ma che cosa ho? Questo sigaro non mi piace. Ah, ti garantisco, un sapore di cartapesta, proprio come quando si ha lo stomaco in disordine. Non riesco a capire. Vero che a colazione ho mangiato molto piú del solito, ma questa non può essere la ragione, perché quando si è mangiato troppo ha anzi, da principio, un sapore particolarmente gustoso. Credi che dipenda dal fatto che ho dormito cosí irrequieto? Sarà stato questo a indispormi. Ah, devo proprio buttarlo via! disse dopo un nuovo tentativo. Ogni boccata è una delusione; inutile forzare. E dopo un attimo di esitazione buttò il sigaro giù per la china fra le conifere bagnate. Sai da che cosa dipende, secondo la mia convinzione? riprese a dire. Secondo la mia convinzione dipende da questa dannata infiammazione del viso, che di nuovo mi dà fastidio da quando mi sono alzato. Corpo del diavolo, ho sempre l'impressione di essere rosso di vergogna... E' capitato anche a te quando sei venuto? Sí risposeJoachim. Anch'io ebbi da principio un'impressione curiosa. Non fartene un cruccio! Ti ho detto che non è facile assuefarsi qui. Ora ti stai già rimettendo. Guarda, questa panca viene a proposito. Sediamoci un poco, poi andremo a casa, io devo mettermi sulla sedia a sdraio. Ora la strada proseguiva in piano, in direzione di Davos Platz, a circa un terzo dell'altezza, e fra pini selvatici alti, sottili, inclinati dal vento, lasciava intravedere il paese in una luce piú chiara. La panca rustica, sulla quale si sedettero, era appoggiata al ripido pendio del monte. Accanto a loro un'acqua corrente entro un canaletto aperto, di legno, scendeva a valle gorgogliando e scrosciando. Joachim cominciò a indicare a suo cugino i nomi dei rannuvolati giganti alpini che chiudevano la valle a mezzogiorno, e puntava verso di essi il suo bastone alpino; ma Hans vi gettava soltanto occhiate distratte, stava seduto col busto curvo, disegnava figure nella sabbia col puntale del bastone cittadino, guarnito d'argento, e desiderava altre informazioni. Ti volevo chiedere... cominciò. Al mio arrivo il caso nella mia camera era dunque liquidato. Ci sono stati molti morti dacché sei qui? Parecchi, certo rispose Joachim. Ma sono tenuti riservati, capirai, non se ne sa nulla o, se mai, piú tardi, occasionalmente. Quando uno muore, tutto si svolge in gran segreto, per riguardo ai pazienti, specie alle donne facilmente soggette ad accessi. Se uno muore nella camera vicina, non te n'accorgi nemmeno. Portano la cassa di buon mattino, quando stai ancora dormendo, e la vengono a prendere in momenti analoghi, per esempio quando tutti sono a tavola. Già fece Castorp continuando a disegnare. Questo avviene dunque dietro le quinte. Sí, possiamo dire cosí. Ma recentemente, saranno, aspetta, forse otto settimane... Allora non puoi dire recentemente osservò Hans secco e vigile. Come dici? Be', non recentementeO Come sei meticoloso! Ho detto cosí, senza pensare. Dunque, poco tempo fa, per puro caso ho visto una volta dietro le quinte, mi par ieri.

Fu quando alla piccola Hujus, una cattolica, Barbara Hujus, portarono il viatico, il sacramento dei moribondi, sai, l'estrema unzione. Quando arrivai qui era ancora in piedi, e sapeva essere sfrenatamente allegra, una mattacchiona, una vera bambina. Ma poi declinò rapidamente, non si alzò piú, stava tre camere piú in là della mia, vennero i genitori, e un giorno arrivò il prete. Venne all'ora del tè, nel pomeriggio, nei corridoi non c'era nessuno. Ma figurati, io m'ero addormentato, facevo la cura sulla sedia a sdraio, non avevo udito il gong ed ero in ritardo di un quarto d'ora. Nel momento critico non ero perciò dove erano tutti gli altri, ma mi trovai dietro le quinte, come dici tu, e mentre passo per il corridoio mi vengono incontro, in camice merlettato, preceduti da una croce, una croce dorata con fanaletti che uno reggeva come il bastone a sonagliera davanti alla banda. Non sono paragoni da fare protestò Castorp non senza severità. A me parve cosí. Fu un richiamo involontario. Ma ascolta il seguito. Vengono dunque verso di me, uno due, uno due, a passo veloce, in tre, se non erro, prima l'uomo con la croce, poi il sacerdote, gli occhiali sul naso, e infine un ragazzo con un piccolo turibolo. Il prete teneva il viatico coperto, e la testa china molto umilmente, è infatti il loro Santissimo. Appunto confermò Castorp. E appunto per questa ragione mi meraviglio che tu possa parlare di bastone a sonagliera. Bene, bene, ma aspetta, se fossi stato là, nemmeno tu sapresti che faccia fare a questo ricordo. Era da sognarlo di notte... In che senso? Nel senso seguente. Mi sto dunque domandando come comportarmi in questa circostanza. Il cappello da potermi levare non l'avevo... Vedi dunque! lo interruppe Castorp un'altra volta. Vedi che è necessario avere il cappello in testa. Ho notato naturalmente che quassú non lo portate. Bisogna invece averlo in testa per poterselo levare nei momenti opportuni. Ma, sentiamo, continua! Mi addossai alla parete spiegò Joachim in posizione conveniente, e accennai un inchino quando mi raggiunsero... era proprio davanti alla camera della piccola Hujus, numero ventotto. Il prete fu contento, credo, che salutassi; salutò a sua volta molto gentilmente togliendosi lo zucchetto. Ma in quel punto si fermarono, il chierichetto col turibolo bussa, poi preme la maniglia e si scosta lasciando la precedenza al suo superiore. E ora figurati e cerca di capire il mio spavento e i miei sentimenti! Nel momento in cui il prete mette il piede oltre la soglia, scoppiano nella camera strilli e invocazioni di aiuto, come non ne hai mai uditi. Tre, quattro volte di seguito, poi un gridare continuato, senza pause, evidentemente a bocca spalancata, con un misto di lamento e orrore e protesta che non si può descrivere, e ogni tanto un'implorazione raccapricciante, finché di colpo il grido si fa cupo e cavernoso come fosse sprofondato sotto terra e salisse dalla cantina. Castorp si era volto di scatto verso suo cugino. Era la Hujus? domandò indignato.

E perché: come dalla Cantina? Si era cacciata sotto la coperta ! spiegò Joachim. Immagina i miei sentimenti! Il prete era sulla soglia e invitava alla calma, mi par di vederlo, e spingeva avanti la testa continuamente e poi la ritirava. Il crocifero e il chierico stavano lí perplessi e non potevano entrare. E fra l'uno e l'altro io vedevo nella camera. E' una camera come la tua e la mia, il letto è a sinistra dell'uscio, alla parete laterale, e presso il capezzale c'erano persone, i parenti naturalmente, i genitori, e anch'essi cercavano di calmare parlando verso il letto, dove non si vedeva altro che un rigonfio informe che implorava e protestava sel vaggiamente e dimenava le gambe! Dimenava le gambe, dici? Con tutte le sue forze! Ma fu inutile, lei dovette ricevere il Sacramento. Il sacerdote le si avvicinò, gli altri due entrarono anche loro, e la porta fu chiusa. Ma prima vidi ancora: la testa della Hujus comparve un attimo, i biondi capelli scomposti, e fissò il prete con gli occhi sbarrati, scialbi, senza colore, e con un urlo si ricacciò sotto il lenzuolo. E questa me la racconti soltanto ora? disse Castorp dopo una pausa. Non capisco perché tu non me ne abbia parlato già ieri sera. Però, Dio mio, deve aver avuto ancora molte energie per reagire cosí. Ci vuol forza a farlo. Non si dovrebbe far venire il prete prima che il malato non sia debolissimo. Era debole infatti ribatté Joachim. Oh, ce ne sarebbe da raccontare... E' difficile fare la prima scelta... Debole era, ma tanta forza le veniva dallo spavento. Era una fanciulla, la si può anche scusare. Ma anche uomini adulti si comportano talvolta cosí, ed è una viltà imperdonabile. Behrens tuttavia sa come trattarli, in questi casi trova il tono giusto. Quale tono? domandò Castorp aggrottando la fronte. "Non faccia lo stupido", dice rispose Joachim. Per lo meno cosí ha detto a uno recentemente... lo abbiamo saputo dalla direttrice che era presente e dava una mano a tener fermo il moribondo. Era uno che sulla fine fece una scena orrenda e assolutamente non voleva morire. Behrens allora lo invèstí: "Per favore, non faccia lo stupido!" gli gridò, e il paziente tacque immediatamente e morí tranquillo. Hans Castorp si batté una coscia e si lasciò andare contro la spalliera della panca alzando gli occhi al cielo. Ma, senti, questa è grossa! esclamò. Lo investe e gli grida: "Non faccia lo stupido!". A un moribondo! E' grossa davvero. Uno che muore è, dirò cosí, degno di rispetto. Non si può, cosí, senz altro... Il moribondo è, in certo qual modo, sacro, direi. Non lo nego disse Joachim. Ma se si comporta cosí da codardo... No! insistette Castorp con una violenza del tutto sproporzionata all'opposizione che incontrava. Nessuno mi convincerà che il morente non sia qualcosa di piú nobile d'un tanghero qualunque che va in giro e ride e fa quattrini e si empie la pancia! Non è ammissibile... e la sua voce

tentennò stranamente. Non è ammissibile che cosí, senz'altro... e le parole furono strozzate dalla risata che lo travolse, la risata del giorno precedente, un riso senza limiti che pullulava dal profondo, gli scoteva i precordi, gli faceva chiudere gli occhi e spremere le lacrime fra le palpebre. St! fece a un trattoJoachim. Zitto! mormorò dando di nascosto una gomitata al cugino che rideva senza freno. Castorp alzò lo sguardo fra le lacrime. Per la strada a sinistra veniva uno sconosciuto, un uomo grazioso, bruno, coi baffi neri arricciati, in calzoni a quadri chiari, il quale arrivando scambiò il buon giorno con Joachim il suo saluto era preciso e armonioso e, appoggiandosi al bastone, incrociò le gambe e si fermò davanti a lui in atteggiamento garbato.

Satana. Era difficile stimarne l'età, doveva essere fra i trenta e i quaranta, ché se anche l'aspetto generale era giovanile, i suoi capelli avevano già sulle tempie qualche filo d'argento e piú su erano visibilmente diradati: due insenature calve si stagliavano sul cranio ai due lati del vertice stretto e rado e facevano piú lata la fronte. L'abito con quei calzoni larghi, a quadretti d'un giallo chiaro, e una giacca troppo lunga di lana grossa, con due file di bottoni e grandissimi risvolti era ben lontano da pretese d'eleganza; anche il colletto doppio appariva un po' scabro lungo gli spigoli in seguito alle frequenti lavature, la cravatta nera era logora, e i polsini non li aveva affatto... Castorp lo notò perché le maniche gli cascavano flosce sui polsi. Ciò nonostante intuí che si trovava di fronte a un signore; l'espressione colta dello sconosciuto, il suo atteggiamento libero e persino bello non consentivano di dubitarne. Quel misto di miseria e di grazia, gli occhi neri, e poi i baffi morbidi e arricciati ricordarono subito a Castorp certi musicanti forestieri che intorno a Natale venivano a sonare nei cortili del suo paese e guardando in alto con gli occhi vellutati tendevano il cappello a cencio, affinché dalle finestre vi si gettassero le monetine da dieci pfènnig. "Un sonatore d'organetto" pensò. Perciò non si stupí del nome che udí quando Joachim si alzò dalla panca e con un po' d'imbarazzo presentò: Mio cugino Castorp - il signor Settembrini. Hans Castorp, con in viso ancora le tracce della sua eccessiva allegria, si era pure alzato per salutare, ma l'italiano pregò entrambi gentilmente di non incomodarsi e li forzò a riprendere il loro posto, mentre lui in quella posa simpatica rimaneva in piedi davanti a loro. Sorrise guardando i due cugini, ma soprattutto Castorp, e quel suo modo un po' ironico di abbassare e increspare un angolo della bocca sotto i folti baffi, dove con graziosa curva erano piegati all'insú, faceva un curioso effetto, invitava, per cosí dire, alla vigilanza e alla chiarità di pensiero e fece dileguare sull'istante l'ebbrezza di Castorp che finí col vergognarsi.

Settembrini cominciò: I signori sono di buon umore... giustamente, giustamente. Una mattinata splendida ! Il cielo è azzurro, il sole ridente... e con un gesto leggero e indovinato del braccio alzò al cielo la piccola mano giallognola, dirigendo lassú anche un'occhiata obliqua e serena. Verrebbe fatto di dimenticare dove siamo. Parlava senza inflessioni straniere, soltanto dalla precisione della pronuncia si sarebbe potuto, se mai, riconoscere il forestiero. Le sue labbra formavano le parole con una certa voluttà. Lo si ascoltava con piacere. E il signore ha fatto buon viaggio per venire da noi? domandò rivolgendosi a Castorp... E' già in possesso del verdetto? Voglio dire: c'è già stata la lugubre cerimonia della prima visita? A questo punto avrebbe dovuto tacere e aspettare, se teneva alla risposta; aveva fatto una domanda e Castorp si accingeva a rispondere. Continuò invece a chiedere: E' andata abbastanza bene? Dal le sue risate di gusto e qui tacque un istante, mentre l'increspatura dell'angolo della bocca si faceva piú profonda si possono trarre deduzioni diverse. Quanti mesi le hanno appioppato i nostri Minosse e Radamanto? Mi lasci indovinare! Sei? O addirittura nove? Qui non sono spilorci... . Castorp rise stupefatto cercando in fretta di ricordare chi diamine fossero Minosse e Radamanto. E rispose: Ma come dice? No. Lei sbaglia, signor Septem... Settembrini corresse l'italiano con chiarezza e slancio facendo un comico inchino. Signor Settembrini... Scusi. Dunque lei è in errore. Io non sono affatto malato. Sono soltanto venuto a trovare mio cugino Ziemssen per qualche settimana e approfitto dell'occasione per concedermi un po' di riposo... Caspita, lei non è dei nostri? E' sano, ed è qui sol tanto ospite, come Ulisse nel regno delle ombre? Quale ardimento scendere nell'abisso dove i morti abitano nulli e privi dei sensi... Abisso, signor Settembrini? Oh via, mi faccia il piacere! Mi sono arrampicato cinquemila piedi in cifra tonda fino quassú da voi... Le è sembrato che fosse cosí. Parola, è stato un abbaglio affermò l'italiano con un gesto risoluto. Noi siamo esseri inabissati, vero, tenente? disse rivolto a Joachim, che sentendosi chiamare cosí, ne fu non poco lieto, ma cercò di nasconderlo e rispose assennato: Siamo davvero un po' incitrulliti. Ma infine possiamo mettere giudizio un'altra volta. Sí, lei credo che ne sia capace, lei è una persona ammodo disse Settembrini. Eh già, già, già ripeté tre volte rivolgendosi di nuovo a Castorp e facendo schioccare altrettante volte la lingua contro il palato. Guarda, guarda, guarda aggiunse, pure tre volte, fissando il nuovo arrivato cosí intensamente che i suoi occhi assunsero una cieca fissità, finché rianimando lo sguardo, egli riprese a dire: Volontario dunque è salito da noi che siamo caduti in basso e vuol concederci per qualche tempo il piacere della sua compagnia. Bella cosa, questa. E quale è il termine che prevede? No, la mia domanda non è gentile.

Ma ho un grande desiderio di sentire quanto ci si assegna qualora si possa stabilire, da sé, senza Radamanto. Tre settimane rispose Castorp con leggerezza un po' boriosa, poiché notò che era invidiato. Dio mio, tre settimane! Ha sentito, tenente? Non è quasi un'impertinenza dire: vengo qua per tre settimane e poi riparto? Noi, signor mio, se permette che glielo insegni, non sappiamo calcolare a settimane. La nostra piú breve unità di tempo è il mese. Noi si calcola in grande stile... è un privilegio delle ombre. Ne possediamo anche altri, e tutti press'a poco dello stesso tipo. Posso chiedere quale professione esercita nella vita... o forse meglio: a quale si sta preparando? Come vede, non mettiamo briglie alla nostra curiosità. Anche la curiosità la consideriamo uno dei nostri privilegi. Prego, le pare? disse Castorp. E diede le informazioni richieste. Costruttore navale! Meraviglioso! esclamò Settembrini. Mi creda, io la considero una professione meravigliosa, anche se le mie capacità sono in un altro campo. Il signor Settembrini è letterato commentò Joachim, un po impacciato. Ha scritto per giornali tedeschi il necrologio di Carducci... Carducci, sai? E rimase ancora piú impacciato, poiché suo cugino lo guardò stupito come per dire: che ne sai tu di Carducci? Tanto poco quanto me, suppongo. Esatto disse l'italiano annuendo. Ebbi l'onore di parlare ai suoi connazionali della vita di questo grande poeta e libero pensatore, dopo il trapasso. Io lo conoscevo, posso dirmi suo allievo. A Bologna stavo seduto ai suoi piedi. A lui devo quel tanto di cultura e di serenità che possiedo. Ma parlavamo di lei. Un costruttore navale! Lo sa che per me lei ingrandisce a vista d'occhio? Ecco, lei è lí seduto e rappresenta tutto un mondo di lavoro e di genio pratico! Oh, via, signor Settembrini... in verità sono ancora studente e sto facendo i primi passi. Certo, i primi passi sono sempre difficili. Anzi, difficile è ogni lavoro che sia degno di questo nome, non è vero? Eh, sí, corpo del diavolo! esclamò Castorp, e gli veniva dal cuore. Settembrini alzò subito le sopracciglia. Lei invoca persino il diavolo disse per convalidare questo concetto! Satana in carne e ossa? Ma lo sa che il mio grande Maestro gli ha scritto un inno? Come? Scusi domandò Castorp. Al diavolo? Proprio a lui. Al mio paese lo si recita talvolta, in occasione di qualche festa. Salute, o Satana, o ribellione, o forza vindice della ragione... Un inno stupendo! Ma non credo che lei abbia avuto in mente qùesto diavolo, perché col lavoro questo è in ottimi rapporti. Quello che intendeva lei, che ha orrore del lavoro perché lo teme, è probabilmente l'altro, quello di cui si dice che non si deve porgergli un dito... Tutto ciò faceva uno strano effetto al buon Castorp. Non capí l'italiano, e nemmeno il resto gli riuscí gradevole. Aveva un sapore di predicozzo, benché fosse espoStO in tono di conversazione leggera e scherzosa.

Guardò suo cugino che teneva gli occhi bassi e disse: Oh, signor Settembrini, lei prende le mie parole troppo alla lettera Quel diavolo era soltanto un mio modo di dire, glielo assicuro. Qualcuno deve pur avere spirito disse Settembrini guardando in aria con malinconia. Ma rianimandosi e rasserenandosi riprese il filo: In ogni caso credo di dedurre giustamente dalle sue parole che ha scelto una professione altrettanto faticosa quanto onorevole. Che vuole? io sono un umanista, un homo humanus, non capisco niente di ingegneria, per quanto sia sincero il rispetto che m'ispira. Ma posso ben figurarmi che la teoria del suo ramo richiede una mente chiara e acuta e la pratica un uomo vero... non è cosí? . Certo che è cosí, sono pienamente d'accordo con lei rispose Castorp facendo uno sforzo istintivo per parlare con una certa eloquenza. Oggi le esigenze sono enormi, non bisogna neanche rendersi veramente conto di quanto siano rigide, altrimenti c'è da sentirsi mancare il coraggio. Davvero, non è uno scherzo. E se poi uno non è robustissimo... Io qui sono ospite soltanto, ma non sono proprio robustissimo, e mentirei se volessi sostenere che il lavoro mi fa molto bene. Anzi mi affatica parecchio, devo dire. Ecco, proprio sano mi sento solo quando non faccio niente... Adesso per esempio? Adesso? Vede, adesso sono ancora nuovo quassú... un po' confuso, come può immaginare. Ah... confuso. Sí, e poi non ho dormito molto bene, e la prima colazione è stata davvero troppo abbondante... Sono abituato, è vero, a una colazione regolare, ma quella di stamane è stata, sembra, un po' troppo copiosa per me, too rich, come dicono gli inglesi. Insomma, mi sento un po' oppresso, e in particolare il sigaro questa mattina non aveva il solito gusto... si figuri! Non mi capita, si può dire, mai, soltanto quando mi ammalo sul serio... e oggi aveva un sapore come di cuoio. Ho dovuto buttarlo via, era inutile forzare. Lei fuma, se è lecito? No? Allora non può immaginare quale stizza, quale delusione sia per uno che, come me, fuma con piacere fin da ragazzo... Non ho fatto esperienze in questo campo disse Settembrini con questa ignoranza però non sono in cattiva compagnia. Un buon numero di spiriti nobili e sobri disdegnava il tabacco. Lo stesso Carducci non lo amava. Lei però avrà tutta la comprensione del nostro Radamanto. E' un adepto del suo vizio. Be'... vizio, signor Settembrini... Perché no? Le cose vanno definite con sincerità ed energia. Ciò rinforza e inalza la vita. Vizi ne ho anch'io. E il consigliere Behrens è dunque un intenditore di sigari? Un uomo delizioso. Dice? Dunque ha già fatto la sua conoscenza? Sí, dianzi, mentre uscivamo. E' stato quasi un consulto, ma sa, sine pecunia.

Ha visto subito che sono piuttosto anemico. E poi mi ha consigliato di vivere qui esattamente come mio cugino, di stare molto coricato sul balcone, e di misurarmi, ha detto, anch'io la temperatura. Davvero? esclamò Settembrini... Benissimo! e lanciò la parola su nell'aria, reclinando la testa e ridendo. Come dice l'uccellatore nell'opera del vostro maestro? Der VogelSanger bin ich ja, stets lustig, heisa hopsassa! Insomma, molto divertente. E lei seguirà il consiglio? Senza dubbio. Come potrebbe fare diversamente? Che satanasso, quel Radamanto! In verità, stets lustig, sempre allegro, anche se talvolta un po' per forza. Tende alla malinconia. Il suo vizio non gli conferisce (altrimenti non sarebbe un vizio), il tabacco lo rende melanconico... e perciò la nostra venerabile direttrice ha in custodia le provviste e gli assegna soltanto esigue razioni quotidiane. Avviene, dicono, che talvolta soccomba alla tentazione di derubarla, e allora lo prende la malinconia. Inbreve: un'anima tormentata. Conosce anche la nostra direttrice? No? E' una lacuna. Lei farebbe male a non cercare di farsi presentare. Della stirpe dei Mylendonk, caro signore ! Dalla Venere dei Medici si distingue perché dove la dea ha il seno, lei porta di solito una croce... Magnifica, questa! rise Castorp. E di nome si chiama Adriatica. Ci mancava anche questo! esclamò Castorp. Senta, è curioso. Von Mylendonk e Adriatica. Come se fosse morta da un pezzo. Ha addirittura un'aria medievale. Signor mio replicò Settembrini qui ci sono tante cose che hanno l'aria medievale, come a lei piace di esprimersi. Per conto mio sono persuaso che soltanto e unicamente per sensibilità artistica il nostro Radamanto ha fatto di quel fossile la soprintendente del suo pauroso palazzo. Lui è un artista... come? non lo sa? Fa dipinti a olio. Che vuole? Non è vietato, vero? è lecito a tutti... La signora Adriatica lo dice a chi lo vuol sentire, e anche agli altri, che nella metà del secolo XIII una Mylendonk fu badessa di un monastero a Bonn sul Reno. Lei stessa non dev'essere nata molto dopo quell'epoca... Ah ah ah! Ma lei è ironico, signor Settembrini. Ironico? Maligno vuol dire. Sí, sono un po' maligno... Mi rammarico soltanto di essere condannato a sprecare la mia malignità su cosí miseri soggetti. Lei, ingegnere, non ha nulla contro la malignità, spero. Secondo me è la piú tersa arma della ragione contro le potenze delle tenebre e della bruttezza. La malignità, caro signore, è lo spirito della critica, e la critica è l'origine del progresso e della civiltà. E subito si mise a parlare del Petrarca che chiamò "il padre dell'evo moderno". Ora però dobbiamo andare a coricarci per la cura suggerí Joachim accorto.

Il letterato aveva accompagnato le sue parole con gesti graziosi. Ora arrotondò quel giuoco delle mani puntando un dito verso Joachim: Il nostro tenente ci ricorda gli obblighi del servizio: andiamo dunque. Facciamo la stessa strada... Dextera quae Ditis magni sub moenia tendit. Oh Virgilio, Virgilio! E' insuperato, signori miei. Io credo nel progresso, certamente. Ma Virgilio dispone di aggettivi come nessun moderno... E mentre prendevano la via del ritorno, si mise a recitare versi latini con la pronuncia italiana, ma s'interruppe quando una ragazzetta, figlia del borgo probabilmente, e niente affatto bellina, venne loro incontro: allora atteggiò le labbra a un sorriso di donnaiolo e si diede a canterellare. T, t, t schioccò. Ahi, ahi, ahi! Trallalà! Piccola donzella, vuoi esser la mia bella? Guardate: lo sguardo le scintilla di lubrica favilla citò - Dio sa che cos'era - e mandò un bacio alle spalle impacciate della ragazzina. "Un vero fanfarone" pensò Castorp, e tale lo considerò anche quando Settembrini, dopo il suo accesso di galanteria, ricominciò a sparlare. Soprattutto ce l'aveva col consigliere aulico Behrens, criticò la mole dei suoi piedi e indugiò sul titolo che, disse, gli era stato conferito da un sovrano malato di tubercolosi cerebrale. Tutta la regione parlava ancora della vita scandalosa di quel sovrano, ma Radamanto chiudeva un occhio, due occhi, consigliere aulico da capo a piedi. E sapevano i signori che era l'inventore della stagione estiva? Lui, sí, e nessun altro. Onore al merito. Prima in quella valle avevano resistito d'estate soltanto i fedelissimi. Allora "il nostro mattacchione" aveva intuito con inesorabile perspicacia che quell'inconveniente era soltanto frutto di un pregiudizio. E aveva formulato la dottrina che, almeno per quanto riguardava il suo istituto, la cura estiva era non solo altrettanto raccomandabile, ma persino particolarmente efficace e addirittura indispensabile. Ed era riuscito, disse, a diffondere questo teorema fra la gente, scrivendo articoli popolari sull'argomento e lanciandoli mediante la stampa. Da allora gli affari erano prosperi d'estate come d'inverno. Genio! esclamò Settembrini. Intui-zio-ne! Poi tartassò le altre case di cura locali e diresse mordaci elogi alla sensibilità commerciale dei proprietari. C'era, disse, un professor Kafka... Tutti gli anni al critico sciogliersi delle nevi, quando numerosi pazienti chiedevano di partire, il professor Kafka si vedeva costretto a fare in tutta fretta ancora un viaggio di otto giorni, e prometteva che al suo ritorno avrebbe provveduto a dimettere i richiedenti. Invece rimaneva assente sei settimane e quei poveracci aspettavano, mentre, fra parentesi, il loro conto saliva. Fino a Fiume lo si faceva andare, finché fossero assicurati cinquemila buoni franchi svizzeri, e intanto passavano quindici giorni.

Il giorno dopo l'arrivo del "celebrissimo",- eccoti che il degente moriva. Il dottor Salzmann, poi, parlava del professor Kafka dicendo che non teneva abbastanza pulite le siringhe e procurava infezioni ai malati. Viaggiava con cerchioni di gomma, diceva Salzmann, affinché i suoi morti non lo sentissero... E Kafka per contro asseriva che da Salzmann i pazienti erano costretti a libare il dono allegrante della vite in tali quantità (sempre per arrotondare il conto) che poi morivano come le mosche, non già di tisi, ma di cirrosi dei bevitori... E cosí continuò, mentre Castorp rideva di gusto, bonariamente, a quel diluvio di eloquenti calunnie. La facondia dell'italiano era singolare e piacevole nella sua assoluta purezza e precisione, priva di termini dialettali. Le parole uscivano tonde, chiare e come nuove dalle sue mobili labbra, egli gustava le forme e locuzioni colte, pungenti e svelte, delle quali si serviva, persino la flessione grammaticale e la declinazione dei vocaboli, per un compiacimento evidente, comunicativo ed esilarante, e appariva di mente troppo limpida e presente per lasciarsi sfuggire qualche lapsus, sia pure una sola volta. Lei parla un linguaggio cosí faceto, signor Settembrini osservò Castorp cosí vivace... non so come dire. Plastico, vero? suggerí l'italiano sventolandosi col fazzoletto, benché facesse piuttosto fresco. Questa deve essere la parola che lei cercava. Ho una maniera plastica di esprimermi, cosí voleva dire. Ma fermi! esclamò Che vedo? Laggiú passeggiano i nostri giudici infernali. Che scena ! Erano già ripassati dal punto dove la strada faceva gomito. Fossero i discorsi di Settembrini, la pendenza della strada, o si fossero realmente allontanati dal sanatorio meno di quanto Castorp avesse creduto - la via infatti che percorriamo la prima volta è notevolmente piú lunga della stessa quando già la conosciamo - fatto è che il ritorno era stato piú veloce del previsto. Settembrini aveva ragione, laggiú c'erano i due medici che camminavano sullo spiazzo libero dietro al sanatorio, il consigliere aulico davanti, in camice bianco, la nuca sporgente, le mani in moto come remi, e sulle sue orme il dottor Krokowski in camiciotto nero, che si guardava intorno con tanta maggior presunzione in quanto l'usanza clinica lo costringeva, quando era in servizio, a stare dietro al principale. oh, Krokowski! esclamò Settembrini. Eccolo là, quello che sa tutti i segreti delle nostre signore. Si prega di osservare il sottile simbolismo del suo vestire. Va in nero per indicare che il suo campo di studi è la notte. In testa costui ha un unico pensiero, ed è un pensiero sudicio. Come si spiega, ingegnere, che di lui non abbiamo ancora parlato? Ha avuto occasione di conoscerlO? Castorp rispose di sí. Embè? Comincio à sospettare che anche lui le sia piaciuto. Non so proprio, signor Settembrini. L'ho incontrato soltanto di sfuggita. E poi non sono molto veloce nei giudizi. Guardo le persone e dico fra me: cosí dunque sei fatto? e sia ! Questo si chiama essere ottusi! ribatté l'italiano. Giudichi lei! La natura le ha dato apposta gli occhi, e l'intelligenza.

Lei ha detto che parlo con malignità; forse non l'ho fatto senza mire pedagogiche. Noi umanisti abbiamo tutti una vena pedagogica... Il legame storico, signori, fra umanesimo e pedagogia dimostra il loro nesso psicologico. Non si deve sottrarre all'umanista il compito dell'educazione... non si può sottrarglielo, perché soltanto lui possiede la tradizione della dignità e bellezza dell'uomo. A suo tempo egli sostituí il prete che in epoche fosche e misantropiche poté arrogarsi di guidare la gioventú. Da allora, signori, non è piú sorto alcun nuovo tipo di educatore. Il ginnasio umanistico... Lei mi dirà reazionario, ingegnere, ma in fondo, in astratto, cerchi di capirmi, io rimango un suo fautore... Fin nell'ascensore svolse ancora questo tema e tacque solo quando i due cugini si fermarono al secondo piano. Lui proseguí fino al terzo dove, come spiegò Joachim, abitava una cameretta sul lato posteriore. Non ha quattrini, immagino osservò Castorp, accompagnando Joachim. La camera di quest'ultimo era identica alla sua. Infatti non ne ha confermò Joachim. O solo quanto basta per pagare il soggiorno quassú. Già suo padre, sai, era un letterato, e credo anche suo nonno. Eh, allora Sospirò Castorp. Ma è malato seriamente? Non è in pericolo, per quanto mi consta, ma è un male ostinato che si ripete. Ce l'ha da anni e a intervalli è anche partito di qui, ma dopo un poco ha dovuto ritornare. Povero diavolo! E pare cosí entusiasta del lavoro. E' poi di una loquacità straordinaria, e va continuamente di palo in frasca. Con quella fanciulla è stato un po insolente, sul momento mi sono sentito a disagio. Ma il discorso che ha fatto dopo intorno alla dignità umana era eccellente, come a una cerimonia solenne. Ti trovi spesso con lui? Pensiero acuto Ma Joachim gli poté rispondere soltanto impacciato e vago. Da un astuccio di marrocchino rosso, foderato di velluto, che era sulla tavola, aveva estratto un piccolo termometro e si era messo in bocca la parte inferiore, riempita di mercurio. Lo teneva sotto la lingua a sinistra, dimodoché il tubo di vetro sporgeva obliquo, su dalle labbra. Poi si mise in libertà, s'infilò scarpe da casa, una specie di giubba militare, prese un modulo a stampa e una matita, anche un libro, una grammatica russa (infatti studiava il russo, perché, diceva, contava di cavarne un vantaggio per il`servizio) e cosí equipaggiato uscí sul balcone e si coricò sulla sedia a sdraio buttandosi leggermente sui piedi una coperta di cammello. Non era proprio necessaria: nell'ultimo quarto d'ora lo strato di nubi si era andato assottigliando, il sole lo squarciò cosí estivo, caldo, abbagliánte che Joachim si protesse la testa con un ombrellino di tela candida, fissato al bracciolo con un piccolo dispositivo ingegnoso, spostabile secondo la posizione del sole. Castorp ne lodò l'invenzione. Voleva aspettare il responso della misurazione e intanto osservava le varie mosse, osservò anche il sacco a pelo che stava in un angolo della loggia (Joachim se ne serviva nelle giornate fredde) e, coi gomiti sulla ringhiera, guardò giú nel giardino e vide la veranda comune popolata di pazienti coricati e intenti a leggere, a scrivere, a conversare.

Ma soltanto una parte dell'interno era visibile, circa cinque sedie. Ma quanto dura codesta faccenda? domandò Castorp voltandosi. Joachim sollevò sette dita. Oramai devono essere passati, i sette minuti ! Joachim scosse il capo. Dopo un po' si tolse il termometro dalla bocca e lo esaminò dicendo: Eh, quando vi si presta attenzione, il tempo passa molto adagio. Questa prova, quattro volte al giorno, mi piace assai, poiché ci si accorge che cosa sia realmente un minuto o magari sette,... mentre non si sa come ammazzare i giorni della settimana. Tu dici realmente. Non puoi dire realmente obiettò Castorp. Stava seduto con una gamba sulla ringhiera, e aveva il bulbo degli occhi segnato da venine rosse. Il tempo non è è reale. Se ti sembra lungo, vuol dire che è lungo, se ti sembra breve, è breve, ma quanto sia lungo o breve in realtà, non lo sa nessuno. Non era punto avvezzo a filosofare, eppure sentiva il bisogno di farlo. Joachim era contrario. Che dici? Ma no. Se lo misuriamo! Abbiamo orologi e calendari, e quando passa un mese, è passato per me, per te e per tutti. Sta attento disse Castorp e si portò persino l'indice accanto agli occhi cupi. Quando ti provi la temperatura un minuto è lungo come sembra a te, Vero? Un minuto è lungo... un minuto dura quel tanto che la lancetta dei secondi impiega a compiere un giro. Ma impiega tempi molto diversi... per il nostro sen.ire! In effetti... dico, in effetti ripeté Castorp, premendo l'indice contro il naso cosí forte da spostarne la punta quello è un movimento, un moto nello spazio, no? Un momento, aspetta! Noi dunque misuriamo il tempo con lo spazio. Però è lo stesso che voler misurare lo spazio col tempo... come fanno coloro che di scienza non s'intendono. Da Amburgo a Davos ci sono venti ore... già, con la ferrovia. Ma a piedi quant è? E col pensiero? Nemmeno un secondo. Senti un po' disse Joachim che cos'hai? Mi pare che qui da noi ti comincia a girare... Taci! Oggi ho il pensiero acuto. Che cosa è mai il tempo? domandò Castorp spingendo in fuori la punta del naso con tanta forza che diventò bianca ed esangue. Me lo sai dire? Lo spazio lo percepiamo coi nostri organi, coi sensi della vista e del tatto. Bene. Ma quale è l'organo del tempo? Me lo vuoi indicare? Vedi, ora sei con le spalle al muro. D'altronde come facciamo a misurare una cosa della quale, a rigore, non sappiamo dire niente di niente, indicare nemmeno una qualità? Noi diciamo: il tempo trascorre. Sta bene, lasciamolo trascorrere. Ma per poterlo misurare... Ecco, per essere misurabile dovrebbe trascorrere uniformemente, e dov'è scritto che lo fa? Per la nostra coscienza non lo fa, noi per motivi di ordine superiore poniamo soltanto che lo faccia, e le nostre misure,

scusami, sono soltanto convenzionali... Bene obiettò Joachim allora anche questa sarà una convenzione che il mio termometro segna quattro linee di troppo ! Io però per queste cinque linee devo star qui a stiracchiarmi rinunciando al servizio, questa è la schifosa realtà ! Hai 37 e 5? Sta già calando. E Joachim fece la registrazione sul suo modulo. Ieri sera erano quasi 38, a causa del tuo arrivo. Tutti quelli che ricevono visite hanno un aumento di temperatura. Eppure è un beneficio. Adesso però me ne vado disse Castorp. Ho la testa piena di pensieri sul tempo... tutto un complesso, direi. Ma non voglio metterti in agitazione, hai già troppe linee. Terrò in mente tutto e potremo riparlarne in seguito, forse dopo colazione. Quand'è il momento d'andarci, ti prego di chiamarmi. Vado anch'io a far la cura sdraiato, male non fa, grazie al Cielo. E cosí dicendo passò davanti al tramezzo di vetro nel suo riparto dove c'erano anche per lui una sedia a sdraio e un tavolinetto; portò fuori dalla camera pulita e riassettata le Ocean s'eamships e la sua bella coperta da viaggio, a quadri rosso-scuri e verdi, e si coricò. Anche lui dovette aprire molto presto l'ombrellino; appena uno era sdraiato la vampa del sole diventava insopportabile. Ma ci si stava comodamente, Castorp lo notò subito con piacere... Non ricordava di aver mai trovato una sedia cosí piacevole. Il telaio di forma un po' antiquata - ma questo era soltanto Un giochetto di gusti, perché la sedia era evidentemente nuovissima - era di legno marrone lucidato, e un materasso con la federa morbida, di una specie di mussolina, suddiviso in tre alti cuscini, arrivava dal piede fin su alla spalliera. Oltre a ciò vi era fissato con una fune né troppo tesa né troppo lenta un appoggiacapo cilindrico, rivestito di tela ricamata, di un'efficacia particolarmente benefica. Castorp passò un braccio sul piano largo e liscio del bracciolo, strizzò gli occhi e riposò senza ricorrere per passatempo alle Ocean steamships. Visto attraverso gli archi della loggia, il paesaggio duro e brullo, ma assolato, faceva l'effetto di un dipinto incorniciato. Hans Castorp lo osservò pensieroso. A un tratto gli venne in mente una cosa e disse forte nel silenzio: Era una nana, vero? quella che ci serviva alla prima colazione? Sst fece Joachim. Piano. Sí, una nana, e con ciò? Niente. Non ne avevamo ancora parlato. Poi continuò a sognare. Quando si era coricato erano già le dieci. Un'ora passò: un'ora comune, non lunga, non breve. Passata questa, un gong risonò nel palazzo e nel giardino, prima lontano, poi piú vicino, poi di nuovo lontano. Lo spuntino disse Joachim, e lo si udí alzarsi. Anche Castorp terminò per questa volta la cura ed entrò in camera per mettersi un po' in sesto. I due cugini si ritrovarono poi nel corridoio e scesero insieme.

Castorp disse: Be', ci si stava benissimo. Che tipo di sedie sono queste? Se qui si possono acquistare me ne porto una ad Amburgo, par di stare in paradiso. O credi che Behrens le abbia fatte costruire apposta su sue istruzioni? Joachim non lo sapeva. Deposero il soprabito ed entrarono per la seconda volta nella sala da pranzo dove già si mangiava a tutt'andare. Nella sala era diffuso un bagliore bianco, tanto era il latte; a ogni posto ce n'era un bicchierone che avrà tenuto mezzo litro. Eh, no! esclamò Castorp quando si fu accomodato a capo della tavola fra la cucitrice e l'inglese e, rassegnato, ebbe svolto il tovagliolo, benché fosse ancora gravato dalla prima colazione. Dio mi guardi, il latte non lo posso prendere, e ora meno che mai. Non si può avere del porter? E con questa domanda si rivolse garbatamente alla nana. Purtroppo non ce n'era. Ma lei gli propose birra di Kulmbach e gliela portò: era una birra densa, nera, dalla sGhiuma bruna, e sostituiva benissimo il porter. Castorp bevve assetato dall'alto calice da mezzo litro, e mangiò dell'affettato freddo con pane abbrustolito. Anche questa volta c'era pronta la pappa d'avena e molto burro e frutta. Egli vi posò almeno lo sguardo, dato che non era in grado di prenderne. E osservò gli ospiti... La massa cominciò a scindersi: persone singole ne emersero. La sua tavola era tutta occupata, tranne il posto di fronte a lui, come gli spiegarono, riservato al dottore. Infatti i medici, se appena avevano il tempo, prendevano parte ai pasti in comune, ora a una tavola, ora a un'altra; perciò a capo di ciascuna c'era un posto libero. In quel momento nessuno dei due era presente; stavano facendo, si disse, un'operazione. Di nuovo entrò il giovane coi baffi, chinò una volta il mento sul petto e si sedette pensieroso e taciturno. Di nuovo la bionda magra era al suo posto e mandava giú cucchiaiate di yoghurt, come fosse il suo unico cibo. Al suo fianco era seduta questa volta una vecchia signora, piccola e vivace, che in russo cercava di convincere il giovane silenzioso, il quale la guardava inquieto e rispondeva soltanto con cenni del capo, mentre faceva un viso come se avesse in bocca qualcosa di disgustoso. Di fronte a lei, all'altro fianco della vecchia signora, stava un'altra ragazza... bella, il viso florido, il seno alto, i capelli castani in ordine e graziosamente ondulati, gli occhi tondi, bruni, infantili e un piccolo rubino al dito della bella mano. Rideva molto e parlava russo anche lei, soltanto russo. Si chiamava Marusja, udí Castorp, il quale osservò anche di passaggio che, quando lei rideva o parlava, Joachim abbassava lo sguardo con un'espressione severa. Settembrini comparve in un ingresso laterale e arricciandosi i baffi s'avviò al suo posto che era in fondo alla tavola messa di traverso davanti a quella di Castorp.

Quando si sedette, i suoi commensali scoppiarono in una sonora risata; doveva aver detto una malignità. Castorp riconobbe subito anche i membri dell'Associazione Pol mone Unico. Hermine Kleefeld con gli occhi imbambolati si spingeva verso la sua tavola laggiú davanti a una porta della veranda e salutò il giovane dalle labbra gonfie, che prima in modo cosí sconveniente aveva sollevato la giacca. La Levi color avorio era seduta, accanto alla grassa e lentigginosa Iltis, fra sconosciuti alla tavola di traverso che era a destra di Castorp. Questi sono i tuoi vicini di camera sussurrò Joachim chinandosi verso suo cugino... La coppia passò rasente a Castorp andando verso l'ultima tavola a destra, cioè la tavola dei "russi incolti", dove una famiglia con un brutto ragazzo stava già ingoiando quantità enormi di porridge. L'uomo era mingherlino e aveva le guance cave e grigie. Portava una giubba di pelle marrone e ai piedi grossolani stivali di feltro con la fibbia. Sua moglie, piccola anche lei ed esile, con un cappello ornato di piume ondeggianti, i piedi in minuscoli stivaletti di bulgaro coi tacchi alti, camminava a passetti brevi; aveva intorno al collo un sudicio boa di penne d'uccello. Castorp li guardò con una mancanza di riguardo che non gli era propria e che a lui stesso parve brutale; ma proprio questa brutalità gli procurava un certo piacere. I suoi occhi erano ad un tempo ottusi e invadenti. Allorché nello stesso istante udí sbattere la porta vetrata a sinistra, con un fragoroso tintinnio, come alla prima colazione, non ebbe come la mattina un soprassalto, ma fece soltanto una fiacca smorfia; e mentre stava per volgere la testa da quella parte, sentí che gli riusciva troppo gravoso e non metteva conto di farlo. Perciò nemmeno questa volta arrivò a stabilire chi fosse il maleducato che trattava la porta a quel modo. La verità è che la birra a colazione, la quale di solito gli annebbiava soltanto moderatamente il cervello, quel giorno lo stordí e paralizzò del tutto: come se avesse preso una botta in fronte. Aveva le palpebre pesanti come piombo, e quando per gentilezza tentò di conversare con la inglese, la lingua non obbediva piú regolarmente al semplice pensiero: gli ci voleva un grande sforzo per mutare la direzione dello sguardo, e per giunta le insopportabili vampe del viso avevano raggiunto tutta l'intensità del giorno precedente; gli pareva di avere le guance- gonfiate dal calore, respirava con fatica, il cuore gli batteva come un martello imbottito, e se tutto ciò non lo faceva soffrire gran che, lo doveva al fatto che la sua testa era nelle condizioni di chi abbia aspirato due o tre boccate di cloroformio. Ora, il dottor Krokowski fece ancora in tempo a venire e a sedersi alla stessa tavola di fronte a lui: ma Castorp lo notò soltanto come in sogno, benché il medico lo fissasse ripetutamente intanto che conversava in russo con le donne al suo fianco,... mentre le giovani, cioè la fiorente Marusja e la magra divoratrice di yoghurt, chinavano gli occhi sottomesse e pudibonde. D'altronde va da sé che Castorp seppe contenèrsi, e siccome la sua lingua era renitente, preferí tacere e maneggiò forchetta e coltello persino con squisita educazione. Quando suo cugino gli fece un cenno e si alzò, lo imitò, rivolse un cieco inchino ai commensali e con passo decoroso uscí dietro a Joachim.

Quando si continua la cura? domandò appena furono all'aperto. A quanto vedo, è la cosa migliore che ci sia qui. Non vedo l'ora di sdraiarmi ancora su quella sedia. Andiamo a passeggiare lontano.

Una parola di troppo. No rispose Joachim. Io non posso andare lontano. A quest'ora scendo sempre un po' a Davos-Dorf e, se ho tempo, fino a Platz. Si vedono negozi e gente e si compera ciò che occorre. Prima di andare a tavola ci si corica un'ora, e poi di nuovo fino alle quattro, sta pur sicuro. Presero sotto il sole la strada d'accesso e attraversarono il ruscello e lo stretto binario, avendo davanti agli occhi le montagne del versante destro: il Piccolo Schiahorn, le Torri Verdi e il Dorfberg che Joachim veniva indicando per nome. Di fronte, un po' piú in alto, c'era il cimitero di Davos-Dorf, cinto da un muro: Joachim indicò anche questo col bastone. Cosí arrivarono sulla strada maestra che, elevata di un piano sopra il fondovalle, portava lungo il versante terrazzato. Non era il caso di parlare di un Dorf; ossia di un vil laggio, di questo non era rimasto che il nome. La stazione climatica lo aveva assorbito estendendosi sempre piú verso l'entrata della valle, e la parte dell'abitato chiamata Dorf si mutava insensibilmente e senza stacco in quella che era detta Davos-Platz. Da un lato e dall altro sorgevano alberghi e pensioni, tutti con verande coperte, balconi e logge in quantità, anche casette private con camere d'affittare; qua e là anche edifici in costruzione; in qualche punto le case cessavano e la strada offriva la vista sui liberi verdi prati della valle... Castorp, desiderando l'usata e diletta attrattiva della vita, aveva acceso un altro sigaro e forse in virtú della birra precedente riuscí, con sua indicibile soddisfazione, a sentire ogni tanto un po' dell'agognato aroma: raro però e scarso,... occorreva un certo sforzo nervoso per ottenere un'idea del piacere, e il ripugnante sapore di cuoio era pur sempre predominante. Incapace di rassegnarsi alla sua impotenza, lottò un poco per il godimento che o gli era negato o soltanto accennato da lontano come un'ironica intuizione, e infine stanco e schifato buttò via il sigaro. Nonostante il suo stordimento sentí il dovere di conversare per cortesia e a tal fine cercò di ricordare le eccellenti cose che aveva avuto da dire intorno al "tempo". Se non che risultò che aveva scordato tutto il "complesso" e in testa non albergava neanche la piú piccola idea intorno al "tempo". In compenso si mise a parlare di condizioni fisiche, e anzi in modo un po' strano. Quando ti misuri di nuovo la temperatura? domandò. Dopo il pasto? E' giusto. Allora l'organismo è in piena attività, e allora deve manifestarsi.

Se Behrens ha preteso che debbo misurarmela anch'io, deve aver scherzato, non ti pare? Anche Settembrini ne ha riso di gusto, non avrebbe senso assolutamente. D'altronde non ho un termometro. Questo sarebbe il meno osservò Joachim. Non hai che da acquistarlo. Qui se ne trovano dappertutto, in quasi tutti i negozi. Ma a che SCOpO? Vedi, la cura della sedia a sdraio la posso accettare, la farò anch'io volentieri, ma la prova della temperatura sarebbe troppo per un ospite di passaggio, preferisco lasciarla a voialtri quassú. Sapessi al meno continuò Castorp portandosi ambo le mani al cuore come un innamorato perché il cuore mi batte cosí!... è inquietante, ci penso già da un pezzo. Ecco, si ha questa palpitazione nell'attesa di una grande gioia, o quando ci si angustia, nelle commozioni insomma, vero? Ma quando il cuore palpita da sé, senza motivo, assurdamente, dirò cosí per conto proprio, mi sembra sospetto, capisci, è come se il corpo andasse per vie proprie e non avesse piú contatto con l'anima, fosse in certo qual modo un corpo morto che in realtà non è affatto morto - questo non è possibile - ma conduce anzi una vita molto attiva, per conto proprio però: capelli e unghie continuano a crescere, e in genere sotto l'aspetto fisico e chimico mi hanno detto che vi regna un'attività assai spigliata... Che modo di parlare! protestò Joachim calmo. Attività spigliata! E forse si vendicava un po' del rabbuffo toccatogli la mattina a proposito del "bastone a sonagliera". Eppure è cosí! E proprio una spigliata attività. Perché ti scandalizzi? Non volevo dire se non che c'è da essere inquieti e angosciati quando il corpo vive per conto suo e senza collegamento con l'anima e si dà grande importanza, come nel caso di questa palpitazione senza motivo. Si vorrebbe trovare un significato, un concomitante moto dell'animo, un sentimento di gioia o di angoscia che, per cosí dire, la giustifichi... cosí almeno capita a me, non posso parlare che di me. Già, già disse Joachim con un sospiro è press'a poco come quando si ha la febbre... Anche qui c'è nel corpo una speciale, spigliata attività, per usare le tue parole, e allora può ben darsi che istintivamente si vada in cerca di un moto dell'animo, come dici tu, che conferisca all'attività un significato passabilmente ragionevole... Ma stiamo facendo un discorso troppo sgradevole conchiuse con un tremito nella voce e troncò lí; dopo di che Castorp si limitò a scrollare le spalle, proprio come la sera precedente per la prima volta aveva visto fare a Joachim. Per un tratto camminarono in silenzio, finché Joachim domandò: Ti piace la gente qui? Intendo le persone alla nostra tavola. Castorp quasi passandole in rassegna assunse un'espressione indifferente. Dio mio disse non mi paiono molto interessanti. Alle altre tavole ce ne sono, credo, di piú interessanti, ma può darsi che mi sembri soltanto. La signora Stohr dovrebbe farsi lavare i capelli, sono troppo unti. E quella Mazurka, o qualcosa di simile, mi pare un po' scema. Si caccia continuamente il fazzoletto in bocca per soffocare le risate. Joachim scoppiò a ridere per quello storpiamento del nome. Mazurka è bellissimo! esclamò. Marusja si chiama, se non ti dispiace... che poi è come dire Maria.

Sí, è davvero di un'allegria esagerata. E dire che avrebbe motivo di essere piú posata, perché il suo male non è poco grave. Non si direbbe ribatté Castorp. E' molto in gamba. Che sia proprio malata di petto non si crederebbe. E tentò di scambiare con suo cugino un'occhiata scherzosa. Ma vide che il suo viso bruno presentava una tinta maculata come quella dei visi abbronzati quando si fanno esangui, e la bocca gli si era stirata in maniera singolarmente dolorosa, con un'espressione che al giovane Castorp incusse un'indefinita paura e lo spinse a cambiare subito argomento e ad informarsi di altre persone; mentre cercava di dimenticare rapidamente Marusja e l'espressione di Joachim, e riusciva a farlo. L'inglese, quella dell'infuso di coccole di rosa, si chiamava miss Robinson. La cucitrice non era una cucitrice, bensí maestra in una scuola femminile superiore a Konigsberg, e per questa ragione si esprimeva cosí correttamente. Si chiamava Fraulein Engelhart. Della vecchia signora vivace lo stesso Joachim non sapeva il nome, per quanto egli fosse lassú da parecchio tempo. In ogni caso era la prozia della ragazza che si nutriva di yoghurt e con lei aveva fissa dimora in sanatorio. Ma il piú grave dei commensali era il dottor Blumenkohl, Leo Blumenkohl di Odessa... quel giovane coi baffi, chiuso e pensieroso. Da anni viveva lassú... Quello su cui ora camminavano era un marciapiede cittadino... la via piú importante, si vedeva, di un ritrovo internazionale. Incontravano ospiti a zonzo, per lo piú giovani, cavalieri in abito sportivo, senza cappel lo, e dame, pure senza cappello, in gonna bianca. Si udiva parlare russo e inglese. Negozi con vetrine eleganti erano allineati a destra e a sinistra, e Castorp, la cui curiosità lottava disperatamente con la sua bollente stanchezza, forzò gli occhi a guardare e indugiò a lungo davanti a un negozio di mode maschili per stabilire che la vetrina era conforme alle piú alte esigenze. C'era anche una rotonda con la galleria coperta dove un'orchestra dava un concerto. Là era lo stabilimento di cura. In vari campi di tennis si stava giocando. Giovanotti con le gambe lunghe, sbarbati, in calzoni di flanella accuratamente stirati, con suole di gomma, le braccia nude, fronteggiavano ragazze abbronzate, vestite di bianco, che accorrendo si drizzavano alte al sole per col pire in aria la palla bianca come il gesso. Sopra i campi sportivi tenuti con cura era steso come uno spolvero di farina. I due cugini si sedettero su una panca libera per assistere al giuoco e fare le loro critiche. Tu non giuochi qui? domandò Castorp. Non devo risposeJoachim. Dobbiamo stare sdraiati, sempre sdraiati... Dice Settembrini che viviamo orizzontali... siamo orizzontali dice, è una delle sue freddure.

Quelli che giuocano o sono sani o giuocano nonostante il divieto. D'altronde non lo fanno molto sul serio... piú per l'abbigliamento... In quanto a divieti, ci sono giuochi ancora piú vietati, il poker, capisci, e in qualche al bergo anche i petits chevaux... Da noi si rischia l'espul sione, pare che sia il piú dannoso di tutti. Ma c'è chi scende dopo il controllo serale e va a puntare. Il principe, al quale Behrens deve il titolo che ha, dicono che l'abbia sempre fatto. Castorp ascoltava poco. Teneva la bocca aperta, perché dal naso respirava male, ma senza che fosse costipato. Il suo cuore martellava con ritmo diverso da quel lo della musica, e ciò gli dava un sordo senso di tormento. E con questa impressione di disordine e contrasto cominciò ad addormentarsi, allorché Joachim lo avvertí che era ora di rientrare. Rifecero la strada quasi in silenzio. Castorp incespicò persino alcune volte sulla strada piana e ne sorrise con malinconia scotendo il capo. Il claudicante li accompagnò con l'ascensore al loro piano. Davanti al numero 34 si accomiatarono con un breve "arrivederci". Castorp attraversando la camera si diresse al balcone dove si abbandonò, come era, sulla sedia a sdraio, e, senza neanche correggere la sua posizione, cadde in un dormiveglia greve, dolorosamente mosso dal battito del cuore.

Una donna, naturalmente. Non capiva da quanto tempo fosse là. Al momento opportuno il gong si fece sentire. Ma non chiamava ancora a colazione, avvertiva soltanto di tenersi pronti; Castorp che lo sapeva rimase coricato finché il fragore metallico rimbombò una seconda volta e si allontanò. Quando Joachim entrò in camera per venirlo a prendere, Castorp si accinse a mutare l'abito, ma l'altro non glielo permise. Non poteva soffrire la mancanza di puntualità. Com'era possibile progredire e guarire per poter prestare il servizio, disse, se uno era fiacco al punto da non osservare l'orario dei pasti? Naturalmente aveva ragione e Castorp poté soltanto far notare che non era affatto malato, in compenso però moriva dal sonno. Si limitò a lavarsi in fretta le mani, poi scesero nella sala; era la terza volta. Gli ospiti affluivano dalle due entrate. Venivano anche dalle porte della veranda che erano aperte, sicché in breve tutti erano seduti alle sette tavole come non se ne fossero mai alzati.

Questa almeno fu l'impressione di Castorp: impressione, beninteso, fantastica e irrazionale, che però lí per lí la sua mente annebbiata non seppe respingere, anzi ne provò un certo piacere; infatti durante il pasto cercò piú volte di richiamarla, col risultato di un'illusione perfetta. La vecchia vivace parlava di nuovo in quel suo linguaggio confuso col dottor Blumenkohl che le sedeva diagonalmente di fronte e l'ascoltava con aria impensierita. La sua magra pronipote mangiò final mente una cosa diversa dal solito yoghurt, la viscosa creme d'orge che le cameriere avevano servito nei piatti, ma ne prese soltanto qualche cucchiaiata e lasciò il reStO. La bella Marusja per non soffocare dal tanto ridere si cacciava in bocca il fazzolettino che mandava un profumo di fior d'arancio. Miss Robinson leggeva le lettere in scrittura rotonda, le stesse che aveva già lette la mattina. Era chiaro che non capiva una parola di tedesco e non voleva neanche capirla. Joachim da perfetto cavaliere le rivolse qualche parola in inglese intorno al tempo, lei masticando diede una risposta laconica e ricadde nel suo mutismo. La signora Stohr in camicetta di lana scozzese era stata alla visita nella mattinata e ne riferiva con le maniere affettate dell'ignorante sollevando il labbro superiore dai suoi denti di coniglio. Aveva a destra in alto, cosí si lagnava, un fruscio, oltre a ciò sotto l'ascella sinistra una notevole ipofonia, e cinque mesi, aveva detto "il vecchio", doveva rimanere lí ancora. Nella sua goffaggine chiamava il consigliere aulico Behrens "il vecchio". D'altra parte era indignata perché non era seduto a mangiare con loro. Secondo la "tournée" (voleva dire il turno) toccava alla loro tavola, mentre invece "il vecchio" era seduto di nuovo alla tavola vicina, a sinistra (Behrens era là davvero e teneva le enormi mani giunte davanti al piatto). Eh già, era il posto della grassa signora Salomon di Amsterdam che tutti i giorni feriali veniva a tavola molto scollata, con evidente piacere del "vecchio", mentre lei, la signora Stohr, non riusciva a capirlo, dato che a ogni visita egli poteva vedere, della signora Salomon, quanto voleva. Poi raccontò, sussurrando agitata, che la sera precedente, nella comune veranda di sopra - quella sul tetto - era stata spenta la luce, per scopi che lei definí "trasparenti". Il "vecchio", soggiunse, se n'era accorto e aveva tuonato che lo si poteva udire in tutto il palazzo. Ma naturalmente nemmeno questa volta aveva saputo scoprire il colpevole, mentre non occorreva davvero aver fatto l'università per indovinare che era stato, s'intende, quel capitano Miklosich di Bucarest, per il quale, in compagnia di donne, non era mai abbastanza buio... un uomo assolutamente privo di educazione, benché portasse il busto, e per sua natura un vero animale di rapina ... sí, un animale di rapina, ripeté la Stohr con voce strozzata, mentre la fronte e il labbro le si imperlavano di sudore. Quali rapporti ci fossero fra lui e la moglie del console generale Wurmbrand di Vienna, era noto a Dorf e a Platz... non era piú il caso di parlare di rapporti "misteriosi". Non contento di entrare talvolta già di bel mattino nella camera della moglie del console, quando questa era ancora a letto, e di assistere a tutto iI suo abbigliamento mattutino, il capitano lo scorso giovedì' era invece "uscito" alle quattro dalla camera della Wurmbrand...

L'infermiera del giovane Franz al numero diciannove, il cui pneumotorace ultimamente era fallito, si era imbattuta in lui e per la vergogna aveva sbagliato l'uscio che cercava, sicché all'improvviso si era trovata nella camera dell'avvocato Paravant di Dortmund... Infine la Stohr parlò a lungo di un "istituto cosmico" laggiú nel paese, dove acquistava il dentifricio... Joachim teneva gli occhi fissi sul piatto. Il desinare era un capolavoro di arte culinaria e sommamente copioso. Compresa la zuppa sostanziosa, c'erano non meno di sei portate. Dopo il pesce venne servito un ricco piatto di carne con contorni, poi una scelta di legumi, pollame arrosto, un dolce che per gustosità non era inferiore a quello della sera precedente, e infine formaggio e frutta. Ogni portata era offerta due volte... e non invano. Alle sette tavole tutti si empivano il piatto e mangiavano: nella sala regnava un appetito da leoni, una fame da lupi, e forse sarebbe stato un piacere assistervi se in qualche modo non avesse fatto un'impressione sinistra, anzi persino ripugnante. Ne davano spettacolo non solo i commensali vivaci che ciarlavano e si gettavano palline di mollica, ma anche i silenziosi e aggrondati che negli intervalli tenevano la testa fra le mani e gli occhi fissi. Un adolescente alla tavola di sinistra, scolaro a giudicare dagli anni, con le maniche troppo corte e le lenti spesse e rotonde, tagliò subito tutto quanto aveva ammucchiato nel piatto facendone un intruglio, una pappa; poi si buttò a ingoiare passando ogni tanto il tovagliolo dietro gli occhiali per forbirsi gli occhi... e non si capiva che cosa avesse da asciugare, se sudore o lacrime. Durante il lungo pasto si ebbero due incidenti che attirarono l'attenzione di Hans Castorp fin dove glielo permisero le sue condizioni. In primo luogo si udí sbattere di nuovo la vetrata: stavano servendo il pesce. Castorp provò una scossa e, amareggiato, disse a se stesso in un impeto d'ira che questa volta doveva scoprire il colpevole. E non lo pensò soltanto, ma lo disse con le labbra, tanto faceva sul serio. Lo devo sapere! mormorò con ardore esagerato, sicché tanto miss Robinson quanto la maestra lo guardarono stupite. E si voltò con tutto il busto verso sinistra e spalancò gli occhi arrossati di sangue. Una donna attraversava la sala, una signora o forse ragazza, di statura media, in sweater bianco e gonna di colore, coi capelli biondo-rossicci avvolti in trecce intorno alla testa. Del suo profilo Castorp scorse ben poco, quasi nulla. Senza rumore, in strano contrasto col fracasso del suo ingresso, andò quasi scivolando e col capo un poco proteso fino all'estrema tavola di sinistra, perpendicolare alla porta della veranda, quella che chiamavano la tavola dei "russi ammodo", tenendo una mano nella tasca dell'aderente giacca di lana e portandosi l'al tra alla nuca per sorreggere e ravviare i capelli. Castorp guardò quella mano; s'intendeva di mani e le osservava con attenzione critica, era avvezzo, quando faceva nuove conoscenze, a guardare prima di tutto questa parte del corpo umano. Non era proprio signorile, la mano che reggeva i capelli, non era curata e raffinata come erano di solito le mani femminili nell'ambiente sociale del giovane Hans Castorp.

Piuttosto larga e con le dita corte, aveva un che di primitivo e infantile, un po' come la mano d'una scolara; le unghie evidentemente non conoscevano il manicure, erano tagliate alla bell'e meglio, ancora come quelle d'una scolara, con la pelle un po' arruvidita ai lati, come se colei coltivasse il vizietto di rosicchiarle. Castorp però piú che vedere tutto ciò lo intuí... la distanza era troppo grande. Con un cenno del capo la ritardataria salutò i commensali e, mentre si accomodava sul lato interno della tavola, le spalle verso la sala, a fianco del dottor Krokowski che vi aveva la presidenza, volse, sostenendo ancora i capelli, la testa al di sopra della spalla e diede un'occhiata al pubblico... e allora Castorp poté notare di sfuggita che aveva gli zigomi larghi e gli occhi stretti... A quella vista, qualche cosa o qualcuno gli sovvenne vagamente, di passata... Una donna, naturalmente! pensò Castorp e di nuovo lo borbottò espressamente in modo che la signorina Engelhart, la maestra, afferrò le sue parole. La squallida vecchia zitella sorrise commossa. E' madame Chauchat spiegò. E' lei la trascurata. Una donna deliziosa. E il morbido rossore sulle guance della signorina Engelhart aumentò di una sfumatura... come avveniva ogni qualvolta apriva bocca. Francese? domandò Castorp, rigido. No, è russa rispose la Engelhart. Suo marito è forse francese o di origine francese, non lo so con certezza. Era quello là? domandò Castorp, ancora irritato, indicando un tale con le spalle spioventi, seduto alla stessa tavola. No, non era presente, rispose la maestra, non era mai venuto, nessuno lo conosceva. Dovrebbe chiudere la porta come si deve! esclamò Castorp. Sempre la fa sbattere. Non è educazione. E come la maestra incassò il rimprovero con un umile sorriso, quasi fosse lei la colpevole, non si parlò piú di madame Chauchat. Il secondo incidente fu la temporanea uscita del dottor Blumenkohl dalla sala, nient'altro. La sua espressione di leggero disgusto si fece a un tratto piú intensa, il suo sguardo fisso apparve piú impensierito del solito: ed egli respinse la sedia con un gesto discreto e uscí. A questo punto la mancanza di educazione della signora Stohr si manifestò appieno; probabilmente per la volgare soddisfazione di essere meno malata di Blumenkohl, accompagnò infatti la sua uscita con osservazioni fra pietose e sprezzanti. Poveraccio! disse. Quello è arrivato al lumicino. Eccolo di nuovo costretto ad abboccarsi con l"'azzurro Enrico". Senza sforzo, con la caparbietà del l'ignorante, pronunciò il burlesco nomignolo di "azzurro Enrico" e, a sentirlo, Castorp provò un misto di sgomento e di voglia di ridere. Dopo qualche minuto il dottor Blumenkohl ritornò con lo stesso atteggiamentO discreto con cui era uscito, si risedette e continuò a mangiare. Anche lui mangiò molto, si serví due volte a ogni portata, in silenzio, col volto chiuso e preoccupato. Cosí si arrivò alla fine del desinare: grazie al servizio sollecito (la nana in particolare era una creatura singolarmente veloce) era durato soltanto un'ora.

Castorp, col respiro grosso e senza capire esattamente come fosse salito, era coricato di nuovo sull'ottima sedia sopra il balcone, poiché dopo il pasto bisognava fare la cura fino all'ora del tè, era anzi il momento piú importante della giornata e andava rigorosamente osservato. Fra le pareti di vetro opaco che lo separavano di qua da Joachim, di là dalla coppia russa, giaceva assonnato, col cuore in tumulto, respirando dalla bocca. Quando adoperò il fazzoletto lo trovò arrossato di sangue, ma non ebbe la forza di pensarci su, benché, sappiamo, fosse un po' in apprensione per la sua salute e per natura fosse portato a bizzarre ipocondrie. Aveva acceso di nuovo un "Maria Mancini" che questa volta fumò fino in fondo, qualunque ne fosse il sapore. Stordito, depresso, trasognato considerava quanto fosse strano ciò che gli capitava lassú. Due o tre volte si sentí scosso da interiori sussulti di riso per la sciagurata frase che la signora Stohr aveva usato nella sua rozzezza. Il signor Albin Ogni tanto giú in giardino il panno della bandierafantasia con il caduceo si sollevava al soffiare del vento. Il cielo era di nuovo uniformemente coperto. Scomparso il sole l'aria era diventata subito quasi scostante e fredda. La veranda comune era tutta occupata e piena, laggiú, di chiacchiere e risate. Signor Albin, mi faccia il piacere, deponga il col tello, lo metta via che non succeda una disgrazia! implorava una voce femminile alta e titubante. E: Caro signor Albin, per amor del cielo, abbia pietà dei nostri nervi e faccia sparire quell'orribile arma assassina! intervenne un'altra... dopo di che un giovane biondo che, la sigaretta fra le labbra, era seduto su una sedia a sdraio in prima fila, obiettò insolente: Non ci penso nemmeno. Le signore mi permetteranno, spero, di giocare un po' col mio coltello. Oh certo, è molto affilato. L'ho comprato a Calcutta da uno stregone cieco... Era capace d'inghiottirlo e dopo un istante il suo boy lo estraeva, a cinquanta passi di distanza, dal terreno... Vogliono vedere? Taglia molto meglio di un rasoio. Basta toccare il filo perché ti entri nella carne come nel burro... Aspettino, ora faccio vedere piú da vicino... E il signor Albin si alzò suscitando un coro di strida. No, no, ora vado a prendere la pistola! disse. Interesserà di piú. Un arnese diabolico. Di una potenza... Vado in camera a prenderla! Signor Albin, signor Albin, lasci stare! strillarono piú voci. Ma lui usciva già dalla veranda per andare in camera sua... giovanissimo, ciondolone, con un viso roseo da fanciullo e sottili fedine lungo le gote. Signor Albin gli gridò dietro una signora prenda piuttosto il cappotto e lo indossi, lo faccia per amor mio! Per sei settimane ha avuto la polmonite e ora se ne sta qui senza soprabito e non si copre nemmeno e

fuma! E' come tentare Iddio, signor Albin, parola d'onore! Lui si limitò a ridere beffardo, mentre usciva, e dopo qualche minuto era già di ritorno con la pistola... Quelle strillarono ancora piú scioccamente di prima e si udí che alcune per alzarsi dalla sedia inciampavano nelle coperte e cadevano. Vedono com'è piccola e lustra? cominciò Albin... Ma basta che io prema qui, e subito morde... Altri strilli. Naturalmente è carica continuò Albin. In questo tamburo sono infilate sei cartucce, a ogni colpo esso gira avanzando di un buco... Ma non tengo con me questo coso per celia disse, quando notò che l'effetto si affievoliva; infilò la pistola nella tasca interna e si risedette, con le gambe accavallate, mentre accendeva un'altra sigaretta. Non certo per celia ripeté e strinse le labbra. Perché invece? perché? domandarono presaghe alcune voci tremanti. Spaventoso! gridò una a un tratto, e Albin accennò di sí. Vedo che ora cominciano a capire confermò. Infatti la tengo per questo aggiunse alla leggiera dopo aver aspirato e riespulso una grande boccata di fumo nonostante la passata polmonite. La tengo pronta per il giorno in cui questa seccaggine mi darà troppa noia e io avrò l'onore di porgere i miei distinti saluti. La cosa è piuttosto semplice... l'ho studiata a fondo e ho trovato il modo migliore per venirne a capo. ( A queste parole si udí un grido.) La regione del cuore va esclusa... Lí non è comodo puntare... Preferisco d'altronde spegnere la coscienza nella sua sede, infilandomi uno di questi corpicini estranei nell'organo piú interessante... E con l'indice si toccò il cranio biondo dai capelli corti. Qui bisogna puntare... Cosí dicendo estrasse di nuovo la pistola nichelata e ne batté la bocca contro la tempia. Qui sopra l'arteria... Soluzione facile persino senza specchio... Si levarono proteste imploranti di piú voci, fra le quali si distinsero persino violenti singhiozzi. Signor Albin, signor Albin, metta via la pistola, tol ga la pistola dalla tempia, non posso piú vedere, lei è giovane, signor Albin, guarirà, ritornerà alla vita, sarà benvoluto da tutti, parola d'onore! Indossi il cappotto, si corichi, si copra, faccia la cura! Non cacci via il bagnino quando viene per farle le fregagioni d'alcool ! Smetta di fumare, signor Albin, dia retta, vogliamo che lei viva, che salvi la sua vita giovane, preziosa! Ma Albin era inesorabile. No, no esclamò. Mi lascino! Sta bene, grazie. Non ho mai rifiutato nulla a una donna, ma capiranno che è inutile mettere bastoni fra le ruote al destino. E' il terzo anno che sono qui... ne sono stufo e non sto piú a questo giuoco... Mi si può dar torto? Inguaribile, signore mie... come mi vedete qui seduto, sono inguaribile... il consigliere stesso, nemmeno per punto d'onore, ne fa piú un mistero. Mi sia concessa quel po' di sfrenata libertà che deriva da questa circostanza! E' come al liceo quando la bocciatura era decisa e non si era piú interrogati e non occorreva fare piú nulla. A queste felici condizioni sono ritornato finalmente. Non occorre che faccia nulla, non conto piú, me la rido di tutto.

Vuole un po' di cioccolata? Si serva! No, non me ne priva, in camera ho montagne di cioccolata. Otto bomboniere, cinque tavolette di Gala-Peter e quattro libbre di cioccolata Lindt possiedo lassú... tutta roba che le signore del sanatorio mi hanno inviato durante la mia polmonite... Da qualche parte si udí una voce di basso che chiedeva silenzio. Albin fece una breve risata... d'un riso volubile e tosto troncato. Poi si fece silenzio nella veranda, un silenzio come se un sogno si fosse dileguato o un'apparizione di fantasmi; e stranamente risonava nella quiete l'eco delle parole dette. Castorp rimase ad ascoltare finché l'eco fu spenta, e benché gli paresse vagamente che quell'Albin fosse un maleducato, non poté reprimere un senso d'invidia. In particolare gli aveva fatto impressione quel confronto preso dalla vita scolastica, poiché lui stesso era stato bocciato in prima liceo e ricordava bene le condizioni disonorevoli, ma buffe e di piacevole abbandono che aveva godute quando nell'ultimo trimestre aveva rinunciato alla corsa e potuto ridersela "di tutto". Siccome le sue considerazioni erano sorde e confuse, è difficile precisarle. Soprattutto gli sembrava che l'onore offrisse vantaggi notevoli, ma non meno la vergogna, che anzi i vantaggi di quest'ultima fossero addirittura illimitati. E mentre provava a mettersi nei panni del signor Albin e si figurava come dovesse sentirsi chi si fosse definitivamente liberato dal peso dell'onore e godesse per sempre gli inauditi vantaggi della vergogna, il giovane fu scosso da un senso di confusa dolcezza che per un po impresse al suo cuore un palpito ancora piú accelerato.

Satana fa proposte disonorevoli. In seguito perdette la coscienza. Il suo orologio segnava le tre e mezzo quando fu svegliato da una conversazione dietro la parete di vetro sinistra: il dottor Krokowski che a quell'ora faceva il giro senza il direttore parlava in russo con la coppia maleducata, s'informava, a quanto pareva, come stesse il marito e si fece presentare il modulo della temperatura. Ma poi non proseguí lungo gli scomparti del balcone, ritornò invece nel corridoio evitando lo scomparto di Castorp ed entrò dalla porta nella camera di Joachim. Il fatto che lo si scansasse lasciandolo cosí in disparte, parve però a Castorp un tantino offensivo, benché non avesse la minima voglia di trovarsi a quattr'occhi insieme col dottore. Vero è che era sano e non entrava nel numero... poiché lassú, pensò, avveniva che chi aveva l'onore di essere sano non fosse preso in considerazione e non venisse interrogato, e ciò indispettí il giovane Castorp. Dopo aver sostato due o tre minuti da Joachim, il dottor Krokowski proseguí lungo il balcone, e Castorp udí suo cugino dire che era ora di alzarsi e prepararsi alla merenda. Bene rispose e si alzò.

Ma la testa gli girava per essere stato coricato tanto tempo, e quel dormiveglia cosí poco riposante gli aveva infiammato ancora dolorosamente il viso, mentre provava qualche brivido... forse non si era coperto abbastanza. Si lavò gli occhi e le mani, si ravviò i capelli e l'abito e si trovò con Joachim nel corridoio. Hai sentito quel signor Albin? domandò mentre scendevano le scale. Certo rispose Joachim. Bisognerebbe richiamarlo all'ordine. Disturba il riposo meridiano con le sue ciarle e mette in agitazione le signore facendole regredire di settimane. Grave mancanza di rispetto. Ma chi vuoi che lo denunci? D'altro canto la maggior parte accoglie volentieri quei discorsi come un divertimento. Credi domandò Castorp che sia capace di attuare davvero quella soluzione facile, come la chiama lui, e di infilarsi quel corpo estraneo? Eh, sí rispose Joachim impossibile non è. Capita talvolta quassú. Due mesi prima che venissi qua uno studente che stava qui già da parecchio, dopo una visita generale s'impiccò nel bosco lí di fronte. Se ne parlò molto nei miei primi giorni. Castorp sbadigliò eccitato. Ecco, non posso dire di sentirmi bene qui con voi dichiarò. Sai, potrebbe darsi che non possa rimanere, che debba partire... te ne avresti a male? Partire? Che ti viene in mente? esclamò Joachim. Storie. Sei appena arrivato! Come pretendi di giudicare dopo una sola giornata? Dio mio, è ancora la prima giornata? Ho l'impressione di-essere da un pezzo... da molto tempo qui con voi. Non ricominciare la solfa del tempo! disse Joachim. Stamane m'hai empito la testa. Sta tranquillo, ho dimenticato tutto assicurò Castorp: Tutto il complesso. Ora non saprei fare neanche lontanamente ragionamenti acuti... è passata... Sicché adesso si prende il tè? . Precisamente, e poi andiamo di nuovo fino alla panchina di stamane. E sia! Spero di non incontrare ancora Settembrini. Oggi, ti preavviso, non mi sento piú di partecipare a conversazioni profonde. Nella sala da pranzo si servivano tutte le bevande adatte all'ora. Miss Robinson prese di nuovo il suo infuso di coccole di rosa, color sangue, mentre la pronipote mandava giú cucchiaiate di yoghurt. Oltre a ciò si poteva avere latte, tc, caffè, cioccolata, persino brodo di carne, e a tutte le tavole i clienti che dopo il ricco pasto meridiano avevano passato due ore coricati erano intenti a spalmare di burro grandi fette di panettone con l'uva passa. Castorp si era fatto portare il tè e vi inzuppava biscotti. Tentò anche un po' di marmellata. Osservò attentamente il panettone e tremò letteralmente all'idea di mangiarne.

Si trovava di nuovo al suo posto nella sala dal soffitto ingenuamente dipinto, fra le sette tavole: era la quarta volta. Un po' piú tardi, alle sette, vi si sedette la quinta volta, per la cena. L'intervallo breve e trascurabile fu occupato dalla passeggiata alla panchina contro il pendio, presso il corso d'acqua (ora la strada era molto frequentata dai malati sicché i due cugini dovettero salutare piú volte) e da un nuovo riposo di cura sul balcone, un'ora e mezza fuggevole e vacua. Per la cena si cambiò con cura e poi, fra miss Robinson e la maestra, mangiò una julienne, carne al forno e arrosto con contorni, due fette di una torta che conteneva di tutto: pasta di amaretti, mascarpone, cioccolata, conserva di frutta, marzapane; e dell'ottimo formaggio su fettine di pane nero. E anche questa volta si fece portare una bottiglia di Kulmbach. Ma quando ebbe bevuto metà del calice capí chiaramente che era ora di andare a letto. La testa gli ronzava, le palpebre erano di piombo, il cuore pulsava come un piccolo timpano, e per suo tormento si mise in mente che la bella Marusja, la quale chinando la fronte si copriva il viso con la mano ornata del piccolo rubino, ridesse di lui, benché si fosse tanto sforzato di non dargliene motivo. Come da molto lontano udí che la signora Stohr diceva o osservava una cosa cosí folle da farlo dubitare, nella sua mente confusa, se udiva bene o se le affermazioni della Stohr non si trasformassero in assurdità dentro la sua testa. Lei dichiarava infatti di saper preparare ventotto diverse salse di pesce... aveva, disse, il coraggio di affermarlo, benché suo marito le avesse vietato di parlarne. Non dirlo le avrebbe detto. Nessuno ti crederà, e se ti credono, apparirai ridicola! Ciò nonostante ora lo voleva dire e confessare che era capace di fare ventotto salse di pesce. A Hans Castorp sembrò una cosa spaventevole; allibí, si portò una mano alla fronte e dimenticò di finire di masticare e d'inghiottire un boccone di pane nero con chester che aveva in bocca. Quando si alzarono da tavola ce l'aveva ancora. Uscirono dalla porta vetrata a sinistra, "quella" dannata che era sempre sbattuta e dava direttamente nell'atrio anteriore. Quasi tutti passarono di lí, poiché si vide che nell'ora dopo cena c'era una specie di ritrovo nell'atrio e nei salotti adiacenti. La maggior parte dei malati formava qua e là piccoli crocchi. A due tavole a battente, coperte di panno verde, si giocava, a domino sull'una, a bridge sull'altra, e c'erano soltanto giocatori giovani, fra i quali Albin e Hermine Kleefeld. Nel primo salotto c'erano anche alcuni divertenti apparecchi ottici: un panorama stereoscopico, attraverso le cui lenti si vedevano fotografie collocate nell'interno, per esempio un gondoliere veneziano in rigida ed esangue corporeità; in secondo luogo un caleidoscopio a cannocchiale, alla cui lente si accostava un occhio: bastava muovere leggermente una ruota per ottenere un'illusoria e fantastica al ternativa di stelle e arabeschi multicolori; infine un cilindro rotante nel quale s'infilavano strisce di pellicola cinematografica e, guardandovi dalle aperture laterali, si potevano vedere un mugnaio che si abbaruffava con uno spazzacamino, un maestro che puniva un alunno, un funambulo sulla corda, e una coppietta di contadini che eseguiva una danza agreste.

Castorp, le mani fredde sulle ginocchia, guardò a lungo in ciascun apparecchio. Si trattenne anche un po' alla tavola del bridge dove l'inguaribile Albin, con gli angoli della bocca all'ingiú e con gesti sprezzanti da uomo navigato, maneggiava le carte. In un angolo era seduto il dottor Krokowski, in animato e cordiale colloquio con un semicerchio femminile, del quale facevano parte la signora Stohr, la Iltis e la signorina Levi. I commensali della tavola dei "russi ammodo" si erano ritirati nel salottino attiguo, che soltanto portiere separavano dalla stanza da giuoco, e vi formavano un'intima combriccola. C'erano, oltre a madame Chauchat, un uomo floscio con la barba bionda, il petto concavo e gli occhi bovini; una ragazza bruna di tipo originale e comico, con orecchini d'oro e arruffati capelli lanosi; c'erano inoltre il dottor Blumenkohl che si era aggregato a loro, e anche due giovanotti dalle spalle spioventi. Madame Chauchat portava un abito azzurro col colletto bianco, di pizzo. Al centro del suo gruppo, stava seduta sul sofà accanto al tavolino rotondo, in fondo alla stanzetta, il viso rivolto alla stanza da giuoco. Castorp che non poteva vedere quella maleducata senza disapprovarla andava riflettendo: "Mi ricorda qualche cosa, ma non saprei dire quale...". Uno spilungone sulla trentina, coi capelli diradati, suonò al pianino color marrone tre volte consecutive la marcia nuziale dal Sogno d'una notte d'estate e, come alcune signore lo pregarono, attaccò il pezzo melodioso per la quarta volta, dopo averle guardate l'una dopo l'altra negli occhi, a lungo e in silenzio. E' lecito, ingegnere, informarsi come sta? domandò Settembrini che, le mani nelle tasche dei calzoni, aveva girellato fra i pazienti e ora si era fermato davanti a Castorp... Portava ancora la giacca grigia di rattina e i calzoni chiari a quadretti. Accompagnò le parole con un sorriso e Castorp provò di nuovo come un senso di disinganno alla vista di quelle labbra sottili e beffardamente increspate sotto la curva dei baffi neri. Ma guardò l'italiano con occhi alquanto imbambolati, le labbra inerti e gli occhi venati di rosso. Oh, è lei disse il signore della passeggiata di stamane che lassú, vicino a quella panca... vicino al ruscello... Sí, si, l'ho riconosciuta subito. Vuol credere continuò pur avvertendo che non l'avrebbe dovuto dire che là al primo momento l'avevo presa per un sonatore d'organetto?... Assurdo naturalmente soggiunse vedendo che lo sguardo di Settembrini assumeva un'espressione fredda e indagatrice una sciocchezza enorme, insomma! Anzi, non riesco a capire come diavolo... Si dia pace, non ha importanza ribatté Settembrini dopo aver osservato il giovane ancora un istante. Come ha passato dunque la giornata... la prima del suo soggiorno in questo luogo di delizie? Grazie mille. In tutto secondo il regolamento rispose Castorp. In prevalenza in maniera orizzontale, come dicono che le piaccia esprimersi. Settembrini sorrise. Può darsi che all'occasione mi sia espresso cosí disse. Be', le è parso divertente, questo tenore di vita? Divertente e noioso, secondo rispose Castorp. Sa, talvolta è difficile distinguere. Non mi sono affatto annoiato... per questo c'è troppo brio e movimento quassú fra voi. Si sentono e si vedono tante cose nuove e singolari...

Eppure, d'altro canto, ho come l'impressione di non essere qui da un giorno, ma da parecchio tempo... anzi, mi pare addirittura di essere diventato qui piú vecchio e piú saggio. Anche piú saggio? ripeté Settembrini sollevando le sopracciglia. Mi permette una domanda? Lei quanti anni ha? Quanti anni... io? Sono naturalmente nel ventiquattresimo. Fra poco compio i ventiquattro. Mi scusi, sono stanco! aggiunse. E stanchezza non è la parola giusta per definire le mie condizioni. Lo sa anche lei, vero? quando si sogna e si sa di sognare e si vorrebbe svegliarsi e non si può. Ecco, cosí mi sento. Devo avere la febbre. Certamente, non trovo altra spiegazione. Vuol credere che ho i piedi freddi fin su al ginocchio? Se cosí si può dire, poiché evidentemente il ginocchio non è piede... mi scusi, vede, ho la testa confusa, e in fin dei conti non c'è neanche da stupirsi, se già la mattina presto... si è accolti col fischio del pneumotorace e poi si devono ascoltare i discorsi di quel signor Albin e per giunta in posizione orizzontale. Pensi, ho continuamente l'impressione di non potermi piú fidare dei miei cinque sensi, e ciò mi dà piú fastidio che il calore in viso e i piedi gelati. Dica sinceramente: le par possibile che la signora Stohr sappia fare ventotto salse di pesce? Non voglio dire che sia davvero capace di farle (per me lo escludo), ma chiedo se lo ha asserito realmente dianzi a tavola o se è parso soltanto a me... soltanto questo vorrei sapere. Settembrini lo guardò. Pareva non avesse ascoltato. Di nuovo i suoi occhi si erano fissati, erano fermi a un punto cieco, e come al mattino disse tre volte già, già, già e guarda, guarda, guarda... con pensosa ironia. Ventiquattro, ha detto? domandò poi. No, ventotto! esclamò Castorp. Ventotto salse di pesce! Non salse in genere, ma in particolare salse di pesce: proprio questo è mostruoso. Ingegnere! sbottò Settembrini adirato, ammonendo. Metta giudizio e mi risparmi codeste stupidaggini! Non ne so nulla e non ne voglio sapere. - Nel ventiquattresimo, ha detto? Già... mi consenta ancora una domanda o, se vuole, una modesta proposta. Siccome questo soggiorno, a quanto pare, non le conferisce, siccome, se non m'inganno, non si sente fisicamente e neanche spiritualmente a suo agio qui fra noi... che ne direbbe di rinunciare a invecchiare qui, se insomma oggi stesso, questa notte facesse le valige e se ne andasse domani coi direttissimi secondo l'orario? Dice che dovrei partire? domandò Castorp. Se sono appena arrivato ! Ma no, come vuole che possa giudicare dopo il primo giorno? A queste parole lanciò per caso uno sguardo nella stanza attigua e vi scorse la signora Chauchat di fronte, gli occhi stretti e i larghi zigomi. Che cosa, pensò, che cosa e chi mai mi ricorda? Ma nonostante lo sforzo la sua testa affaticata non seppe rispondere. Naturalmente non mi riesce proprio facile assuefarmi quassú tra voi soggiunse era da prevedere, ma perdermi d'animo per questo, subito, e perché forse sarò qualche giorno un po' confuso e accaldato, via, mi dovrei vergognare, mi parrebbe di essere codardo, senza dire che sarebbe contro il buon senso... ci

pensi anche lei. A un tratto parlava con energia, agitando le spalle, e pareva volesse indurre l'italiano a ritirare espressamente la proposta. M'inchino al buon senso esclamò Settembrini. Ma m'inchino anche al coraggio. Le sue parole si possono accettare, e sarebbe difficile fare obiezioni plausibili. D'altronde ho avuto occasione di osservare casi veramente belli di assuefazione. C'era l'anno scorso una certa Kneifer, Ottilie Kneifer, una signorina di buona famiglia, figlia di un alto funzionario statale. Era qui da un anno e mezzo e si era adattata cosí bene che, quando fu perfettamente guarita (poiché anche questo avviene, qualche volta si guarisce quassú), non voleva andarsene a nessun costo. Pregò e scongiurò il direttore di poter rimanere ancora; non poteva, disse, e non aveva voglia di andare a casa, questa era casa sua, qui si sentiva felice; ma siccome c'era una notevole affluenza e la sua camera era necessaria, le sue preghiere furono vane e si insistette nel dimetterla perché guarita. Allora le venne un febbrone e lei fece salire alquanto la curva. Ma la smascherarono sostituendo al termometro usuale una "suora muta"... Lei non sa ancora che cosa sia: è un termometro senza scala graduata, il medico la controlla accostandovi una tabella e segnando lui la curva. Ottilie, caro signore, aveva 36 e 9, era sfebbrata. Allora andò a fare il bagno nel lago... si era ai primi di maggio,i il lago non era proprio gelato, aveva per la precisione qualche grado sopra zero. Lei restò un bel po' nell'acqua per prendersi un accidente... con quale risultato? Era e rimase sana. Si accomiatò piangente e disperata, inconsolabile alle parole dei suoi genitori: "Che vengo a fare laggiú?" andava ripetendo. "Qui sono a casa mia!" Non so come sia andata a finire... Ma, ingegnere, lei non mi ascolta, mi pare. Se non m'inganno, fa fatica a reggersi in piedi. Tenente, eccole qua suo cugino! si rivolse a Joachim che stava avvicinandosi. Lo accompagni a letto ! Unisce il buon senso al coraggio, ma questa sera è un po' fiacco. No, no, ho inteso tutto assicurò Castorp. La "suora muta", ecco, è una colonna di mercurio senza alcuna indicazione. Vede che ho afferrato benissimo. Ma poi prese senz'altro l'ascensore insieme con Joachim e con alcuni altri pazienti; le riunioni erano terminate per quel giorno, tutti si separarono e andarono in logge e verande per la cura serale sulle sedie a sdraio. Castorp seguí il cugino nella sua camera. Il pavimento del corridoio con la guida di cocco ondeggiava mollemente sotto i suoi piedi, ma ciò non gli diede fastidio. Si sedette nella grande poltrona fiorata di Joachim - in camera sua ce n'era una uguale- e accese un "Maria Mancini . Sapeva di colla, di carbone e d'altro ancora, soltanto non di quello che avrebbe dovuto; ciò nonostante egli continuò a fumare, Mentre guardava Joachim che si preparava alla cura, indossava la giubba da casa simile a una casacca militare, s'infilava sopra a questa un vecchio cappotto e con la lampada del comodino e il

libro di esercizi russi usciva poi sul balcone dove attaccava la lampadina alla presa e, il termometro in bocca, si avvolgeva con stupefacente abilità in due grandi coperte di cammello, stese sulla sedia a sdraio. Con sincera ammirazione Castorp osservò l'agilità con cui procedeva: ripiegò anzitutto le coperte, l'una dopo l'altra, da sinistra per il lungo sopra di sé fin sotto le ascelle, poi dal basso sopra ai piedi e infine da destra in modo da formare un involto perfettamente pari e liscio, dal quale sporgevano soltanto la testa, le spalle e le braccia. Lo fai egregiamente lodò Castorp. E' questione di esercizio rispose Joachim tenendo, mentre parlava, il termometro coi denti. Imparerai anche tu. Domani ci dobbiamo procurare un paio di coperte per te. Le potrai sempre usare laggiú, e qui da noi sono indispensabili, tanto piú che non hai un sacco a pelo. Ma io di notte non mi corico sul balcone obiettò Castorp. Non lo farò, te lo dico subito. Mi sembrerebbe troppo bizzarro. Tutto ha un limite. E in qualche modo devo pur far notare che sono venuto soltanto per farvi una visita quassú. Resto qui ancora un po' a fumare un sigaro, come si conviene. Ha un sapore pessimo, ma so che è buono, e tanto mi deve bastare per oggi. Sono quasi le nove... purtroppo, è vero, non sono ancora neanche le nove. Ma alle nove e mezzo si può dire che sia quasi l'ora normale di andare a letto. Un brivido di freddo lo scosse... uno e poi parecchi in rapida successione. Castorp balzò in piedi e corse a guardare il termometro alla parete come se volesse coglierlo in flagrante. Nella camera c'erano nove gradi Réaumur. Toccò i tubi e li trovò morti e freddi. Borbottò qualche frase confusa: che pur essendo in agosto era una vergogna non dare il riscaldamento, che non conta il mese indicato dal calendario, bensí la temperatura, che in realtà faceva un freddo cane. Ma aveva il viso acceso. Si sedette, si alzò di nuovo, brontolando chiese il permesso di prendere la coperta del letto di Joachim e, seduto, se la stese sulle gambe. Cosí, rimase, avendo caldo e freddo, torturandosi con quel sigaro disgustoso. E lo prese un senso di grande miseria: gli pareva di non essersi sentito mai cosí male. E' una disperazione! mormorò. All improvviso però fu colto da un sentimento stranamente esagerato di gioia e di speranza, e quando l'ebbe provato, stette là soltanto ad aspettare che si ripetesse. Non si ripeté invece; rimase solo la miseria. Si alzò, pertanto, ributtò sul letto la coperta di Joachim, mormorò con le labbra stirate un Buona notte e Bada di non gelare! e Mi vieni a prendere, domani, per la colazione? e barcollando passò dal corridoio nella propria camera. Mentre si spogliava, si mise a cantare a fior di labbra, ma non per allegrezza.

Macchinalmente e senza pensarci bene sbrigò le doverose faccenduole dell'uomo civile che si corica, versò dal flacone da viaggio un collutorio di color rosso chiaro in un bicchiere e si gargarizzò, si lavò le mani col suo ottimo e morbido sapone alla violetta e s'infilò la lunga camicia di batista con le cifre HC ricamate sul taschino. Poi si coricò e, spenta la luce, lasciò cadere la testa calda e balorda sul guanciale dove era morta l'americana. Con la piú sicura convinzione si era aspettato di sprofondare subito nel sonno, ma s'accorse di essersi ingannato, perché le palpebre che prima non era stato neanche capace di tenere aperte, ora non volevano assolutamente chiudersi, e non appena le abbassava, si aprivano con guizzi irrequieti. Si consolò pensando che non era andato a letto alla sua solita ora, e poi durante il giorno era stato forse troppo coricato. Fuori stavano anche battendo un tappeto... cosa poco verosimile ed effettivamente non vera; era invece il suo cuore del quale egli sentiva il palpito fuori di se stesso e lontano, all'aperto, proprio come se là fuori stessero pestando un tappeto con un battipanni di canna d'India intrecciata. La camera non era ancora interamente al buio; le lampadine sulle logge, di Joachim e dei coniugi della tavola dei "russi incolti", mandavano un bagliore dalla porta del balcone aperta. E mentre giaceva supino con le palpebre lappolanti, Castorp riebbe a un tratto un'impressione, isolata durante il giorno, un'osservazione che con sgomento e per delicatezza aveva cercato di dimenticare subito. Era l'espressione del viso di Joachim quando si era parlato di Marusja e delle sue qualità fisiche: quello stiramento caratteristico e doloroso delle labbra accompagnato da macchie di pallore sulle guance abbronzate. Castorp ne intuí e comprese il significato, lo intuí e comprese in un modo cosí nuovo, profondo e intimo che il battipanni là fuori raddoppiò sia la velocità sia la forza dei colpi e per poco non sopraffaceva le note della serenata a Platz: di nuovo infatti si dava un concerto nell'albergo di laggiú; la melodia simmetrica e scipita di un'operetta giungeva attraverso le tenebre e Castorp l'accompagnò fischiando sommessamente (si può infatti fischiare bisbigliando), mentre segnava il ritmo coi piedi freddi sotto il piumino. Era naturalmente il modo migliore per non addormentarsi; e ora egli non ne aveva neanche voglia. Da quando in modo cosí vivo e nuovo aveva compreso perché Joachim era impallidito il mondo gli parve nuovo, e quel senso di gioia esagerata e di speranza lo colse ancora nell'intimo. Ma quando udí che i vicini a destra e a sinistra, terminata la cura, si ritiravano nella loro camera per scambiare la posizione orizzontale esterna con quella interna, formulò fra sé la convinzione che i coniugi barbari sarebbero stati quieti. Posso addormentarmi tranquillamente, pensò. Questa sera staranno quieti, me lo riprometto con certezza. Ma quelli non diedero retta: d'altronde egli non l'aveva pensato sul serio, anzi a dire il vero non li avrebbe neanche compresi da parte sua se fossero stati tranquilli. Ciò nonostante dette in mute esclamazioni del piú vivo stupore a quello che udiva.

Inaudito! esclamò senza voce. Un'enormità! Chi avrebbe creduto possibile un fatto simile? E ogni tanto partecipava, sussurrando fra i denti, alla insulsa melodia d'operetta che gli giungeva ostinatamente alle orecchie. Piú tardi arrivò il sonno. Ma con esso vennero le arruffate visioni del sogno, ancora piú arruffate che la prima notte, dalle quali piú volte si riscosse con spavento o inseguendo un pensiero ingarbugliato. Sognò di vedere il consigliere aulico Behrens che con le gambe storte e le braccia penzoloni passeggiava per i viottoli del giardino adattando il passo lungo e quasi monotono al suono di una marcia lontana. Mentre si fermava davanti a Castorp, portava gli occhiali con lenti spesse e rotonde e farneticava dicendo cose assurde. Borghese, naturalmente diceva e senza chiedere permesso abbassava con l'indice e il medio della sua manona una palpebra di Castorp. Borghese rispettabile, l'avevo notato subito. Ma non privo d'ingegno, no, non privo d'ingegno per la superiore combustione generale. Non lesinerebbe gli annetti, gli annetti di servizio quassú con noi! Be', e ora oplà, signori, e avanti con la passeggiata! Cosí esclamava e, cacciatisi in bocca i due enormi indici, si metteva a fischiare in maniera cosí caratteristica e melodiosa che da diverse direzioni la maestra e miss Robinson rimpicciolite arrivavano in volo e si sedevano sulle sue spalle a destra e a sinistra come, nella sala da pranzo, stavano a destra e a sinistra di Castorp. Cosí il consigliere se ne andava a passi saltellanti, mentre si passava il tovagliolo dietro le lenti per forbirsi gli occhi... e non si capiva che cosa ci fosse da asciugare, se sudore o lacrime. Parve poi al sognante di trovarsi nel cortile della scuola dove per tanti anni aveva passato gli intervalli fra un'ora e l'altra, e di essere sul punto di farsi prestare una matita da madame Chauchat che pure era presente. Questa gli dava la matita rossa, ridotta a metà, infilata in un astuccio d'argento, raccomandandogli con voce amabilmente roca di restituirglielo assolutamente dopo la lezione, e mentre lo guardava, con gli occhi stretti e azzurro-grigio-verdi sopra i larghi zigomi, egli si liberò dal sogno con uno strappo violento, perché aveva trovato e voleva ficcarsi in mente chi e che cosa essa gli ricordava con tanta vivezza. In fretta mise l'intuizione al sicuro per l'indomani, poiché capiva che il sonno e il sogno s'impadronivano ancora di lui, e ben presto si trovò in condizioni di dover cercare scampo dal dottor Krokowski che lo inseguiva per fargli l'analisi della psiche, di cui Castorp aveva una paura folle, veramente insensata. Sfuggiva al dottore coi piedi impacciati lungo le pareti di vetro attraverso gli scomparti del balcone, saltava a rischio della vita giú nel giardino, nell'angoscia tentava persino di arrampicarsi sull'asta marrone della bandiera e nel momento in cui l'inseguitore lo afferrava per i calzoni si svegliò tutto sudato. Ma non appena si fu alquanto calmato e si riaddormentò, i fatti si svolsero per lui nel modo seguente. Egli si sforzava di respingere a spallate Settembrini che stava sorridendo, secco e beffardo, sotto i folti baffi neri, nel punto in cui si arrotondavano rivolti all'insú... e proprio da quel sorriso Castorp si sentiva danneggiato. Lei dà fastidio qui! diceva. Vada via! Lei non è che un sonatore d'organetto, e qui dà fastidio. Ma Settembrini non si lasciava smuovere dal suo posto e Castorp stava ancora riflettendo sul da farsi, allorché inaspettatamente gli si affacciava la sinistra intùizione di che cosa fosse il tempo:

nient'altro, cioè, che una "suora muta", una colonna di mercurio senza numeri, per chi voleva barare... e si svegliò col preciso proponimento dì comunicare l'indomani questa trovata a suo cugino Joachim. La notte passò tra simili avventure e scoperte, e vi avevano una parte confusa anche Hermine Kleefeld, nonché il signor Albin e il capitano Miklosich che rapiva coi denti la signora Stohr ed era trafitto con una lancia dal l'avvocato Paravant. Ma quella notte Castorp fece un sogno addirittura due volte e tutte e due le volte nella stessa identica maniera... la seconda volta verso il mattino. Era seduto nella sala dalle sette tavole, allorché la porta vetrata si chiudeva con immenso fracasso e madame Chauchat entrava, in sweater bianco, una mano in tasca, l'altra sulla nuca. Ma invece di andare verso la tavola dei "russi ammodo", la maleducata si dirigeva senza far rumore verso Hans Castorp e in silenzio gli porgeva la mano da baciare... ma non gli porgeva il dorso della mano, bensí la palma, e Castorp baciava quella mano tutt'altro che raffinata, un po' larga, con le dita corte e la pelle irruvidita ai lati delle unghie. In quella lo prendeva di nuovo, da capo a piedi, quel sentimento di smodata dolcezza che lo aveva colto quando per prova si era sentito libero dal peso dell'onore e aveva assaporato gli immensi vantaggi della vergogna... Questo provava ora nel sogno, ma con intensità infinitamente maggiore. Capitolo quarto... Un acquisto necessario. La vostra estate è terminata? domandò Hans Castorp il terzo giorno a suo cugino in tono ironico... C'era un brusco e pauroso abbassamento di temperatura. Il secondo giorno che l'ospite aveva passato interamente lassú era stato estivo, magnifico. Il cielo splendeva intensamente azzurro sopra i nuovi getti a lancia in cima agli abeti, mentre la località nel fondovalle brillava di luce vivida al calore, e lo scampanio delle mucche, libere in giro e intente a brucare dai pendii l'erba breve e scaldata dal sole, empiva l'aria d'un placido incanto. Già alla prima colazione le signore erano comparse in leggera camicetta di cotone, alcune persino con maniche traforate che non a tutte stavano ugualmente bene... La signora Stohr, per esempio, non vi faceva una bella figura, aveva le braccia troppo flaccide, gli abiti vaporosi non erano fatti per lei. Anche gli uomini del sanatorio si erano vestiti in vari modi tenendo conto della bella giornata. Si erano viste giacche di alpaca e abiti di tela, e Joachim Ziemssen aveva indossato calzoni di flanella color avorio con giacca blu, combinazione che conferiva alla sua persona una impronta decisamente militare. Settembrini aveva poi espresso piú volte il proposito di mutarsi d'abito. Diavolo! aveva esclamato dopo colazione, mentre passeggiando coi due cugini scendeva al villaggio. Come scotta questo sole! Vedo che dovrò indossare un abito piú leggero. Ma benché si fosse espresso con ricercatezza, aveva tenuto la lunga giubba di lana con larghi risvolti e i calzoni a quadretti... probabilmente era tutto il suo vestiario. Il terzo giorno invece parve proprio che la natura fosse franata e ogni ordine sconvolto; Castorp non credeva ai suoi occhi.

Dopo il pasto principale tutti erano sdraiati da una ventina di minuti per la cura allorché il sole scomparve frettoloso, una brutta nuvolaglia color torba si levò sopra le creste a sud-est e un vento, una corrente d'aria sconosciuta, fredda e penetrante nelle ossa, come se venisse da ignote gelide regioni, spazzò all'improvviso la valle, sovvertí la temperatura e introdusse un nuovo regime. Neve si udí la voce di Joachim dietro il tramezzo di vetro. Neve? che cosa intendi? domandò Castorp. Non mi verrai a dire che ora vuol nevicare! Certo replicò Joachim. Questo vento lo conosciamo. Quando arriva si può andare in slitta. Storie! brontolò Hans. Se non erro siamo ai primi di agosto. Ma Joachim, iniziato com'era, aveva detto il vero. Infatti dopo pochi istanti, fra ripetute folate, si scatenò una violenta nevicata,... una tormenta talmente fitta che tutto parve avvolto in un bianco vapore e del villaggio e della valle non si vide quasi piú nulla. Nevicò tutto il pomeriggio. Si accesero i caloriferi e, mentre Joachim ricorreva al sacco a pelo senza scomporsi, fedele al servizio, Castorp si ritirò nella camera, accostò una sedia ai tubi caldi e cosí, scotendo piú volte la testa, stette a guardare quel finimondo là fuori. La mattina seguente non nevicava piú; ma, benché il termometro esterno segnasse alcuni gradi sopra zero, la neve era alta un piede, sicché davanti agli occhi stupefatti di Castorp si stendeva un paesaggio perfettamente invernale. I caloriferi erano di nuovo spenti. La temperatura interna era di sei gradi sopra zero. La vostra estate è terminata? domandò Hans Castorp a suo cugino con amara ironia... Non si puo dire rispose Joachim obiettivamente. Se Dio vuole, avremo ancora belle giornate estive. Ci possono essere benissimo anche in settembre. Fatto è però, che qui le stagioni non sono molto diverse l'una dall'altra, si mescolano per cosí dire e non si attengono al calendario. D'inverno il sole è talvolta cosí forte che si suda e andando a passeggio ci si toglie la giacca, e d'estate... be', tu vedi che cosa capita qualche volta. La neve poi... mette tutto sottosopra. Nevica in gennaio, ma non molto meno in maggio, e anche d'agosto nevica, come vedi. In complesso si può dire che non c'è mese senza neve; un assioma che non bisogna dimenticare. Insomma, ci sono giorni d'inverno e giorni d'estate, giorni di primavera e di autunno, ma vere e proprie stagioni, a rigore, non Ci sono quassù. Bella confusione commentò Castorp. In soprascarpe e cappotto invernale scese con suo cugino nel villaggio ad acquistare coperte per la cura a sdraio, poiché era evidente che con quel tempo la sua coperta da viaggio non gli poteva bastare. Lí per lí considerò persino se non fosse il caso di provvedersi di un sacco a pelo, ma poi rinunciò, anzi arretrò Spaventato di fronte a questa idea.

No, no esclamò. Limitiamoci alle coperte! Laggiú troverò modo di usarle, coperte si hanno dappertutto, non sono niente di straordinario e di inquietante. Ma il sacco a pelo è troppo singolare... capisci? Se me lo procurassi, mi parrebbe di voler stabilire qui la mia dimora e di essere, dirò cosí, uno dei vostri... Voglio dire, insomma, che proprio non metterebbe conto di acquistare un sacco a pelo per queste poche settimane. Joachim approvò e in un negozio elegante e ben fornito, nel quartiere inglese, acquistarono due coperte di cammello come quelle di Joachim, un articolo particolarmente lungo e largo, morbido e delizioso, in colore naturale, e diedero disposizione che venisse portato subito in sanatorio, nel Sanatorio Internazionale Berghof, camera n. 34. Castorp desiderava rinnovarle quel pomeriggio stesso. Era ovviamente l'ora dopo la seconda colazione, il regolamento della giornata non offriva altre occasioni di scendere nel villaggio. Ora pioveva e la neve per le strade si era mutata in una poltiglia di ghiaccio. Sulla via del ritorno raggiunsero Settembrini che sotto un ombrello, ancorché a capo scoperto, era avviato anche lui al sanatorio. L'italiano era giallo in viso e si vedeva che era di umore elegiaco. Con parole appropriate e rotonde si lamentò del freddo, dell'umido che tanto lo faceva soffrire. Avessero almeno scaldato le stanze! Ma quei despoti miserabili spegnevano i caloriferi appena cessava di nevicare... consuetudine idiota, oltraggio al buon senso! E come Castorp obiettò che la temperatura moderata nelle camere poteva far parte delle norme curative, in quanto si voleva evidentemente preservare i pazienti da dannose assuefazioni, Settembrini ribatté con feroce sarcasmo. Già, ecco, le norme curative ! Il metodo di cura augusto e intangibile! Castorp ne parlava col tono giusto, cioè con religiosità e sottomissione. Sorprendente però - sia pure in senso gradevole - che godessero una venerazione cosí assoluta proprio quelle norme che concordavano perfettamente con gli interessi economici dei potenti... mentre davanti alle altre, diverse, si era disposti a chiudere un occhio... E mentre i due cugini ridevano, Settembrini venne a parlare di suo padre, a proposito del calore che andava sempre cercando. Mio padre disse esaltandosi e stirando le vocali era un raffinato... sensibile nel corpo come nell'anima! Come amava d'inverno il suo studiolo caldo, di cuore lo amava, vi dovevano essere sempre venti gradi Réaumur, in virtú di una stufetta arroventata, e nelle giornate di freddo umido o quando soffiava la tramontana tagliente, chi entrava dal vestibolo della casetta sentiva il tepore posarglisi sulle spalle come un leggero mantello, e gli occhi gli si empivano di dolci lacrime. La stanzetta era piena zeppa di libri e manoscritti, fra i quali c'erano pezzi assai preziosi, e in mezzo a quei tesori dello spirito, in veste da camera di flanella turchina, egli stava in piedi davanti al piccolo leggio e si dedicava alla letteratura... grazioso e minuto della persona, una testa piú piccolo di me, figuratevi! ma con un gran ciuffo di capelli grigi alle tempie e un naso cosí lungo e fine... Che romanista, cari signori! Uno dei primi del suo tempo, conoscitore della nostra lingua come pochi, stilista latino come nessun altro, "uomo letterato" secondo l'idea del Boccaccio...

Da lontano venivano i dotti a consultarsi con lui, uno da Haparanda, un altro da Cracovia, venivano apposta a Padova, nella nostra città, per ossequiarlo ed egli li riceveva con cortese sussiego. Era anche uno scrittore distinto, che nelle ore d'ozio scriveva racconti in elegantissima prosa toscana... un maestro dell"'idioma gentile" disse Settembrini con immenso godimento, assaporando lentamente le sillabe patrie e dondolando la testa. Coltivava il suo orticello sull'esempio di Virgilio continuò e tutto quanto diceva era sano e bello. Ma calda, calda doveva essere la sua stanzetta, altrimenti tremava ed era capace di piangere dalla stizza se lo si lasciava al freddo. E ora si figuri lei, ingegnere, e lei, tenente, come devo soffrire io, figlio di mio padre, in questo luogo barbaro e maledetto, dove in piena estate il corpo trema dal freddo e l'anima è continuamente torturata da impressioni umilianti! Ah, è dura. Con questi bei tomi che abbiamo intorno. Quel matto infernale d'un consigliere aulico, Krokowski e Settembrini fece come se gli si spaccasse la lingua Krokowski, quel confessore impudente che mi odia perché la mia dignità virile mi vieta di prestarmi alle sue mene pretesche. Che compagnia! e con questa mi tocca sedermi a tavola. Alla mia destra ho un birraio di Halle (Magnus si chiama) con certi baffi che assomigliano a un mannello di fieno. "Non mi perseguiti con la sua letteratura!" mi dice. "Che cosa offre? Bei caratteri. Che me ne faccio dei bei Caratteri? Io sono un uomo pratico, e bei caratteri è difficile incontrarli nella vita." Questa è l'idea che si è fatta della letteratura... Bei caratteri... Madonna santa! Sua moglie è seduta dirimpetto a lui e ha perdite di albumina, mentre affonda sempre piú nell'idiozia. Porca miseria... Senza essersi intesi fra di loro, Joachim e Hans erano dello stesso parere intorno a quei discorsi: li consideravano piagnucolosi e sgradevolmente sediziosi, certo però anche divertenti, anzi istruttivi nella loro audace e incisiva protervia. Castorp rise bonariamente per il "mannello di fieno" e anche per i "bei caratteri", o meglio per il modo buffo e disperato in cui Settembrini ne aveva parlato. Poi disse: Dio mio, si sa, la compagnia è un tantino mista in ambienti come questo. Non è possibile scegliersi i commensali... e poi dove si andrebbe a finire? Alla nostra tavola c'è un tipo cosí... una signora Stohr... immagino che lei la conosca. Ignorante da far paura, bisogna dire, e qualche volta non si sa davvero dove guardare, quando blatera alla sua maniera. E si lagna dei suoi gradi di febbre e di essere cosí fiacca, e purtroppo dev'essere un caso non lieve. E' strano: malata e stupida, non so se mi spiego, ma a me sembra molto singolare che uno sia stupido e malato per giunta, due cose che messe insieme danno, credo, la somma piú triste di questa terra. Non si sa proprio che viso fare, perché a un malato si vorrebbe portare rispetto e serietà, vero? la malattia è, direi, qualcosa di venerando, se è lecito usare questo termine.

Ma quando interviene continuamente la stupidità con "l'esistente" e con "l'istituto cosmico" e simili spropositi, non si sa veramente se piangere o ridere, il sentimento umano si trova in un dilemma, cosí penoso che non ho parole per definirlo. Sono due cose che non collimano, non vanno d'accordo, non si è avvezzi a immaginarle accoppiate. Uno stupido, penso, dev'essere sano e comune, mentre la malattia deve rendere l'uomo fine e saggio e insolito. Questo è di norma il concetto. Non è Cosí? Io dico forse piú di quanto non sia poi capace di sostenere conchiuse. E' soltanto perché il caso ci ha portati a parlarne... E rimase confuso. Anche Joachim era un po' imbarazzato, Settembrini con le sopracciglia sollevate taceva dandosi l'aria di aspettare per cortesia la fine del discorso. In realtà aspettava che Castorp perdesse del tutto il filo e poi rispose: Accidenti, ingegnere, lei rivela doti filosofiche che in lei non avrei sospettate ! Secondo la sua teoria, lei dovrebbe essere meno sano di quanto pretende, dato che evidentemente ha dello spirito. Mi permetta però di farle notare che non posso accettare le sue deduzioni, le respingo, anzi nutro per esse una vera ostilità. Io sono, come lei mi vede, un po' intollerante in materia spirituale e preferisco passare per pedante anziché rinunciare a combattere opinioni che mi sembrano vadano combattute come le sue... . Ma, signor Settembrini... Per-metta... So che cosa vuol dire. Lei vuol dire che non intendeva pigliarla tanto sul serio, che i concetti da lei sostenuti non sono senz'altro suoi, ma colti, per cosí dire, fra i concetti possibili che sono nell'aria per provarcisi una volta, senza assumerne la responsabilità. E' cosa conforme alla sua età che sarà ancora priva di risolutezza virile e per il momento andrà sperimentando concezioni diverse. Placet experiri. Ben detto. Rimango però perplesso soltanto davanti al fatto che il suo esperimento si svolge in questa direzione. Dubito che si tratti di un caso. Temo invece la presenza di un'inclinazione che minaccia di consolidarsi. Perciò mi sento in dovere di correggerla. Lei ha detto che malattia e stupidità sono la cosa piú triste di questa terra. Fin qui posso darle ragione. Anch'io preferisco un malato intelligente a un tisico imbecille. La mia protesta comincia quando lei scorge nella malattia unita alla stupidità quasi un errore di stile, un'aberrazione del gusto della natura e "un dilemma per il sentimento umano", per usare le sue parole, quando reputa la malattia cosí nobile e - come ha detto? - cosí "veneranda" che non "collima" - questa era la sua parola - con la stupidità. Ma no, no! La malattia non è affatto nobile, non è affatto veneranda. Questa concezione è a sua volta malattia o la via per arrivarci.

Perché le appaia detestabile mi converrà dirle che è una concezione antiquata e brutta. Risale a epoche di superstiziosa contrizione, quando l'idea umana era avvilita e degenerata in una smorfia, a tempi angosciati nei quali armonia e salute erano considerate sospette e diaboliche, mentre gli acciacchi erano come un lasciapassare per il paradiso. Ma la ragionevolezza e l'istruzione hanno messo in fuga queste ombre stagnanti. sull'anima dell'umanità... non del tutto, oggi ancora le stanno combattendo; e questa battaglia si chiama lavoro, signor mio, lavoro terreno, lavoro per questa terra, per l'onore e il bene dell'umanità e, temprate ogni giorno piú in tale battaglia, quelle forze finiscono col liberare completamente l'uomo e condurlo per le vie del progresso e della civiltà verso una luce sempre piú chiara, piú mite, piú pura. Caspita, pensò Castorp costernato e umiliato, che razza di musica! Con che cosa l'ho provocata? Mi pare tuttavia un po' arida. E cosa vuole con questo suo continuo lavoro? Sempre tira fuori il lavoro, per quanto qui c'entri ben poco. E disse: Benissimo, signor Settembrini. Mette conto di star ad ascoltare, tanto bene lo dice. Non si potrebbe, non so... non si potrebbe dirlo in modo piú plastico di cosí. a Tendenza a regredire riprese Settembrini sollevando l'ombrello per scansare la testa di un passante tendenza dello spirito a riprendere le concezioni di quei tempi tenebrosi, tormentati... Creda a me, ingegnere, è una malattia, un male sufficientemente studiato, al quale la scienza dà nomi diversi, l'uno tolto dal linguaggio dell'estetica e della psicologia, l'altro della politica... espressioni scolastiche, che non giovano, delle quali lei può fare tranquillamente a meno. Ma siccome nella vita dello spirito tutto è strettamente connesso e da una cosa nasce l'altra, siccome non si può porgere il mignolo al diavolo senza che questi si pigli tutta la mano e anche l'intera persona... siccome, d'altro canto, un principio sano non può che produrre cose sane, indifferente da quale si cominci - lei si metta bene in mente che la malattia, lungi dall'essere un che di nobile, di troppo venerando, perché le sia lecito unirsi passabilmente alla stupidità, è invece "umiliazione"... anzi un'umiliazione dell'uomo dolorosa, che ne offende il concetto, che nel caso particolare si può magari rispettare e curare, ma volerla onorare è un"'aberrazione" - se lo ficchi in testa! - un'aberrazione e il punto di partenza d'ogni aberrazione mentale. La signora che lei ha menzionato - rinuncio a ricordarne il nome già, la signora Stohr, grazie - insomma quella donna ridicola... non mi pare che il suo caso ponga il sentimento umano, come ha detto lei, di fronte a un dilemma. Malata e stupida: Dio buono, è la miseria in persona, il fatto è semplice, non rimane altro che la pietà e una scrollata di spalle. Il dilemma, caro signore, la "tragedia" comincia dove la natura fu crudele al punto da spezzare l'armonia della persona... o da renderla impossibile fin da principio, legando uno spirito nobile e desideroso di vivere a un corpo non idoneo alla vita. Conosce Leopardi, ingegnere, o lei, tenente? Un infelice poeta del mio paese, un uomo gobbo, malaticcio con un'anima originariamente grande, ma di continuo umiliata dalla miseria del corpo e trascinata nelle bassure dell'ironia, un'anima i cui lamenti straziano il cuore.

Ascoltino questo! E si mise a recitare, in italiano, le belle sillabe che gli si scioglievano in bocca, e intanto dondolava la testa e chiudeva gli occhi, senza curarsi che i suoi interlocutori non capissero una parola. A lui importava evidentemente di godersi la propria memoria e la pronuncia e di imporle agli ascoltatori. Infine disse: Ma loro non capiscono, sentono senza afferrare il significato doloroso. Il deforme Leopardi, signori, se ne rendano conto! fu privo dell'amore delle donne, e ciò soprattutto deve averlo reso incapace di impedire che l'anima gli si intristisse. Vide impallidire la luce della gloria e della virtú, la natura gli parve maligna... d'altro canto maligna è, stupida e cattiva - qui gli do ragione e disperò (spaventoso a dirsi), disperò della scienza e del progresso! Ecco la tragedia, ingegnere! Qui è il "dilemma del sentimento umano", non in quella donna là - mi rifiuto di affaticare la memoria per ritrovarne il nome... Non mi venga a parlare della "spiritualizzazione" che la malattia può produrre ! per carità, non me ne parli ! Un'anima senza corpo è altrettanto disumana e orrenda come un corpo senz'anima, e d'altronde la prima è una rara eccezione, la seconda la norma. Di norma è il corpo a preponderare, ad arraffare tutta l'importanza, la vita intera, e ad emanciparsi nel modo piú sgradevole. L'uomo che vive malato è "soltanto" corpo, questo è la cosa disumana e umiliante... nella maggior parte dei casi non è niente di meglio d'un cadavere... E' strano osservò a un tratto Joachim sporgendosi per guardare suo cugino che camminava all'altro fianco di Settembrini. Anche tu hai detto ultimamente qualcosa di simile. Davvero? si stupí Castorp. Ma sí, può darsi che qualcosa del genere mi sia passato per la mente. Settembrini fece alcuni passi senza parlare. Poi disse: Tanto meglio, signori. Se è cosí, tanto meglio. Non avevo intenzione di esporre loro qualche filosofia originale... non è compito mio. Ma se il nostro ingegnere ha notato anche lui qualcosa di concordante, ciò viene a confermare la mia supposizione che egli sia un dilettante del pensiero, che alla maniera dei giovani intelligenti sta per ora sperimentando le varie opinioni possibili. Il giovane intelligente non è un foglio in bianco, è piuttosto un foglio sul quale sta già scritto tutto, come dire con inchiostro simpatico, il buono e il cattivo ed è compito dell'educatore sviluppare decisamente il giusto e cancellare per sempre con azioni opportune il falso che vuol farsi avanti. I signori hanno fatto acquisti? domandò con tono mutato, leggero... Oh, niente rispose Castorp cioè... Abbiamo comperato un paio di coperte per mio cugino intervenne Joachim con indifferenza. Per la cura a sdraio... con questo freddo birbone... Queste poche settimane devo fare anch'io come gli altri soggiunse Castorp ridendo e abbassando lo sguardo. Ah, coperte, la cura disse Settembrini. Già, già, già. Ecco, ecco: placet experiri ripeté, e si accomiatò, perché, salutati dal portiere claudicante, erano entrati nel sanatorio, e dall'atrio Settembrini deviò verso le stanze di ritrovo, per leggere i giornali prima di andare a tavola, disse.

Voleva certo marinare la seconda cura della giornata. Dio ci salvi! esclamò Castorp quando fu con Joachim nell'ascensore. E' un vero pedagogo... l'ha detto lui stesso, che ne ha un po' la vena. Bisogna star bene in guardia con quello là, e non dire una parola di troppo, altrimenti fioccano lezioni. Ma merita ascoltare come parla, le parole gli escono cosí rotonde e ghiotte dalle labbra... quando lo ascolto penso sempre a panini croccanti. Joachim rise. Non glielo dire però. Immagino che rimarrebbe deluso sapendo che le sue lezioni ti fanno pensare ai panini. Credi? Non è neanche sicuro. Ho sempre l'impressione che non gli importino unicamente le lezioni, queste forse soltanto in secondo luogo, ma soprattutto il parlare, il modo di rotolare le parole... cosí elastiche, come palle di gomma... e non gli dispiaccia affatto che vi si presti particolare attenzione. Il birraio Magnus sarà un po' sciocco coi suoi "bei caratteri", ma Settembrini avrebbe dovuto dire quale sia il compito della letteratura. Io non ho voluto domandare per non compromettermi, d'altra parte non me n'intendo piú che tanto e finora non avevo mai visto un letterato. Ma se non contano i bei caratteri, contano certo le belle parole, questa è l'impressione che mi fanno i discorsi di Settembrini. E che vocaboli tira fuori! Senza riguardi parla di virtù... Fammi il piacere! In tutta la mia vita mi sono guardato dal pronunciare questa parola, e persino a scuola dicevamo sempre "valore" quando il libro diceva "virtus". Ho avuto, devo dire, come una contrazione interna. E poi m'innervosisce sentirlo imprecare contro il freddo e contro Behrens, contro la signora Magnus perché perde albumina, insomma contro tutto. E' un uomo dell'opposizione, ho capito subito. Picchia su tutte le istituzioni esistenti, e questo mi ha, devo dire, un'aria di trascuraggine. Tu dici cosí rilevò Joachim sopra pensiero. Eppure c'è per contro anche un tono orgoglioso che non dà un'impressione di trascuratezza, tutt'altro: quello è un uomo che ha stima di sé o degli uomini in genere, e questo mi piace in lui, per me è un lato che lo distingue. Qui dici bene disse Castorp. Ha persino un certo rigore... qualche volta si sta a disagio perché ci si sente - diciamo - sotto controllo: sí, la parola non viene a sproposito. Lo crederesti? M è parso di sentire che non fosse d'accordo col mio acquisto delle coperte per la sedia a sdraio, che avesse qualcosa da ridire e ci stesse pensando. No ribatté Joachim perplesso. Non è possibile. Non me lo posso figurare. E poi, termometro in bocca, andò con tutto l'occorrente a sdraiarsi, mentre Castorp si metteva subito a ripulirsi e a cambiarsi d'abito per il pasto di mezzogiorno... per il quale d'altronde mancava soltanto un'oretta.

Digressione sul senso del tempo. Dopo la colazione, quando risalirono, il pacco delle coperte era nella camera di Castorp sopra una sedia, e quel giorno egli se ne serví per la prima volta: Joachim, ormai pratico, lo istruí nell'arte di affardellarsi, come facevano tutti lassú e come ogni novellino doveva imparare per prima cosa. Si stendevano le coperte, prima l'una, poi l'altra, sul piano della sedia a sdraio, di modo che ai piedi un buon tratto scendesse sul pavimento. Poi ci si coricava e si cominciava a ripiegare la interna intorno a sé; anzitutto per il lungo fin sotto l'ascella, poi dal basso sopra i piedi, e per farlo si doveva curvarsi seduti e tirare a due mani la parte ripiegata; poi dall'altra parte, e qui occorreva badare che il lembo sui piedi combaciasse col margine longitudinale, se si voleva ottenere la massima regolarità e simmetria. Poi si procedeva nello stesso modo con la coperta esterna: la manovra era un po' piú diffiicile, e Castorp, principiante maldestro, sospirò un poco mentre, curvandosi e ridistendendosi, imparava le mosse che gli venivano insegnate. Soltanto pochi veterani, gli spiegò Joachim, erano capaci di avvolgersi con tre mosse sicure, nelle due coperte contemporaneamente, ma quella era un'abilità rara e invidiata, per la quale ci volevano non soltanto anni di esercizi, ma anche un'attitudine innata. A questa parola Castorp scoppiò a ridere, mentre con la schiena dolorante si abbandonava sulla sedia; e Joachim che lí per lí non aveva compreso che cosa ci fosse di comico, lo guardò incerto finché rise anche lui. Ecco conchiuse quando suo cugino, disarticolato e cilindrico, il rotolo cedevole sotto la nuca, sfinito da quella ginnastica, apparve coricato sulla sedia se ci fossero anche venti gradi sotto zero, non piglieresti alcun malanno. Poi se n'andò dietro il tramezzo di vetro per affardellarsi a sua volta. Intorno a quella faccenda dei venti gradi Castorp aveva i suoi dubbi, aveva infatti un gran freddo ed era percorso ripetutamente da brividi, mentre attraverso gli archi di legno osservava là fuori l'umidore stillante e l'acquerugiola che da un momento all'altro pareva dovesse rifarsi neve. Strano d'altra parte che nonostante quell'umidità avesse ancora le guance aride e infiammate, come se si trovasse in una camera surriscaldata. Si sentiva anche visibilmente affaticato dagli esercizi con le coperte... e, guarda, Ocean steamships gli tremava fra le mani, appena se lo portava davanti agli occhi... Gravemente anemico, aveva detto Behrens, e questa doveva essere la causa perché era tanto soggetto al freddo. Le sensazioni sgradevoli erano però compensate dalla grande comodità della sua posizione, dalle qualità difficili da analizzare e quasi misteriose della sedia che Castorp già alla prima prova aveva avvertite e largamente approvate, e ora trovavano la piú felice conferma. Dipendesse dalla qualità dei cuscini, dalla giusta inclinazione dello schienale, dalla conveniente altezza e larghezza dei braccioli, o anche soltanto dall'opportuna consistenza del rotolo sotto la nuca, fatto è che per il benessere di membra a riposo non si poteva provvedere in modo piú umano che mediante quell'eccellente poltrona a sdraio.

In cuor suo Castorp era quindi ben contento di avere davanti a sé due ore vuote e certamente pacifiche, le ore del principale periodo di cura, consacrate dal regolamento, che egli, pur essendo soltanto ospite lassú, considerava un'istituzione a lui in tutto confacente. Era paziente per natura, poteva stare a lungo senza far nulla e, come sappiamo, amava il tempo libero che non è cacciato nell'oblio, divorato e messo in fuga da una attività travolgente. Alle quattro seguiva il tè con panettone e marmellata, poi un po' di moto all'aperto, indi altro riposo sulla sedia a sdraio, alle sette la cena che, come tutti i pasti, accendeva qualche curiosità e offriva qualche spettacolo, che poteva essere attesa con piacere, infine un'occhiata alle vedute stereoscopiche, al caleidoscopio, al tamburo cinematografico... Castorp aveva il corso della giornata sulla punta delle dita, anche se sarebbe dir troppo affermando che si era, come si dice, "acclimato". In fondo è una curiosa faccenda questo acclimarsi in un luogo nuovo, questo sia pure faticoso adattamento, questa assuefazione, alla quale uno si sottopone quasi per amore di essa e con la precisa intenzione di abbandonarla, appena sia terminata o almeno poco dopo, e di ritornare alle condizioni di prima. La si inserisce come interruzione o intermezzo nel corso principale della vita, e precisamente a scopo di 'ricreazione", vale a dire di un rinnovante, sconvolgente esercizio dell'organismo che era in pericolo e già sul punto di viziarsi, d'infiacchire, di intorpidirsi nella disarticolata monotonia della vita quotidiana. Ma da che dipende questo rilassamento, questo intorpidimento, quando da troppo tempo la norma non sia stata sospesa? Non tanto dalla stanchezza fisico-psichica e dal logorio a causa delle esigenze della vita (qui basterebbe il riposo come rimedio ricostituente); ma piuttosto da un fatto psichico, dall'esperienza del tempo, che nell'ininterrotta uniformità rischia di andar perduta, ed è cosí affine e legata al sentimento stesso della vita che l'una non può affievolirsi senza che anche l'altro non sia miseramente pregiudicato. Intorno alla natura della noia circolano varie opinioni errate. In complesso si crede che il fatto di essere interessante e la novità del contenuto "facciano passare", cioè accorcino il tempo, mentre il vuoto e la monotonia ne rallentino e ostacolino il corso. Ciò non è punto esatto. Può darsi che la monotonia e il vuoto allunghino e rendano "noiosi" il momento e l'ora, ma i grandi e grandissimi periodi di tempo li accorciano e volatilizzano addirittura fino all'annullamento. Viceversa un contenuto ricco e interessante può certo abbreviare e sveltire l'ora e magari anche il giorno, ma portato a misure piú vaste conferisce al corso del tempo ampiezza, peso, solidità, di modo che gli anni pieni di avvenimenti passano piú adagio di quelli poveri, vuoti, leggeri che il vento sospinge e fa dileguare. A rigore, dunque, quella che chiamiamo noia è piuttosto un morboso accorciamento del tempo in seguito a monotonia: lunghi periodi di tempo, se non si interrompe l'uniformità, si restringono in modo da far paura; se un giorno è come tutti, tutti sono come uno solo; e nell'uniformità perfetta la piú lunga vita sarebbe vissuta come fosse brevissima e svanirebbe all'improvviso. Assuefarsi significa lasciar addormentare o almeno sbiadire il senso del tempo; e se gli annì giovanili sono vissuti lentamente e la vita successiva invece si svolge e corre sempre piú veloce, anche questo è da attribuire all'assuefazione.

Noi sappiamo benissimo che intercalando assuefazioninuove e diverse adottiamo l'unico rimedio che serva a trattenere la vita, a rinfrescare il nostro senso del tempo, e cosí il nostro sentimento del vivere si rinnova. Questo è lo scopo di chi cambia aria e luogo, di chi va ai bagni, di chi si ricrea con diversivi ed episodi. I primi giorni di un nuovo soggiorno hanno un andamento giovanile, cioè ampio ed energico... vanno da sei a otto. Poi, via via che uno "si acclima", nota che man mano si accorciano; chi è attaccato o, meglio, si vorrebbe attaccare alla vita, avvertirà con orrore come i giorni ridiventino leggeri e si mettano a scivolar via; e l'ultima settimana, poniamo di un mese, vola con rapidità paurosa. Vero è che il senso del tempo cosí rinfrescato perdura al di là dell'intervallo, e quando si ritorna alla norma si fa sentire ancora: i primi giorni dopo il mutamento sono vissuti con nuova larghezza giovanile, ma soltanto pochi pochi; nella norma infatti ci si inserisce molto piú presto che nella sua interruzione, e il senso del tempo dove è già stanco a causa dell'età o - indizio di originaria debolezza vitale - non era mai molto sviluppato, si riaddormenta molto rapidamente, e dopo sole ventiquattr'ore è coIrle se non si fosse mai partiti e il viaggio fosse stato il sogno di una notte. Queste osservazioni sono inserite qui soltanto perché il giovane Hans Castorp aveva in mente qualcosa di simile quando, dopo qualche giorno, disse a suo cugino (guardandolo con gli occhi arrossati): E' proprio strano come il tempo in una località nuova sia lungo da principio. Cioè... Ovviamente non intendo dire che mi annoio, anzi posso affermare che mi diverto un mondo. Ma se mi volto, ossia allo sguardo retrospettivo, capisci? mi sembra di essere quassú chi sa da quanto, e risalendo al mio arrivo, quando non avevo capito che ero arrivato e tu dicesti: "Scendi pure!" (ricordi,), mi pare un'eternità. Ciò non ha assolutamente nulla a che vedere con la misurazione o, in genere, col ragionamento, è una cosa che si sente. Certo sarebbe sciocco dire: "Credo di essere qui già da due mesi", sarebbe assurdo. Posso dire soltanto: "Da molto tempo". Già replicò Joachim, col termometro in bocca. Ne ho un vantaggio anch'io, da quando sei qui, posso, dirò cosí, tenermi stretto a te. E Castorp rise che Joachim lo dicesse cosí semplicemente, senza spiegazioni.

Un tentativo di conversazione francese. No, acclimato non si era affatto, né per la conoscenza di quella vita in tutta la sua particolarità: conoscenza che non poteva acquisire in cosí pochi giorni e, come pensò (e anche disse a Joachim) non avrebbe purtroppo potuto acquistare nemmeno in tre settimane; né per l'adattamento del suo organismo alle condizioni atmosferiche cosí singolari fra "costoro quassú", perché l'adattamento gli fu penoso, assai penoso, anzi (questa era la sua impressione) non gli riusciva del tutto.

La giornata normale era chiaramente suddivisa e organizzata con cura, chi s'inseriva nel meccanismo s'impratichiva rapido e spedito. Ma nel giro della settimana o di unità di tempo maggiori sottostava a certe regolari varianti che si affacciavano a mano a mano, l'una per la prima volta, l'altra ripetutamente; e anche in quanto alla quotidiana comparsa di facce e cose, Castorp aveva ancora da imparare a ogni piè sospinto, da osservare con maggiore attenzione cose soltanto sfiorate e da assorbire cose nuove con sensibilità giovanile. Quei recipienti panciuti dal collo corto, per esempio, che stavano nei corridoi davanti a qualche porta e che fin dalla sera del suo arrivo gli avevano dato nell'occhio, contenevano ossigeno; Joachim, interrogato, gliene diede la spiegazione. Era ossigeno puro, a sei franchi la bombola, e il gas vivificante era fornito ai moribondi per dare un'ultima spinta alle loro forze e farle durare: essi lo aspiravano da tubi di gomma. Le camere, davanti alle quali c'erano quelle bombole, ospitavano moribundi, come disse un giorno Behrens incontrando Castorp al primo piano... il professore in camice bianco e con le guance blu era arrivato remigando per il corridoio e insieme avevano salito la scala. Be', che fa qui lei, spettatore neutrale? disse Behrens. Troviamo grazia ai suoi sguardi indagatori? Grande onore, grande onore per noi. Ecco, la nostra stagione estiva non è da buttar via, è di illustri natali. Ci ho anche speso qualche spicciolo per lanciarla un po. Ma è un peccato che lei non voglia passar qui con noi l'inverno... Solo otto settimane, ho sentito, vuol restare? Come? tre? Una visitina dunque, non mette conto di togliersi il soprabito. Be', come vuole. Ma è pur un peccato che non rimanga un inverno, perché quella che dicono la otevolé disse scherzando e storpiando la pronuncia la haute volée internazionale laggiú a Platz, che vuole? viene soltanto d'inverno, e la dovrebbe vedere, non foss'altro per la sua cultura. Da sganasciarsi quando fanno quei salti con le assicelle sotto i piedi! E le donne, gesummarìa, le donne! Di tutti i colori come uccelli del paradiso, le dico io, e di una galanteria... Ma ora devo andare dal mio moribundus aggiunse qui al ventisette. Sa, ultimo stadio. Esce per la comune. Cinque dozzine di fiaschi d'ossigeno s'è scolato fra ieri e oggi, il crapulone. Ma prima di mezzogiorno se ne va ad penates. Be, caro Reuter disse entrando che ne direste se rompessimo il collo a un'altra... Le sue parole si perdettero dietro la porta che egli si chiuse alle spalle. Ma Castorp aveva visto un istante, in fondo alla camera, sul guanciale il cereo profilo di un giovane con la barbetta rada che aveva girato lentamente i grandi occhi verso la porta. Era il primo moribondo che vedeva in vita sua, perché tanto i suoi genitori quanto il nonno erano morti a suo tempo, come dire, dietro alle sue spalle.

Come era apparsa dignitosa sul guanciale la testa del giovane con la barbetta sollevata! Com'era stato significativo lo sguardo degli occhi troppo grandi, quando li aveva girati verso la porta! Castorp, ancora preso da quella vista fugace, si provò istintivamente a imitahre gli occhi grandi, significativi e lenti come quelli del moribondo, mentre proseguiva verso la scala, e con quegli occhi guardò una signora che, uscita da una porta dietro a lui, lo sorpassava in capo alla scala. Non notò subito che era madame Chauchar. Essa sorrise agli occhi di lui, si aggiustò la treccia sulla nuca e scese la scala davanti a lui, senza far rumore, flessuosa, e sporgendo un po' la testa. In quei primi giorni non conobbe quasi nessuno, e nemmeno piú tardi, per un buon pezzo. La suddivisione della giornata non offriva buone occasioni, Castorp d'altronde era di carattere riservato, si sentiva ospite e spettatore neutrale lassú, come aveva detto il consigliere aulico, e in complesso si accontentava volentieri della compagnia e della conversazione di Joachim. Certo, l'infermiera sul corridoio tese il collo verso di loro finché Joachim, che già prima le aveva concesso qualche chiacchierata, le presentò suo cugino. Col nastro degli occhiali a stringinaso dietro l'orecchio, parlava in modo non solo lezioso, ma addirittura tormentato e a ben guardare sembrava che il suo cervello avesse sofferto sotto la tortura della noia. Era molto difficile staccarsi da lei, perché quando il colloquio si avviò alla conclusione diede segni di una paura morbosa e, appena i due giovani fecero l'atto di andarsene, si avvinghiò a loro con parole e sguardi frettolosi, e anche con un sorriso disperato, sicché essi per pietà si trattennero ancora. E lei parlò in lungo e in largo del suo babbo che era avvocato e di suo cugino che era medico... evidentemente per mettersi in buona luce e far intendere che veniva da un ceto colto. Il paziente a lei affidato, lí dietro quella porta, era figlio d'un fabbricante di bambole di Coburgo, Rotbein si chiamava, e recentemente il piccolo Fritz era stato intaccato all'intestino. Un colpo duro per tutti gli interessati, come i signori potevano ben comprendere; duro specialmente per chi proveniva da una famiglia di laureati e possedeva la sensibilità e finezza dei ceti superiori. E non era possibile voltare le spalle... Ultimamente, figuriamoci! ritornava da una breve uscita, era andata a comperare un po' di dentifricio, e ti trova il malato seduto sul letto davanti a un calice di birra scura, densa, a un salame, un pezzo di pane nero ordinario e un cetriolo! Ghiottonerie che i suoi gli avevano mandato perché stesse in forze. Naturalmente il giorno dopo era piú morto che vivo. Lui stesso affrettava la propria morte. Che però sarebbe stata una liberazione soltanto per lui, non già per lei - Schwester Berta si chiamava in realtà Alfreda Schildknecht -, perché a lei sarebbe toccato un altro paziente, in stadio piú o meno avanzato, lí o in un altro sanatorio, questa era la sua previsione, e non ce n'erano altre. Eh sí, disse Castorp, la sua professione era certo pesante, ma anche, si figurava, ricca di soddisfazioni. Certo, rispose lei, soddisfacente era... soddisfacente, ma molto pesante. Be', tanti auguri al signor Rotbein. E i cugini si avviarono.

Ma lei si appiccicò a loro con parole e occhiate ed era cosí doloroso vederla affannarsi per trattenere ancora un poco i due giovani che sarebbe stato crudele non concederle un altro respiro. Dorme disse. Non ha bisogno di me. Perciò sono uscita qualche momento nel corridoio... E cominciò a lagnarsi del consigliere Behrens e del tono che usava con lei, troppo disinvolto per la sua condizione sociale. Preferiva di gran lunga il dottor Krokowski... pieno di sentimento, lo definí! Poi ritornò al babbo e al cugino. Il suo cervello non aveva altro da offrire. Invano si dibatté per tenere ancora a bada i due cugini alzando con una rincorsa la voce e mettendosi quasi a gridare, quando furono in procinto di allontanarsi... ma essi finalmente riuscirono a sfuggirle. L'infermiera, sporgendo il busto, li seguí un tratto con gli occhi succhianti, quasi volesse riattirarli a sé con lo sguardo. Con un sospiro rientrò poi dal suo paziente. Del resto Castorp conobbe in quei giorni soltanto la signora pallida e nera, quella messicana che aveva vista nel giardino ed era chiamata " Tous-les-deux". Avvenne che anche lui udisse dalle sue labbra la triste frase che aveva dato origine al suo nomignolo; ma siccome era preparato, seppe darsi un contegno e poté poi dirsi soddisfatto di sé. I cugini la incontrarono davanti al portone d'ingresso dopo la prima colazione, mentre uscivano per la prescritta passeggiata mattutina. Camminava là avvolta in uno scialle di cachemire, con le ginocchia curve, a passi lunghi irrequieti, e sullo sfondo del velo nero che le copriva i capelli brizzolati ed era annodato sotto il mento luceva il suo pallido viso invecchiato con le grosse labbra sfiorite. Joachim, senza cappello come al solito, la salutò con un inchino e lei contraccambiò lentamente, mentre, nel guardare, le rughe orizzontali le si approfondivano sulla fronte stretta. Vedendo una faccia nuova si fermò e con un lieve cenno del capo attese che i giovani si avvicinassero; le pareva certo necessario sentire se il forestiero era informato della sua sventura e ascoltarne la reazione. Quando Joachim presentò suo cugino, lei porse all'ospite la mano di sotto alla mantiglia, una mano scarna, gial lognola, con le vene rilevate, ornata di anelli, e continuò a guardarlo con leggeri inchini. Poi arrivò al punto: Tous le dé, monsieur disse. Tous les dé, vous savez... Je le sais, madame rispose Castorp con voce smorzata. Et je le regrette beaucoup. Le borse flosce dei suoi occhi neri come giada erano grandi e pesanti come lui non ne aveva mai viste. Da lei veniva un profumo lieve, appassito. Ed egli si sentí pervaso da un senso di severa dolcezza. Merci disse lei con quella pronuncia stridente che mal s'intonava all'affranta persona, mentre un angolo della sua larga bocca le si era tragicamente abbassato. Poi ritirò la mano sotto la mantiglia, chinò la testa e riprese a camminare. Castorp proseguendo disse: Vedi, non mi ha fatto impressione, me la sono cavata benissimo. In genere con questo tipo di persone me la sbrigo bene, credo di saper trattare con loro per istinto...

non pare anche a te? Credo persino che in complesso mi sia piú facile trattare con persone tristi che con le allegre, Dio sa da che cosa dipende, forse dal fatto che sono orfano e ho perduto cosí presto i genitori; ma il contatto con gente seria e triste, quando c'entra la morte, non mi deprime e non m'imbarazza, anzi mi trovo nel mio elemento e in ogni caso meglio che con persone gagliarde; non fanno per me. Recentemente pensavo: è proprio stupido che qui le donne abbiano tanto in orrore la morte e tutto quanto l'accompagna, che occorra preservarle da tutto ciò meticolosamente e recare il viatico proprio nell'ora dei pasti. Vergogna! è puerile. Tu non vedi volentieri una bara? A me piace vederne una ogni tanto. Secondo me è un mobile addirittura bello, già quando è vuota; quando poi c'è dentro qualcuno, mi diventa persino solenne. I funerali hanno un che di edificante... qualche volta ho pensato che per edificazione, invece che in chiesa, si dovrebbe andare a un funerale. La gente è vestita di buon panno nero, si leva il cappello, si comporta con serietà e devozione, e nessuno può dire freddure come nella solita vita. A me piace che alla fine trovino un po' di raccoglimento. Mi sono detto varie volte che avrei dovuto fare il curatore d'anime... in un certo senso credo che sarei stato abbastanza idoneo... Spero di non aver fatto errori di francese parlando poco fa. No, no lo rassicurò Joachim. "Je le regrette beaucoup" era detto benissimo.

Politicamente sospetta. Subentrarono variazioni regolari della giornata ordinaria: anzitutto una domenica, e precisamente una domenica col concerto sulla terrazza, che aveva luogo ogni quindici giorni, segnando lo stacco della doppia settimana, nella cui seconda metà Castorp era entrato venendo da fuori. Era arrivato dí martedí, sicché quello era il quinto giorno, un giorno primaverile dopo quel brusco e bizzarro cambiamento e quella ricaduta nell'inverno... un giorno tenero e fresco, con nuvole pulite nel cielo azzurro e un sole moderato sui versanti e nella valle che avevano ripreso il regolare verde estivo, perché la neve fresca era stata condannata ad essere rapidamente assorbita dal suolo. Era evidente che tutti si studiavano di onorare la domenica e di darle risalto; l'amministrazione e gli ospiti cooperavano a tal fine unendo i loro sforzi. Il tè del mattino era servito con una focaccia particolare, a ogni posto c'era un vasetto con garofani selvatici e persino rododendri che gli uomini s'infilavano all'occhiello (l'avvocato Paravant di Dortmund s'era messo persino un abito nero a coda di rondine col panciotto a pallini), i vestiti delle signore avevano un'aria di festosa vaporosità; la signora Chauchat comparve a colazione in una fluente matinée di pizzo con maniche aperte e, mentre la porta vetrata si chiudeva di schianto, si fermò anzitutto quasi

presentandosi con grazia alla sala e si avviò poi con passo strascicato verso la sua tavola; la veste le stava cosí bene che la vicina di Castorp, la maestra di Konigsberg, se ne mostrò entusiasta... e persino i barbari coniugi alla tavola dei "russi incolti" avevano tenuto conto del giorno del Signore, in quanto lui aveva sostituito alla giubba di pelle una specie di giacchetta da passeggio e alle scarpe di feltro stivali di cuoio, mentre lei portava anche ora il poco pulito boa di penne, ma, sotto, una camicetta di seta verde col colletto increspato... Hans Castorp aggrottò la fronte quando scorse quei due, e impallidí, come ora si poteva notare di frequente. Subito dopo lo spuntino della mattina la banda cominciò il concerto sulla terrazza; c'era ogni sorta di ottoni e legni che sonarono alternando pezzi allegri e musica sostenuta fin quasi a mezzogiorno. Durante il concerto la sedia a sdraio non era rigorosamente obbligatoria. Alcuni, è vero, si godevano la musica dai loro balconi, e anche nella veranda del giardino c'erano tre o quattro sedie occupate; ma la maggior parte degli ospiti era seduta ai bianchi tavolini sulla terrazza coperta, mentre la gioventú piú frivola, cui sembrava troppo serio usare le sedie, occupava i gradini di pietra che scendevano al giardino, e vi manifestava molta gaiezza: giovani malati dell'uno e dell'altro sesso, dei quali Castorp conosceva già la maggior parte per nome o di vista. C'erano fra essi Hermine Kleefeld e il signor Albin che faceva circolare uno scatolone fiorato pieno di cioccolatini e ne faceva mangiare a tutti, mentre lui non ne assaggiava, e con aria paterna fumava invece sigarette col bocchino dorato; poi il giovane dalle labbra tumide, socio del Polmone Unico, la signorina Levi, sottile e color avorio, un giovanotto biondo-cinerino che rispondeva al nome di Rasmussen e teneva le mani, pendenti come pinne dalle mosce giunture, all'altezza del petto, la signora Salomon di Amsterdam, una donna dal fisico abbondante, vestita di rosso, che si era unita ai giovani, mentre quello spilungone dai capelli radi che sapeva suonare pezzi del Sogno d'una notte d'estate e ora stringendo fra le braccia le proprie ginocchia aguzze era seduto dietro a lei, le fissava continuamente con gli occhi torbidi il collo abbronzato; una signorina coi capelli rossi venuta dalla Grecia, un'altra di ignota provenienza con una faccia da tapiro, il giovanotto vorace con le grosse lenti, un altro di quindici o sedici anni che si era incastrato il monocolo e quando tossicchiava si portava alle labbra la lunga unghia del mignolo, simile a un cucchiaino da sale, evidentemente un asino perfetto... e parecchi altri ancora. Quel ragazzo con l'unghia, spiegò Joachim sottovoce, era stato, all'arrivo, pochissimo sofferente, senza febbre, mandato soltanto per precauzione da suo padre, che era medico, e secondo il giudizio di Behrens doveva rimanere circa tre mesi. Ora, dopo tre mesi, aveva da 37 e 8 a 38 gradi ed era alquanto malato. Ma faceva una vita cosí irragionevole da meritare gli schiaffi. I due cugini avevano un tavolino per sé, un po' discosto dagli altri, perché Càstorp bevendo la birra scura che aveva portato con sé dalla colazione fumava; ogni tanto il sigaro gli piaceva. Accapacciato a causa della birra e della musica, che come sempre lo faceva stare con la bocca aperta e la testa reclinata su una spalla, osservava con gli occhi arrossati la vita spensierata che gli si agitava intorno, e non era affatto turbato dal sapere che tutti coloro erano internamente intaccati da una dissoluzione

difficilmente arrestabile e la maggior parte di essi era febbricitante; anzi questa consapevolezza creava una maggior curiosità, un certo fascino spirituale... Ai tavolini si beveva limonata artificiale spumeggiante e sulla scala scoperta si scattavano fotografie. Altrove si scambiavano francobolli e la signorina greca dai capelli rossi, dopo aver disegnato su un blocco il signor Rasmussen, non gli voleva mostrare il ritratto, ma ridendo e scoprendo i denti larghi e staccati fra loro si volgeva di qua e di là impedendogli a lungo di strapparle il blocco. La Kleefeld seduta su un gradino teneva gli occhi socchiusi e con un giornale arrotolato segnava il ritmo della musica, mentre lasciava che Albin le appuntasse alla camicetta un mazzolino di fiori di prato, e quello dalle labbra gonfie, seduto ai piedi della Salomon, le parlava torcendo il collo verso di lei, intanto che il pianista dai capelli radi le teneva gli occhi fissi sul collo. Vennero i medici e si mescolarono fra i pazienti, il consigliere Behrens in camice bianco, il dottor Krokowski in camice nero. Passarono lungo la fila dei tavolini, mentre il consigliere lanciava a quasi tutti una parola scherzosa, sicché il suo passaggio era segnato da una scia di buonumore, e scesero fra i giovani, dove le donne ancheggiando e guardando in tralice si schierarono subito intorno a Krokowski; intanto il consigliere, per festeggiare la domenica, mostrava agli uomini il giochetto delle stringhe; posò il piedone su un gradino piú elevato, sciolse le stringhe della scarpa, le prese secondo una tattica particolare con una mano, e senza usare l'altra le seppe infilare e incrociare con tanta abilità che tutti rimasero stupiti e parecchi tentarono invano di imitarlo. Anche Settembrini comparve piú tardi sulla terrazza: appoggiandosi al bastone da passeggio veniva dalla sala da pranzo, sempre in giacca di rattina e calzoni giallini, col viso sveglio e critico, e guardandosi intorno si avvicinò con un Ah, bravi! al tavolino dei cugini e chiese il permesso di sedersi. Birra, tabacco e musica disse ecco la vostra patria! Vedo, ingegnere, che sente l'atmosfera nazionale. Mi fa piacere che si trovi nel suo elemento. Mi lasci partecipare un po' all'armonia delle Sue condizioni di spirito. )) Castorp ricompose il viso,... lo aveva già fatto non appena aveva scorto l'italiano. E disse: E' tardi però, signor Settembrini, per venire al concerto. Dev'essere quasi alla fine. Non le piace sentir musica? Non a comando rispose Settembrini. Non secondo il calendario della settimana. Non mi piace quando puzza di farmacia e mi viene assegnata dall'alto per ragioni sanitarie. Io tengo un po alla mia libertà o almeno) a quel residuo di libertà e dignità umana che noialtri abbiamo ancora. A queste manifestazioni assisto da ospite, come lei è ospite nostro in grande: vengo, sto un quarto d'ora e poi vado per i fatti miei. Cosí ottengo l'illusione dell'indipendenza... Non dico che sia piú d'un'illusione. Ma che vuole, Una certa soddisfazione me la dà. Per suo cugino è un'altra cosa.

Lui è in servizio anche qui. Vero, tenente? Lei lo considera una parte del servizio. Lo so, lei conosce il trucco per conservare il suo orgoglio nella schiavitú. Un trucco intricato. Non tutti in Europa se ne intendono. La musiCa? Non mi ha chiesto, lei, se sono amante della musica? Ecco, se dice amante (veramente Castorp non ricordava di aver detto questa parola), non ha scelto male l'espressione, che ha quasi un velo di frivola tenerezza. Bene, d'accordo. Sono, sí, un amante della musica, ma non vuol dire che io la stimi gran che, come, poniamo, stimo e amo la parola, il sostrato dello spirito, lo strumento, il lucido vomere del progresso... La musica è... un che di semiarticolato, di problematico, di irresponsabile, di indifferente. Lei obietterà, suppongo, che può essere chiara. Sí, anche la natura può essere chiara, anche un ruscello, ma che giova. Non è la vera chiarità, è una chiarezza sognante, nulladicente, non impegnativa, una chiarezza senza conseguenze, pericolosa perché invoglia ad acquetarsi in lei... Lasci che assuma il gesto della magnanimità: bene, allora accenderà il nostro sentimento. Importa invece che si accenda la ragione! Apparentemente la musica è tutta movimento... io però ho il sospetto che si tratti di quietismo. Permetta che riassuma il mio concetto in un'esagerazione: io nutro un avversione politica contro la musica. A questo punto Castorp non poté trattenersi dal battersi un ginocchio ed esclamare che una cosa simile non l'aveva mai sentita. La prenda in considerazione lo stesso! suggerí Settembrini con un sorriso. La musica è inestimabile in quanto ultimo strumento di entusiasmo, potenza propulsante ed elevatrice, quando trova lo spirito predisposto ai suoi effetti.Ma deve essere preceduta dalla letteratura. Da sola la musica non spinge avanti il mondo. La musica sola è pericolosa. Per lei, ingegnere, costituisce nettamente un pericolo personale. L'ho notato subito, dai suoi lineamenti. Castorp rise. Oh, signor Settembrini, lei non deve guardare il mio viso, lei non immagina quanto la vostra aria quassú mi faccia male. Assuefarmi a questo clima mi riesce piú difficile di quanto non pensassi. Temo che lei s'inganni. Come, perché. Lo sa il diavolo quanto sono ancora stanco e accaldato. Penso però che di questi concerti dobbiamo essere grati alla direzione osservò Joachim riflettendo. Lei, signor Settembrini, considera la cosa da un punto di vista piú elevato, dirò da scrittore, e qui non la voglio contraddire. Ma sono del parere che qui bisogna essere grati di un po' di musica.

Io non ho molto orecchio, e poi i pezzi che suonano non sono certo straordinari... né classici né moderni, soltanto pezzi per banda. Sono tuttavia un piccolo diversivo. Empiono decentemente alcune orette, le suddividono, voglio dire, e le riempiono, sicché qualcosa valgono, mentre qui di solito non si sa come ammazzare il tempo, le ore, i giorni, le settimane... Vede, uno di questi pezzi senza pretese, dura, mettiamo, sette minuti, vero? Ora essi sono a sé stanti, hanno un principio e una fine, si staccano dal resto e non devono affondare, dirò cosí, inavvertiti nel solito trantran. Oltre a ciò sono a loro volta suddivisi nelle frasi del pezzo, e queste in battute, sicché avviene sempre qualcosa e ogni istante assume un certo significato che possiamo seguire, mentre di solito... Non so se mi sono... Bravo! esclamò Settembrini. Bravo, tenente! Lei ha indicato benissimo un lato indubbiamente morale della musica, il fatto di conferire - mediante una misurazione viva e peculiare presenza, spirito e preziosità al fluire del tempo. La musica sveglia il tempo, la musica sveglia noi al piú raffinato godimento del tempo, e in quanto sveglia è morale. Morale è l'arte in quanto sveglia. Ma se invece fa il contrario, se stordisce, se addormenta, se reagisce all'attività e al progresso. Anche questo può fare la musica, conosce benissimo l'effetto dei narcotici. Effetto diabolico, signori miei! Il narcotico è roba del demonio, perché produce stordimento, immobilità, inerzia, servile ristagno... La musica, signori, mi lascia perplesso. Sono convinto che è di natura ambigua. Non vado troppo oltre se la dichiaro politicamente sospetta. E continuò a parlare in questo modo, e Hans Castorp ascoltava, ma non riusciva a seguire, in primo luogo a causa della stanchezza, poi perché era distratto da quanto avveniva fra i giovani spensierati là sui gradini. Vedeva bene o s'ingannava? La signorina dalla faccia di tapiro stava cucendo al giovanotto dal monocolo un bottone al cinturino dei calzoni sportivi! E per l'asma aveva il respiro greve e affannato, mentre lui si portava al labbro, tossicchiando, l'unghia a cucchiaino da saliera! Erano malati, sí, tutti e due, ma quello era un saggio delle strane costumanze sociali fra i giovani lassú. La banda sonava una polca...

Hippe. Cosí la domenica si staccava dagli altri giorni. Il pomeriggio si distinse inoltre per le scarrozzate intraprese da vari gruppi di ospiti: dopo il tè alcune carrozze a due cavalli si trascinarono su per le svolte e si fermarono davanti all'ingresso principale per accogliere coloro che le avevano ordinate, russi per lo piú, specialmente donne. I russi vanno sempre a spasso in carrozza spiegò Joachim a Hans.

Entrambi erano davanti al portone e per divertimento assistevano alle partenze. Ora vanno a Clavadell o al Lago o nella valle di Fluela o a Klosters, che sono le solite mete. Finché sei qui possiamo andare anche noi una volta, se hai voglia. Ma credo che per ora hai già il tuo da fare per acclimarti, e non hai bisogno di altre imprese. Castorp approvò. Con una sigaretta fra le labbra e le mani in tasca stette a guardare la piccola, vivace vecchia russa che con la magra pronipote e due altre donne montava in una carrozza: erano Marusja e madame Chauchat. Quest'ultima portava una spolverina leggera con la cintura annodata dietro, ma era senza cappello. Si sedette accanto alla vecchia sul sedile posteriore, mentre le due ragazze occupavano i posti di fronte. Tutte e quattro erano di buon umore e movevano continuamente le labbra parlando la loro lingua molle e, per cosí dire, senza ossa. Parlavano e ridevano a proposito della coperta della carrozza che cercavano di spartire fra loro non senza difficoltà, delle chicche russe che la prozia aveva con sé e offriva in una scatola di legno imbottita di bambagia e merletti di carta... Castorp distinse con simpatia la voce velata della signora Chauchat. Come sempre quando quella donna noncurante gli capitava dinanzi, vide consolidarsi la somiglianza che per un po' aveva cercato e gli si era poi rivelata in sogno... Ma il riso di Marusja, la vista dei suoi tondi occhi castani che guardavano infantili al di sopra del fazzolettino col quale si copriva la bocca, e del suo alto seno che dentro, a quanto si diceva, doveva essere non poco malato, gli rammentò un'altra cosa, una cosa sconvolgente che aveva notato poco tempo prima, sicché senza girare la testa guardò cautamente Joachim che era al suo fianco. No, grazie al Cielo, il viso di Joachim non era pieno di macchie come allora, e neanche le sue labbra erano cosí miseramente stirate. Ma guardava Marusja... in un atteggiamento e con un'espressione dello sguardo che non potevano certo dirsi militari, anzi erano cosí velati e dimentichi di sé che si dovevano definire nettamente borghesi. Poi si riscosse e lanciò a Castorp un'occhiata cosí rapida che questi ebbe appena il tempo di distogliere gli occhi da lui e di fissarli in aria in un punto qualsiasi. E intanto Castorp sentí che il suo cuore accelerava i palpiti... senza motivo, spontaneamente, come ormai faceva lassú. Il resto della domenica non offrí nulla di straordinario se non forse i pasti che, non potendo diventare piú abbondanti del solito, offrirono almeno pietanze raffinate. (A mezzogiorno ci fu uno chaud-froid di pollo, guarnito di gamberi e mezze ciliege; col gelato furono servite paste in cestelli di zucchero filato, e per giunta ananassi freschi.) La sera, dopo aver bevuto la birra, Castorp si sentí ancora piú sfinito, freddoloso, pesante che nei giorni precedenti, diede già verso le nove la buona notte a suo cugino, si tirò in fretta il piumino fin sotto il mento e s'addormentò come fulminato. Ma già la giornata successiva, cioè il primo lunedí che l'ospite passava lassú, recò un'altra variazione, ricorrente a intervalli regolari: una di quelle conferenze che il dottor Krokowski teneva ogni quindici giorni nella sala da pranzo davanti a tutto il pubblico del Berghof, maggiorenne, capace di intendere il tedesco e non moribondo.

Come Castorp apprese dal cugino, si trattava di un ciclo di lezioni collegate fra loro, di un corso scientifico popolare dal titolo generale: "L'amore come potenza patogena '. L'istruttiva conversazione aveva luogo dopo la seconda colazione e, sempre secondo le spiegazioni di Joachim, non era permesso, o almeno si vedeva molto di malocchio che uno si sottraesse... Era nota pertanto la inaudita impudenza di Settembrini che, pur sapendo il tedesco meglio di qualunque altro, non solo non assisteva mai a quelle lezioni, ma ne dava i piú sprezzanti giudizi. Castorp, invece, soprattutto per cortesia, ma anche per schietta curiosità si risolse subito a intervenire. Prima però fece un passo falso e decisamente sbagliato: gli venne in mente di intraprendere per conto suo una lunga passeggiata che gli fece piú male di quanto potesse prevedere. Dammi retta! furono le sue prime parole quando al mattino Joachim entrò nella sua camera. Vedo che cosí non posso andare avanti. Sono stufo di questa vita orizzontale... il sangue mi si addormenta. La tua posizione, s'intende, è diversa, tU sei un paziente e io non penso a sedurti. Io però subito dopo la colazione, se non te ne hai a male, vorrei fare una vera e propria passeggiata, andare qualche ora alla ventura. Mi metto in tasca un boccone, e cosí mi rendo indipendente. Voglio vedere se, quando ritorno, non sarò un altro uomo. Bene disse Joachim quando vide che il desiderio e il proponimento dell'altro erano seri. Ma ti do un consiglio: non esagerare! Qui non è come a casa. E ritorna puntualmente per la conferenza ! In realtà c'erano anche altri motivi, non soltanto quello fisico, a suggerire quell'intenzione al giovane Castorp. Gli pareva che le vampe alla testa, il cattivo sapore che aveva di solito in bocca e la spontanea accelerazione del cuore non dipendessero soltanto dalla difficoltà di assuefarsi al clima, quanto piuttosto da altre cause, come il comportamento dei coniugi russi nella camera attigua, i discorsi della malata e stupida signora Stohr a tavola, la molle tosse del gentleman rider che udiva ogni giorno nei corridoi, le frasi di Albin, le impressioni dei rapporti fra i giovani pazienti, la faccia di Joachim quando guardava Marusja, e simili osservazioni. Reputava opportuno uscire una volta dalla cerchia del sanatorio, respirare profondamente l'aria libera e fare moto energico per sapere, essendo stanco la sera, almeno il perché della stanchezza. Nella sua intraprendenza si separò quindi da Joachim, quando questi dopo la colazione cominciò la modesta passeggiata di servizio fino alla panca presso la fontana, e agitando il bastone s'incamminò scendendo per la strada maestra. Era una mattina piuttosto fredda, coperta, verso le otto e mezzo. Come si era proposto, Castorp aspirò profondamente l'aria pura, quell'atmosfera fresca e lieve che entrava nei polmoni senza sforzo, senza odore di umidità, priva di contenuto e di ricordi... Attraversò il corso d'acqua e il binario a scartamento ridotto, raggiunse la strada costruita irregolarmente e prese un sentiero nei prati che portava soltanto un breve tratto in piano e saliva poi obliquo e alquanto ripido sul pendio di destra.

Gli faceva piacere salire, ìl petto gli si allargava, col manico del bastone spostò il cappello liberando la fronte e quando un po' piú in alto si volse a guardare e vide in lontananza lo specchio del lago, lungo il quale era passato all'arrivo, si mise a cantare. Cantò le canzoni che aveva disponibili, canti popolari sentimentali, come si trovano nei canzonieri studenteschi e in quelli dei ginnasti, fra gli altri uno che conteneva questi versi: Càntino i bardi amore e vino, ma ancor piú spesso la virtú... Cantò da principio sottovoce, a bocca chiusa, poi forte e a gola spiegata. Aveva una voce di baritono chioccia, che ora però gli sembrava bella, e il canto lo entusiasmava sempre piú. Quando l'attacco era troppo alto, arrivava, in falsetto, alle note di testa, e anche queste gli parevano belle. Se la memoria lo tradiva, se la cavava applicando alla melodia sillabe qualsiasi e parole senza senso che alla maniera dei cantanti lanciava in aria adattando opportunamente le labbra e facendo vibrare l'erre palatale, finché tanto per il testo quanto per le note si diede a improvvisare e ad accompagnare le sue invenzioni persino con teatrali movimenti delle braccia. Siccome è molto faticoso salire e cantare allo stesso tempo, si trovò assai presto col fiato corto, e il respiro cominciò a mancargli. Ma per idealismo, per la bellezza del canto, vinse la difficoltà e con frequenti sospiri fece il massimo sforzo, finché col fiato ridotto al minimo, cieco, con davanti soltanto un luccichio di scintille multicolori e col polso agitato si abbandonò al piede di un grosso pino... preda improvvisa - dopo tanta esaltazione - di un profondo malumore, di un abbattimento assai prossimo alla disperazione. Quando, rimessi abbastanza a posto i nervi, si alzò per proseguire la passeggiata, la nuca gli tremava vivamente di modo che, pur cosí giovane, tentennava la testa esattamente come a suo tempo il vecchio Hans Lorenz. Accolse con affetto l'apparizione del defunto nonno, la quale non gli riuscí punto spiacevole, e si compiacque di imitare il dignitoso sostegno del mento col quale il vegliardo aveva cercato di frenare il tremito del capo, suscitando il compiacimento del ragazzo di allora. Salí piú in alto, a zig zag. Attirato da un suono di campanacci, trovò poi anche il gregge che pascolava accanto a una capanna di tronchi d'albero, il cui tetto era gravato di pietre. Due uomini barbuti gli vennero incontro, con la scure sulla spalla, e quando gli furono vicini si separarono. Be', stai bene e tante grazie disse l'uno con voce gutturale profonda e, spostata la scure sull'altra spalla, cominciò a scendere a valle fra gli abeti con passo crocchiante. Aveva un suono strano nella solitudine, quello "stai bene e tante grazie" e la mente di Castorp frastornata dalla salita e dal canto ne era rimasta colpita come in sogno. Egli ripeté le parole a voce bassa sforzandosi di imitare il dialetto gutturale, impacciato e solenne del montanaro, e salí ancora un pezzo oltre la baita, poiché teneva a raggiungere il limite della zona alberata; ma un'occhiata all'orologio lo fece desistere da questo proposito. Seguí a sinistra, in direzione del villaggio, un sentiero che procedeva in piano e poi scendeva.

Entrò cosí in un bosco di conifere d'alto fusto e, mentre lo attraversava, riprese persino un po' a cantare, sia pure con cautela, e nonostante che nella discesa le ginocchia gli tremassero piú stranamente di prima. Ma uscendo dal folto si trovò di sorpresa davanti a un magnifico scenario aperto, a un paesaggio intimamente unito entro una grandiosa inquadratura di pace. Un ruscello alpestre in un letto piano e sassoso scendeva dalle alture di destra, si riversava spumeggiando su massi disposti a scaglioni e scorreva poi piú tranquillo a valle, attraversato da un pittoresco ponticello col rustico parapetto di legno. Il terreno azzurreggiava di campanule d'una invadente pianta a cespi. Severi abeti, di altezza enorme e regolare, si levavano singoli o a gruppi dal suolo della gola e dai versanti, e uno di essi, radicato sul pendio di fianco al torrente, attraversava la scena inclinato e bizzarro. Uno scrosciante isolamento regnava sul luogo bello e solitario. Al di là del ruscello Castorp scorse una panchina. Attraversò il ponticello e si sedette per godere la vista delle cascatelle, della schiuma fuggente, e ascoltare il rumore idillico e loquace, monotono e pur intimamente mutevole; Castorp amava lo scroscio dell'acqua come la musica, e forse piú. Ma si era appena accomodato allorché gli si manifestò un'emorragia nasale cosí improvvisa che non poté evitare del tutto di insudiciarsi l'abito. L'epistassi era violenta, ostinata e lo tenne impegnato per una buona mezz'ora costringendolo a correre continuamente tra la panca e il ruscello, a sciacquare il fazzoletto, ad aspirare l'acqua e a distendersi sul sedile di legno, il panno umido sul naso. Cosí stette coricato finché l'emorragìa cessò... rimase quieto, le mani incrociate sotto la testa, le ginocchia sollevate, gli occhi chiusi, le orecchie piene dello scroscio, senza malessere, anzi piuttosto cal mato dall'abbondante salasso e in curioso stato di vitalità attenuata; infatti dOpO un esplorazione non sentiva per un po' il bisogno di aria nuova, ma con le membra immobili lasciava tranquillamente che il cuore facesse una serie di pulsazioni, finché, fiacco e in ritardo, traeva di nuovo un sospiro superficiale. Ed ecco, a un tratto si sentí trasportato in quella precoce situazione che era l'origine di un sogno, sognato alcune notti prima, e modificato secondo recentissime impressioni... Ed era trasferito in quella lontananza di spazio e di tempo cosí intensamente, cosí al completo, fino all'annullamento del luogo e dell'epoca, da far pensare che lassú, sulla panchina in riva al torrente, giacesse un corpo inanimato, mentre il vero Hans Castorp fosse lontano, in anni ed ambiente d'altri tempi, e precisamente in una situazione, per quanto semplice, pur ardita e inebriante. Aveva tredici anni, frequentava la terza del ginnasio, ragazzo in calzoni corti, e stava discorrendo nel cortile della scuola con un altro ragazzo, press'a poco della stessa età, di un'altra classe... Il colloquio che Castorp aveva provocato piuttosto spontaneamente, pur non potendo essere altro che brevissimo, dato l'argomento pratico e molto limitato, lo empiva di gioia. Era l'intervallo tra la penultima e l'ultima ora, fra una lezione di storia e una di disegno nella classe di Castorp.

Nel cortile lastricato con formelle rosse e separato dalla strada mediante un muro coperto di scandole e interrotto da due portoni, gli scolari passeggiavano in fila su e giú e formavano gruppi o si appoggiavano semiseduti agli aggetti smaltati dell'edificio. Nel brusío un insegnante col cappello a cencio sorvegliava quella baraonda e dava ogni tanto un morso a un panino col prosciutto. Il ragazzo col quale Castorp stava parlando si chiamava Hippe, e di nome Pribislav. Ed era strano che la erre di questo nome si dovesse pronunciare come sc seguita da i: Pscibislav; e questo nome insolito s'intonava alla figura del ragazzo, che non era comune, ma decisamente un po' inconsueta. Hippe, figlio di uno storico e professore di liceo, noto perciò come alunno modello e già una classe piú avanti di Castorp, benché probabilmente non piú vecchio di lui, veniva dalMecklenburgo ed era l'evidente prodotto di un'antica mescolanza di razze, di una fusione di sangue germanico con sangue slavo... o viceversa. Biondo era, e sul cranio tondo portava i capelli cortissimi, ma gli occhi, d'un grigio celeste o d'un celeste grigio - d'un colore un po' incerto e ambiguo, il colore, ad esempio, d'una montagna lontana - avevano un taglio particolare, sottile e, a rigore, persino un po' obliquo, con gli zigomi, immediatamente sotto, sporgenti e molto rilevati: un viso che nel caso suo non lo sfigurava affatto, anzi riusciva piacente, che però era bastato a procurargli da parte dei compagni il nomignolo di "chirghiso". E poi Hippe portava già i calzoni lunghi e la giubba accollata, tesa sul dorso, turchina, sul cui colletto c'era di solito un po' di forfora. Ora, fatto è che da parecchio tempo Castorp aveva rivolto la sua attenzione a questo Pribislav: lo aveva scelto nel brulichio noto ed ignoto del cortile scolastico, si interessava a lui, lo seguiva con gli occhi, o vogliamo dire: lo ammirava? In ogni caso lo guardava con eccezionale simpatia e già per via, mentre andava a scuola, pregustava il piacere di osservarlo in compagnia dei suoi compagni di classe, di vederlo parlare e ridere e di distinguerne fin da lontano la voce, piacevolmente velata, fioca, un po' rauca. Ammesso che non esisteva una ragione sufficiente di quella simpatia, se proprio non si volesse tener conto del nome pagano, della distinzione di primo della classe (che però non poteva avere assolutamente importanza) o infine degli occhi chirghisi - occhi che talvolta a un certo sguardo di traverso, lanciato senza intenzione di vedere, si coprivano dolorosamente come d'un velo notturno -, Hans Castorp non si curava di giustificare spiritualmente le sue sensazioni o addirittura di darne all'occorrenza una definizione. Amicizia non poteva essere, visto che non "conosceva Hippe. Ma in primo luogo non c'era alcuna necessità di dar loro un nome, poiché non c'era da pensare che un giorno o l'altro se ne potesse far parola: egli non vi era tagliato e non ne aveva neanche il desiderio. In secondo luogo un nome è, se non una critica, almeno una determinazione, cioè l'inserimento in un mondo noto e consueto, mentre Castorp possedeva l'inconscia convinzione che un bene interiore come questo doveva essere preservato una volta per sempre da siffatta determinazione e collocazione. Ma, bene o mal motivate, quelle sensazioni cosí lontane dal nome e dalla comunicazione avevano in ogni caso tanta vitalità che Castorp le nutriva da ormai quasi un anno - da un anno all'incirca, poiché non era possibile rintracciarne l'inizio -, prova, se non altro, della sua fedeltà e costanza di carattere, quando si consideri quale tempo enorme rappresenti un anno a quell'età.

Nelle indicazioni della qualità del carattere è sempre compreso purtroppo un giudizio morale, sia di elogio, sia di biasimo, benché tutte abbiano due lati. La fedeltà di Hans Castorp, della quale d'altronde non era affatto orgoglioso, consisteva, senza che la si voglia valutare, in una certa lentezza e indolenza e immobilità di spirito, in una fondamentale aura conservatrice che gli faceva sembrare condizioni e rapporti di affezione e di continuità tanto piú rispettabili quanto piú lunga era la loro durata. Tendeva anche a credere nella infinita durata dello stato d'animo in cui si trovava, lo apprezzava appunto per ciò e non aveva affatto il desiderio che mutasse. Cosí si era assuefatto alla sua muta e lontana relazione con Pribislav Hippe e in fondo la considerava una durevole istituzione della propria vita. Amava le emozioni che ne conseguivano, come l'ansiosa attesa oggi lo incontrerò? mi passerà accanto? chi sa se mi guarderà? - e i silenziosi, teneri appagamenti che il suo segreto gli donava, e persino le delusioni che ne derivavano, e la piú grande gli toccava quando Pribislav "era assente": allora il cortile della scuola era desolato, la giornata priva di sapore, ma la confortante speranza rimaneva. Questo stato di cose durò un anno, finché giunse a quel culmine bizzarro, poi durò un secondo anno grazie alla fedeltà conservatrice di Castorp, e poi cessò... ma senza che egli avvertisse l'allentarsi e il dissolversi dei vincoli che lo legavano a Pribislav Hippe, piú di quanto non ne avesse notato il sorgere. Oltre a ciò Pribislav, a causa del trasferimento di suo padre, abbandonò la scuola e la città; ma Castorp quasi non se ne accorse; già prima lo aveva dimenticato. Si può dire che la figura del "chirghiso" era entrata inavvertitamente dalle nebbie nella sua vita, si era fatta sempre piú chiara e tangibile fino al momento della massima vicinanza e concretezza nel cortile, era rimasta un po in primo piano, poi si era ritirata a poco a poco fino a svanire, ancora nelle nebbie, senza rimpianto. Quel momento però, la situazione ardita e bizzarra, che ora gli si riaffacciò alla mente, il colloquio, un vero colloquio con Pribislav Hippe ebbe luogo nel modo seguente. Nell'intervallo prima dell'ora di disegno Castorp s'accorse di non avere con sé la matita. Ciascuno dei suoi compagni aveva bisogno della propria; ma tra gli allievi di altre classi c'erano conoscenti ai quali egli la poteva chiedere. Se non che il piú noto gli parve che fosse Pribislav, questi era il piú vicino, ché di lui si era già tanto occupato in silenzio, e in uno slancio gioioso deliberò di approfittare dell'occasione (occasione la chiamò) e di chiedere una matita a Pribislav. Abbagliato com'era da una strana disinvoltura non si avvide, o non se ne diede pensiero, che stava per compiere qualcosa di stravagante, dato che in realtà non conosceva Hippe. Sicché in mezzo alla calca nel cortile ammattonato si fermò davvero davanti a lui e disse: Scusa, mi puoi prestare una matita? Pribislav lo guardò con gli occhi da chirghiso sopra gli zigomi sporgenti e gli rispose con quella sua voce piacevolmente rauca, senza stupore o almeno senza mostrare stupore. Volentieri disse. Ma dopo l'ora me la devi restituire senza fallo. Ed estrasse la sua matita, una matita d'argento con un anello che bisognava spingere in su affinché il lapis rosso sporgesse dal tubo metallico. Gli spiegò il semplice meccanismo, mentre tutti e due vi chinavano la testa.

Ma bada di non romperla! aggiunse. Che diavolo? Pensava forse che Castorp avesse intenzione di non restituirla o di non averne la debita cura? Poi si guardarono sorridendo e, poiché non c'era altro da dire, si volsero le spalle e se ne andarono. E fu tutto. Ma Castorp non era mai stato contento in vita sua come in quell'ora di disegno, mentre adoperava il lapis di Pribislav Hippe... con la previsione, oltre a tutto, di restituirlo poi al suo proprietario, dono fuori programma e ovvia e naturale conseguenza di ciò che precedeva. Si prese la libertà di temperare un po' il lapis e di quelle schegge verniciate di rosso ne conservò tre o quattro quasi un anno intero in un cassetto interno della scrivania... e nessuno che le avesse viste ne avrebbe potuto immaginare l'importanza. La restituzione avvenne in forma semplicissima, come Castorp desiderava; e anzi ci teneva... indifferente com'era e viziato dall'intimo contatto con Hippe. To' disse. Mille grazie. Pribislav non disse nulla, controllò soltanto in fretta il meccanismo e s'infilò la matita in tasca... Poi non si erano parlati mai piú, ma quell'unica volta era pur avvenuto grazie allo spirito intraprendente di Castorp... Egli spalancò gli occhi, sbalordito dalla profondità della sua lontananza. "Devo aver sognato!" pensò. "Sí, era Pribislav. Da un pezzo non ho piú pensato a lui. Dove saranno andate a finire quelle schegge? La scrivania è nel solaio, in casa dello zio Tienappel. Ci devono essere ancora nel cassetto interno a sinistra. Io non le ho mai tolte di lí. Non le ho prese in considerazione nemmeno quanto occorreva per buttarle via... E' stato proprio Pribislav in persona. Non avrei mai pensato di vederlo cosí chiaramente. Strano, come le somiglia... a quella quassú! Per questo dunque mi interesso tanto a lei. O forse: per questo mi sono interessato tanto a lui. Assurdo ! Una simpatica assurdità. Ma ora devo scendere, e in fretta!" Invece rimase ancora disteso, a riflettere e ricordare. Poi si alzò. "Be', stai bene e tante grazie" disse e, mentre sorrideva, gli occhi gli si empirono di lacrime. Fece per incamminarsi, ma col cappello e il bastone in mano si sedette ancora un momento; doveva essersi accorto che le ginocchia non lo reggevano. "Oilà!" pensò. "Temo di non farcela. E alle undici in punto devo essere nella sala da pranzo per la conferenza. Qui le passeggiate hanno un lato bello, ma, a quanto pare, presentano anche difficoltà. Però qui non posso restare; sarà che stando coricato mi sono un po' indolenzito, il moto mi rimetterà in sesto." E di nuovo provò a stare ritto e, siccome concentrò gli sforzi, ci riuscí. Fu però un ritorno pietoso dopo una partenza cosí fiduciosa. Piú volte dovette fermarsi a riposare poiché si sentiva impallidire all'improvviso, il sudore freddo gli bagnava la fronte e il moto irregolare del cuore gli toglieva il respiro.

Scese quindi penosamente lungo le svolte, e quando raggiunse la valle nei pressi del sanatorio, comprese chiaramente che non avrebbe potuto superare con le proprie forze il lungo tratto fino al Berghof, e siccome non c'era il tranvai né si vedeva alcuna carrozza da prendere a nolo, pregò un barocciaio, che con un carro di casse vuote era diretto a Dorf, di lasciarlo montare. Le spalle contro le spalle del carrettiere, le gambe penzoloni nel vuoto, osservato con stupore e simpatia dai passanti, dondolando e chinando la testa nel dormiveglia ai trabalzi del veicolo, cosí proseguí, scese al passaggio a livello, porse del denaro senza vedere se poco o tanto e salí a rompicollo l'ultima svolta. a DépeAthez-vous, monsieur ! esclamò il portiere francese. La conférence de M. Krokowski vient de commencer. Castorp buttò cappello e bastone nella guardaroba e, cauto e frettoloso, la lingua tra i denti, s'infilò per la porta vetrata socchiusa nella sala da pranzo dove i pazienti occupavano file di sedie, mentre sul lato breve il dottor Krokowski in abito da passeggio, in piedi dietro a una tavola coperta, con una brocca d'acqua davanti, stava parlando...

Analisi. Per fortuna un posto d'angolo ancora libero invitava vicino alla porta. Castorp andò furtivamente ad occuparlo, e assunse un'aria come se fosse stato seduto là da sempre. Il pubblico che nei primi momenti di attenzione pendeva dalle labbra del conferenziere quasi non se n'accorse; e fu un bene perché aveva un aspetto pauroso. Aveva il viso bianco come un pannolino e l'abito macchiato di sangue, sicché somigliava a un assassino colto in flagrante. Vero è che la signora davanti a lui, quando sentí che si sedeva, si volse a guardarlo con gli occhi socchiusi. Era madame Chauchat, egli la riconobbe quasi con amarezza. Corpo del diavolo, non doveva dunque trovar pace? Aveva sperato di potersene stare tranquillo, alla meta, e di riprendersi un po,' ed ecco che se la trovava davanti al naso... una combinazione che in altre circostanze gli avrebbe forse fatto piacere, ma stanco e affamato com'era, che gli poteva giovare? Ciò poneva soltanto nuove esigenze al suo cuore e l'avrebbe tenuto col fiato sospeso durante tutta la conferenza. Essa lo aveva guardato esattamente con gli occhi di Pribislav, lo aveva fissato in viso e osservato la macchia di sangue... senza riguardi, a dir il vero, e invadente, come si conveniva ai modi di una donna che sbatteva le porte. E come stava scomposta! Non già come le donne nell'ambiente familiare di Castorp, le quali sedevano erette volgendo la testa al capotavola e parlavano in punta di labbra. La Chauchat sedeva insaccata e floscia, con la schiena tonda, le spalle cascanti, e oltre a ciò sporgeva la testa in modo da far emergere le vertebre dalla scollatura posteriore della camicetta di stoffa bianca. Anche Pribislav aveva tenuto la testa all'incirca cosí; ma era stato il primo della classe e di maniere distinte (benché non questa fosse la ragione perché Castorp si era fatto prestare la matita)... mentre era evidente

che il portamento sciatto della signora, il suo modo di sbattere la porta, l'indiscrezione dello sguardo dipendevano dalla sua malattia, anzi in essi si manifestavano l'eccessiva libertà, quei vantaggi non rispettabili, ma addirittura illimitati, dei quali si era vantato il giovane Albin... Mentre Castorp guardava le spalle cascanti della signora Chauchat, i suoi pensieri si confusero, cessarono di essere pensieri e divennero fantasie nelle quali la voce baritonale del dottore e la sua erre molle si introducevano come da grandi lontananze. Ma il silenzio che regnava nella sala e l'attenzione generale lo destarono, per cosí dire, dalla semincoscienza. Si guardò intorno... Vicino a lui era seduto il pianista dai capelli radi, la testa reclinata, e stava in ascolto con la bocca aperta e le braccia in croce. La maestra, signorina Engelhart, un po piú in là, aveva gli occhi avidi e tenere macchie rosse sulle due guance: un riscaldo che Castorp trovò anche sul viso di altre signore, come quello della Salomon là accanto ad Albin e della moglie del fabbricante di birra Magnus, quella che perdeva albumina. La faccia della Stohr, un po' indietro, esprimeva un fervore cosí beota da far pietà, mentre l'eburnea Levi, appoggiata alla spalliera, gli occhi socchiusi e le mani tese in grembo, poteva proprio sembrare morta, se il petto non le si fosse sollevato e abbassato con forza e con ritmo cosí regolare da suscitare in Castorp il ricordo di una donna di cera, vista una volta in un museo, la quale aveva nel petto un congegno meccanico. Alcuni tenevano la mano cava sul padiglione del l'orecchio o almeno ne accennavano il gesto tenendo la mano sollevata a mezza via, come se l'attenzione avesse loro irrigidito il movimento a metà. L'avvocato Paravant, bruno e apparentemente robusto, per sentir meglio agitò persino con l'indice un orecchio e lo porse poi all'abbondante eloquio del dottor Krokowski. Ma che stava dicendo costui? Quale ragionamento svolgeva? Castorp raccolse le sue facoltà mentali per inquadrarsi, ma non vi riuscí subito, perché non aveva udito il principio e altre frasi aveva perdute mentre considerava le spallè cascanti della Chauchat. Si trattava del potere... di quel potere... sí, insomma, del potere del l'amore. Ovvio: l'argomento era dato dal titolo del ciclo di conferenze, e di che altro doveva parlare Krokowski, se quello era veramente il suo campo? Certo, era un po' strano ascoltare a un tratto` un corso di lezioni sull'amore, mentre prima si era parlato sempre e soltanto di cose come la trasmissione nelle costruzioni navali. Come si poteva trattare un argomento cosí refrattario e riservato, alla luce del giorno, davanti a uomini e donne? Il dottore ne parlava con espressioni miste, in uno stile dotto e poetico ad un tempo, scientificamente e senza riguardi, ma in tono vibrato e cantabile che al giovane Castorp sembrò piuttosto fuor di luogo, benché proprio questo dovesse essere il motivo perché le donne avevano le guance cosí accaldate e gli uomini si schiarivano le orecchie. In particolare l'oratore usava sempre la parola "amore" in senso leggermente ambiguo, sicché non si sapeva mai bene come prenderla, se in senso innocente o appassionato e carnale... e ciò creava una vaga impressione di mal di mare.

In vita sua Castorp non aveva mai udito pronunciare questa parola tante vol te di seguito come ora in quella sala, anzi a pensarci gli parve di non averla mai pronunciata lui stesso o di non averla udita da labbra altrui. Forse sbagliava... ma in ogni caso non gli sembrò che da tante ripetizioni la parola ci guadagnasse. Al contrario, le sillabe a lungo andare gli divennero ostiche, ad esse si uní l'idea del latte annacquato... un che di cilestrino, di gelatinoso, specie in confronto con le frasi robuste che, a rigore, il medico veniva dicendo. Era chiaro infatti che a fare come lui, si poteva spararle grosse senza scacciare la gente dalla sala. Egli non si accontentava di esporre con una specie di ritmo inebriante cose universalmente note ma di solito avvolte nel silenzio; distruggeva illusioni, faceva trionfare inesorabilmente la conoscenza, non accettava la fede sentimentale nella dignità dei capelli d'argento e nell'angelica purezza dei bambini. D'altronde portava con la giacca da passeggio il colletto floscio e i sandali sui calzini grigi, particolari che davano un'impressione di serietà e di idealismo, anche se Castorp ne rimase un po' urtato. Mentre in base a libri e fogli sciolti che aveva davanti a sé sulla tavola confortava le sue asserzioni con esempi e aneddoti e alcune volte recitava persino poesie, Krokowski descriveva paurose forme d'amore, varianti eccentriche, dolorose e raccapriccianti, della sua presenza e onnipotenza. E', diceva, fra tutti gli istinti naturali il piú instabile e compromesso, tendente a fondamentali aberrazioni e scellerate perversioni, né c'era da stupirsi: questo potente impulso non è infatti semplice, bensí per sua natura variamente composto, e per quanto sia legittimo nel suo complesso... risulta composto di sole storture. Ma siccome, e giustamente, continuò Krokowski, ci si rifiuta di dedurre dalla stortura delle componenti la stortura dell'intero, si è necessariamente costretti ad attribuire una parte della legittimità, se non proprio tutta, anche alla singola stortura. Postulato logico, questo, al quale pregava gli ascoltatori di attenersi. Ma ci sonò resistenze psichiche e correttivi, istinti buoni e regolatori, di natura... per poco non diceva borghese, quelli che con la loro azione accomodante e restrittiva fondono le componenti assurde nel tutto utile e regolare... procedimento assai frequente e auspicabile, il cui risultato però (aggiunse il dottore in tono un po' sprezzante) non riguarda il medico e il pensatore. In un altro caso invece questo procedimento non riesce, non vuole e non deve riuscire, e chi - domandò Krokowski chi potrebbe dire se questo non rappresenti eventualmente il caso piú nobile, spiritualmente piú pregevole? In questo caso infatti i due gruppi di forze, tanto lo stimolo dell'amore quanto quegli impulsi avversi, tra i quali vanno citati in particolare il pudore e la ripugnanza, possiedono una straordinaria tensione passionale che sorpassa la consueta misura borghese, e la battaglia tra di essi, condotta negli abissi dell'anima, impedisce che gli impulsi errati vengano recinti, resi innocui, inciviliti, come richiede l'usuale armonia, la regolamentare vita amorosa. Questo contrasto tra i poteri della castità e dell'amore - poiché di questo si tratta - come va a finire? Finisce apparentemente con la vittoria della castità.

Timore, decenza, pudico ribrezzo, tremante bisogno di purezza sopprimono l'amore, lo tengono incatenato nelle tenebre, lasciano che i suoi confusi postulati si affaccino alla coscienza ed entrino in azione semmai in parte, ma neanche lontanamente con tutta la loro varietà e potenza. Se non che questa vittoria della castità è soltanto una vittoria fittizia, una vittoria di Pirro, perché l'imperio del l'amore non può essere imbavagliato, violentato, l'amore represso non è morto, ma vive e nella tenebra, nel segreto profondo cerca sempre di attuarsi, sfonda la castità e ricompare, sia pure sotto forma mutata, irriconoscibile... E quale è mai la forma, la maschera sotto la quale ricompare l'amore non ammesso e rattenuto? Cosí domandò il dottor Krokowski facendo scorrere lo sguardo lungo le file come se aspettasse davvero la risposta dai suoi ascoltatori. Oh, la risposta doveva darla lui, dopo aver detto già tante cose. Nessuno lo sapeva tranne lui, e lui, gli si leggeva in faccia, avrebbe dato anche questa risposta. Con gli occhi ardenti, il pallore cereo, la barba nera, e con quei sandali da frate sopra i calzini di lana grigia, pareva simboleggiasse in persona la battaglia tra castità e passione, della quale aveva parlato. Questa fu per lo meno l'impressione di Castorp, mentre, come tutti, con la massima attenzione aspettava di apprendere sotto che forma ricompaia l'amore represso. Le donne trattenevano quasi il respiro. L'avvocato Paravant si scosse rapidamente ancora una volta l'orecchio affinché al momento buono fosse aperto e capace di afferrare. E a questo punto Krokowski disse: "Sotto la maschera della malattia!". Il sintomo morboso, disse, sarebbe attività amorosa camuffata e ogni malattia amore trasmutato. Ora lo sapevano, anche se forse non tutti erano in grado di valutarlo appieno. Un sospiro si levò dalla sala e l'avvocato Paravant fece un significativo cenno di approvazione, mentre il conferenziere continuava a svol gere la sua tesi. Castorp chinò la testa per riflettere su ciò che aveva udito e interrogarsi se aveva compreso. Ma, poco pratico com'era di siffatti ragionamenti, e oltre a ciò poco lucido di mente a causa della malefica passeggiata, era portato a distrarsi e infatti fu subito distratto dalle spalle davanti a lui e dal braccio relativo che si alzò e si piegò all'indietro per sorreggere le trecce, proprio davanti agli occhi di Castorp. Quella mano vicina agli occhi mozzava il respiro... volere o no, bisognava guardarla, studiarla in tutte le sue magagne umane come attraverso una lente di ingrandimento. No, non aveva niente di aristocratico, quella troppo tozza mano da scolara con le unghie tagliate in malo modo... non era neanche certo che avesse le estreme falangi del tutto pulite, e la pelle intorno alle unghie era, senza alcun dubbio, morsicchiata. Castorp torse le labbra, ma continuò a tenere gli occhi fissi sulla mano di madame Chauchat, e ripensò vagamente a ciò che Krokowski aveva detto a proposito delle resistenze borghesi che si oppongono all'amore... Il braccio era piú bello, quel braccio piegato mollemente dietro la testa, vestito appena appena, perché la stoffa delle maniche era piú sottile di quella della camicetta: un tulle finissimo che conferiva al braccio soltanto una trasfigurazione vaporosa; senza veli avrebbe avuto probabilmente minor grazia.

Era ad un tempo tenero e pienotto e... per quanto si poteva presumere, fresco. Per esso non era il caso di parlare di resistenze borghesi. Guardando quel braccio Castorp sognava. Come si vestono le donne! Mostrano un po' qua, un po' là, del collo e del seno, trasfigurano le braccia con tulle trasparente... Lo fanno in tutto il mondo per eccitare il nostro bramoso desiderio. Dio mio, com'è bella la vita! Bella appunto per la naturalezza del seducente vestire delle donne: naturale è infatti, e cosí universalmente usato e riconosciuto che quasi non ci si pensa e lo si accetta inconsciamente e senza farci caso. Bisognerebbe invece pensarci, argomentò Castorp tra sé, per godere veramente la vita, e tener presente che è un'istituzione quasi favolosa la quale ci rende felici. S'intende che alle donne è lecito vestirsi in modo fiabesco e tale da renderci felici in vista di un determinato scopo, senza perciò contravvenire alla decenza; si tratta della generazione futura, della propagazione del genere umano, sissignori. Ma quando una donna è internamente malata e non adatta alla maternità... che s'ha da dire allora? E ragionevole che porti maniche di tulle per fare che gli uomini siano curiosi del suo corpo... del suo corpo internamente malato? Evidentemente non è affatto ragionevole e, a rigore, lo si dovrebbe considerare un'indecenza e vietare. Se un uomo s'interessa a una donna malata, denota certo non piú ragionevolezza che... be', che quella, a suo tempo, del segreto interessamento di Castorp a Pribislav Hippe. Paragone sciocco, ricordo un po increscioso: ma si era affacciato spontaneamente e senza suo volere. A questo punto però le sue trasognate considerazioni s'interruppero, soprattutto perché la sua attenzione fu attratta di nuovo dal dottor Krokowski che aveva alzato molto la voce. Ed ecco, stava con le braccia aperte e la testa reclinata su una spalla dietro al tavolino e nonostante la giacca da passeggio sembrava quasi Gesú sulla croce ! Risultò poi che alla fine del discorso il dottor Krokowski s'era messo a fare una gran propaganda per l'analisi della psiche e a braccia aperte incitava tutti a venire da lui. Venite qua, disse con altre parole, voi che siete affaticati e oppressi! E fece chiaramente palese la sua convinzione che tutti, senza eccezione, fossero affaticati e oppressi. Parlò di dolori nascosti, di pudore e cruccio, dell'azione redentrice dell'analisi; esaltò l'illuminazione dell'inconscio, insegnò la ritrasformazione della malattia in sentimento cosciente, invitò ad aver fiducia, promise guarigione. Poi lasciò ricadere le braccia, raddrizzò la testa, raccolse gli stampati che gli erano serviti durante la conferenza e premendo, proprio come un maestro, con la sinistra quel fascio di carte contro la spalla, si allontanò a testa alta per il corridoio. Tutti si alzarono, spostando la sedia, e si avviarono lentamente verso l'uscita dalla quale il dottore aveva lasciato la sala. Sembrava che gli stessero alle calcagna con moto concentrico, da tutte le parti, tentennando, ma senza una propria volontà, con sbigottita umanità, come la calca dietro al pifferaio di Hameln.

Castorp rimase fermo nella corrente, stringendo la spalliera della sedia. Qui sono soltanto in visita, pensò, sono sano e, grazie al Cielo, non conto, e per la prossima conferenza non sarò qui. Vide madame Chauchat uscire, con passo strisciante, sporgendo la testa. Chi sa se si farà analizzare anche lei? si domandò, e il cuore cominciò a battergli forte... E intanto non s'avvide che Joachim veniva verso di lui tra le file di sedie, e provò una scossa nervosa quando suo cugino gli rivolse la parola. Sei venuto però all'ultimo momento disse Joachim. Sei stato lontano? Com'è andata? Bene, bene rispose Castorp. Sí, sono andato piuttosto lontano. Ma devo confessare che mi ha giovato meno di quanto non mi aspettassi. Era prematuro o addirittura sbagliato. Per ora non lo farò piú. Joachim non gli domandò se la conferenza gli era piaciuta, né Castorp si pronunciò in proposito. Come per tacita intesa non ne dissero una parola neanche in seguito.

Dubbi e considerazioni. Il martedí dunque il nostro eroe era da una settimana tra quelli lassú, sicché tornando dalla passeggiata mattutina trovò nella sua camera il conto, il suo primo conto settimanale, un lindo documento contabile, entro una busta verdina, con la testata illustrata (l'edificio del Berghof vi era rappresentato con garbo seducente), recante a sinistra un estratto dal fascicolo pubblicitario, stampato su una stretta colonna, in cui si menzionava con caratteri spazieggiati anche la "cura psichica secondo i metodi piú moderni". Le calligrafiche indicazioni a penna segnavano un importo di I80 franchi quasi esatti, e precisamente 12 franchi al giorno per il vitto e le cure mediche, 8 per la camera, poi per tassa d'ammissione 20 franchi e per la disinfezione della camera 10, mentre le piccole spese per biancheria, birra e il vino della prima cena arrotondavano la cifra. Castorp, controllando la somma insieme con Joachim, non trovò nulla da ridire. Vero è che alle cure mediche non ricorro disse ma questo è affar mio; sono comprese nel prezzo della pensione, e io non posso pretendere che siano detratte, che diavolo! Con la disinfezione fanno un affare, perché non possono avere sperperato 10 franchi di H2CO per suffumigare l'americana. Ma in complesso devo dire che, in considerazione di ciò che danno, fanno pagare poco anziché troppo. E cosí, prima della seconda colazione si recarono all'Amministrazione per saldare il debito. L'Amministrazione era al pianterreno: passando, ol tre l'atrio, davanti alla guardaroba, alla cucina e ai rispettivi servizi, e seguendo il corridoio del vestibolo non si poteva sbagliare la porta, tanto piú che recava una targa di porcellana. Castorp vi colse con interessamento la modesta visione del centro contabile d'un istituto.

Era un vero e proprio ufficetto: vi lavorava una dattilografa, e tre impiegati erano curvi sulle scrivanie, mentre nella stanza attigua un signore dal cospicuo aspetto di principale o direttore lavorava a una scrivania con ribalta e si limitò a gettare al di sopra degli occhiali un'occhiata fredda ai clienti e a squadrarli da capo a piedi. Mentre si sbrigava il pagamento allo sportello, col cambio di un assegno, l'incasso e la quietanza, essi tennero un atteggiamento serio e modesto, silenzioso e addirittura ossequiente, da giovani tedeschi che trasferiscono il rispetto dell'autorità e degli uffici pubblici a qualunque scrittoio o locale di servizio; ma fuori, andando a colazione e, in seguito, durante il giorno vennero a parlare dell'organizzazione del Berghof: Joachim, che era di casa e molto informato, rispondeva alle domande di suo cugino. Il consigliere aulico Behrens non era affatto il padrone e proprietario del sanatorio... benché cosí potesse parere. Sopra e dietro di lui stavano potenze invisibili che fino a un certo punto si manifestavano attraverso l'ufficio: un consiglio d'amministrazione, una società per azioni, della quale doveva essere piacevole far parte, dato che, secondo le credibili assicurazioni di Joachim, nonostante i grossi stipendi dei medici e i piú generosi principi economici poteva distribuire ogni anno tra i soci Un lauto dividendo. Il consigliere dunque non era una persona indipendente, era solo un rappresentante, un funzionario, un impiegato di enti superiori, il primo e piú alto in grado, sí, l'anima dell'azienda, tale da influire in modo decisivo su tutta l'organizzazione, non esclusa la direzione, benché quale primario stesse al di sopra della parte commerciale. Oriundo della Germania nordoccidentale, si sapeva che era arrivato a quel posto anni prima senza intenzione o programma, spinto in alto da sua moglie, i cui resti giacevano da un pezzo nel cimitero di Dorf, il pittoresco cimitero di Davos-Dorf lassú, sul versante di destra, un po' indietro verso l'imbocco della valle. Era stata una donna molto amabile, anche se macroftal mica e astenica, a giudicare dalle fotografie che c'erano dappertutto nelle stanze private del consigliere, nonché dai ritratti a olio che, eseguiti dalle sue mani di dilettante, vi erano appesi alle pareti. Dopo avergli dato due figli, un maschio e una femmina, le sue membra leggere, in preda alla febbre, erano state portate lassú e in pochi mesi la consunzione le aveva distrutte. Si diceva che Behrens, il quale l'aveva adorata, ne fosse rimasto tal mente colpito che per qualche tempo, preso dallo scoramento, aveva dato nell'occhio a causa delle sue bizzarrie, poiché per la strada rideva, faceva gesti strani, parlava da solo. Poi non era piú ritornato nel suo ambiente d'origine, ma si era trattenuto sul posto: certo anche perché non voleva separarsi da quella tomba, ma soprattutto probabilmente per la meno sentimentale ragione che egli stesso aveva ricevuto la sua parte e, secondo la sua intuizione scientifica, aveva capito che il suo posto era là. Cosí vi si era stabilito come uno di quei medici che sono compagni di sventura dei loro pazienti, ed essendo col piti dalla malattia non la combattono da una libera posizione di integrità personale, ma portano a loro volta il marchio del male: caso singolare, ma tutt'altro che unico, che presenta senza dubbio i suoi vantaggi, ma suscita anche timori.

Il cameratismo tra medico e paziente va certo incoraggiato, e si può essere d'accordo che soltanto chi soffre può essere guida e salvezza di chi soffre. Ma è mai possibile un giusto spirituale dominio su una forza in chi è tra gli schiavi di essa? Può liberare chi è a sua volta sottomesso? Il medico malato è pur sempre un paradosso per l'uomo semplice, un fenomeno problematico. La sua conoscenza teorica della malattia non è forse tanto arricchita e moralmente consolidata dalla conoscenza empirica quanto offuscata e confusa? Egli non affronta la malattia con decisa ostilità, è prevenuto, è un avversario poco sicuro; e con tutta la dovuta cautela conviene chiedersi se un appartenente al mondo degli infermi possa avere interesse alla guarigione o magari soltanto alla conservazione del prossimo quanto un campione della salute... Di questi dubbi e di queste considerazioni parlò Castorp a modo suo chiacchierando con Joachim del Berghof e del suo direttore sanitario, ma Joachim obiettò che non si poteva sapere se Behrens fosse ancora da annoverare tra i pazienti... probabilmente era già guarito da un pezzo. Da quando aveva cominciato a esercitare ne era passato del tempo... l'aveva fatto un po' per conto proprio e si era conquistato rapidamente un nome di sensibile auscultatore e sicuro pneumotomo. Il Berghof si era poi assicurato la sua collaborazione, e da un decennio egli era strettamente legato a quella istituzione... Là in fondo, in capo all'ala nordoccidentale, aveva la sua abitazione (il dottor Krokowski era allogato poco lontano da lui) e quella vecchia nobile dama, la superiora delle infermiere, che Settembrini aveva menzionata con tanta ironia e Castorp aveva vista fino allora soltanto di sfuggita, governava la modesta dimora del vedovo. Il quale viveva solo, perché suo figlio era studente in un'università della Germania e sua figlia era già maritata, e precisamente a un avvocato della Svizzera francese. Nelle vacanze il giovane Behrens veniva talvolta in visita; durante il soggiorno di Joachim era già accaduto una volta, e allora, egli disse, le donne nel sanatorio erano in grande agitazione, le temperature salivanò, piccole gelosie provocavano liti e bisticci nelle verande e l'afflusso alla particolare ora di ricevimento del dottor Krokowski era in notevole aumento... Per le sue consultazioni private l'assistente aveva a disposizione una stanza a parte la quale, come la grande sala di visita, il laboratorio, la sala operatoria e il gabinetto radiologico, si trovava nel chiaro scantinato dell'edificio. Diciamo scantinato perché la scala di pietra che vi scendeva dal pianterreno suggeriva effettivamente l'idea che si scendesse in una cantina... ma era quasi un inganno. In primo luogo infatti il pianterreno era al quanto elevato, in secondo luogo l'edificio era costruito, in complesso, sulla pendenza della montagna e le stanze della cantina davano, davanti, sul giardino e sulla valle: per cui l'effetto e la ragione della scala erano in certo qual modo intralciati e annullati. Si credeva bensí di scendere per quei gradini dal piano, laggiú in fondo però si era ancora e sempre in piano, o qualche palmo piú sotto: impressione divertente per Castorp, allorché un pomeriggio accompagnò laggiú in quella zona suo cugino che andava a farsi pesare dal bagnino.

C'era molta luce e pulizia clinica laggiú: tutto era bianco su bianco, tutte le porte brillavano di vernice bianca, anche quella dell'ambulatorio di Krokowski, sulla quale era fissato con una puntina il biglietto di visita dello studioso, e alla quale si scendeva per altri due scalini dal livello del corridoio, di modo che la stanza poteva sembrare un ripostiglio. La porta era a destra della scala, in fondo al corridoio, e Castorp la teneva particolarmente sott'occhio, mentre in attesa di Joachim passeggiava in su e in giú per il corridoio stesso. Ne vide anche uscire una persona, una donna arrivata da poco, della quale non sapeva ancora il nome, piccola, graziosa, coi riccioli sulla fronte e gli orecchini d'oro; ella si chinò profondamente nel salire i gradini e raccolse la gonna, mentre con l'altra piccola mano inanellata si premeva il fazzoletto sulle labbra e di sopra a questo, cosí china, guardava nel vuoto e con gli occhioni scialbi e stravolti. Cosí raggiunse a passettini la scala, tra il fruscio della sottoveste, si fermò a un tratto come a un pensiero improvviso, riprese la corsa a passetti e scomparve su per la scala, sempre curva e senza togliere il fazzoletto dalle labbra. Dietro a lei, all'aprirsi della porta, c'era molto piú buio che nel candido corridoio: la chiarità clinica delle stanze inferiori non arrivava evidentemente là dentro: Castorp poté osservare che nel gabinetto analitico di Krokowski regnava una luce smorzata, una bruna penombra.

Conversazioni a tavola. Ai pasti nella sala multicolore Castorp si trovava un po' imbarazzato, perché dopo quella passeggiata intrapresa per conto suo gli era rimasto il tremito della testa alla maniera di suo nonno: proprio a tavola gli veniva quasi regolarmente ed egli non riusciva a reprimerlo e difficilmente a nasconderlo. Oltre a reggersi il mento con aria dignitosa, ma non lo poteva fare durevolmente, escogitò diversi modi di mascherare quella debolezza: teneva la testa possibilmente in moto conversando a destra e a sinistra o, quando si portava il cucchiaio di minestra alle labbra, premendo forte l'avambraccio sulla tavola per darsi un contegno, o vi puntava magari il gomito negli intervalli e appoggiava la fronte sulla mano, ben sapendo che era un gesto sgarbato, scusabile, se mai, soltanto in una compagnia di malati sciolta da ogni riguardo. Ma tutto ciò gli dava fastidio e mancò poco che gli guastasse i pasti che pur sapeva di solito apprezzare per le ansie e le curiosità che offrivano. Sta di fatto però (e anche Castorp lo sapeva benissimo) che l'umiliante fenomeno col quale lottava non era di origine soltanto fisica, non era soltanto da attribuire all'aria di lassú e allo sforzo di adattamento al clima, ma rivelava una tensione interna ed era direttamente connesso con quelle ansie e curiosità. Madame Chauchat arrivava quasi sempre in ritardo e finche non veniva, Castorp seduto non riusciva a tener fermi i piedi, perché aspettava lo schianto della porta vetrata che accompagnava immancabilmente l'ingresso di lei, e sapeva che in quel punto avrebbe provato una scossa e si sarebbe sentito sbiancare in viso, come infatti avveniva ogni volta.

Da principio aveva voltato sempre di scatto la testa e accompagnato con stizza e con occhiate irose la noncurante ritardataria fino al suo posto alla tavola dei "russi ammodo", magari lanciandole fra i denti a mezza voce un'ingiuria, una parola di indignata riprovazione. Ora non lo faceva piú, chinava piú profondamente la testa sul piatto mordendosi addirittura un labbro, o la girava con intenzione e ad arte dal lato opposto; gli pareva infatti che non spettasse piú a lui andare in collera, aveva l'impressione di non essere libero di biasimare, di essere invece anche lui reo di quello scandalo e corresponsabile davanti agli altri... insomma, si vergognava, ma sarebbe inesatto dire che si vergognava per la Chauchat, no, si vergognava lui, in persona, di fronte alla gente: e avrebbe potuto farne a meno perché nella sala nessuno si curava del malvezzo di madame Chauchat né della vergogna che Hans Castorp provava, tranne forse la insegnante, la signorina Engelhart, alla sua destra. Questa misera creatura aveva capito che la suscettibilità di Castorp, urtata dallo sbattere della porta, aveva fatto sorgere una specie di rapporto sentimentale tra il giovane vicino di tavola e la russa, e oltre a ciò, che poco importava la natura di quel rapporto, purché ci fosse, e infine, che l'indifferenza di lui, sìmulata molto male simulata per màncanza di esercizio e di attitudini sceniche - non denotava un attenuarsi, ma un rafforzamento, una fase superiore del rapporto stesso. Senza pretese e speranze per sé, la Engelhart si diffondeva continuamente in discorsi disinteressati ed entusiasti intorno alla Chauchat... ed era strano che Castorp, se non subito, a lungo andare avvertisse e indovinasse perfettamente le provocanti insistenze di lei, anzi ne fosse disgustato, senza perciò subirne meno volentieri l'influsso e la seduzione. Pùnfete! esclamava la vecchia signorina. a Questa è lei! Non occorre nemmeno alzare gli occhi per sapere chi è entrato. Sicuro, ecco lei... che passo delizioso! Proprio come una gattina che striscia verso la scodella del latte. Vorrei che potessimo scambiare i nostri posti, lei la potrebbe osservare comodamente e con disinvoltura come la vedo io. Capisco che lei non voglia girare sempre la testa da quella parte... chissà che cosa le verrebbe in mente se lo notasse! Adesso dice buon giorno ai suoi... Eppure lei dovrebbe dare un'occhiatina, è tanto piacevole guardarla. Quando sorride e parla come ora, le si forma una fossetta sulla guancia, non sempre, solo quando vuole. E' proprio una coccolona d'oro, una creatura viziata, per questo è cosí indolente. E' una di quelle persone che, volere o no, si devono amare, poiché se anche indispettiscono con la loro negligenza, il dispetto è uno stimolo in piú ad affezionarsi a loro, è cosí bello stizzirsi e ciò nonostante dover amare... Cosí sussurrava la maestra con una mano sulla bocca, senza farsi udire dagli altri, mentre il morbido rossore del le sue guance di vecchia zitella facevano pensare alla sua temperatura alterata; e le sue chiacchiere voluttuose penetravano nelle viscere del povero Castorp. Una sua mancanza di indipendenza creava in lui il bisogno di sentirsi confermare da terzi che la Chauchat era una donna deliziosa, e oltre a ciò il giovane desiderava di essere incoraggiato dal di fuori ad abbandonarsi a sentimenti cui la sua ragione e la coscienza opponevano incomode resistenze. Quelle conversazioni si dimostrarono obiettivamente poco fruttuose, perché con tutta la sua buona volontà la signorina Engelhart non seppe dare particolari su madame Chauchat, non piú degli altri ospiti

del sanatorio; non la conosceva di persona, non poteva neanche farsi bella di conoscenze comuni con lei, e l'unica cosa da far valere con Castorp era il fatto che stava a Konigsberg, non molto lontano dalla frontiera russa e che sapeva qualche parola di russo, qualità insufficienti che però Castorp era disposto a considerare come lontane relazioni personali con la signora Chauchat. Non ha l'anello)> osservò, la fede matrimoniale, a quanto vedo. Come mai? Eppure è maritata, mi diceva lei, vero? La maestra rimase imbarazzata come fosse messa alle strette e dovette giustificarsi, tanto si sentiva responsabile di madame Chauchat di fronte a Castorp. Non la pigli tanto per il sottile rispose. Sicuramente è maritata. Non c'è dubbio. Se si fa chiamare madame, non è soltanto per darsi un'aria piú autorevole, come fanno le signorine straniere un po' mature, ma lo sappiamo tutti che ha davvero un marito da qualche parte in Russia, qui lo sa tutto il paese. Ha un cognome russo, non francese, in -anov, -ukov, lo sapevo, ma l'ho dimenticato; se vuole mi posso informare, qui ci sono certo parecchi che lo sanno. L'anello? No, non lo porta, l'ho notato anch'io. Dio mio, forse non le dona, forse le allarga la mano. O le sembra gretto portare la fede, un anello cosí liscio... mancherebbe il mazzo delle chiavi... certo è superiore a queste cose... Le conosco, le donne russe sono tutte un po' emancipate e hanno un tratto di superiorità. Oltre a ciò un anello del genere ha un che di allontanante, di freddo, è un simbolo di dipendenza, direi, conferisce alla donna un che di monacale, ne fa addirittura un guarda-e-non-mi-toccare. Non mi stupisco che la signora Chauchat non voglia essere cosí... Una donna cosí affascinante, nel fiore degli anni... Probabilmente non ha né motivo né voglia di far capire subito il suo legame matrimoniale a ogni uomo cui stringe la mano... Dio buono, come si dava da fare, la maestra! Castorp la guardò sbigottito, ma lei sostenne il suo sguardo con una specie di risoluto imbarazzo. Poi tacquero entrambi per riprendere lena. Castorp continuò a mangiare frenando il tremito del capo. Infine domandò: E suo marito? Non si cura di lei? Non viene mai a trovarla quassú? Che cosa fa veramente? Fa l'impiegato. E' un funzionario dell'amministrazione russa, in un governatorato lontano lontano, nel Daghestan, sa, al di là del Caucaso, a oriente, dove lo hanno trasferito. No, quassú, le ho già detto, non l'ha mai visto nessuno. E lei è qui di nuovo già da tre mesi. Dunque non è qui per la prima volta? No, no, è già la terza. E tra un soggiorno e l'altro sta altrove, in luoghi simili. Viceversa è lei che talvolta va a trovare lui, non spesso, una volta l'anno per qualche tempo. Vivono separati, si può dire, e lei ogni tanto lo va a trovare. Eh già, dato che è malata... Malata, certo. Ma non tanto. Non cosí gravemente da dover vivere sempre nei sanatori e divisa dal marito.

Ci devono essere ragioni diverse, piú importanti. Qui tutti sono del parere che ci siano altri motivi. Può darsi che non le piaccia stare nel Daghestan, laggiú oltre il Caucaso, in una regione selvaggia, lontana, non ci sarebbe da stupirsi. Ma un po' deve pur dipendere anche dal marito, se a lei piace cosí poco stare con lui. Ha il nome francese, ma è sempre un funzionario russo, gente rozza, creda a me. Una volta ne ho visto uno, aveva la barba grigioferro e il viso cosí rosso... Si lasciano corrompere facilmente e poi tutti hanno la passione della vodka, sa, l'acquavite... Per salvare le apparenze si fanno servire qualche cosetta da mangiare, un paio di funghi marinati o un pezzetto di storione, e poi bevono... fuori di misura. E questo lo chiamano uno spuntino... Lei dà la colpa a lui interruppe Castorp. Ma non sappiamo se la mancata armonia non dipenda da lei. Vogliamo essere giusti. Quando la guardo, cosí maleducata, quando sbattè la porta... non penso che sia un angelo, non se n'abbia a male, la prego, ma mi fido poco. Lei, poi, non è imparziale, lei ha la testa piena di pregiudizi in suo favore... Cosí faceva talvolta. Con la furbizia che non era nel suo carattere fingeva di credère che gli entusiasmi della signorina Engelhart per la signora Chauchat non significassero ciò che (ed egli lo sapeva benissimo) significavano in realtà, ma fossero una cosa a sé, un fatto buffo, col quale lui, l'indipendente Hans Castorp, poteva prendere in giro la vecchia zitella da una posizione distaccata e umoristica. E siccome era sicuro che la sua manutengola avrebbe lasciato passare e accettato questa sfacciata distorsione, non correva alcun rischio. Buon giorno! disse una volta. Ha dormito bene? Spero che non avrà sognato la sua bella Minka... Ecco, subito diventa rossa, basta nominarla. Ha preso una cotta per quella donna, dica la verità! E la maestra che era arrossita davvero si chinò sopra la tazza e mormorò con l'angolo sinistro della bocca: oh via, signor Castorp! Non è bello da parte sua mettermi cosí in imbarazzo con le sue allusioni. Tutti vedono che abbiamo di mira lei e capiscono che lei mi dice delle cose delle quali devo arrossire... I due commensali si comportavano in modo veramente singolare. Entrambi sapevano che mentivano a tutta forza, che Castorp, pur di poter parlare della Chauchat, se ne serviva per punzecchiare la maestra, ma trovava un piacere malsano e indiretto nel celiare con la zitellona... la quale a sua volta stava al giuoco, anzitutto per la smania di far da mediatrice, poi anche perché realmente, desiderosa di far piacere al giovane, si era un po' innamorata della Chauchat, e infine perché, poveretta, trovava gusto a farsi berteggiare da lui e montare il sangue al viso: tutte cose che entrambi sapevano di sé e dell'altro, come sapevano che ognuno lo sapeva di sé e dell'altro, e tutto ciò era intricato e poco pulito. Ma benché le cose intricate e poco pulite gli ripugnassero in complesso e anche in questo caso, Castorp continuò a sguazzare in quel torbido elemento e cercava di tranquillarsi considerando che, in fin dei conti, era là soltanto in visita e tra poco sarebbe ripartito.

Con simulata oggettività giudicava da esperto la figura della donna "trasandata", dichiarava che vista di fronte appariva decisamente piú giovane e piú bella che di profilo, che aveva gli occhi troppo distanti tra loro, che il portamento lasciava molto a desiderare, ma in compenso, sí, aveva le braccia belle e "morbide di forma". E mentre lo diceva si sforzava di nascondere il tremito della testa, e intanto non solo dovette riconoscere che la maestra notava i suoi vani sforzi, ma con suo grande disgusto scoprí che anche lei tentennava il capo. Ed era stata soltanto diplomazia, artefatta astuzia, se aveva chiamato madame Chauchat "la bella Minka"; infatti ciò gli consentí un'altra domanda: Dico Minka, ma chi sa come si chiama in realtà? Di nome intendo. Innamorata com'è incontestabilmente, lei ne deve certo sapere il nome. La maestra` rifletté. Aspetti, lo so rispose. Lo sapevo. Non si chiama Tatjana? No, non è questo, e nemmeno Natascia. Natascia Chauchat? No, no, non l'ho sentito cosí. Un momento, l'ho trovato. Avdotja si chiama. O è qualcosa di simile. Poiché certamente non si chiama né Katjenka né Ninosc'ka. Mi è proprio uscito di mente. Ma, se lei ci tiene, mi sarà facile saperlo. Il giorno dopo lo sapeva davvero. Lo pronunciò a mezzogiorno, a colazione, quando la porta vetrata si chiuse con uno schianto. La signora Chauchat si chiamava Clavdia. Castorp non l'afferrò subito. Si fece ripetere e sillabare il nome finché lo comprese. Poi lo ripeté piú volte volgendo gli occhi arrossati verso la Chauchat e, per cosí dire, provandoglielo addosso. Clavdia commentò. Sí, cosí può chiamarsi, il nome le si adatta benissimo. Non nascose la sua gioia per quell'intimo particolare e da quel momento, quando alludeva a madame Chauchat, diceva sempre e soltanto Clavdia. La sua Clavdia sta facendo palline di mollica, ho visto adesso. Educato non è. Dipende da chi lo fa obiettò la maestra. A Clavdia dona. Ecco, i pasti nella sala con le sette tavole avevano per Castorp una grande attrattiva. Si rammaricava quando uno era terminato, ma si consolava al pensiero che assai presto, tra due o due ore e mezza, si sarebbe riseduto là dentro, e quando si risedeva gli pareva di non essersi neanche alzato dalla sedia. Che cosa c'era frammezzo? Niente. Una passeggiatina fino al ruscello o nel quartiere inglese, un breve riposo sulla sedia a sdraio. Non erano interruzioni serie, ostacoli da pigliare sul serio. Ben diverso se gli si fosse parato davanti qualche lavoro, qual che fatica o apprensione difficile da dominare col pensiero o da scavalcare.

Ma queste cose non accadevano nella vita saggiamente e felicemente regolata del Berghof Alzandosi da un pasto in comune Castorp poteva aspettare subito con gioia il successivo... sempre che "gioia" sia la parola giusta per quella specie di attesa con la quale desiderava ritrovarsi insieme con la malata Clavdia Chauchat, e non sia invece una parola troppo leggera, lieta, ingenua e comune. Può darsi che il lettore sia disposto a considerare ammissibili e adatte alla persona e alla vita interiore di Hans Castorp soltanto parole liete e comuni; ma noi gli rammentiamo che, giovane ragionevole e coscienzioso com'era, non poteva semplicemente aspettare con gioia la vista e la vicinanza della signora Chauchat e, poiché lo dobbiamo sapere, possiamo dire che, se qualcuno gliela avesse proposta, egli avrebbe ripudiato questa parola con una scrollata di spalle. Già, cominciò ad arricciare il naso di fronte a certi vocaboli... un particolare che merita di essere annotato. Andava in giro con le guance secche e accaldate e canticchiava a fior di labbra, cantava tra sé, aveva il cuore sensibile e musicale. Canterellava una canzonetta che aveva udita, chi sa dove e quando, in una riunione familiare o a un concerto di beneficenza, da una vocina di soprano, e ora gli era rivenuta in mente... una tenera sciocchezza che cominciava cosí: Con che piacer mi tocca l'affettuoso accento, e stava per soggiungere: che vien dalla tua bocca e scende nel mio cuor! allorché alzò le spalle, disse "ridicolo!" e ripudiò la canzoncina perché insulsa e stupidamente sentimentale... e la respinse con una certa severità e malinconia. Di una canzonetta cosí affettuosa poteva accontentarsi e compiacersi uno di quei giovani che laggiú nel piano avesse "donato", come si suol dire, "il suo cuore" a un'ochetta sana e prosperosa, per vie lecite, pacifiche e piene di speranze, e ora si abbandonasse ai suoi sentimenti leciti, ricchi di speranze, ragionevoli e, in fondo, lieti. A lui e alla sua relazione con madame Chauchat (la parola "relazione" va imputata a lui, noi ne rifiutiamo ogni responsabilità) non si addiceva di certo a una poesiola cosí; coricato sulla sedia si vide indotto a darne un giudizio estetico dichiarandola "scema!" e interrompendosi a metà, mentre arricciava il naso pur non sapendo sostituirvi nulla di piú adatto. Una cosa però gli diede soddisfazione, mentre stava disteso e sorvegliava il cuore, il suo cuore fisico, che batteva veloce e percettibile nel silenzio... nel silenzio prescritto dal regolamento che regnava in tutto il Berghof durante il principale periodo di riposo. Pulsava ostinato e invadente, il suo cuore, come quasi sempre dacché egli era lassú; ma Castorp ne era urtato ormai meno che nei primi giorni. Ora non si poteva piú dire che battesse per conto suo, senza motivo, senza contatto con lo spirito. Il contatto c'era e non era difficile stabilirlo; ci voleva poco per attribuire all'accelerata attività fisica un moto giustificativo dell'animo. Bastava che Castorp pensasse alla Chauchat (e ci pensava davvero) per provare il sentimento adeguato alla palpitazione.

Sintomi di paura I due nonni e la gita in barca nel crepuscolo. Il tempo era pessimo... In questo Hans Castorp non aveva fortuna nel suo fugace soggiorno in quelle regioni. Non che nevicasse, ma per intere giornate cadeva una pioggia greve e odiosa, fitte nebbie empivano la valle, e temporali, ridicoli da tanto che erano superflui - infatti anche senza faceva freddo, sicché nella sala da pranzo si erano persino accesi i caloriferi -, si scaricavano con lungo rotolio di tuoni. Peccato commentò Joachim. Contavo di poter salire un giorno con la colazione sulla Schatzalp o di intraprendere altre escursioni. Ma non sarà possibile. Speriamo che la tua ultima settimana sia migliore. Castorp però rispose: Non importa. Non ho alcuna smania di imprese. La prima non mi ha fatto un gran bene. Mi rinfranco meglio se vivo cosí alla giornata, senza diversivi. I diversivi sono utili a chi sta qui da anni. Io invece, con le mie tre settimane, che bisogno ho di variare? Proprio cosí, egli si sentiva tutto impegnato e occupato anche senza muoversi di lí. Se nutriva speranze, avrebbe trovato o soddisfazioni o delusioni, non su qual che Schatzalp. Non era noia quello che lo assillava; era, al contrario, il timore che la fine del suo soggiorno arrivasse di volo. La seconda settimana era già avanzata, ne erano passati quasi due terzi, e al sopraggiungere dell'ultimo terzo si sarebbe cominciato a pensare alle valige. Il periodo in cui il senso del tempo si era rianimato, Castorp lo aveva già superato da un pezzo; i giorni cominciavano già a volar via, e volavano nonostante che ciascuno di essi si allungasse in una sempre rinnovata attesa e fosse gonfio di tacite, recondite esperienze... Eh sí, il tempo è un mistero, difficile da chiarire! Sarà forse necessario dare un nome a quelle recondite esperienze che appesantivano le giornate di Castorp e ad un tempo le rendevano alate? No, tutti le conoscono, erano le solite nella loro nullità sensibile, e se il caso fosse stato piú ragionevole, confortato da maggiori speranze, al quale si potesse applicare l'insulsa canzonetta "Con che piacer mi tocca", non avrebbero potuto svolgersi diversamente. Non era possibile che madame Chauchat non avesse notato nessuno dei fili che si stavano tessendo tra una certa tavola e la sua; e che lei ne notasse qualcuno, anzi possibilmente molti, rispondeva proprio alle sbrigliate intenzioni di Castorp. Le diciamo sbrigliate, perché egli capiva benissimo quanto il suo caso fosse irragionevole. Ma chi si trova nelle condizioni nelle quali era o cominciava a essere lui, vuole che l'altra parte le conosca, anche se non vi è senno né buon senso. L'uomo è fatto cosí. Dunque, dopo essersi girata due o tre volte durante il pasto, per caso o per attrazione magnetica, verso quella tavola e avervi incontrato ogni volta gli occhi di Castorp, la signora Chauchat guardò la quarta volta con intenzione e ancora incontrò quello sguardo.

Alla quinta non lo colse subito; egli non stava all'erta. Ma sentí immediatamente che lei lo guardava e era cosí premuroso a fissarla che lei distolse il proprio sguardo sorridendo. Quel sorriso lo empí di diffidenza e delizia. Se lei lo credeva un bambino, s'ingannava. Ed egli provò un grande bisogno di raffinare il contatto. Alla sesta occasione, intuendo, sentendo, acquistando l'interiore certezza che lei lo guardava, finse di osservare con vivo disgusto una signora pustolosa che si era avvicinata alla sua tavola per chiacchierare con la prozia, tenne duro per due o tre minuti e non cedette fin quando non fu sicuro che gli occhi chirghisi avevano smesso di guardarlo... Curiosa commedia che la Chauchat non soltanto poteva, ma doveva indovinare, affinché la grande finezza di Castorp e la sua padronanza di sé la rendessero pensosa... Andò cosí: la signora Chauchat tra una portata e l'altra si vol tò con noncuranza e guardò la sala. Castorp stava all'erta e i loro sguardi s'incontrarono. Mentre i due si fissano - la malata spiando vagamente e con aria beffarda; Castorp con convulsa fermezza (strinse persino i denti mentre sosteneva lo sguardo di lei), - il tovagliolo sta per sfuggirle, per scivolarle giú dal grembo. Con uan mossa nervosa fa per prenderlo, ma anche lui ne rimane scosso, balza a metà dalla sedia e alla cieca, pronto a superare otto metri di spazio e a girare intorno a una tavola posta frammezzo, vuol correrle in aiuto, come se toccando terra il tovagliolo dovesse scatenare una catastrofe... Ma lei lo afferra a un pelo dal pavimento. Da quella positura curva, china a terra di traverso, stringendo il tovagliolo per la cocca, rabbuiata in viso, chiaramente indispettita per il po' di panico inconsulto, di cui è stata vittima e del quale, a quanto pare, attribuisce la colpa a lui, si volta ancora a guardarlo, lo vede pronto al balzo, nota le sue sopracciglia sollevate e si volta sorridendo. L'avvenimento esaltò Castorp e lo riempí di trionfante smodata allegria. Ma la reazione non si fece aspettare, poiché per due giorni interi, vale a dire durante dieci pasti, la Chauchat non si volse piú verso la sala, evitò persino, entrando, di "presentarsi" al pubblico com'era sua consuetudine. Fu un colpo duro. Ma siccome quelle omissioni riguardavano indubbiamente lui, una relazione c'era, e ben chiara, anche se negativa: e tanto poteva bastare. Egli s'accorse che Joachim aveva avuto ragione affermando che là non era facile stringere relazioni se non coi commensali. Infatti in quell'unica oretta dopo cena, durante quel tale regolare convegno che spesso però si riduceva a venti minuti, la Chauchat era infallibilmente in mezzo ai suoi, il signore dal petto incavato, la buffa signora dai capelli lanosi, il taciturno dottor Blumenkohl e i giovani dalle spalle cascanti, in fondo al salottino che pareva riservato alla tavola dei "russi ammodo".

D'al tro canto Joachim premeva perché si andasse via; non voleva abbreviare, diceva, la cura serale, e forse aveva anche altri motivi dietetici che non indicava, che Castorp però intuiva e rispettava. L'abbiamo accusato di sbrigliatezza, ma quali che fossero i suoi desideri, certo non aspirava a fare la conoscenza ufficiale di madame Chauchat e, in fondo, approvava le circostanze che la ostacolavano. I rapporti vagamente tesi che le sue occhiate e il suo armeggío avevano stabilito tra lui e la russa, erano di natura extrasociale, non impegnavano e non dovevano impegnare a nulla. Una buona dose di indifferenza sociale da parte sua era certo compatibile con quei rapporti, e il fatto che egli attribuisse il batticuore al pensiero di Clavdia non era affatto sufficiente a scuotere la convinzione del nipote di Hans Lorenz Castorp che con quella straniera, la quale passava la sua esistenza separata dal marito e senza la fede al dito in tutti i luoghi di cura immaginabili, e si comportava male, sbatteva le porte alle sue spalle, arrotolava palline di mollica e certamente si morsicchiava le dita... che con lei, diciamo, in realtà, cioè al di là di quei segreti rapporti, egli non poteva aver a che fare, che profondi abissi separavano l'esistenza di lei dalla sua, e con lei non avrebbe potuto tener testa a nessuna critica da lui riconosciuta. Da persona intelligente Castorp non nutriva alcuna superbia personale; ma una superbia generica e di piú lontana origine gli stava scritta in fronte e intorno agli occhi un po' assonnati, e da essa scaturiva quel senso di superiorità che egli non poteva né voleva reprimere di fronte al tipo e al carattere di madame Chauchat. Strano è che di questo sentimento di superiorità si rendesse conto vivamente, e forse fu la prima volta, un giorno in cui udì la signora parlare tedesco: era in piedi nella sala, alla fine di un pasto, le mani nelle tasche del maglione, e discorrendo con un'altra paziente, probabilmente una compagna di veranda, si sforzava come Castorp poté notare passandole vicino - di esprimersi (con molta grazia, bisogna dire) in tedesco, nella lingua materna di Castorp, com'egli avvertí con improvviso e mai provato orgoglio... anche se disposto a sacrificare quest'orgoglio al piacere che gli veniva da quel grazioso modo di storpiare la sua lingua. Breve: nella sua tacita relazione con quella trasandata appartenente alla schiera di lassú Castorp scorgeva soltanto un'avventura delle vacanze che davanti al tribunale della ragione - della sua propria coscienza ragionevole - non poteva minimamente pretendere di trovare approvazione: soprattutto perché la Chauchat era malata, fioca, febbricitante e internamente bacata, la qual cosa era strettamente connessa con tutta la sua sospetta esistenza e aveva anche gran parte nel senso di precauzione e di distacco che Castorp nutriva... no, non gli passava per la mente il desiderio di conoscerla di persona, e in quanto al resto, tra una settimana e mezza, entrando lui nella ditta di Tunder & Wilms, tutto bene o male sarebbe finito senza conseguenze. Per il momento però aveva cominciato a considerare le commozioni e tensioni dell'animo, le soddisfázioni e le delusioni che gli venivano dai suoi teneri rapporti con la paziente, come il vero e proprio valore e contenuto del suo soggiorno estivo, a vivere per questo, a far dipendere il suo umore dai risultati felici. Le circostanze li favorivano, poiché si viveva in gruppo, in uno spazio ristretto, entro un regolamento giornaliero fisso e obbligatorio per tutti; e se anche la signora Chauchat stava a un altro piano - al primo (e faceva la cura a sdraio, come Castorp apprese dalla maestra, in una veranda comune, cioè in quella che era sul tetto, la stessa dove il capitano Miklosich aveva recentemente spento la luce), gl'incontri erano

possibili anzi inevitabili dalla mattina alla sera, non fosse altro ai cinque pasti, ma in genere a ogni piè sospinto. E anche questo, come il fatto che non c'erano fatiche o apprensioni a precludere le possibilità, pareva a Castorp un'ottima cosa, anche se quel trovarsi imprigionato col caso favorevole era un po opprimente. Ma egli dava persino una mano, calcolava e metteva il cervello al servizio della causa per correggere la sorte. Siccome la Chauchat per consuetudine veniva a tavola in ritardo, anche lui fece apposta a ritardare per incontrarla, mentre vi si recava. Indugiava nel vestirsi, non era pronto quando Joachim veniva a prenderlo, lo mandava avanti aggiungendo che l'avrebbe seguito subito. Consigliato dall'istinto delle sue condizioni, aspettava il momento che gli pareva opportuno e scendeva di corsa al primo piano dove non prendeva la scala in continuazione di quella che l'aveva portato fin lí, ma seguiva il corridoio fin quasi in fondo, fino all'altra scala, vicina alla porta di una camera (era il n. 7) a lui ormai ben nota. In quel tragitto, lungo il corridoio fra una scala e l'altra, ogni passo, si può dire, offriva una probabilità, perché la nota porta poteva aprirsi da un momento al l'altro... e si era aperta piú volte: poi si chiudeva con fracasso alle spalle della Chauchat che ne era uscita senza far rumore e con passo slittante senza far rumore infilava la scala... Allora o lo precedeva reggendosi i capelli sulla nuca o andava avanti lui sentendone lo sguardo sulle spalle e provando nelle membra un dolore acuto, come un formicolio lungo la schiena, ma siccome desiderava darsi un contegno davanti a lei, fingeva di non badarle e di vivere personalmente in perfetta indipendenza - ficcava le mani in tasca e agitava le spalle senza al cuna necessità o si raschiava rumorosamente in gola dandosi pugni sul petto - tutto per manifestare la sua disinvoltura. Due volte spinse la sua scaltrezza ancor piú oltre. Dopo essersi seduto alla mensa, esclamò sgomento e seccato palpandosi con ambo le mani: To', ho dimenticato il fazzoletto! Ora mi tocca salire un'altra volta! . E tornò indietro per "incontrare' Clavdia, la qual cosa era ben diversa, piú pericolosa e piú piccante che quando lei camminava davanti o dietro a lui. A quella manovra, la prima volta lo squadrò da una certa distanza, senza al cun riguardo e senza pudore, da capo a piedi, ma avvicinatasi passò via guardando indifferente dall'altra parte, sicché l'esito dell'incontro non fu molto vantaggioso. La seconda volta invece lo guardò, e non solo da lontano... tutto il tempo lo guardò, durante tutto il percorso, lo fissò in viso, quasi cupamente, e nel passare volse persino la testa verso di lui: il povero Castorp provò un colpo al cuore. D'altronde non si dovrebbe compiangerlo perché era stato lui a volere e a organizzare l'incontro. Questo però lo scosse profondamente, sia mentre si svolgeva, sia soprattutto dopo, poiché solo quando tutto fu passato, capí chiaramente com'era andata. Non aveva mai veduto il viso di madame Chauchat cosí da vicino, in modo da poter distinguere tutti i particolari: aveva potuto notare i brevi capelli sciolti dalle trecce bionde, che davano un po' nel rossiccio

metallico ed erano attorte sulla testa, e c'era stato soltanto qualche palmo di distanza fra la sua faccia e quella di lei, dall'aspetto cosí strano, ma a lui ormai familiare da parecchio tempo, che gli piaceva come nulla al mondo: un aspetto forestiero e di carattere (poiché soltanto gli stranieri ci sembra che abbiano un carattere), d'un esotismo nordico e misterioso, invitante a essere scandagliato, in quanto non era facile determinarne i contrassegni e le proporzioni. Decisiva era la zona elevata degli zigomi assai marcati: questa urgeva contro gli occhi insolitamente avvallati, insolitamente distanti l'uno dall'altro, e li rendeva un tantino obliqui, mentre causava anche la tenera concavità delle guance la quale, a sua volta e indirettamente, provocava la tumidezza un po' sollevata delle labbra. Ma in modo particolare l'avevano colpito gli occhi, quegli occhi chirghisi, stretti e tagliati (cosí pareva a Castorp) in maniera semplicemente incantevole, il cui colore uguagliava l'azzurro-grigio o grigiazzurro di lontani monti; quegli occhi che talvolta, a una certa occhiata di sghembo, non destinata a guardare, si oscuravano languidi come sotto un velo notturno... gli occhi di Clavdia che senza riguardi e un pochino cupi lo avevano osservato vicinissimi e per la posizione, il colore, l'espressione assomigliavano in modo cosí vistoso e sorprendente a quelli di Pribislav Hippe! "Assomigliavano" non è detto bene, no: erano gli stessi occhi; e anche la metà superiore del viso, cosí larga, il naso schiacciato, tutto, persino il bianco arrossato della pelle, il sano colorito delle guance che in lei però dava soltanto l'illusione di salute e come per tutti lassú non era che un superficiale prodotto della cura all'aperto... tutto, tutto era come in Pribislav, il quale non lo aveva guardato diversamente quando s'incontravano nel cortile della scuola. Era impressionante sotto tutti gli aspetti: Castorp era entusiasta dell'incontro e nello stesso tempo provava come sintomi di paura, un'oppressione simile a quella che gli procurava il trovarsi imprigionato in breve spazio insieme col caso favorevole. Anche il fatto che Pribislav, dimenticato da un pezzo, gli si ripresentava lassú sotto l'aspetto di madame Chauchat e lo guardava con occhi chirghisi era come un trovarsi imprigionato con qualcosa di inevitabile, di ineluttabile... ma tale da ispirare felicità e paura. Era una fonte di speranza, ma anche di inquietudine, persino di minaccia, e destava in lui quasi un bisogno di chiedere soccorso: nel suo cuore si agitavano moti indeterminati e istintivi, come dire equivalenti al guardarsi intorno, all'andare tentoni in cerca d'aiuto, di consiglio, di appoggio; e pensava a diverse persone, l'una dopo l'altra, alle quali potesse essere conveniente pensare. C'era al suo fianco Joachim, il buono e onesto Joachim, i cui occhi avevano assunto in quei mesi un'espressione cosí triste, Joachim che talvolta scrollava le spalle con cosí violento disprezzo come a suo tempo non avrebbe mai fatto, Joachim che teneva in tasca "l'azzurro Enrico", come la signora Stohr chiamava quell'aggeggio, con una faccia cosí spudoratamente caparbia che Castorp ne rimaneva ogni volta sbigottito in fondo all'anima... C'era dunque il probo Joachim che seccava e tormentava il consigliere Behrens perché lo lasciasse andar via a fare l'agognato servizio "al piano", "in pianura", come si chiamava lassú il mondo dei sani con una sottile, ma sensibile punta di disprezzo. Per arrivarci piú presto e risparmiare il tempo di cui lassú si faceva tanto spreco, osservava anzitutto con la massima precisione il servizio delle cure: lo faceva per la sua sollecita guarigione, non c'è dubbio, ma -

come Castorp credeva ogni tanto di notare - un po' anche per amore dello stesso servizio terapeutico che alla fin fine era un servizio come un altro, e l'adempimento del proprio dovere è sempre adempimento del proprio dovere. La sera pertanto Joachim, già dopo un quarto d'ora, premeva per passare dalla compagnia alla poltrona a sdraio, ed era un bene, poiché la sua meticolosità militare soccorreva, per così dire, il senso borghese di Hans Castorp al quale altrimenti sarebbe forse piaciuto intrattenersi ancora - cosa assurda e senza scopo con gli ospiti, tenendo d'occhio il salottino dei russi. Ma se Joachim insisteva tanto per abbreviare le riunioni serali, c'era anche un'altra, seconda ragione, che Castorp intuiva benissimo da quando aveva imparato a interpretare con precisione il pallore maculato di Joachim e il modo caratteristico e doloroso in cui certe volte stirava le labbra. Anche Marusja infatti, la sempre ridarella Marusja, col piccolo rubino al bel dito, col profumo d'arancio e l'alto seno bacato, era per lo piú presente a quelle riunioni, e Castorp si rendeva conto che questo particolare cacciava via Joachim perché troppo e paurosamente lo attirava. Che anche Joachim fosse "imprigionato"... in maniera persino piú stretta e opprimente di lui stesso, dato che Marusja col suo fazzolettino all'arancio si trovava, oltre a tutto, seduta cinque volte al giorno insieme con loro alla stessa mensa? In ogni caso Joachim doveva occuparsi troppo di se stesso perché la sua esistenza potesse, a rigore, essere d'intimo giovamento a Castorp. La sua quotidiana fuga dalla società era, per quest'ultimo, una prova di rettitudine, ma tutt'altro che tranquillante, e in qualche momento Castorp aveva anche l'impressione che il buon esempio di Joachim nello stare fedelmente al servizio della cura e nell'avviare lui stesso ad osservarlo, avesse un che di sospetto. Il soggiorno di Castorp non toccava ancora le due settimane, ma a lui sembrava piú lungo, e il regolamento della giornata che Joachim al suo fianco osservava con tanta premura aveva cominciato ad assumere ai suoi occhi l'impronta d'una ovvia e sacra inviolabilità, sicché la vita nel piano laggiú, vista cosí dall'alto, gli appariva quasi bizzarra e falsa. Aveva già acquistato una bella abilità nel maneggiare le due coperte con le quali, quando faceva freddo, ci si trasformava in un pacco regolare, in una vera e propria mummia; poco mancava che uguagliasse Joachim nell'arte e sicurezza di avvolgersi in modo regolamentare, e quasi quasi si stupiva all'idea che laggiú nella pianura non si sapesse nulla di quell'arte e di quel regolamento. Stupefacente davvero;... ma nello stesso tempo Castorp si stupiva che gli paresse stupefacente, e cosí rinasceva in lui quell'inquietudine che dentro lo spingeva in cerca di consiglio e appoggio. Gli venne fatto di ripensare a Behrens e al suo consiglio, dato sine pecunia, di vivere esattamente come i pazienti e di misurarsi persino la temperatura, nonché a Settembrini che a quel consiglio era scoppiato a ridere e poi aveva citato una frase del Flauto magico. Sí, anche a quei due pensò, cosí per prova, per vedere se gli faceva bene. Behrens infatti aveva i capelli bianchi, poteva essere suo padre. Oltre a ciò era direttore del sanatorio, l'autorità suprema; e proprio di un'autorità paterna il giovane sentiva in cuore un inquieto bisogno. Eppure non riusciva a pensare al direttore con fiducia filiale.

Questi aveva sepolto lí sua moglie, per qualche tempo il dolore lo aveva reso un po' bizzarro, poi era rimasto sul posto perché si sentiva legato a quella tomba e anche perché lui stesso si era un po' ammalato. Ma era passata? Era sano e decisamente pronto a guarire gli altri, affinché ritornassero al piú presto giú in pianura e potessero far servizio? Aveva le guance sempre blu e, a rigore, l'aspetto di chi ha un po' di temperatura. Questo però poteva essere un abbaglio e il colorito poteva dipendere dall'aria: Castorp stesso sentiva ogni giorno un calore secco, senza che avesse la febbre, fin dove poteva giudicare senza termometro. E' vero che udendolo parlare si poteva pensare talvolta che il direttore avesse un po' di alterazione; il suo modo di parlare non era del tutto normale: sonava energico, gioviale, bonario, ma c'era anche un che di strano, di esaltato, specie quando si consideravano le sue guance blu e gli occhi lacrimosi, che pareva piangessero ancora la moglie defunta. Castorp ricordò la conversazione di Settembrini a proposito della "malinconia" e della "viziosità" del consigliere aulico, quando lo aveva definito un"'anima tormentata". Poteva essere cattiveria e millanteria; ma in ogni caso Castorp si convinse che pensare a Behrens non era molto corroborante. Certo, rimaneva ancora lo stesso Settembrini, l'oppositore, il fanfarone e homo humanus, come definiva se stesso, il quale con parole chiare e tonde gli aveva proibito di chiamare malattia e stupidità insieme una contraddizione e un dilemma per il sentimento umano. Che uomo era? Ed era vantaggioso pensare a lui? Castorp ricordava, sí, quanto in parecchi dei sogni eccessivamente vivaci, i quali empivano lassú le sue notti, si fosse scandalizzato del sottile, asciutto sorriso dell'italiano sotto la elegante curva dei baffi, come l'avesse insultato chiamandolo sonatore d'organetto, e avesse cercato di cacciarlo via perché dava fastidio. Ma tutto ciò era avvenuto nel sogno, il Castorp sveglio era diverso, meno libero di quello del sogno. Nella veglia la sua protervia e la critica (forse era opportuno che Castorp dentro di sé si misurasse con quel l'uomo di nuova specie) potevano essere un'altra cosa, benché fossero lacrimose e ciarliere. Egli stesso si era detto pedagogo; e il giovane Castorp non chiedeva di meglio che di essere guidato... senza però arrivare al punto da subire per parte di Settembrini il suggerimento di far le valige e di partire anzi tempo, come quello gli aveva proposto poco prima con la massima serietà. Placet experiri, pensò sorridendo, poiché fin lí arrivava il suo latino, anche se non gli era lecito definirsi un homo humanus. Perciò teneva d'occhio Settembrini e ascoltava volentieri, non senza critica attenzione, tutto ciò che questi veniva esponendo durante le sue passeggiate alla panchina addossata alla montagna o durante la discesa a Platz o altre volte, quando per esempio, alla fine del pasto, Settembrini si alzava per primo e con quei calzoni quadrettati, uno stuzzicadenti fra le labbra, se ne veniva lemme lemme tra le sette tavole della sala per trattenèrsi un poco a quella dei cugini contro ogni regola e consuetudine. Lo faceva assumendo una posizione elegante, con le gambe incrociate, e chiacchierava gesticolando con lo stuzzicadenti.

O accostava una sedia accomodandosi a un angolo tra Castorp e la maestra da una parte o tra Castorp e miss Robinson dall'altra, e stava a guardare i nove commensali che consumavano la frutta alla quale egli doveva aver rinunciato. E' permesso entrare in questo nobile circolo? domandò una volta stringendo la mano ai due cugini e comprendendo in un inchino tutti gli altri. Quel birraio laggiú... e non parliamo della disperata figura della birraia... Ma quel signor Magnus... proprio ora ha tenuto una conferenza sulla psicologia dei popoli. Volete sentire? "La nostra diletta Germania è una grande caserma, certo. Ma, sotto, c'è anche molta bravura, e io non cambierei la nostra solidità con la cortesia degli altri. Che mi giova la cortesia se m'imbrogliano in faccia e alle spalle?" Questo lo stile. Sono allo stremo delle mie forze. E di fronte ho una misera creatura con rose funebri sulle guance, una vecchia zitella della Transilvania che ininterrottamente parla di suo "cognato", un uomo del quale nessuno sa né vuol sapere nulla. Insomma, non potendone piú, me la sono svignata. Quasi in fuga ha afferrato la bandiera commentò la signora Stohr. Capisco benissimo. Esatto esclamò Settembrini. La bandiera! Vedo, qui tira un'altr'aria... non c'è dubbio, ho bussato all'uscio buono. Quasi in fuga dunque l'ho afferrata... Chi saprà esprimersi cosí?... Posso chiederle, signora Stohr, quale miglioramento ha notato? Incredibili le smancerie della Stohr. Dio buono rispose si è sempre allo stesso punto, lo sa anche lei. Si fanno due passi avanti e tre indietro... Quando uno ha fatto cinque mesi, arriva il vecchio e gliene rifìla altri sei. Ah, è la tortura di Tantalo. Si spinge, si spinge, e quando si crede d'essere in cima... Oh, brava e generosa! Finalmente concede al povero Tantalo un diversivo. Per variare gli fa spingere il famoso pietrone! E' un atto di vera bontà. Ma, a proposito, signora, fatti misteriosi la circondano. Si narrano storie di sdoppiamenti, di corpi astrali... Finora non ci credevo, ma ciò che le accade mi lascia perplesso... Pare che lei, signore, voglia divertirsi alle mie spalle. Niente affatto. Non ne ho la minima intenzione. Cominci lei a tranquillarmi intorno a certi lati oscuri della sua esistenza, e poi si potrà parlare di divertimento. Ieri sera tra le nove e mezzo e le dieci vado a fare un po' di moto in giardino... giro uno sguardo lungo i balconi... la lampadina elettrica del suo brilla nelle tenebre. Per conseguenza lei era coricata per la cura, com'è doveroso, ragionevole e prescritto. - La nostra bella malata - dico fra me- è lassú coricata e si attiene scrupolosamente agli ordini per poter ritornare presto tra le braccia del signor Stohr. - Pochi minuti fa, invece, che cosa vengo a sapere? Che a quell'ora è stata vista

nel cinematografo sotto i portici della Casa di cura e poi ancora nella pasticceria tra vin dolce e non so quali baisers, e precisamente... La Stohr torceva le spalle, ridacchiava nel tovagliolo, urtava col gomito Joachim Ziemssen e il taciturno dottor Blumenkohl, strizzava l'occhio con furberia confidenziale e rivelava in tutti i modi una stupidissima vanità. La sera per eludere la sorveglianza, metteva sul balcone la lampadina accesa, sgusciava via di nascosto e andava a distrarsi laggiú nel Quartiere inglese. Suo marito la aspettava a Cannstatt. Non era d'altronde l'unica paziente che si dedicasse a tali armeggi. ...e precisamente continuò Settembrini avrebbe gustato quei baisers in compagnia di... di chi? Del capitano Miklosich di Bucarest! Mi assicurano che porta il busto, ma, Dio mio, che importanza ha in questo Caso? Mi dica, signora, dove si trovava? Lei è duplice. Ad ogni modo era addormentata e, mentre la sua parte terrena stava solitaria facendo la cura, la parte spirituale si divertiva in compagnia del capitano Miklosich e dei suoi baisers... La signora Stohr si torceva e schermiva come uno cui si fa il solletico. Non so se non si debba augurarsi il contrario aggiunse Settembrini. Che lei abbia gustato i baisers da sola e abbia fatto la cura sulla sedia a sdraio insieme col capitano Míklosich... Ih, ih, ih... I signori sanno la storia di ieri l'altro? domandò di punto in bianco l'italiano. Uno è stato portato via... portato via dal diavolo, o piú propriamente da sua madre, una donna energica, che mi è piaciuta. Si tratta del giovane Schneermann, Anton Schneermann, che si sedeva là davanti, alla tavola di mademoiselle Kleefeld... come vedete, il posto è vuoto. Sarà rioccupato assai presto, non ne ho il minimo dubbio, ma Anton è partito sull'ali della bufera, in un baleno, prima che se l'aspettasse. Era qui da un anno e mezzo... e ne aveva sedici; poco prima gli erano stati appioppati altri sei mesi. Ma che è che non è? non so chi abbia detto una parolina a madame Schneermann, fatto sta che ebbe sentore del mutamento del suo rampollo in Baccho et ceteris. Senza preavviso compare qui, tanto di matrona, tre palmi piú alta di me, collerica, coi capelli bianchi, senza parlare ammolla un paio di schiaffi al signor Anton, lo prende per il colletto e lo ficca in treno. "Se deve rovinarsi" dice "può farlo anche laggiú." E via, se lo porta a casa. Tutti quelli che avevano potuto udire si misero a ridere, perché Settembrini sapeva raccontare in modo buffo. Era sempre al corrente dell'ultima novità, benché non avesse per la vita sociale di quelli lassú altro che critiche beffarde. Sapeva tutto. Sapeva il nome e su per giú anche i dati biografici dei nuovi arrivati; riferiva che il giorno prima il tale o la tale aveva subito la resezione d'una costola e aveva saputo da buona fonte che a partire dall'autunno non si sarebbero piú accettati pazienti con oltre 38 e 5 gradi di febbre. La notte precedente, a sentir lui, il cagnolino di madame Kapatsoulias da Mitilene si era seduto sull'interruttore del segnale luminoso sopra il comodino della padrona, provocando un gran correre, un trambusto, tanto piú che la signora Kapatsoulias era stata trovata non sola, ma in compagnia dell'assessore Dustmund da Friedrichshafen.

Persino il dottor Blumenkohl sorrise a questo racconto, la bella Marusja fu lí lí per soffocare col fazzolettino sulla bocca e la signora Stohr mandò gridi squillanti premendosi le mani sul seno sinistro. Con i cugini però Lodovico Settembrini parlava anche di sé e della sua famiglia, sia durante le passeggiate, sia nei ritrovi serali o dopo colazione quando la maggioranza dei pazienti aveva lasciato la sala e loro tre si attardavano intorno alla tavola, mentre le cameriere sparecchiavano e Castorp fumava il suo "Maria Mancini ', del quale nella terza settimana riassaporava un poco l'aroma. Con critica attenzione, stupefatto, ma disposto a farsi guidare, Castorp ascoltava i racconti dell'italiano che gli aprivano un mondo singolare, del tutto nuovo. Settembrini parlò di suo nonno che faceva l'avvocato a Milano, ma soprattutto era stato un grande patriota, come dire un agitatore politico, oratore e giornalista, all'opposizione anche lui come il nipote, ma con un'attività piú larga e audace. Infatti, mentre Lodovico (lo faceva notare lui stesso con amarezza) doveva limitarsi a pizzicare vita e costumi nel Sanatorio Internazionale Berghof, a formulare le sue critiche con ironia e a protestare in nome di una bella e alacre umanità, quello aveva procurato grattacapi ai governi, aveva cospirato contro l'Austria e la Santa Alleanza che a suo tempo teneva in cupa schiavitú la sua patria smembrata, ed era stato un solerte membro di certe società segrete, diffuse in Italia... un carbonaro, come spiegava Settembrini abbassando improvvisamente la voce, come se fosse ancora pericoloso parlarne. Breve, quel Giuseppe Settembrini, in base ai racconti del nipote, si presentava ai due ascoltatori come una figura tenebrosa, appassionata e sobillatrice, un caporione, un congiurato, e nonostante il rispetto che per cortesia cercavano di mostrare, non riuscivano del tutto a reprimere un'espressione di antipatia diffidente, persino di disgusto. Certo era un caso particolare: ciò che ascoltavano risaliva a tempi lontani, quasi cento anni addietro, era ormai storia, e nella storia, specie l'antica, avevano già familiarità, in teoria, con i fatti che venivano loro esposti, col fenomeno cioè della disperata aspirazione alla libertà e dell'inflessibile odio contro la tirannide, benché non avessero mai supposto di arrivare un giorno ad averne un contatto cosí diretto e umano. D'altronde la rivolta e la cospirazione di quel nonno erano accoppiate a un grande amore per la patria che egli voleva una e libera... anzi, la sua attività sediziosa era frutto e conseguenza di quel rispettabile accoppiamento, e per quanto il misto di insurrezione e patriottismo sembrasse strano tanto all'uno quanto all'altro dei cugini - avvezzi com'erano a porre il sentimento patrio allo stesso livello del conservatore senso dell'ordine -, pur dovevano mentalmente riconoscere che, date le condizioni di luogo e di tempo, la sommossa doveva essere stata una virtú cívile e la leale compostezza pari a una fiacca indifferenza verso la cosa pubblica. Ora, il nonno Settembrini non era stato soltanto un patriota italiano, ma anche un concittadino e commilitone di tutti i popoh bramosi di libertà. Fallito infatti il tentativo di un colpo di stato che si era intrapreso a Torino, al quale aveva partecipato con la parola e con l'azione, sfuggendo per miracolo agli sgherri del principe Metternich, aveva impiegato il tempo dell'esilio a combattere e versare il proprio sangue in Spagna per la costituzione e in Grecia per l'indipendenza del popolo ellenico.

Là era venuto al mondo il padre di Settembrini - che forse appunto perciò era diventato un cosí grande umanista, ammiratore dell'antichità classica - da una madre di sangue tedesco, poiché Giuseppe aveva sposato la ragazza in Svizzera e poi se l'era portata con sé nelle sue avventure. In seguito, dopo dieci anni di esilio, aveva potuto ritornare al suo paese e aveva esercitato l'avvocatura a Milano, ma senza rinunciare a rivolgere appelli alla nazione, coi discorsi e con gli scritti, in versi e in prosa, affinché conquistasse la libertà e costituisse la repubblica unitaria; a dettare programmi rivoluzionari con fervido slancio dittatorio; a proclamare in limpido stile l'unione dei popoli liberati per stabilire la felicità universale. Un particolare menzionato da Settembrini nipote fece molta impressione al giovane Castorp: che cioè il nonno Giuseppe in tutta la sua vita si era presentato ai concittadini esclusivamente in abito nero, poiché, diceva, era in lutto per l'Italia, la patria che languiva nella miseria e nella schiavitú. A questa notizia Castorp - come aveva già fatto alcune volte istituendo il confronto - non poté non pensare al proprio nonno che a sua volta, nel periodo in cui il nipote l'aveva conosciuto, vestiva sempre di nero, ma con intenzione ben diversa da quella di quest'altro nonno: e ricordò la foggia all'antica con la quale la vera personalità di Hans Lorenz Castorp, appartenente a un'epoca passata, si era adattata, come ripiego e come segno della sua estraneità, al tempo presente finché, morendo, aveva assunto con solennità (mediante la gorgiera rotonda) la sua figura vera e adeguata. Erano stati davvero due nonni nettamente diversi ! Hans Castorp ci pensò, mentre teneva lo sguardo fisso e scoteva la testa con cautela, i4 modo che lo si potesse interpretare come segno di ammirazione per Giuseppe Settembrini o come stupore e negazione. Si guardava anche onestamente dal condannare l'atteggiamento straniero, anzi si sforzava di limitarsi ad accertare e a confrontare. Rivedeva la testa sottile del vecchio Hans Lorenz che nella sala si chinava pensosa sul tondo lievemente dorato della bacinella battesimale, il retaggio fisso e migrante, con le labbra socchiuse perché formavano il prefisso "bis", la pia sillaba che ricordava luoghi nei quali, con la persona china in avanti, si assume un'andatura rispettosa. E vedeva Giuseppe Settembrini che, col tricolore in pugno, brandiva la spada e levando al cielo gli occhi neri con solenne promessa si lanciava, alla testa di una schiera di campioni della libertà, contro la falange del dispotismo. Nell'un caso e nell'altro c'erano onore e bellezza, pensava sforzandosi di essere equo, tanto piú che sentiva di essere, tutto o per metà, parte in causa. Il nonno Settembrini infatti aveva lottato per diritti politici, mentre il nonno suo, o almeno gli antenati di lui avevano posseduto in origine tutti i diritti, e la marmaglia nel corso di quattro secoli glieli aveva strappati con la violenza o con le chiacchiere... Ed ecco, entrambi si erano vestiti di nero, il nonno del nord e quello del sud, entrambi per interporre un rigoroso distacco tra sé e la cattiveria contemporanea. Ma l'uno l'aveva fatto per spirito religioso, in onore del passato e della morte, cui si sentiva legato; l'altro invece per spirito ribelle e in onore d'un progresso antireligioso.

Eh sí, erano due mondi, due punti cardinali, pensò Castorp, e come egli stava nel mezzo durante il racconto di Settembrini e indagando guardava ora l'uno ora l'altro, cosí, rifletté, gli era già capitato un'altra volta. Ricordò una solitaria gita in barca nel crepuscolo, su un lago del Holstein, nella tarda estate di alcuni anni prima. Era stato alle sette di sera, il sole era tramontato, la luna quasi piena in oriente era già sorta sopra i cespugli della riva. E per dieci minuti, mentre Castorp avanzava remando sull'acqua tranquilla, si era trovato in una conturbante situazione. A occidente era giorno chiaro, una decisa luce diurna, fredda, vitrea; se invece guardava dalla parte opposta, vedeva un'altrettanto decisa notte lunare, incantevole, velata di umide nebbie. Lo strano contrasto poteva essere durato appena un quarto d'ora prima di trovare il pareggio in favore della notte e della luna, e con sereno stupore gli occhi abbacinati e beffati di Castorp erano passati da un'illuminazione e da un paesaggio all'altro, dal giorno alla notte e dalla notte ancora al giorno. Questo gli venne fatto di ricordare. Un grande giurisperito, pensò inoltre, non poteva essere diventato l'avvocato Settembrini, dato il suo tenore di vita e la vasta attività. Ma, come il nipote sapeva rendere plausibile, il fondamento universale del diritto lo aveva animato dalla fanciullezza alla morte, e Castorp, benché in quel momento non avesse la mente limpida e il suo organismo fosse molto impegnato a causa di un pasto di sei portate come usava al Berghof, si industriava di comprendere il pensiero di Settembrini, quando chiamava quel fondamento "fonte della libertà e del progresso". Quest'ultimo era stato fino allora per Castorp qualcosa come lo sviluppo degli apparecchi di sollevamento nel secolo XIX; e trovò infatti che Settembrini non lesinava la sua stima a tali cose, come non l'aveva lesinata evidentemente suo nonno. L'italiano faceva molto onore alla patria dei due ascoltatori perché là erano state inventate la polvere da sparo, la quale aveva ridotto la corazza del feudalismo a un'anticaglia, e la stampa: e questa aveva reso possibile la democratica diffusione delle idee... ossia, la diffusione delle idee democratiche. Elogiava dunque la Germania sotto questo aspetto e in riguardo al passato, anche se reputava giustamente di dover riservare la palma al suo paese, perché - mentre gli altri popoli erano ancora assopiti nella superstizione e nella schiavitú - esso aveva issato per primo il vessillo dell'istruzione, della cultura e della libertà. Ma se si inchinava volentieri davanti alla tecnica e al traffico, il campo della personale attività di Castorp, come aveva fatto dal primo incontro coi cugini davanti alla panchina sul versante nella montagna, non lo faceva, a quanto sembrava, per amore di queste due potenze come tali, bensí considerando l'importanza che avevano per il perfezionamento morale dell'uomo: era lieto infatti di dichiarare che attribuiva loro questa importanza. La tecnica, diceva, assoggettando sempre piú la natura e vincendo le differenze climatiche mediante le comunicazioni da essa create, come lo sviluppo delle reti stradali e dei telegrafi, si rivela il mèzzo piú

fidato per avvicinare i popoli tra loro, per favorirne la reciproca conoscenza, per avviare il loro pareggio umano, distruggere i pregiudizi e creare infine l'unione universale. Il genere umano, diceva, viene dalla tenebra, dalla paura, dall'odio, ma per una via luminosa avanza e sale verso un conclusivo stato di simpatia, di chiarezza interiore, di bontà e di felicità, e il piú utile veicolo su questa via è precisamente la tecnica. Ma cosí parlando Settembrini accomunava d'un fiato categorie che fino allora Castorp era stato avvezzo a considerare molto distaccate l'una dall'altra. Tecnica e morale, diceva! E poi discorreva del Redentore del cristianesimo, il quale per primo aveva rivelato il principio dell'uguaglianza e dell'unione, dopo di che la stampa aveva largamente provveduto a diffonderlo e infine la grande rivoluzione francese ne aveva fatto una legge. Al giovane Castorp, sia pure per motivi indeterminati, ma certo e decisamente tutto ciò sembrava confuso, nonostante che Settembrini lo formulasse con parole chiare e nette. Una volta, disse quest'ultimo, una sola volta, proprio al principio dell'età virile, suo nonno si era sentito cordialmente felice, cioè al tempo della rivoluzione di Luglio. A gran voce e in pubblico aveva proclamato allora che un giorno tutti gli uomini avrebbero collocato quei tre giorni di Parigi accanto alle sei giornate della creazione del mondo. A questo punto Castorp non si poté trattenere dal picchiare il pugno sulla tavola e dal meravigliarsi fino in fondo all'anima. Gli parve grossa che si dovessero porre le tre giornate estive del 1830, quando i parigini si erano dati una nuova costituzione, accanto alle sei, nelle quali il Signore Iddio aveva separato la terra dalle acque e creato gli eterni luminari del cielo, nonché fiori, alberi, uccelli, pesci e tutta la vita; e anche in seguito, trovandosi solo a conversare col cugino Joachim, disse che gli pareva grossa assai, anzi addirittura scandalosa. Ma non gli mancava la buona volontà di farsi guidare, nel senso che è gradevole fare esperimenti, sicché mise un freno alla protesta che il suo sentimento religioso e il suo gusto opponevano al settembriniano ordinamento del mondo, considerando che ciò che a lui sembrava sacrilegio potesse essere audacia, e ciò che a lui pareva cattivo gusto potesse essere stato, almeno là e a quel tempo, magnanimità e nobile esuberanza: quando, per esempio, il nonno Settembrini aveva definito le barricate "trono del popolo" e dichiarato che si trattava di "consacrare la picca del cittadino sull'altare dell'umanità". Castorp sapeva perché ascoltava Settembrini, non proprio espressamente, ma lo sapeva. C'era quasi un senso del dovere, al di là della irresponsabilità del turista e ospite in vacanza che non oppone resistenza a nessuna impressione e non respinge le cose, ben sapendo che domani o posdomani aprirà di nuovo le ali e ritomerà alla vita usata: qualcosa dunque come un precetto di coscienza, e, per essere precisi, il precetto e il monito di una coscienza sudicia lo inducevano ad ascoltare l'italiano, tenendo le gambe accavallate e il "Maria Mancini" tra le labbra, o salendo, in tre, dal Quartiere inglese verso il Berghof. Secondo il concetto e la parola di Settembrini, due principi sarebbero in lotta tra loro per il mondo: la potenza e il diritto, la tirannide e la libertà, la superstizione e la scienza, il principio dell'inerzia e quello del moto, del fermento, del progresso.

Si può chiamare l'uno il principio asiatico, l'altro l'europeo, perché l'Europa è il paese della ribellione, della critica, dell'azione riformatrice, mentre il continente orientale incarna l'immobilità, l'inerte quiete. Non v'è da dubitare a quale delle due potenze debba toccare la vittoria finale. L'umanità trascina infatti con sé sempre nuovi popoli sulla sua strada luminosa, conquista sempre piú terreno nell'Europa stessa e comincia ad avanzare in Asia. Ma molto manca ancora alla completa vittoria, e ancora grandi e nobili sforzi devono fare i benpensanti, coloro che hanno ricevuto la luce, finché spunterà il giorno in cui anche i paesi del nostro continente, i quali in verità non ebbero né un secolo XVIII né un 1789, vedranno crollare le monarchie e le religioni. Ma quel giorno verrà - diceva Settembrini con un sottile sorriso sotto i baffi -, verrà, se non con zampe di colomba, con ali d'aquila, e spunterà come l'aurora dell'universale affratellamento dei popoli nel segno della ragione, della scienza e del diritto; e recherà la santa alleanza della democrazia borghese, splendido riscontro a quella tre volte infame alleanza dei sovrani e dei gabinetti, della quale il nonno Giuseppe era stato nemico mortale, ...recherà, insomma, la repubblica mondiale. Ma a tal fine occorre anzitutto colpire il principio asiatico, il servile principio dell'inerzia, nel centro, nel nervo vitale della sua resistenza, cioè a Vienna. Occorre colpire a morte e distruggere l'àustria, prima per vendicare il passato, poi per instaurare il dominio del diritto e della felicità sulla terra. Quest'ultima frase e la deduzione degli armoniosi sfoghi di Settembrini non avevano piú alcun interesse per Castorp, gli dispiacevano, gli riuscivano anzi penose come una sorda irritazione personale e nazionale, ogni qual volta erano ripetute... per non dire di Joachim Ziemssen il quale, quando l'italiano imboccava quella strada, si voltava dall'altra parte con la fronte aggrottata e non ascoltava piú, o magari invitava al servizio imposto dalla cura o cercava di sviare il discorso. E cosí Castorp non si considerava obbligato a prestar attenzione a quelle aberrazioni: evidentemente esse erano fuori dei limiti, entro i quali un precetto di coscienza gli suggeriva di lasciarsi guidare in via di prova, e glielo suggeriva con tale chiarezza che, quando Settembrini si sedeva accanto a loro o, all'aperto, a loro si accompagnava, egli stesso lo invitava a esporre le sue idee. Idee, ideali e aspirazioni che, osservava Settembrini, erano tradizionali nella sua famiglia. Ché tutti e tre avevano consacrato ad esse la vita e l'intelligenza, il nonno, il padre e il nipote, ciascuno a suo modo: il padre non meno del nonno Giuseppe, benché non fosse, come quest'ultimo, un agitatore politico e campione della libertà, bensí un dotto tranquillo e sensibile, un umanista a tavolino. Ma che cosa è infine l'umanesimo? Amore dell'uomo è, nient'altro, e perciò è anche politica, è anche ribellione a tutto ciò che infanga e degrada l'idea dell'uomo. Gli si è rinfacciata una eccessiva stima della forma; sí, ma esso coltiva anche- la bella forma soltanto per amore della dignità dell'uomo, in splendido contrasto col medioevo che era immerso non solo nella misantropia e nella superstizione, ma anche in una ignominiosa trascuratezza di forma; e fin dal principio l'umanesimo si è battuto per la causa dell'uomo, per gli interessi terreni, la libertà del pensiero, la gioia del dovere, convinto che il cielo sia ragionevolmente da lasciare ai passeri. Prometeo! Ecco il primo umanista, il quale poi s'identifica con quel Satana al quale il Carducci ha dedicato l'inno!...

Oh, Dio mio, peccato che i due cugini non avessero ascol tato a Bologna il vecchio nemico della Chiesa quando tuonava e lanciava frecciate contro il sentimentalismo cristiano dei romantici! contro gli Inni sacri del Manzoni! contro la poesia delle ombre e del chiaro di luna di quel romanticismo che egli paragonava alla luna, "la pallida monacella celeste"! Perbacco, era stato un grande godimento! E avrebbero dovuto altresí sentire come lui, Carducci, interpretava Dante... come cittadino di una metropoli l'aveva celebrato, intento a difendere, contro l'ascesi e la negazione della vita, l'energia, quella che sconvolge e migliora il mondo. Col nome di "Donna gentile e pietosa" il poeta non aveva infatti onorato l'ombra malaticcia e mistagogica di Beatrice, bensí la moglie sua che nel poema incarna il principio della conoscenza terrena, della pratica operosità in questa vita... Ora, Castorp aveva dunque udito questo e quello intorno a Dante, e da ottima fonte. Non se ne fidava del tutto, considerando la tendenza del mediatore a spararle grosse; ma metteva pur conto di sentire che Dante fu cittadino di una metropoli e uomo del progresso. E inoltre ascoltava Settembrini quando parlava di sé dichiarando che in lui, nel nipote Lodovico, si erano fuse le tendenze dei suoi prossimi antenati, quella politica del nonno e quella umanistica del padre, poiché era diventato un letterato, un libero scrittore. La letteratura infatti non sarebbe altro che questo: l'unione di umanesimo e politica, tanto piú facile ad avverarsi in quanto lo stesso umanesimo è già politica e la politica umanesimo... A questo punto Castorp stette in orecchi e cercò di comprendere bene; infatti gli era lecito sperare di intendere tutta l'ignoranza del birraio Magnus e di imparare in che senso la letteratura è pur anche qualcosa di piú che "i bei caratteri". I suoi ascoltatori, domandò Settembrini, avevano mai sentito nominare ser Brunetto, Brunetto Latini, cancelliere fiorentino intorno al 1250, il quale scrisse un libro intorno ai vizi e alle virtú? Questo maestro era stato il primo a insegnare il garbo a Firenze e il modo di parlar bene e l'arte di governare la loro repubblica secondo le norme della politica. Ecco, dunque, signori! esclamò Settembrini. Eccoci arrivati ! E parlò della parola, del culto della parola, dell'eloquenza, che definí trionfo del senso di umanità; poiché, disse, la parola è l'onore dell'uomo, ed essa sola rende la vita degna degli uomini. Non soltanto l'umanesimo, l'umanità in genere, l'antica dignità umana, il rispetto dell'uomo e di se stessi, sono indissolubilmente legati alla parola, alla letteratura ( Vedi dunque disse in seguito Castorp a suo cugino, vedi che in letteratura ciò che conta sono le belle parole? Io l'avevo notato subito...) e alla letteratura è legata anche la politica, o meglio: questa deriva dall'alleanza, dalla fusione di umanità e letteratura, perché la bella parola genera la bella azione. Nel vostro paese disse Settembrini avevate duecento anni fa uno scrittore, un magnifico vecchio conversatore, che dava molto peso a una bella scrittura, perché era del parere che questa c'induca al bello stile. Avrebbe dovuto fare un passo avanti e dire che il bello stile conduce a belle azioni. Scrivere bene significa quasi pensare bene, e di qui ci vuole poco per arrivare ad agire bene. Ogni costumatezza, ogni perfezionamento morale proviene dallo spirito della letteratura, spirito dell'onore umano, che è ad un tempo lo spirito dell'umanità e della politica.

Sí, tutte queste cose sono una sola, sono la medesima potenza, la stessa idea, e si possono riassumere in un'unica parola. Quale? Ecco, la parola è composta di sillabe familiari, il cui significato e la cui maestà i due cugini certo non avevano ancora afferrato pienamente: la parola "civiltà"! E mentre essa gli usciva dalle labbra, Settembrini sollevò la piccola destra come uno che facesse un brindisi. Per il giovane Castorp tutto questo meritava di essere udito, senza impegno beninteso e in via di prova, ma in ogni caso gli pareva che mettesse conto di ascoltare, e in questo senso ne parlò conJoachim, il quale però proprio allora aveva il termometro in bocca e pertanto non poteva dare risposte intelligibili, e in seguito era anche troppo occupato a rilevare la temperatura e a registrarla sulla tabella per poter dare il suo parere sulle vedute di Settembrini. Hans Castorp, dicevamo, ne prendeva nota volentieri e apriva loro l'animo suo per valutarle: donde appare anzitutto quanto sia in vantaggio l'uomo sveglio se confrontato con quello che balordamente sogna... e in sogno Settembrini era già stato piú volte insultato da Castorp che l'aveva chiamato sonatore d'organetto e con ogni energia aveva tentato di respingerlo perché "lí disturbava"; da sveglio invece lo ascoltava con attenzione e cortesia e, con spirito di giustizia, cercava di spianare e soffocare le resistenze che stavano per sorgere in lui contro le categorie e le affermazioni del mentore. Non si vuol negare, infatti, che certe resistenze si facevano sentire nel suo petto: erano quelle che vi erano sempre state, già da prima, fin dall'origine, nonché quelle che scaturivano dalla particolare situazione presente, dalle sue esperienze vuoi indirette, vuoi segrete, tra quelli di lassú. Che cosa è mai l'uomo! quanto è facile che la sua coscienza s'inganni! Come sa ricavare anche dalla voce del dovere il permesso di abbandonarsi alla passione ! Per senso del dovere, per equità, per amore dell'equilibrio Castorp ascoltava Settembrini ed esaminava benevolmente le sue vedute sulla ragione, sulla repubblica e il bello stile, disposto a subirne l'influsso. Ma tanto piú gli pareva lecito, in seguito, dare via libera ai suoi pensieri, ai suoi sogni, in direzione diversa, opposta... anzi, per esprimere tutto il nostro sospetto o la nostra intuizione, egli aveva probabilmente ascoltato Settembrini soltanto per ottenere dalla propria coscienza un lasciapassare che in antecedenza èssa non gli aveva voluto concedere. Ma che cosa o chi si trovava da quest'altra parte, opposta al patriottismo, alla dignità umana, alla bella letteratura, dove Castorp reputava lecito volgere di nuovo i suoi pensieri e le sue mire? Là si trovava... Clavdia Chauchat, fioca, bacata, con occhi chirghísi; e mentre ripensava a lei ("ripensare" però è vocabolo troppo moderato per la sua maniera di rivolgere il cuore a lei), Castorp aveva l'impressione di trovarsi in barca su quel lago del Holstein e di guardare dal vitreo chiarore diurno della riva occidentale, con gli occhi abbacinati e beffati, verso la caliginosa notte lunare dei cieli orientali.

Il termometro. La settimana di Hans Castorp decorreva da un martedí all'altro, dato che di martedí era arrivato.

Già da un paio di giorni aveva saldato il suo secondo conto settimanale, il modesto conto di 160 franchi in cifra tonda, modesto e non caro a suo giudizio, anche non valutando gli elementi impagabili di quel soggiorno, appunto perché impagabili, né talune offerte che, volendo, si sarebbero potute mettere in conto, per esempio il concerto ogni quindici giorni e le conferenze del dottor Krokowski; invece comprendeva esclusivamente il vitto e l'ospitalità, il comodo alloggio e i cinque mastodontici pasti. Non è molto, è un prezzo piuttosto basso, non direi che quassú ti si voglia scorticare disse l'ospite al residente. In cifra tonda spendi 650 franchi al mese per vitto e alloggio, e vi è compresa l'assistenza medica. Bene. Supponiamo che tu sborsi ancora 30 franchi per le mance, se tieni al decoro e a vedere facce ridenti. Fanno 680 franchi. Bene. Mi dirai che ci sono anche altre spese e competenze. Costano le bevande, i cosmetici, i sigari, qualche volta si fa una gita, una scarrozzata, se vuoi, e ogni tanto c'è il conto del calzolaio o del sarto. Bene, ma con la migliore volontà non riesci a sborsare piú di mille franchi al mese! Nemmeno ottocento marchi! Che non sono neanche 10.000 marchi all'anno. Non di piú, in nessun caso. E' quanto ti occorre per vivere. Calcolo mentale lodevole commentò Joachim. Non sapevo di questa tua abilità. E hai fatto subito il conto dell'annata, sei straordinario, qualche cosa l'hai decisamente imparata quassú. Ti sei tenuto però troppo su: io non fumo sigari, e abiti spero proprio di non dover farmeli fare qui. No, grazie tante! Ancora troppo alto, dunque, il totale considerò Castorp, un po' confuso. Ma quale che fosse la ragione di aver messo in conto a suo cugino sigari e abiti nuovi, il suo veloce calcolo mentale era inganno e vana apparenza di doti naturali. Come in tutto, anche in ciò era piuttosto lento e privo di fuoco, e la rapida visione di questo caso non era improvvisata, ma frutto di una preparazione, anzi di una preparazione scritta, in quanto una sera, coricato a far la cura (poiché la sera si coricava anche lui sul balcone, dato che lo facevano tutti), si era alzato apposta dalla sua eccellente sedia a sdraio e, seguendo un improvviso impulso, era andato in camera a prendere carta e matita per i suoi calcoli. E aveva trovato che suo cugino o, in genere, tutti lassú dovevano disporre, tutto sommato, di 12.000 franchi l'anno e, scherzando, si era reso conto che lui stesso era piú che in grado di affrontare finanziariamente quella vita, perché poteva contare su ,una rendita annua di 18-19.000 franchi. Il suo secondo conto settimanale, dunque, era saldato da tre giorni verso quietanza accompagnata da ringraziamenti, il che significa che Castorp si trovava alla metà della terza e, secondo i piani, ultima settimana del suo soggiorno lassú. La domenica ventura avrebbe ancora assistito a uno dei quindicinali concerti della commissione di cura e il lunedí a una delle parimenti quindicinali conferenze del dottor Krokowski; e martedí poi o mercoledí sarebbe partito lasciando Joachim un'altra volta solo, il povero Joachim cui Radamanto aveva appioppato

chi sa quanti mesi ancora, e i cui dolci occhi neri si velavano di malinconia ogni qualvolta il discorso cadeva sul rapido approssimarsi della partenza di Castorp. Dio buono, dov'erano andate a finire le vacanze? Trascorse, fuggite, dileguate... non si sapeva come! In fin dei conti si trattava di ventun giorni che essi dovevano passare insieme, una lunga fila, difficile da immaginare sul principio. E ora non ne rimanevano che tre, quattro misere giornate, un residuo assai poco vistoso, un po' mosso, è vero, dalle due periodiche varianti della giornata normale, ma già occupato dal pensiero di fare le valige e partire. Tre settimane erano niente lassú: tutti glielo avevano detto subito. La piú piccola unità di tempo, aveva affermato Settembrini, era il mese, e siccome il soggiorno di Castorp era inferiore a questa misura, era appunto un soggiorno da nulla, una visitina, come l'aveva definita il consigliere aulico Behrens. Dipendeva forse dall'aumentata combustione generale, se il tempo passava lí in un baleno? Certo, quella velocità era un conforto per Joachim, se considerava i cinque mesi che ancora lo attendevano, sempre che si fermassero a cinque. Ma in quelle tre settimane avrebbero dovuto prestare maggiore attenzione al tempo, come si faceva nel misurare la temperatura quando i sette minuti prescritti diventavano un lasso di tempo cosí notevole... Castorp aveva cordialmente pietà del cugino cui si leggeva negli occhi la tristezza per l'imminente perdita dell'umano compagno; provava davvero la piú profonda pietà per lui quando considerava che quel poveretto doveva rimanere lí solo, mentre lui viveva di nuovo nel piano e lavorava alla tecnica dei traffici i quali sono l'anello di congiunzione tra i popoli: una pietà addirittura bruciante che in certi momenti gli faceva dolere il petto e, insomma, cosí viva da farlo talvolta dubitare sul serio se avrebbe trovato la forza di lasciare Joachim cosí solo lassú. Tanto lo tormentava talvolta la pietà, e questo era probabilmente il motivo perché lui stesso, di sua iniziativa, parlava sempre meno di quella partenza: era Joachim a portarvi di quando in quando il discorso; Hans Castorp, ripetiamo, per tatto e delicatezza d'animo pareva non ci volesse pensare fino all'ultimo momento. Be', speriamo almeno disse Joachim che tu ti sia rimesso qui da noi e, arrivato laggiú, ti senta ristorato. Sí, sí, saluterò dunque tutti rispose Castorp e dirò che al piú tardi verrai tra cinque mesi. Rimesso? Vuoi sapere se mi sono rimesso in questi pochi giorni? Direi di sí. Un certo giovamento si sarà pur ottenuto anche in cosí poco tempo. Vero è che le impressioni avute quassú erano cosí nuove, nuove sotto ogni aspetto, molto interessanti, ma anche faticose per la mente e per lo spirito, e non ho affatto la sensazione di averle già digerite e di essermi acclimato, che poi sarebbe la vera premessa di un ristabilimento di forze. Il "Maria Mancini", se Dio vuole, è quello di una volta, da qualche giorno ci ho ripreso gusto. Ma di quando in quando, se adopero il fazzoletto, me lo trovo ancora rosso e di quel dannato colore in viso, insieme con l'assurda palpitazione del cuore, non riuscirò, pare, a liberarmi fino all'ultimo.

No, ecco, di adattamento al clima non si può discorrere nel caso mio: come si fa in un periodo cosí breve? Bisognerebbe starci piú a lungo per acclimarsi e smaltire le impressioni, poi potrei rimettermi e acquistare albumina. Peccato. Dico "peccato" perché ho commesso certo uno sbaglio non riservandomi piú tempo per questo soggiorno... in fondo, ne avevo a disposizione. Mi sembra pertanto che al piano laggiú a casa, mi dovrò prima di tutto riavere dello sforzo fatto per riavermi e dormire tre settimane, tanto mi sento talvolta affaticato. E ora mi si aggiunge, per dispetto, questo catarro... Sembrava infatti che Castorp dovesse ritornare in pianura con un raffreddore di prim'ordine. Si era buscato una costipazione, probabilmente durante la cura sulla sedia a sdraio e, se continuiamo a far supposizioni, proprio di sera, poiché da circa una settimana faceva anche lui la cura, nonostante il tempo freddo e umido che pareva non volesse migliorare prima della sua partenza. Ma aveva notato che non lo si considerava cattivo, in genere il concetto di cattivo tempo non vigeva lassú, nessun tempo era temuto, quasi non se ne teneva conto, e con la duttile capacità che i giovani hanno di apprendere, con la loro buona volontà di adattarsi alle idee e alle usanze dell'ambiente nel quale si vedono trapiantati, Castorp aveva cominciato a far propria quell'indifferenza. Quando la veniva a catinelle, non era lecito pensare che per ciò l'aria fosse meno asciutta. Probabilmente non lo era davvero, perché provocava un gran caldo alla testa come una stanza surriscaldata o un'eccessiva bevuta di vino. In quanto poi al freddo che era notevole, non sarebbe stato intelligente rifugiarsi in camera per evitarlo; poiché, siccome non nevicava, non c'era riscaldamento, e starsene in camera non era piú gradevole che stare coricati sul balcone, in cappotto invernale e infagottati a regola d'arte nelle due buone coperte di cammello. Al contrario e viceversa, quest'ultima alternativa era incomparabilmente la piú gradevole, era - giudicando alla buona - la condizione piú gradita che Castorp ricordasse di aver mai provato: giudizio dal quale non si lasciava fuorviare perché un qualunque scrittore o carbonaro con un maligno sottinteso e con significato secondario l'aveva definita situazione "orizzontale". Gradita gli era specialmente la sera, quando sul tavolinetto accanto a lui ardeva la lampadina e, nel calduccio delle coperte, il "Maria" di nuovo gustoso fra le labbra, godendosi tutti i vantaggi, difficilmente definibili, di quel tipo di sedia a sdraio, avendo, sí, la punta del naso gelata e un libro - ancora e sempre Ocean steamships tra le mani, intirizzite, sí, e arrossate, guardava oltre le arcate della loggia la valle quasi buia, con i lumi qui fitti, là sparpagliati, dalla quale quasi ogni sera e almeno per un'ora salivano ondate di musica, note piacevolmente smorzate, melodie familiari: frammenti di opere, pezzi della Carmen, del Trovatore o del Franco Cacciatore, poi valzer belli e attraenti, marce che facevano voltare gaiamente la testa di qua e di là, e allegre mazurche. Mazurca, Marusja si chiamava veramente, quella che aveva il piccolo rubino, e nel posto accanto, dietro il grosso tramezzo di vetro smerigliato, giaceva Joachim, col quale Castorp scambiava ogni tanto una parola, sottovoce per riguardo agli altri orizzontali.

Al suo posto Joachim stava altrettanto bene quanto Castorp, benché avesse meno orecchio e non sapesse godere ugualmente i concerti serali. Peccato; intanto leggeva forse la grammatica russa. Castorp lasciava invece Ocean steamships sulla coperta, ascoltava la musica con cordiale interessamento, osservava compiaciuto la trasparente profondità della sua costruzione e si godeva qualche caratteristica e sentimentale trovata melodica con tanta gioia che a intervalli rammentava soltanto con ostilità le osservazioni di Settembrini sulla musica, osservazioni incresciose, come quella che la musica sia politicamente sospetta... che, a conti fatti, non era molto migliore di quella del nonno Giuseppe quando parlava della rivoluzione di Luglio e dei sei giorni della creazione del mondo... Joachim dunque non partecipava al godimento musicale, e anche l'aromatico divertimento del fumo gli era estraneo; per il resto invece giaceva nel suo posto al riparo, tranquillo e in pace. Il giorno era finito, per questa volta tutto finito, certamente non sarebbe avvenuto piú nulla, non ci sarebbero state commozioni né altre richieste di sforzi ai muscoli cardiaci. Nello stesso tempo era certo che, con tutta la probabilità risultante dalla strettezza, dal favore e dalla regolabilità delle circostanze, l'indomani tutto ciò sarebbe avvenuto un'altra volta ricominciando da capo; e questa duplice sicurezza e tranquillità era piacevolissima e, insieme con la musica e col ritrovato aroma del "Mancini" faceva, per Castorp, della cura serale una condizione di vita veramente felice. Ora, tutto ciò non aveva impedito che l'ospite delicato e novellino si buscasse durante quella cura (o comunque e dovunque fosse) una potente costipazione. Ci doveva essere in arrivo un grave raffreddore, ne sentiva la pressione nel seno frontale, l'ugola irritata gli doleva, l'aria non gli passava come al solito nel canale a ciò destinato dalla natura, ma vi si insinuava fredda, ostacolata, provocando continui sforzi di tosse; da un giorno all'altro la sua voce aveva assunto il timbro d'un basso cupo, quasi bruciato da bevande forti e, per sua confessione, proprio quella notte non aveva chiuso occhio perché una soffocante arsura in gola gli aveva fatto alzare piú volte la testa dal guanciale. Un disturbo molto spiacevole disse Joachim e quasi penoso. Devi sapere che qui i raffreddori non sono reali, qui si negano; data la grande asciuttezza dell'aria non esistono ufficialmente e un malato che andasse a dire a Behrens di essere raffreddato sarebbe accolto male. Ma per te è diverso, tu alla fin fine ne hai il diritto. Sarebbe un bel fatto se potessimo stroncare il catarro, laggiú al piano si usano antidoti, ma qui... dubito che ciò possa suscitare un interessamento sufficiente. Quassú è meglio non ammalarsi, nessuno se ne cura. Questa è una vecchia massima, ed ecco che anche tu la impari all'ultimo momento. Quando arrivai c'era qui una signora che per un'intera settimana si copriva un orecchio lamentando acuti dolori, e infine Behrens la visitò. "Può stare tranquilla" le disse "non è di origine tubercolotica." E tanto basta. Be', vediamo ora che cosa si possa fare. Lo dirò domattina al bagnino, quando viene da me.

Questa è la via gerarchica, penserà lui a mandare avanti la notizia, e può darsi che qualcosa si faccia per te. Cosí Joachim; e la via gerarchica diede buona prova. Il venerdí Castorp era appena tornato dalla passeggiata mattutina allorché udí bussare, ed ebbe occasione di conoscere di persona la signorina von Mylendonk, ossia la "superiora", come la chiamavano: fino allora, era chiaro, l'aveva vista soltanto da lontano quando, affaccendatissima, uscendo dalla camera di un paziente attraversava il corridoio per entrare in quella di fronte, o l'aveva veduta comparire di sfuggita nella sala da pranzo e ne aveva udita la voce gracchiante. Quella volta la visita era per lui; attirata dal suo catarro, bussò brevemente con le nocche ossute alla sua porta ed entrò, quasi prima che egli dicesse avanti, piegandosi ancora indietro sulla soglia per assicurarsi del numero della camera. Trentaquattro gracidò a voce spiegata. Giusto. Figlio mio, on me dit que vous avez pris froid, I hear, you have caught a cold, Wy, kascetsja, prostudilisj, sento che siete raffreddato. In che lingua devo parlare con voi? In tedesco, ho capito. Già, già; l'ospite del giovane Ziemssen, ho capito. Devo scendere ora in sala operatoria. C'è uno da cloroformizzare, ha mangiato un'insalata di fagioli. Non si possono avere gli occhi dappertutto... E voi, figlio mio, vi sareste buscato qui un raffreddore? Castorp restò sbalordito a quel modo di parlare d'una dama della vecchia aristocrazia, la quale, mentre parlava, scavalcava le proprie parole, dondolando la testa con moto inquieto, rotante, a va e vieni, col naso sollevato a fiutare, come fanno le belve in gabbia, e dimenando davanti a sé la destra lentigginosa, semichiusa e col pollice all'insú, facendo perno sul polso, come per dire: "Presto, spicciatevi! Non date retta a ciò che dico, ma parlate voi, me ne devo andare!". Era sui quarant'anni, mingherlina nella persona, senza forme, e portava un grembiulone da ospedale, bianco, con la cintura, sul cui petto eiondolava una croce di granati. Di sotto alla sua cuffia d'infermiera sbucavano radi capelli rossicci; gli occhi azzurri, arrossati, su uno dei quali aveva per giunta un orzaiolo già alquanto sviluppato, lanciavano occhiate irrequiete, il naso all'insú, la bocca da rana, e oltre a ciò il labbro inferiore sghembo e prominente, che lei parlando moveva come una pala. Ciò nonostante Castorp la guardava con tutta la umile, tollerante e fiduciosa gentilezza che gli era innata. Che raffreddore sarebbe, eh? domandò di nuovo la superiora cercando di guardarlo con occhi penetranti, ma senza riuscirvi, perché divagavano. Noi non vediamo di buon occhio queste infreddature. L'avete spesso? Non si raffreddava spesso anche vostro Cugino? Quanti anni avete? Ventiquattro? L'età che vi è soggetta. E voi venite quassú e siete raffreddato? Qui non dovremmo parlare di "raffreddori", egregio figlio mio, queste sono fanfaluche di laggiú. (La parola "fanfaluche" aveva un brutto suono bizzarro, pronunciata da quelle labbra che si movevano come una pala.) Voi avete un magnifico catarro delle vie respiratorie, ammetto, lo si vede dagli occhi. (E di nuovo tentò di guardarlo con occhi penetranti, ma senza riuscirvi.) I catarri però non derivano dal freddo, bensí da un'infezione alla quale si è predisposti, si tratta di vedere

se è un'infezione innocua o meno innocua, tutto il resto sono fanfaluche. (Di nuovo quell'orribile "fanfaluche"!) E' sempre possibile che la vostra predisposizione tenda ad essere innocua disse guardandolo, chi sa come? con l'orzaiolo progredito. Ecco qui un antisettico: male non fa. Può darsi che vi faccia bene. E dalla borsa di pelle nera che le pendeva dalla cintola trasse una scatoletta e la posò sulla tavola. Era formitrol. D'al tro canto avete un aspetto eccitato, come se aveste la febbre. E insistette a fissarlo in viso, sempre però con lo sguardo un po sviato. Vi siete misurato? Egli rispose di no. Perché no? domandò lei lasciando a mezz'aria lo sghembo labbro inferiore... Egli tacque. Il bravo ragazzo era ancora tanto giovane da osservare il silenzio dello scolaro che, in piedi nel banco, non sa rispondere e tace. Ma non vi misurate mai? Oh, sí, signora. Quando ho la febbre. Figlio mio, in primo luogo ci si misura per sapere "se" si ha la febbre. E ora siete del parere di non averla? Non so proprio, signora; non riesco a distinguere. Ho un po' caldo, un po' freddo fin da quando sono venuto. Vedo. E dove avete il termometro? Non ce l'ho, signora. A che Scopo? Sono qui soltanto in visita, e sono sano. Fanfaluche! Mi avete fatto chiamare perché siete sano? No sorrise lui gentilmente, soltanto perché mi sono un po ... ...raffreddato. Abbiamo visto altre volte codesti raffreddori! Ecco qui! disse e frugò di nuovo nella borsa, donde tolse due astucci di cuoio, lunghi e stretti, uno nero e uno rosso, che pure posò sulla tavola. Questo costa tre franchi e cinquanta e questo cinque franchi. Naturalmente vi troverete meglio con quello di cinque. Se lo trattate come si deve, vi può servire per tutta la vita. Egli prese sorridendo l'astuccio rosso e lo aprí. Elegante come un gioiello, l'oggetto di vetro giaceva nel solco ricavato dall'imbottitura di velluto rosso esattamente secondo la sua forma. I gradi interi erano segnati con righe rosse, i decimi con righe nere. Le cifre erano in rosso, la parte inferiore, rastremata, era piena di mercurio lustro e specchiante. La colonna era bassa, fredda, molto al disotto del grado che ha normalmente il calore animale. Castorp sapeva il suo dovere verso se stesso e verso la sua reputazione. Prendo questo disse senza neanche considerare l'altro. Questo da cinque. Potrei... subito... Sta bene! gracidò la superiora. Non bisogna essere spilorci quando si fanno acquisti importanti ! Non c'è fretta, lo troverete nel conto. Date qua, prima occorre farlo diventare piccino, cacciarlo in fondo... cosí. E toltogli di mano il termometro, lo scosse piú volte nel l'aria e spinse il mercurio ancora piú in basso, fin sotto i 35 Salirà, lasciate fare, monterà, il dio Mercurio! disse. Ecco il vostro acquisto. Lo sapete già come si fa qui da noi? Sotto la spettabile lingua, per sette minuti, quattro volte al giorno, e chiudere bene le gentili labbra.

Addio, figlio mio. Vi auguro buoni risultati. E uscí. Castorp che aveva fatto un inchino rimase in piedi vicino alla tavola e guardò la porta, dalla quale lei era scomparsa, e lo strumento che aveva lasciato. "Questa è dunque-la superiora von Mylendonk" pensò. "A Settembrini non piace, infatti ha i suoi lati sgradevoli. L'orzaiolo non è certo bello, d'altro canto non l'avrà mica sempre. Ma perché mi dice sempre: figlio mio? Strano, si prende un po' troppa libertà. E ora mi ha venduto un termometro, ne ha sempre un paio nella borsetta. Qui, dicono, ce n'è dappertutto, in tutti i negozi, anche dove non si sospetterebbe, l'ha detto Joachim. Io non ho fatto fatica a cercarLo, m'è caduto in grembo da solo." Tolse dalla custodia il grazioso oggetto, lo osservò e con esso andò, inquieto, alcune volte in su e in giú per la camera. Il cuore gli batteva forte e veloce. Si volse a guardare la porta del balcone, fece un movimento verso la porta d'ingresso come per l'impulso di andare da suo cugino, ma vi rinunciò e si fermò di nuovo vicino aLla tavola raschiandosi in gola per sentire il suo abbassamento di voce. Poi tossí. Già, ora vedrò se ho il raffreddore disse e si mise rapidamente il termometro in bocca, la parte col mercurio sotto la lingua, dimodoché lo strumento gLi sporgeva obliquo tra le labbra che teneva ben strette per evitare che entrasse l'aria. Poi guardò l'orologio al polso: sei minuti dopo le nove e mezzo. E cominciò ad aspettare che passassero i sette minuti. "Non un secondo di piú" pensò "e non uno di meno. Di me posso fidarmi, per il piú e per il meno. Non occorre che me lo cambino con una 'suora muta', come a queLla Ottilie Kneifer, di cui parlò Settembrini." E passeggiava per la camera premendo lo strumento con la Lingua. Il tempo procedeva a passo di lumaca, i sette minuti pareva non dovessero finire mai. Erano passati soltanto due minuti e mezzo quando Castorp guardò le lancette, temendo già di aver perduto la scadenza. Fece un mucchio di cose, prese in mano vari oggetti e li depose, uscí sul balcone senza farsi notare da Joachim, stette a guardare il paesaggio, l'alta vaLle già a lui familiare in tutte le sue forme: con le vette aguzze, le creste, le pareti, con la quinta, a sinistra, del Brehmbuhl, le cui spaLle cadevano obLique verso il viLlaggio e il cui fianco era coperto da bosco e prato, con le montagne a destra, i cui nomi gLi erano ben noti, e la parete deLl'Altein che, vista di lí, sembrava chiudesse la vaLle a mezzogiorno; guardò le viottole e le aiuole suLlo spiazzo a giardino, l'abete bianco, la grotta di rocce, tese l'orecchio a un bisbigLio che saLiva daLla veranda dove si stava facendo la cura, si voltò di nuovo verso la camera cercando di assestare la posizione del termometro in bocca, e Liberò di nuovo il polso daLla manica aLlungando il braccio e piegando l'avambraccio davanti al viso. Con grande fatica, a spinte e pedate, per cosí dire, erano trascorsi sei minuti. Siccome però, in piedi nel mezzo deLla camera, Castorp si abbandonò al sogno lasciando che il pensiero divagasse, il minuto che rimaneva ancora scivolò via, inavvertito, con zampine di gatto, e un nuovo

movimento del braccio gLi rivelò la fuga furtiva, ed era un po' tardi, l'ottavo era già per un terzo nel passato, allorché, pensando che non era poi un gran male, che non comprometteva in alcun modo il risultato, si tolse di bocca il termometro e vi abbassò lo sguardo smarrito. Non afferrò subito la risposta, il luccichio del mercurio coincideva col riflesso del tondo e piatto involucro di vetro, la colonna ora sembrava salita molto in alto, ora pareva addirittura scomparsa; egLi accostò lo strumento agLi occhi, lo girò di qua e di là, ma non vide nuLla. Infine, dopo un giro ben azzeccato, scorse chiaramente la posizione, la fissò e la commentò neLla mente affannata. Di fatti, Mercurio si era aLlargato, si era aLlargato parecchio, la colonna era saLita alquanto, era alcuni decimi sopra il Limite deLla normale temperatura del sangue, Castorp aveva 37 e 6. Nel chiaro mattino, fra le dieci e le dieci e mezzo: 37 e 6... era troppo, era già temperatura, febbre causata da un'infezione, aLla quale egLi si era mostrato predisposto, si trattava di stabilire quale infezione. 37 e 6... di piú non ne aveva nemmeno Joachim, non ne aveva là nessuno, che non fosse grave o moribondo, né la Kleefeld col suo pneumotorace né... neppure madame Chauchat. Nel caso suo, naturalmente non era proprio la giusta... ma sempLice febbretta da raffreddore, come si diceva al piano. Non era possibile però discernere e distinguere con precisione, Castorp non era sicuro di essersi buscato quell'alterazione insieme col raffreddore, e dovette rammaricarsi di non aver interrogato Mercurio assai prima, fin da principio, quando Behrens glielo aveva suggerito. Era stato un consigLio ragionevole, ora si vedeva, e Settembrini aveva fatto maLissimo a riderne beffardo, col naso in aria... con la sua repubbLica e il suo beLlo stile. Castorp aveva in dispregio la repubbLica e il beLlo stile, mentre ricontroLlava la risposta del termometro che il riflesso gLi faceva perdere continuamente ed egLi ristabiliva ogni volta girando e rigirando: 37 e 6, diceva, e di prima mattina! Ne rimase profondamente scosso. Andò alcune volte in su e in giù per la camera, il termometro in mano, ma tenendolo orizzontale per non provocare mutamenti con la posizione verticale. Lo posò poi con ogni cautela sul lavabo e con cappotto e coperte andò anzitutto a sdraiarsi. Stando seduto si avvolse neLle coperte, come aveva imparato, dai lati e dal basso, l'una dopo l'altra, con piglio ormai esercitato, e stette quieto in attesa della seconda colazione e deLl'arrivo di Joachim. Ogni tanto sorrideva e sembrava sorridesse a qualcuno. Ogni tanto il petto gLi si sollevava con un tremito convulso, e dai bronchi catarrosi gli usciva un colpo di tosse. Alle undici, aLlorché dopo il suono del gong venne a prenderlo per la colazione, Joachim lo trovò ancora coricato. Be'? domandò stupito avvicinandosi aLla sedia... Castorp tacque un po' guardando davanti a sé. Poi rispose: Dunque, l'ultima novità è che ho un po' di temperatura. Come sarebbe? domandòJoachim. Ti senti febbre? Castorp lo fece aspettare un altro po' e diede con una certa lentezza la seguente risposta: La febbre, caro mio, me la sento già da un pezzo, da quando son qui.

Ma ora non si tratta di sensazioni soggettive, bensí di un accertamento esatto. Mi sono misurato. Ti sei misurato? Con che cosa? esclamò Joachim sbigottito. Con un termometro, beninteso rispose Castorp non senza ironia e severità. La superiora me ne ha venduto uno. Perché dica sempre figlio mio, non ho capito, ma corretto non è. In tutta fretta però mi ha venduto un termometro eccellente, e se vuoi proprio vedere quanto indica, guarda che è là sul lavabo. E' un'alterazione minima. Joachim fece dietro front ed entrò in camera. Quando ritornò disse lentamente: Sí, sono 37 e 5 e mezzo. Allora è calato un poco! ribatté subito Castorp. Prima erano sei. Non la si può dire minima, in nessun caso, per il mattino spiegò Joachim. Bel pasticcio! soggiunse mettendosi accanto al giaciglio di suo cugino come ci si mette appunto davanti a un "bel pasticcio", con le mani puntate sui fianchi e a testa bassa. Dovrai metterti a letto. Castorp aveva pronta la risposta. Non vedo disse perché con 37 e 6 debba mettermi a letto, mentre tu e tanti che non ne hanno meno... mentre voi andate in giro liberamente. Ma è un'altra cosa obiettò Joachim. Il tuo caso è acuto e innocuo. La tua è febbre da raffreddore. In primo luogo replicò Castorp dividendo il discorso addirittura in primo e secondo non capisco perché con una febbre innocua (ammettiamo pure che una tal febbre esista) si debba stare a letto, con le altre no. Secondo, ti ho già detto che l'infreddatura non mi ha messo piú calore di quanto non avessi già. Sono del parere concluse che 37 e 6 sono sempre 37 e 6. Se potete andar in giro voi, lo posso anch'io. Ma io, quando sono arrivato, ho dovuto stare a letto quattro settimane ribatté Joachim, e solo quando si vide che stando a letto la temperatura non scendeva, ho avuto il permesso di alzarmi. Castorp sorrise. E per questo? esclamò. Il caso tuo era un po' diverso, no? Se non erro, ti contraddici. Prima distingui, poi pareggi. Sono fanfaluche... Joachim si girò sul tacco e quando si volse di nuovo verso suo cugino, si poteva vedere che il suo viso abbronzato si era fatto un tantino piú scuro. Nossignore disse, io non pareggio, sei tu che fai confusione. Dico soltanto che hai un raffreddore del diavolo, lo si sente dalla voce, e dovresti metterti a letto per abbreviare il processo del male, dato che la settimana ventura vuoi andare a casa. Ma se non vuoi... intendo, se non vuoi coricarti, fa come ti pare. Io non ti do ordini. Comunque sia, ora dobbiamo scendere a colazione, spicciati, è tardi ! Giusto. Andiamo! disse Castorp buttando via le coperte. Entrò in camera per passarsi la spazzola sui capelli e, mentre lo faceva, Joachim guardò ancora il termometro, intanto che Castorp lo osservava da lontano.

Poi uscirono in silenzio e di nuovo occuparono i loro posti nella sala da pranzo dove, come sempre a quell'ora, regnava un gran bianco a causa del molto latte. Quando la nana recò a Castorp la birra di Kulmbach, egli la rifiutò con grande serietà. Disse che preferiva non bere birra, anzi non bere nulla, no, grazie, se mai un sorso d'acqua. La cosa fu notata. Come? Che novità ! Perché niente birra? - Oh, aveva un po' di temperatura, disse Castorp con noncuranza. 37 e 6. Un'inezia. Allora lo minacciarono con l'indice. Ed era molto strano. Lo guardarono con malizia, piegarono la testa sulla spalla, chiusero un occhio e agitarono l'indice al l'altezza dell'orecchia come alla rivelazione di cose audaci e piccanti da parte di uno che aveva fatto lo gnorri. Eh, eh, lei fece la maestra, e mentre minacciava sorridendo, le guance morbide le si arrossarono. Belle cose si sentono, si passa il limite, eh? Aspetta, aspetta! Ahi, ahi disse anche la Stohr minacciando col suo breve moncherino rosso, appoggiato al naso. Temperato anche lui, il signore in visita. E' un bel tipo, lei, un mattacchione! Persino la prozia all'altro capo della tavola, quando la notizia arrivò a lei, lo minacciò per celia, con unaria furbona; la bella Marusja, che fino allora non l'aveva quasi notato, si sporse verso di lui e, premendosi sulle labbra il fazzolettino profumato d'arancio, lo minacciò guardandolo con quegli occhi tondi e castani; anche il dottor Blumenkohl, saputa la cosa dalla signora Stohr, non poté fare a meno di associarsi al gesto di tutti, ma senza guardare Castorp; soltanto miss Robinson rimase indifferente e apatica come al solito. Joachim tenne educatamente gli occhi bassi. Castorp, lusingato da tanta scherzosa attenzione, credette di doversi schermire con modestia. No, no disse. Loro s'ingannano, il caso mio è innocentissimo, ho il raffreddore, come vedono: mi lacrimano gli occhi, ho il petto chiuso, tossisco per metà della notte, una bella noia... Ma quelli non accolsero le scuse, risero e le respinsero coi gesti dicendo: Già, già, frottole, scuse, febbre da raffreddore, conosciamo, conosciamo! i. E tutti insieme pretesero che Castorp senza indugio si facesse visitare. La notizia li aveva animati; tra le sette tavole la conversazione intorno a questa fu la piú vivace. In modo particolare la Stohr, tutta rossa, caparbia, con la pelle delle guance screpolate sopra la pettorina a crespe, sviluppò una loquacità quasi sfrenata e si dilungò a discorrere della piacevolezza della tosse... Era un fatto proprio divertente, disse, allegro, quando il solletico in fondo al petto aumenta e cresce e si spinge giú giú la pressione convulsa per soddisfare lo stimolo: che è uno spasso simile allo starnuto, quando i polmoni si gonfiano in modo irresistibile, e con un'espressione di ebbrezza si aspira e si emette il fiato violentemente, ci si rassegna con gioia e si giunge alla lenta esplosione dimenticando il mondo intero. E talora capita due, tre volte di seguito.

Questi sarebbero i godimenti gratuiti della vita, come anche, ad esempio, in primavera quello di grattarsi i geloni quando danno quel prurito cosí dolcigno,... di grattarsi senza ragione, con crudeltà, fino a sangue, con furore e piacere, che, a guardarsi per caso in uno specchio, si vedrebbero versacci diabolici. Con questi orrendi particolari si espresse la maleducata signora Stohr fino al termine del breve, ma pur sostanzioso pasto intermedio, dopo di che i due cugini, usciti per la seconda passeggiata mattutina, scesero a Davos Platz. Per via Joachim rimase assorto e Castorp, costipato com'era, sbuffava e si raschiava il catarro che gli saliva dal petto arrugginito. Sulla via del ritorno Joachim disse: Ti voglio fare una proposta. Oggi è venerdí, domani dopo colazione mi presento alla visita mensile. Non è una visita generale, Behrens mi percuote qua e là e detta qualche appunto a Krokowski. Potresti venire anche tu e, data l'occasione, chiedere che ausculti anche te. E ridicolo, se tu fossi a casa manderesti a chiamare Heidekind. Qui invece, con due specialisti in casa, vai in giro, non sai che cos'hai, quanto possa essere grave, non sai se faresti meglio a metterti a letto. )> Sta bene disse Castorp. Come credi. Certo lo posso fare. Ed è anche interessante per me assistere a una visita. Cosí si misero d'accordo e quando arrivarono davanti al sanatorio, il caso volle che incontrassero proprio Behrens e trovassero la buona occasione di esporre sui due piedi il loro desiderio. Behrens, alto e con quel collo robusto, veniva dal portico, un cappello rigido sulla nuca, un sigaro in bocca, con le guance blu e gli occhi sporgenti, in piena attività, sul punto di dedicarsi alle visite private, giú nel villaggio, dopo aver lavorato nella sala operatoria, come lui stesso spiegò. Buon appetito, signori! disse. Sempre in giro? Bello laggiú nel gran mondo? Vengo appunto da un duello impari, ad arma bianca e sega per le ossa... affare grosso, resezione delle costole. Una volta, in questi casi il cinquanta per cento rimaneva secco sulla tavola. Oggi abbiamo fatto progressi, ma capita ancora spesso che si debba, mortis causa, piantarla lí prima di arrivare in fondo. Be', quello di oggi è stato allo scherzo, si è portato da bravo e gagliardo... Buffo, un torace cosí che non è piú torace! Parti molli, mi spiego? non adatte allo scopo, idea, per cosí dire, offuscata. E loro? Campiamo salutevolmente? E' una pacchia vivere in due, vero, Ziemssen, vecchio furbone? E per chi piange, lei, turista in vacanZa? disse rivolgendosi improvvisamente a Castorp. Qui è vietato piangere in pubblico. Regolamento interno. Altrimenti dove si va a finire? Vede, direttore, sono costipato spiegò Castorp. Non capisco come mai mi sia buscato tutto questo catarro. Ho anche la tosse, mi ha preso seriamente il petto. Senta disse Behrens. Allora dovrebbe consultare un bravo medico. I due si misero a ridere, e Joachim battendo i tacchi rispose: Lo stiamo facendo, direttore.

Domani devo venire per la visita, vorremmo quindi sentire se lei può avere la compiacenza di visitare anche mio cugino. Si tratta di vedere se potrà partire martedí... B. v.! disse Behrens. B.v.c.p. Ben volentieri, con piacere! Si doveva farlo già da un pezzo. Giacché si è qui, perché non sottoporsi anche a questo? Certo però non si vuol essere invadenti. Dunque, domani alle due, appena vi allontanate dalla greppia. Infatti ho anche un po' di febbre aggiunse Castorp. Oh, senti questa! esclamò Behrens. Anche le novità mi racconta. Crede che non abbia gli occhi per vedere? E puntò il grosso indice verso quegli occhi arrossati, lacrimosi sotto le palpebre paonazze. Se l'è misurata? Castorp disse modestamente i gradi. Di mattina? Uhm, non c'è male. Per cominciare non le manca il talento. Be', domani alle due, affiancati! Sarò molto onorato. Felice alimentazione! E con le ginocchia storte, remando con le braccia, prese la strada in discesa, seguito dalla scia di fumo del suo sigaro. Cosí, secondo il tuo desiderio, avremmo fissato l'appuntamento disse Castorp. Non potevamo aspettarci un incontro piú fortunato. Sono dunque annunciato. Certo non potrà fare gran che, mi prescriverà forse un succo di liquirizia o un tè pettorale, ma è pur gradito un po' di conforto da parte di un medico, quando uno si sente come me. Mi domando però perché si esprima in quel tono aggressivo soggiunse. Da principio mi ci divertivo, ma alla lunga non mi va. Felice alimentazione! Che barbaro linguaggio! Si può ben dire: Buon appetito! come si è sempre detto. E poi quell "alimentazione" è un termine di fisiologia e s'accorda male col "felice": sa quasi di beffa. Mi dispiace anche di vederlo fumare, mi dà un senso d'angoscia, perché so che non gli fa bene e lo rende malinconico. Settembrini ha detto che la sua allegria è forzata, e Settembrini è un critico, uno che sa formulare giudizi, bisogna dire. Anch'io forse dovrei giudicare piú spesso invece di prendere tutto come sta; ha ragione lui. Ma talvolta si comincia con giudizi e biasimi e giusti risentimenti, poi interviene qualcosa di diverso che non ha niente a che vedere col giudizio, e allora addio rigore morale, e la repubblica e il bello stile anch'essi appaiono insulsi... Mormorò parole incomprensibili, pareva che non avesse idee chiare. Suo cugino d'altronde lo guardò di fianco e disse Arrivederci dopo di che ciascuno raggiunse la sua camera e il balcone. Quanto? domandò Joachim dopo un po' con voce sommessa, benché non avesse visto che Castorp aveva consultato di nuovo il termometro... E Castorp rispose indifferente: Niente di nuovo.

In realtà, appena entrato aveva preso dal lavabo il grazioso acquisto di quella mattina, aveva distrutto con spinte verticali i 37 e 6 che ormai avevano recitato la loro parte, e come un anziano, il sigaro di vetro in bocca, era andato a sdraiarsi. Ma contrariamente alle sue esagerate previsioni e pur avendo tenuto lo strumento sotto la lingua per ben otto minuti, Mercurio non si era dilatato ché fino a 37 e 6... che però era già febbre, anche se non piú alta di quella del primo mattino. Dopo il pasto la lucente colonnina salí a 37 e 7, si fermò la sera, quando il paziente era molto stanco dopo le agitazioni e le novità della giornata, a 37 e 5 e la mattina successiva indicò addirittura 37, per toccare verso mezzogiorno l'altezza del giorno prima. Tra questi accertamenti venne il pasto principale del giorno seguente e col levar delle mense l'ora dell'appuntamento. In seguito Castorp ricordò che durante quel pasto madame Chauchat portava un maglione giallo-oro con grandi bottoni e tasche orlate, nuovo, in ogni caso nuovo per lui, ed entrata in ritardo come al solito si era messa un istante di fronte alla sala nel modo che Castorp ben conosceva. Poi, come faceva cinque volte al giorno, si era avvicinata col passo slittante alla sua tavola e, sedutasi mollemente, aveva cominciato a mangiare chiacchierando: Castorp, come ogni giorno, ma con particolare attenzione, l'aveva vista muovere la testa, mentre parlava, e guardando la tavola dei "russi ammodo" a filo delle spalle di Settembrini, il quale era seduto a capo della tavola interposta di sbieco, aveva notato di nuovo la rotondità del collo e il rilassato portamento delle spalle di lei. La signora Chauchat però, durante la colazione, non si era voltata mai a guardare la sala. Ma quando ebbero mangiato la frutta e la grande pendola sul lato breve della sala, a destra, dove era la tavola dei "russi incolti", ebbe sonato le due, essa l'aveva fatto provocando in Castorp una scossa misteriosa: mentre la grande pendola sonava le due - una, due! -, la bella malata aveva girato adagio la testa e un po' anche il busto e, al di sopra della spalla, aveva guardato chiaramente e apertamente verso la tavola di Castorp... e non solo in genere verso la sua tavola, ma, senza possibilità di equivoco e con precisione, verso di lui, con un sorriso intorno alle labbra chiuse e negli stretti occhi da Pribislav, quasi volesse dire: "Ebbene? E' ora. Non vai?" (poiché quando parlano soltanto gli occhi, si discorre col tu, anche se le labbra non hanno ancora nemmeno pronunciato il lei)... ed era stato un incidente che in fondo all'anima aveva sconvolto e sbigottito Castorp: il quale non aveva quasi creduto ai propri sensi e, attonito, aveva fissato lo sguardo prima negli occhi della Chauchat, poi, alzandolo al di sopra della fronte e dei capelli di lei, nel vuoto. Sapeva forse che egli si era prenotato per la visita alle due? Proprio cosí gli era sembrato. Eppure era quasi cosí inverosimile come che avesse saputo la sua intenzione, concepita un momento prima, nell'ultimo minuto, di far dire da Joachim al direttore che il raffreddore era migliorato e la visita diventava quindi superflua: un'idea i cui vantaggi però, a quel sorriso interrogativo, erano svaniti tramutandosi in noia e svogliatezza. Nell'attimo successivo poi Joachim aveva già deposto sulla tavola il tovagliolo arrotolato, gli aveva fatto un cenno sollevando le sopracciglia e, dopo il solito inchino ai commensali seduti, si era allontanato, dopo

di che Castorp, barcollando dentro di sé, ma con passo esteriormente fermo, e con l'impressione di avere ancora addosso quello sguardo e quel sorriso, uscí dalla sala seguendo suo cugino. Dal mattino del giorno prima non avevano piú parlato del loro proponimento e anche ora camminavano in tacita intesa. Joachim aveva fretta: l'ora stabilita era già scoccata, e il consigliere Behrens teneva alla puntualità. Dalla sala da pranzo si passava per il corridoio del pianterreno, davanti all'Amministrazione, e per la scala pulita e coperta di linoleum tirato a cera si scendeva nello scantinato. Joachim bussò alla porta che, esattamente di fronte alla scala, una targhetta di porcellana indicava come ingresso all'ambulatorio. Avanti! gridò Behrens calcando sulla prima sillaba. Stava in mezzo alla stanza, in camice bianco, e con la destra batteva lo stetoscopio nero contro la gamba. Andiamo, andiamo! disse volgendo gli occhi gonfi all'orologio a muro. Un po' piú presto! Non siamo qui esclusivamente per lor signori. Alla doppia scrivania davanti alla finestra era seduto il dottor Krokowski, pallido contro il camice di alpaca nera, i gomiti sul piano, in una mano la penna, l'altra nella barba, con dei fogli davanti a sé, probabilmente la cartella clinica, e guardò i due che entravano con l'aria velata di chi si limita ad assistere. Be', dov'è la condotta? rispose Behrens alle scuse di Joachim e gli tolse di mano il diagramma della febbre, mentre il paziente si affrettava a denudare il busto e ad appendere i capi che si levava all'attaccapanni vicino alla porta. Di Hans Castorp nessuno prese nota. Egli stette un po' a guardare e si sedette poi su un'antiquata poltrona dai braccioli ornati di frange e nappine, a fianco di un tavolinetto con la caraffa dell'acqua. Alle pareti c'erano librerie con grossi volumi di medicina e fascicoli di documenti. In quanto a mobili non c'era altro, tranne una sedia a sdraio, rivestita d'incerata bianca, che si poteva alzare od abbassare, con un cuscino sul quale era stesa una salvietta di carta. E 7, e 9, e 8 elencò Behrens sfogliando le cartelle settimanali sulle quali Joachim aveva registrato fedel mente i risultati delle sue cinque misurazioni quotidiane. Ancora un po' brillo, caro Ziemssen, non si può dire che dall'altro giorno si sia messo a fare vita piú regolata ("l'altro giorno" era stato un mese prima). Non ancora disintossicato, non ancora disse. Be', non lo si ottiene da un giorno all'altro, si sa, miracoli non ne facciamo neanche noi. Joachim approvò e si strinse nelle spalle nude, ma avrebbe potuto obiettare che non era arrivato lassú proprio il giorno prima. E come stiamo con le fitte all'ilo destro che dava sempre un suono grave? Be', venga qua. Busseremo con garbo. E cosí cominciò l'auscultazione. Il consigliere Behrens, a gambe larghe e piegato all'indietro, lo stetoscopio sotto il braccio, cominciò col percuotere molto in alto la spalla destra di Joachim, e facendo perno sul polso adoperava l'enorme dito medio della destra come martello e la sinistra come appoggio. Poi scese sotto la scapola e percosse la parte media e l'inferiore della schiena verso il fianco, dopo di che Joachim, già ammaestrato, alzò il braccio per farsi percuotere anche sotto l'ascella.

Tutto ciò si ripeté a sinistra e alla fine il dottore comandò Dietro front! per la percussióne del petto. Cominciò dalla clavicola, immediatamente sotto il collo, continuò sopra e sotto la mammella, prima a destra, poi a sinistra. Quando ebbe percosso a sufficienza passò all'auscultazione posando lo stetoscopio - l'orecchio accostato al padiglione - sul petto e sul dorso di Joachim, in tutti i punti che prima aveva percossi. E intanto Joachim doveva alternare respiri profondi e colpi di tosse, che pareva lo affaticassero assai, poiché rimaneva senza fiato e gli occhi gli si empivano di lacrime. Behrens con frasi brevi, fisse, comunicava all'assistente seduto tutto ciò che udiva là dentro, di modo che Castorp non poté fare a meno di pensare alla scena del sarto, quando questi, ben vestito, prende le misure di un abito e, secondo la sequenza tradizionale, pone il metro a nastro qua e là intorno al busto e sulle membra del cliente e detta al garzone seduto e chino i numeri acquisiti. Breve , accorciato, dettava Behrens, vescicolare, e ancora vescicolare (che evidentemente era buon segno), poi, con una smorfia, aspro e molto aspro, fruscío. Il dottor Krokowski registrava tutto, come il garzone i numeri del sarto. Hans Castorp seguiva lo svolgimento con la testa abbandonata su una spalla, pensoso e assorto ad osservare il busto diJoachim, le cui costole (grazie a Dio le aveva, le costole) a causa della respirazione forzata si sollevavano sotto la pelle tesa, al di sopra del ventre rientrante,... quell'agile, giallo-bruno busto di giovanotto coi peli neri sullo sterno e in genere sulle braccia robuste; intorno a uno dei polsi girava un bracciale d'oro a catenella. "Braccia da ginnasta sono" pensò Castorp; "gli è sempre piaciuto far ginnastica, mentre io non ci ho mai tenuto, e ciò dipende dalla sua passione per la carriera militare. Ha sempre apprezzato il fisico, molto piú di me, o almeno in maniera diversa; io infatti sono stato sempre un borghese, e ho badato piú che altro a far bagni caldi, a mangiare e bere bene, lui invece ad appagare esigenze e prestazioni virili. E ora il suo corpo si è fatto avanti, si è reso indipendente e importante, in modo cosí diverso, cioè mediante la malattia. Brillo è, e non vuole disintossicarsi e fare vita regolata, eppure, povero Joachim, gli piaceva tanto fare il soldato laggiú in pianura. Guarda un po', è venuto su perfetto, un vero Apollo del Belvedere, salvo i peli. Ma dentro è malato e fuori troppo riscaldato dal male; la malattia rende l'uomo piú corporeo, lo fa tutto corpo..." E a questo pensiero si riscosse e dal busto nudo di Joachim levò lo sguardo rapido e indagatore ai suoi occhi, quei grandi occhi neri e dolci, lacrimosi a causa del respiro e della tosse forzata, che durante la visita guardavano tristi, al di sopra del testimone, nel vuoto. Intanto Behrens aveva terminato. Bene, bene, Ziemssen disse. Tutto a posto, per quanto è possibile. La prossima volta (che voleva dire tra quattro settimane) ci sarà certo un miglioramento su tutta la linea. E quanto crede, dottore, che... Come? Di nuovo impaziente? Non vorrà mica mal trattare in stato di ebbrezza i suoi uomini? Mezzo annetto, le dissi ultimamente... lo calcoli pure da quel giorno, ma lo consideri un minimo. In fin dei conti si vive bene anche qui, sia cortese anche lei.

Questo non è un bagno penale né... una miniera siberiana! O le pare che ci sia qualche somiglianza? Bene, Ziemssen. Vada pure. Venga avanti chi ne ha voglia! esclamò guardando in aria. Col braccio teso porse lo stetoscopio a Krokowski, il quale si alzò a prenderlo per sottoporre a sua volta Joachim a una visita supplementare. Anche Castorp si era alzato e tenendo gli occhi fissi sul direttore che a gambe larghe e bocca aperta pareva immerso nei suoi pensieri, cominciò in tutta fretta a prepararsi. Affannato com'era, mentre si levava la camicia, non riuscí subito a cavar le mani dai polsini. Poi stette bianco, biondo e magro, davanti al consigliere Behrens: aveva un aspetto piú borghese di Joachim Ziemssen. Ma il direttore, ancora assorto, lo lasciò lí. Krokowski era già ritornato al suo posto e Joachim stava vestendosi, allorché Behrens si decise a prender nota di colui che ne aveva voglia. Già, ci sarebbe anche lei! esclamò e preso con quella manona Castorp per un braccio lo scostò da sé e lo osservò attentamente; non guardandolo in viso, come si guarda il prossimo, ma fissando il corpo; e giratolo come si gira un corpo ne osservò anche la schiena. Be' disse, vediamo un po' come si presenta. E come prima eseguí la percussione. Percosse tutti i punti come aveva fatto con Joachim, e su parecchi ritornò piú volte. Piú a lungo batté alternando e confrontando un punto in alto vicino alla clavicola sinistra e un altro un po' piú in basso. Sente? domandò intanto a Krokowski... E questi seduto alla scrivania a cinque passi di distanza, chinò la testa per confermare che sentiva: serio in viso abbassò il mento sul petto schiacciando la barba le cui punte si piegarono all'insú. Respiro profondo! Tosse! comandò il dottore che ora aveva ripreso lo stetoscopio; e Castorp faticò per otto o dieci minuti, mentre il medico lo auscultava, senza dire una parola: portava soltanto lo stetoscopio ora qua ora là, soffermandosi precisamente e piú volte nei punti dove aveva insistito con la percussione. Poi s'infilò lo strumento sotto il braccio, incrociò le mani dietro la schiena e guardò il pavimento tra sé e il giovane. Ecco, Castorp cominciò, ed era la prima volta che lo chiamava col solo cognome, le cose stanno press'a poco come avevo immaginato. Io ce l'avevo con lei, Castorp, ora glielo posso dire... fin da principio, da quando ebbi l'immeritato onore di conoscerla... e avevo intuito che quasi certamente lei era, senza saperlo, uno dei nostri e che se ne sarebbe anche reso conto, come tanti altri che, venuti quassú per divertimento, dopo essersi guardati in giro col naso all'aria, un bel giorno vennero a sapere che avrebbero fatto bene - e non solo avrebbero fatto bene, la prego di seguirmi - a trattenersi qui piú a lungo senza darsi disinteressate arie di curiosità. Castorp era impallidito e Joachim che stava per abbottonarsi le bretelle s'interruppe di colpo e tese l'orecchio...

Lei ha qui un cugino cosí gentile, simpatico continuò il consigliere facendo un movimento del capo verso Joachim e dondolandosi su suole e tacchi, il quale, speriamo, tra poco potrà dire di essere "stato" malato, ma quando saremo a quel punto, egli sarà pur sempre "stato" malato, suo cugino, e ciò getta a priori, come dicono i filosofi, un certo qual riflesso anche su di lei, caro Castorp... Ma lui non è proprio mio cugino diretto. Oh, via, non vorrà rinnegare suo cugino. Diretto o no, è pur sempre un consanguineo. Per parte di? Di mia madre. E' figlio di una sorellastra... E sua madre sta bene? No, è morta. Morí quando ero ancora bambino. Oh, di che male? Di un embolo, dottore. Embolo? Be', parecchio tempo è già passato. E suo padre? E' morto di polmonite... rispose Castorp, e cosí anche mio nonno soggiunse. Ah sí? Anche lui. Be', lasciamo ora gli antenati. In quanto a lei, è sempre stato piuttosto anemico, vero? Ma non si stancava facilmente con la fatica fisica e intellettuale? Invece sí? E ha spesso la palpitazione di cuore? Solo recentemente? Bene, oltre a ciò è evidente la predisposizione a catarri delle vie respiratorie. Lo sa che è già stato malato una volta? Io? Sí, proprio lei. Sente la differenza? E gli percosse il petto prima in alto a sinistra, poi un poco piú sotto. Qui il suono è un poco piú cupo che là rispose Castorp. Molto bene. Lei dovrebbe specializzarsi. Qui abbiamo un suono smorzato, e questo deriva sempre da zone invecchiate, calcificate o, se crede, cicatrizzate. Lei è un vecchio malato, ma non vogliamo incolpare nessuno se non ne fu informato. La prima diagnosi è difficile... specie per i signori colleghi in pianura. Non dirò nemmeno che noi abbiamo orecchie piú fini, per quanto l'esercizio speciale conti pur sempre qualcosa. Ma l'aria stessa ci aiuta a sentire, capisce, l'aria asciutta, rarefatta, di quassú. Certo, naturalmente disse Castorp. Bene, Castorp. E ora, giovanotto, mi stia a sentire, le dirò alcune auree sentenze. Se non ci fosse nient'altro, capisce, e si trattasse soltanto di suoni smorzati e cicatrici nel suo otre di Eolo e dei calcinosi corpi estranei che ci sono dentro, la manderei ai suoi Lari e Penati in santa pace, senza curarmi di lei tanto cosí, mi comprende? Ma visto come stanno le cose e considerato il reperto, e giacché, Castorp, è qui con noi... non mette conto che lei faccia il viaggio di ritorno... tra poco dovrebbe in ogni caso entrare nei ranghi. Di nuovo Castorp sentí che il sangue gli affluiva al cuore e Joachim era ancora là, le mani sui bottoni di dietro, gli occhi bassi. Oltre ai suoni smorzati disse il consigliere, lei ha anche in alto a sinistra un suono aspro che è quasi un fruscío e senza dubbio proviene da una lesione fresca...

non dirò ancora che sia un focolaio, ma un punto molle è di certo, e se lei laggiú continua cosí, caro mio, un giorno tutto il lobo del polmone, che è che non è, se ne va a patrasso. Castorp stava immobile, aveva strani guizzi intorno alle labbra, e si vedeva chiaramente che il cuore gli batteva contro le costole. Guardò Joachim, del quale non trovò gli occhi, poi di nuovo il viso del dottore con le guance blu, gli occhi gonfi ugualmente blu e i baffetti arricciati da una parte sola. La conferma oggettiva continuò Behrens, ce la dà la temperatura: 37 e 6 alle dieci del mattino, corrisponde press'a poco alle osservazioni acustiche. Pensavo disse Castorp che la febbre provenisse dal mio catarro. E il catarro? ribatté Behrens... Da dove viene quello? Permetta che le spieghi, Castorp, e stia a sentire; circonvoluzioni cerebrali ne ha abbastanza, per quanto ne so. Vede, l'aria qui da noi è buona "contro" la malattia, lei ne è convinto, vero? Cosí è infatti. Ma è anche buona "per" la malattia, mi comprenda, la favorisce, sconvolge il corpo, porta la malattia latente a maturazione, e una siffatta maturazione, non se n'abbia a male, è il suo catarro. Non so se abbia avuto stati febbrili anche laggiú nel piano, ma quassú li ha avuti fin dal primo giorno e non soltanto in seguito al catarro... tanto per dire la mia opinione. Sí ammise Castorp, sí, lo credo anch'io. Probabilmente si è subito sentito brillo insistette Behrens. Effetto dei tossici solubili che vengono prodotti dai microbi; agiscono sul sistema nervoso provocando un'ebbrezza, capisce, e allora si hanno i pomelli ilari. Prima di tutto, Castorp, vada a ficcarsi sotto le coperte, dobbiamo vedere se con qualche settimana di letto le facciamo passare la sbornia. Il resto si vedrà poi. Prenderemo una bella veduta del suo interno... non le dispiacerà vedersi dal di dentro. Si metta in mente peró: un caso come il suo non guarisce da oggi a posdomani, qui non si ottengono successi propagandistici e non si fanno cure miracolose. Ho avuto subito l'impressione che lei dovrebbe essere un paziente per bene, con piú disposizione a fare il malato di quanta non ne abbia qui il generale di brigata che pretende di svignarsela non appena gli capita di avere qualche linea di meno. Come se il comando di "coricati!" non valesse quanto quello di "attenti!". Il riposo è il primo dovere del cittadino, l'impazienza è soltanto dannosa. Dunque spero che non mi vorrà deludere, Castorp, e non ammetto che lei smentisca la mia esperienza degli uomini! E ora via! Vada in rimessa! Cosí il consigliere Behrens conchiuse il colloquio e andò a sedersi alla scrivania per empire scrivendo, da persona indaffarata, l'intervallo fino alla visita successiva. Il dottor Krokowski si alzò dal suo posto, si avvicinò a Castorp tenendo la testa reclinata, posò una mano sulla spalla del giovane e con un energico sorriso che scoprí tra la barba i suoi denti giallognoli gli strinse cordialmente la mano. Capitolo quinto... Minestra in perpetuo e chiarore improvviso. A questo punto sta per affacciarsi un fenomeno, del quale il narratore stesso farà bene a stupirsi, affinché il lettore non abbia a stupirsi troppo a sua volta.

Mentre infatti il nostro rendiconto intorno alle prime settimane del soggiorno di Hans Castorp tra quelli lassú (ventun giorni di piena estate, ai quali secondo le umane previsioni quel soggiorno avrebbe dovuto limitarsi) ha divorato spazi e periodi di tempo, la cui durata corrisponde fin troppo alla nostra semiconfessata attesa,... la descrizione delle tre settimane successive passate lassú non richiederà, si può dire5 altrettante righe, o persino parole e momenti, quante furono le pagine, i fogli, le ore, le giornate di fatica necessarie per quelle: queste tre settimane, prevediamo, saranno superate e sepolte in un baleno. Questo fatto dunque potrebbe destare meraviglia; eppure è in regola e corrisponde alle norme del narrare e ascoltare. E' in regola e risponde a queste norme se il tempo ci sarà esattamente lungo o breve, se per la nostra esperienza il tempo si dilaterà o restringerà per noi esattamente come per il giovane Castorp, il protagonista della nostra storia, cosí inaspettatamente sequestrato dal destino; e in considerazione del mistero del tempo può essere utile preparare il lettore a meraviglie e fenomeni ben diversi da quello che qui appare, ai quali assisteremo insieme con lui. Per il momento basterà che ognuno ricordi quanto passa veloce una serie, anzi una "lunga" serie di giorni quando si è a letto malati; è sempre il medesimo giorno che si ripete; ma siccome è sempre il medesimo, è poco corretto, se vogliamo, parlare di "ripetizione"; bisognerebbe discorrere di monotonia, di un presente immobile o dell'eternità. Ti recano la minestra di mezzogiorno come te l'hanno recata ieri e come te la recheranno domani. E nello stesso istante qualcosa ti investe, non sai come né da dove: è un senso di vertigine, mentre vedi arrivare la minestra, le forme del tempo ti si confondono, confluiscono l'una nell'altra, quella che ti si svela per vera forma dell'essere è un presente senza dimensioni nel quale ti si reca la minestra in perpetuo. Ora, parlare di noia a proposito dell'eternità sarebbe paradossale; e noi vogliamo evitare i paradossi, specialmente convivendo con questo protagonista. Castorp era dunque a letto dal pomeriggio del sabato, perché il consigliere aulico Behrens, la suprema autorità del mondo in cui viviamo, l'aveva ordinato. Se ne stava là, il suo monogramma sul taschino della camicia da notte, le mani intrecciate sotto la testa, in quel letto pulito, candido, il letto di morte dell'americana e probabilmente di parecchi altri, e con gli occhi torbidi, blu a causa del raffreddore, guardava il soffitto, considerando la stranezza delle sue condizioni. E non è da supporre che senza raffreddore i suoi occhi sarebbero stati limpidi, chiari e non ambigui, perché il suo animo, per quanto fosse semplice, non era affatto cosí, anzi effettivamente assai fosco, confuso, non proprio sincero, dubbioso. Ora lo scoteva un folle riso di trionfo che saliva dal profondo del petto, e il cuore si arrestava dolorante di una gioia e di una speranza mai conosciute ed eccessive; ora impallidiva dall'ansietà e dallo sgomento, e il cuore con ritmo accelerato, veloce, in accordo con le percosse della coscienza, batteva contro le costole. Il primo giorno Joachim lo lasciò riposare ed evitò ogni discorso. Entrò alcune volte con tutti i riguardi nella camera del malato, lo salutò con un cenno e per educazione gli domandò se aveva bisogno di qualcosa. E gli fu facile avvertire e rispettare la contrarietà di Castorp a ogni discussione, perché la condivideva e, secondo il suo concetto, egli stesso si trovava in condizioni ancora piú penose.

Ma la domenica mattina, ritornato dalla prima passeggiata, solitaria come quelle di un tempo, non seppe rinviare l'opportunità di discutere con suo cugino le cose immediatamente necessarie. Si avvicinò al suo letto e disse sospirando: Eh, sí, è inutile, ma certi passi bisogna farli. A casa ti aspettano. Non ancora ribatté Castorp. Ma nei prossimi giorni, sí, mercoledí o giovedí. Oh disse Castorp non mi aspettano affatto in un giorno preciso. Hanno altro da fare che aspettare me e contare i giorni fino al mio ritorno. Quando arrivo arrivo e lo zio Tienappel dice: "Sei dunque di ritorno?" e lo zio James: "Com'è andata? Bene?". E se non arrivo, ci vuole parecchio prima che se n'accorgano, puoi star sicuro. S'intende che a un certo punto bisognerà avvertirli... Puoi immaginare aggiunse Joachim con un altro sospiro quanto mi dispiaccia questa faccenda! Come andrà a finire? Che vuoi? in qualche modo mi sento responsabile. Tu vieni quassú a trovarmi, io t'introduco nell'ambiente, e ora sei qui in un letto e nessuno sa quando potrai liberarti e occupare il tuo posto. Devi riconoscere che ciò mi riesce oltremodo penoso. Fammi il piacere! esclamò Castorp, sempre con le mani sotto la testa. Che stai a romperti il capo? assurdo. Sono forse salito quassú per trovare te? Anche, ma in primo luogo, in fin dei conti, per riposare, secondo gli ordini di Heidekind. Be', ora si vede che ho bisogno di riposo piú di quanto lui e tutti noialtri pensavamo. Non sono certo il primo che sia venuto credendo di fare una visitina, mentre poi è andata altrimenti. Pensa, per esempio, al secondo figlio di " Tous-les-deux" che qui è rimasto colpito ben piú duramente... non so se sia ancora vivo, forse lo hanno portato via durante un pasto. Certo, è stata-una sorpresa apprendere che sono un po' malato, devo abituarmi all'idea di considerarmi paziente, proprio come uno di voi anziché, come finora, soltanto ospite. E d'altro canto, se vogliamo, non ne sono neanche quasi sorpreso, perché, devo dire, non mi sono mai sentito benissimo, e se considero quanto immaturamente sono morti i miei genitori, ...in fondo da dove mi poteva venire una salute di ferro? Che a te sia toccato un piccolo acciacco, anche se ormai si può dire superato, non ha fatto impressione a nessuno di noi, e perciò può anche darsi che ci sia un punto debole nella nostra famiglia, Behrens almeno ha accennato a qualcosa di simile. Fatto sta che sono a letto fin da ieri e vado considerando quali siano stati i miei pensieri e i miei rapporti con un insieme di cose, capisci, con la vita e le sue esigenze. Una certa serietà, una certa avversione alla vita rumorosa e gagliarda è sempre stata nel mio carattere... se n'è parlato anche recentemente, dicevamo che talvolta avevo quasi voglia di darmi al sacerdozio, visto il mio interessamento alle cose tristi e edificanti... non so, un panno nero, vedi, con una croce d'argento o un R.I.P... Requiescat in pace... ecco, questa è la frase piú bella, a me ben piú simpatica che l'evviva, il quale poi non è altro che chiasso.

Tutto ciò, penso, proviene dal fatto che anch'io ho un acciacco e fin da piccolo m'intendo di malattie... lo vediamo ora, in questa occasione. Ma se le cose stanno cosí, posso ben dire di aver avuto fortuna venendo quassú e facendomi visitare. Tu non hai da farti per questo alcun rimprovero. Hai pur sentito: se al piano avessi continuato qualche tempo cosí, poteva darsi che, guarda un po', tutto il lobo del polmone se ne andasse a patrasso. Sono cose che non si possono sapere! ribatté Joachim. Il guaio è appunto che non si può sapere nulla. Già prima hai avuto, dice, qualche lesione che nessuno ha notato e si è cicatrizzata da sola, sicché te n'è rimasto soltanto un indifferente suono smorzato. Può darsi che cosí si sarebbe accomodato anche quel punto molle che dovresti avere, nel caso che tu non fossi venuto quassú... non si può dire! Non si può saper nulla, è vero rispose Castorp. E perciò non si ha nemmeno il diritto di preventivare il peggio, per esempio a proposito della durata della mia cura. Non si sa, dici, quando potrò essere libero e entrare nel cantiere, ma tu lo dici in senso pessimistico che, secondo me, è prematuro, dato che non lo si può sapere. Behrens non ha fissato un termine, è uomo accorto e non fa il profeta. E poi non si è fatta ancora la radioscopia né la lastra fotografica che rivelerà oggettivamente lo stato delle cose e chi sa che non ne risulti nulla di notevole e io non sia sfebbrato anche prima e sia in grado di dirvi addio. Sono del parere che non si debba montare la cosa prima del tempo e raccontare subito a casa le piú grosse fandonie. Basterà scrivere tra qualche giorno - posso scrivere io stesso, con la stilografica, se mi alzo un po' a sedere dicendo che sono molto raffreddato, febbricitante, costretto a letto e per il momento non posso mettermi in viaggio. Il resto si vedrà. Bene, per ora facciamo così. E poi possiamo aspettare un po' anche col resto. Quale resto? Come sei smemorato! Nella tua valigia da cabina hai portato soltanto il necessario per tre settimane. Hai bisogno di biancheria, da giorno e da notte, e vestiario invernale, e anche calzature ti occorrono. Infine ti dovrai far mandare anche denaro. Se obiettò Castorp, "se" avrò bisogno di tutto ciò. Sta bene, aspettiamo. Ma dovremmo... no osservò Joachim girando per la camera, non dovremmo farci illusioni! Sono qui da troppo tempo e ho acquistato una certa pratica. Quando Behrens dice che un punto dà un suono ruvido, quasi un fruscío... Ma, naturalmente, possiamo stare a vedere! E per questa volta si fermò lí, e intanto ebbero ragione le variazioni settimanali e quindicinali della giornata normale; e Castorp vi partecipò anche nelle sue condizioni, se non direttamente, almeno attraverso le informazioni che gli portava suo cugino quando andava a trovarlo e per un quarto d'ora si sedeva sulla sponda del letto. Il vassoio sul quale domenica mattina gli portarono la colazione era ornato con un vasetto di fiori, e non avevano mancato di mandargli i biscotti speciali che venivano serviti quel giorno in sala.

Piú tardi si udí l'animazione nel giardino e sulla terrazza, e con squilli di tromba e note nasali di clarinetti ebbe inizio il quindicinale concerto della domenica al quale Joachim assistette dalla loggia di suo cugino, lasciando la porta aperta, sicché Castorp dal suo letto, quasi seduto, la testa inclinata sulla spalla, lo sguardo amorevolmente devoto e vagante, poté ascoltare le salienti armonie, non senza ricordare, con una interiore alzata di spalle, le chiacchiere di Settembrini intorno alla musica "politicamente sospetta". In quanto al resto, come si è detto, si fece riferire da Joachim gli avvenimenti e le manifestazioni di quei giorni, gli chiese se la domenica aveva recato abiti festivi, vesti di pizzo o simili ma per vesti di pizzo aveva fatto troppo freddo); e se nel pomeriggio si erano organizzate gite in carrozza (in realtà se n'era fatta qualcuna: l'Associazione Polmone Unico era partita in corpore per Clavadell); e il lunedí volle notizie della conferenza di Krokowski, non appena Joachim ne ritornò e si fece vedere prima di coricarsi per la cura di mezzogiorno. Joachim fu di poche parole e riluttante a riassumere la conferenza... come tra loro non s'era parlato neanche della precedente. Ma Castorp insistette per apprendere qualche particolare. Sto qui a letto e pago la retta intera disse. a Voglio anch'io la mia parte di ciò che offre il convento. Ricordò il lunedí di quindici giorni prima, la sua solitaria passeggiata che gli aveva fatto assai poco bene, ed espresse la precisa ipotesi che doveva essere stata quella a mettere in subbuglio il suo fisico e a far affiorare la malattia latente. Ma come parla la gente del luogo! esclamò. Il popolino... con quale solenne dignità. A momenti si direbbe poesia. "Addio, dunque, e tante grazie!" ripeté imitando la loquela del legnaiuolo. Cosí l'ho sentito nel bosco e non lo dimenticherò fin che vivo. Son cose che si collegano con altre impressioni o memorie, capisci, e ti rimangono nelle orecchie finché campi... E Krokowski, dunque, ha parlato ancora dell'amore? domandò accompagnando le parole con una smorfia. S'intende rispose Joachim. Di che altro? Che vUoi? è il suo tema. E oggi che cos'ha detto? Oh, niente di particolare; lo sai anche tu, da]l'altra volta, come si esprime. Ma che cosa ha presentato di nuovo? Niente di nuovo... Oggi non ha spillato altro che chimica si decise a dire Joachim, benché renitente. Si trattava, disse, di una specie di intossicazione, di autoavvelenamento dell'organismo, provocato, secondo Krokowski, dalla decomposizione di una sostanza ancora ignota, diffusa nel corpo; e i prodotti di questa decomposizione agirebbero su determinati centri del midollo spinale provocando un'ebbrezza, come quando per consuetudine s'introducono estranee sostanze tossiche, come morfina e cocaina. E allora si hanno i pomelli ilari! aggiunse Castorp. Guarda un po', mette conto di ascoltare. Quante cose sa quello là... Si è rimpinzato bene. Sta' a vedere, un bel giorno ti scopre anche la sostanza ignota che è diffusa in tutto il corpo e crea per sintesi i veleni solubili che danno l'ebbrezza ai centri nervosi, e allora può ubriacare la gente alla sua maniera.

Forse c'erano già arrivati in altri tempi. Sentendo lui vien fatto di credere che ci sia del vero nelle storie di filtri d'amore e roba simile, di cui si parla nei libri di fiabe... Te ne vai già? Sí rispose Joachim. Devo assolutamente coricarmi un po'. Da ieri la mia curva è ascendente. La tua questione mi ha pur depresso un tantino. Tale fu la domenica, il lunedí. Da sera a mattina nacque la terza giornata del soggiorno di Castorp nella "rimessa", il martedí, giorno della settimana senza segni particolari. Ma era il giorno del suo arrivo lassú, ora era là da tre settimane tonde, e ciò lo spinse a scrivere la lettera a casa per informare almeno sulle generali e in via provvisoria gli zii intorno alla situazione. Appoggiato al piumino scrisse, su un foglio del sanatorio, che contrariamente al programma la sua partenza subiva un ritardo; era a letto con una costipazione febbrile, che il consigliere aulico Behrens, col suo eccesso di scrupoli, non pigliava proprio alla leggera, dato che la metteva in rapporto con la costituzione fisica dello scrivente; infatti fin dal primo incontro il direttore del sanatorio lo aveva trovato molto anemico e, tutto sommato, sembrava che i competenti non considerassero sufficiente il periodo di riposo da lui previsto. Avrebbe scritto di piú appena possibile. "Sta bene cosí" pensò Castorp. "Non c'è una parola di troppo e in ogni caso per un po' potrà bastare". La lettera fu consegnata al fattorino che, evitandole il giro dalla cassetta, la portò direttamente al primo treno in partenza. Con ciò il nostro avventuroso giovane pensò di aver regolato molte cose e con animo tranquillo, benché tormentato dalla tosse e dallo stordimento del raffreddore, visse in attesa le sue giornate, quelle giornate normali, suddivise in molti brevi tratti e nella loro invariabile monotonia né divertenti né noiose, che erano sempre le stesse. La mattina, dopo aver bussato rumorosamente, entrava il bagnino, un pezzo d'uomo robusto, di nome Iurnherr, con le maniche della camicia rimboccate, le vene delle braccia sporgenti e la pronuncia gorgogliante, molto impacciato, il quale chiamava Castorp, come tutti i pazienti, col numero della camera, e lo massaggiava con l'alcool. Uscito lui arrivava, poco dopo, Joachim, già vestito, a dare il buon giorno, a informarsi della temperatura di suo cugino alle sette della mattina e a comunicare la propria. Mentre questi faceva colazione al pianterreno, Castorp con le spalle appoggiate al piumino, con l'appetito che il cambiamento di vita comporta, faceva altrettanto, senza scomporsi gran che per l'affaccendata e regolamentare irruzione dei medici, i quali dopo esser passati a quell'ora per la sala da pranzo facevano a passo di bersagliere la ronda per le camere dei degenti e dei moribondi. Con la bocca piena di conserva confermava di aver dormito bene, guardava oltre l'orlo della tazza il direttore che, puntando i pugni sulla tavola che era nel mezzo della camera, dava una rapida occhiata alla tabella clinica, e in tono tranquillo e strascicato rispondeva al saluto dei medici che uscivano. Poi accendeva una sigaretta e vedeva Joachim ritornare dal servizio mattutino, mentre gli pareva che fosse appena uscito.

Parlavano di nuovo del piú e del meno, e l'intervallo tra questa e la seconda colazione (intanto Joachim faceva la cura sulla sdraio) era cosí breve che nemmeno un povero di spirito, una testa decisamente vuota avrebbe fatto in tempo ad annoiarsi,... mentre invece Castorp aveva abbondantemente da riflettere sulle prime tre settimane passate lassú, e da assimilare le sue condizioni presenti e le eventualità future, sicché poteva anche fare a meno dei due grossi volumi d'una rivista illustrata che, prelevati dalla biblioteca del sanatorio, giacevano sul suo comodino. Né era diverso il periodo di tempo che Joachim impiegava per la sua seconda passeggiata a Davos Platz, della durata di un'oretta. Egli ritornava poi da suo cugino, gli riferiva le varie cose che aveva notate durante la passeggiata, stava in piedi o un po' seduto sulla sponda del letto prima di coricarsi per la cura di mezzogiorno... che poi durava forse molto? No, anche questa un'oretta! Bastava guardare un po' il soffitto, le mani piegate sotto la testa, e seguire un pensiero, ed ecco rimbombare il gong che invitava i non degenti e non moribondi a prepararsi al pasto principale. UscitoJoachim arrivava la "minestra del mezzogiorno", nome ingenuamente simbolico di ciò che veniva. Castorp infatti non era costretto alla dieta dei malati - perché ve lo avrebbero dovuto costringere? La dieta di malato, la dieta scarsa, non era affatto indicata per le sue condizioni. Egli era lí coricato, pagava la pensione completa e ciò che gli recavano nella costante eternità dell'ora non era una "minestra di mezzogiorno", erano le sei portate che usavano al Berghof, senza detrazioni e in tutta la loro ampiezza, pasto sontuoso tutti i giorni, pasto di gala, di piacere, di parata la domenica, preparato dal capocuoco di scuola europea nella cucina del lussuoso albergo del sanatorio. La cameriera incaricata di servire i malati costretti a letto glielo portava in appetitosi tegamini; chiusi da convessi coperchi nichelati, gli spingeva la tavola, approntata per l'occasione, quella meraviglia d'equilibrio costruita su una gamba sola, di traverso, sopra il letto, e Hans Castorp vi desinava come il figlio del sarto alla mensa miracolosa. Appena aveva finito di mangiare, arrivava Joachim e finché questi andava sul suo balcone e il silenzio della lunga cura sulla poltrona a sdraio calava sul Berghof, si erano fatte le due e mezzo. Nonesatte, forse; a rigore, probabilmente, le due e un quarto. Ma questi quarti d'ora eccedenti le unità intere non contano, vengono anzi assorbiti di passaggio, quando si considera il tempo in grande, come ad esempio in viaggio, nelle molte ore di percorso in ferrovia o, in genere, durante le attese, le soste vuote, nelle quali tutta la vita e tutte le aspirazioni consistono nel far passare il tempo. Un quarto dopo le due... può equivalere alla metà fra le due e le tre; anzi, lasciamo correre, equivale alle tre addirittura, visto che c'entra il tre. I trenta minuti fanno da introduzione all'ora intera che va dalle tre alle quattro, e mentalmente vengono eliminati: cosí si fa in siffatte circostanze. Anche la cura lunga finiva pertanto col durare in realtà soltanto un'ora... la quale alla fine veniva accorciata, mozzata e, per cosí dire, apostrofata. L'apostrofo era il dottor Krokowski.

Proprio cosí: Krokowski durante il suo personale giro pomeridiano non girava piú al largo, Castorp contava anche lui, non era piú un intervallo, un iato, era un paziente che veniva interrogato e non lasciato da parte, come era avvenuto per tanto tempo con suo segreto e lieve ma quotidiano dispetto. Nella sua camera Krokowski era apparso la prima volta il lunedí... "Apparso", diciamo, ed è la parola giusta per l'impressione strana e persino un poco paurosa che Castorp ne aveva riportato suo malgrado. Aveva sonnecchiato, immerso per metà o per un quarto nel sonno, allorché ríscotendosi notò che l'assistente era nella camera senza essere entrato dalla porta, e dal di fuori gli veniva incontro. Egli infatti non era passato dal corridoio, ma dalle logge esterne, ed era entrato dalla porta del balcone, sicché veniva fatto di pensare che fosse arrivato attraverso l'aria. Certo è che si trovò accanto al letto di Castorp, nero e pallido, tarchiato e con le spalle larghe, l'apostrofo dell'ora, e tra la barba bipartita facevano spicco i denti giallastri in un virile sorriso. Pare, signor Castorp, che lei sia sorpreso di vedermi aveva detto con baritonale dolcezza, in tono strascicato, certamente un po' lezioso, con un esotico erre gutturale, che egli però non arrotava, ma formava con un unico colpetto della lingua dietro agli incisivi superiori; venendo a vedere come sta non faccio che compiere un piacevole dovere. I suoi rapporti con noi sono entrati in una fase nuova, da un giorno all'altro il nostro ospite è diventato un camerata... (La parola "camerata" aveva dato a Castorp un lieve senso d'angoscia.) Chi l'avrebbe immaginato! aveva esclamato Krokowski in tono scherzoso e cameratesco... Chi l'avrebbe detto quella sera, quando ebbi l'onore di salutarla al suo arrivo, e alla mia erronea opinione - erronea era allora - lei obiettò dichiarando di essere perfettamente sano. Allora, se non erro, espressi come un dubbio, ma le garantisco che non l'intendevo cosí. Non voglio farmi piú perspicace di quanto non sia, allora non pensavo a parti molli, la mia idea era diversa, piú generica, piú filosofica, manifestai sol tanto il dubbio che i concetti "uomo" e "perfettamente sano" possano andare d'accordo. E nemmeno oggi, nemmeno dopo la visita, riesco a pensare (che vuole? sono fatto cosí), a differenza del mio venerato principale, che questo punto molle e con la punta d'un dito aveva sfiorato la spalla di Castorp abbia una notevole importanza. Per me è un fenomeno secondario... I fatti organici sono sempre secondari... Castorp aveva provato una scossa. ... E perciò il suo catarro è, secondo me, un fenomeno di terz'ordine aveva aggiunto Krokowski con vivacità. Come si sente? Il riposo farà presto il suo effetto. Che temperatura ha avuto oggi? E da quel momento la visita dell'assistente assunse l'aspetto di un'innocua visita di controllo; e tale fu sempre, anche nei giorni e nelle settimane successive. Krokowski entrava dal balcone alle tre e tre quarti o anche un poco prima, salutava il malato con virile serenità, formulava le piú semplici domande sanitarie, attaccava magari un discorsetto piú personale, celiava amichevolmente... e, quantunque tutto ciò avesse pur anche una leggera tinta di gravità, infine si fa l'abitudine anche alla gravità quando rimanga entro i suoi limiti, e molto presto Castorp non trovò piú

nulla da ridire contro la regolare comparsa del dottor Krokowski, la quale faceva parte della giornata normale e apostrofava l'ora della lunga cura a sdraio. Quando l'assistente si ritirava sul balcone erano dunque le quattro... cioè pomeriggio avanzato! Sí, all'improvviso, prima che uno ci pensasse, era pomeriggio avanzato... i! quale poi senza indugio si protendeva quasi verso la sera: poiché, quando si era preso il tè, tanto giú nella sala quanto al numero 34, si arrivava di filato alle cinque, e quando Joachim ritornava dalla sua terza passeggiata di servizio e veniva a rivedere suo cugino, si era tanto vicini alle sei che la cura prima di cena, calcolando un po' all'ingrosso, si riduceva un'altra volta a un'ora... un'ostilità del tempo che era facilissimo vincere avendo pensieri in testa e oltre a ciò tutto un orbis pictus sul comodino. Joachim si accomiatava per andare a tavola. La cameriera recava la cena. Da un pezzo la valle si era empita di ombre e, mentre Castorp mangiava, le tenebre entravano a vista d'occhio nella camera bianca. Quando aveva finito, se ne stava seduto, con le spalle contro il cuscino, davanti alla mensa miracolosa ormai vuota e guardava il crepuscolo che incupiva rapidamente, il crepuscolo di quel giorno che era difficile distinguere da quello di uno o due giorni o di un'intera settimana prima. Scendeva la sera... ed era appena trascorso il mattino. Il giorno spezzettato e reso apposta dilettevole gli si era letteralmente sbriciolato tra le mani e dileguato, come poté notare serenamente stupito e, se mai, pensieroso; non era ancora in età da averne orrore. Gli pareva soltanto di stare ancora a guardare. Un giorno - ne potevano essere passati dieci o dodici da quando Castorp si era messo a letto - udí bussare a quell'ora, vale a dire prima che Joachim fosse ritornato dalla cena e dalla sosta in società, e al suo stupefatto "avanti!" vide comparire sulla soglia Lodovico Settembrini... mentre la camera s'illuminava di una luce abbagliante. Il primo gesto del visitatore, mentre la porta era ancora aperta, era stato quello di accendere la lampada del soffitto che, riflessa dal bianco del soffitto stesso e dei mobili, in un attimo empí d'un tremolante chiarore tutta la stanza. L'italiano era fra tutti gli ospiti l'unica persona della quale in quei giorni Castorp si fosse espressamente e personalmente informato presso suo cugino. Ogni qualvolta si sedeva dieci minuti sulla sponda del suo letto o stava in piedi vicino a lui - e ciò avveniva dieci volte al giorno -, Joachim riportava di suo i piccoli avvenimenti e le varianti della vita quotidiana del sanatorio, e le domande di Castorp erano state generiche, senza riferimento a determinate persone. Trovandosi isolato era soltanto curioso di sapere se erano arrivati ospiti nuovi e se qual cuna delle fisionomie familiari era partita; e pareva contento di apprendere che c'erano stati soltanto arrivi. Era venuto un "nuovo", un giovane dal viso verdognolo e incavato, e gli era stato assegnato un posto alla tavola dell'eburnea Levi e della signora Iltis, subito a destra di quella dei cugini. Castorp non aveva fretta di conoscerlo di persona. Partito non era dunque nessuno? Joachim rispose di no abbassando gli occhi.

Ma dovette rispondere piú volte alla stessa domanda, per l'esattezza, ogni due giorni, benché con una certa impazienza avesse cercato infine di spiegarsi una volta per sempre dicendo che, per quanto ne sapeva, nessuno era sul punto di partire e, in genere, di lí non si partiva tanto facilmente. In quanto a Settembrini, Castorp dunque aveva chiesto di lui e desiderato di apprendere che cosa "ne" avesse detto. Di che cosa? Oh via, del fatto che sono a letto e dovrei essere malato. Infatti Settembrini aveva detto la sua, sia pure in breve; fin dal giorno della scomparsa di Castorp si era rivolto a Joachim per avere notizie dell'ospite, e aspettava evidentemente di sentirsi rispondere che era partito. Alle spiegazioni di Joachim aveva replicato con due sole parole in italiano; prima aveva detto "ecco" (come dire: "dunque ci siamo"), poi: "poveretto!". Non occorreva che i due giovani sapessero bene l'italiano per comprendere il significato di quelle parole. Perché poveretto? aveva obiettato Castorp. Anche lui è relegato quassú con la sua letteratura, mista di umanesimo e politica, e può curare ben poco i suoi interessi terreni. Non dovrebbe compassionarmi cosí dall'alto, io scenderò certo al piano prima di lui. Settembrini dunque era nella camera improvvisamente illuminata: Castorp si era sollevato sui gomiti e volto verso la porta lo riconobbe stringendo le palpebre e, riconosciutolo, arrossí. Come al solito Settembrini portava la giacca pesante coi larghi risvolti e il colletto rovesciato, un po' liso, nonché i calzoni a quadretti. Poiché veniva dalla cena teneva tra le labbra, come di consueto, uno stuzzicadenti di legno. Gli angoli della bocca sotto la bella curva dei baffi erano tesi nel ben noto, sottile, freddo e critico sorriso. Buona sera, ingegnere! E' permesso chiedere notizie della sua salute? In caso che sí, ci vuole la luce... perdoni se mi prendo questa libertà! disse alzando di slancio la piccola mano verso la lampada del soffitto. Lei stava in contemplazione... non vorrei assolutamente disturbare. La tendenza a riflettere la posso capire nel caso suo, e per chiacchierare ha, in fondo, suo cugino. Come vede, so benissimo di essere superfluo. Eppure, si vive insieme in uno spazio cosí ristretto, sorgono simpatie tra persona e persona, interessamento spirituale, affetto... E' una buona settimana che non la si vede. Quando vidi il suo posto vuoto laggiú nel refettorio, cominciai davvero a presumere che lei fosse partito. Il tenente mi convinse del contrario, uhm, meno buono, se non sono scortese... Insomma, come sta? Che cosa fa? Come si sente? Non troppo depresso, spero. E' lei, signor Settembrini, Quanto è gentile! Ah, ah, refettorio! Buona questa! Sempre spiritoso, lei. Si accomodi, la prego. Non mi disturba affatto. Stavo qui meditando... meditando è forse troppo. Ecco, ero troppo pigro per accendere la luce. Grazie, soggettivamente le mie condizioni sono, si può dire, normali. Il raffreddore è scomparso col riposo a letto, ma, a quanto sento dire, pare che sia un fenomeno secondario.

La temperatura, vede, non è ancora come dovrebbe essere, ora 37 e 5, ora 37 e 7, in questi giomi è rimasta sempre cosí. Lei se la misura regolarmente? Sí, sei volte al giorno, come tutti voi quassú. Ah, ah, scusi, mi vien da ridere, perché ha chiamato refettorio la nostra sala da pranzo. Cosí si chiama nei conventi, no? Questo lo è un po' davvero, io non sono mai stato in un convento, ma così me lo figuro pressappoco. E le regole le so a menadito e le osservo scrupolosamente. Come un pio confratello. Il suo noviziato, si può dire, è compiuto, lei ha professato i voti. Le presento le mie solenni felicitazioni. Tant'è vero che dice già la "nostra" sala da pranzo. D'altro canto - senza offendere la sua virilità - mi fa pensare piú a una monachella che a un frate... a una sposina di Cristo, innocente e appena rapata, con grandi occhi di vittima. A suo tempo vedevo ogni tanto agnelline del genere... mai, mai però senza un certo sentimentalismo. Ah, sí, sí, suo cugino mi ha raccontato tutto. Sicché, all'ultimo momento si è fatto anche visitare. Siccome ero febbricitante... Che vuole, signor Settembrini, con un catarro cosí, laggiú al piano avrei chiamato il mio medico. E qui, dove siamo, dirò cosí, alla fonte, con due specialisti in casa, sarebbe stata buffa se... S'intende, s'intende. E si era misurato la temperatura prima che le venisse ordinato. D'altronde glielo avevano consigliato subito. Il termometro gliel'ha offerto la Mylendonk? Offerto? Siccome era necessario, l'ho acquistato da lei. Vedo. Un atto commerciale ineccepibile. E quanti mesi le ha propinato il vecchio?... Dio buono, questa domanda gliel'ho già fatta una volta! Ricorda? Lei era appena arrivato. E mi rispose con faccia franca... Certo che mi ricordo, signor Settembrini. Molte cose mi sono capitate da allora, ma ricordo come fosse oggi. E lei fu subito tanto divertente, e definí Behrens un giudice infernale... Radamès... Cioè no, aspetti, questo è un altro... Radamanto? Può darsi che lo abbia chiamato cosí. Non posso ricordare tutto ciò che mi sprizza dal cervello. Sí, sí, Radamanto! Minosse e Radamanto! Anche di Carducci ci ha parlato quel giorno... Permetta, egregio amico, che lo lasciamo da parte. In questo momento quel nome ha un sapore troppo strano sulle sue labbra. Buona anche questa rise Castorp. Ma da lei ho imparato molto sul suo conto. Allora non immaginavo, e le risposi che ero venuto per tre settimane. Sapevo soltanto questo. Poco prima la Kleefeld mi aveva salutato col fischio del pneumotorace, perciò ero un po' sbalordito.

Ma anche la febbre me la sentivo addosso già allora, perché qui l'aria non è buona soltanto "contro" la malattia, è buona anche "per" la malattia, in quanto la fa affiorare, e Ciò infine è necessario se si vuole che guarisca. Ipotesi seducente. Le ha parlato il consigliere Behrens di quella russo-tedesca che abbiamo avuto qui l'anno scorso... anzi due anni fa, per cinque mesi? No? Avrebbe dovuto farlo. Una donna simpatica, tedesco-russa d'origine, maritata, giovane madre. Veniva dal confine orientale, linfatica, anemica, e probabilmente aveva qualcosa di piú grave. Be', è qui da un mese e si lagna che non si sente bene. Un po' di pazienza! Passa un altro mese e lei continua a dire che non sta meglio, anzi sta peggio. Le spiegano che soltanto il medico può giudicare come "stia", lei può dire soltanto come "si sente"... e questo poco importa; i suoi polmoni, dicono, sono soddisfacenti. Bene, lei tace, segue la cura e ogni settimana diminuisce di peso. Nel quarto mese durante le visite sviene. "Poco male" dichiara Behrens; dei suoi polmoni è molto soddisfatto. Ma quando, nel quinto mese, non è piú in grado di reggersi in piedi lei lo scrive a suo marito nella provincia orientale e questi manda una lettera a Behrens; sulla busta era scritto a caratteri energici (ho visto io) "personale" e "urgente". "Già" dice Behrens crollando le spalle "risulta, a quanto pare, che lei non tollera questo clima." La donna era fuori di sé. Bisognava dirglielo prima, esclama, lei ne aveva avuto sempre l'impressione, cosí era rovinata del tutto! Speriamo che presso suo marito si sia rimessa in forze . Magnifico! lei sa raccontare cosí bene, signor Settembrini; sí, le sue parole sono addirittura plastiche. Anche la storia della signorina che faceva il bagno nel lago, alla quale diedero la "suora muta", mi ha fatto ridere spesso ripensandoci. Ne capitano di tutti i colori. Non si finisce mai d'imparare. Anche il caso mio è ancora incerto. Behrens pretende di avermi trovato un'inezia... vecchie cicatrici di lesioni che avevo avuto senza neanche saperlo, io stesso ne ho udito il suono alla percussione, e ora si sente, pare, da qualche parte una lesione fresca... to', è curioso parlare di fresco a questo proposito. Finora però si tratta soltanto di rilievi acustici, la vera certezza diagnostica si avrà soltanto quando mi alzerò e si saranno fatte la radioscopia e la lastra. Crede?... Ma lo sa che la lastra fotografica presenta spesso macchie che si scambiano per caverne, mentre sono soltanto ombre, e dove invece c'è davvero qualcosa, le macchie non appaiono? Madonna, la lastra! E' stato qui un giovane numismatico che aveva la febbre, e siccome era febbricitante, sulla lastra si vedevano benissimo le caverne. Si asseriva persino di averle sentite! Fu curato per tisi e ne morí.

L'autopsia dimostrò che aveva i polmoni sani ed era morto di non so quali cocchi. Be', signor Settembrini, non mi venga a parlare di autopsie! Spero di non essere già a questo punto. Ingegnere, lei è un burlone. E lei è da capo a piedi un criticone, uno scettico, bisogna dire. Non crede neanche nella scienza esatta. Presenta macchie la sua lastra? Sí, qualcuna. Ed è veramente un po' malato? Eh sí, parecchio, purtroppo rispose Settembrini chinando la fronte. Seguí una pausa nella quale tossicchiò. Castorp dal letto guardò l'ospite ridotto al silenzio. Con le due semplicissime domande gli pareva di aver confutato e messo a tacere un mucchio di cose, persino la repubblica e il bello stile. Da parte sua non fece nulla per avviare di nuovo la conversazione. Dopo un po' Settembrini si risollevò sorridendo. Dica un po', ingegnere, i suoi come hanno accolto la notizia? Quale notizia? Il rinvio della mia partenza? Oh, i miei, sa, i miei di casa sono tre zii, un prozio e due suoi figli, coi quali ci consideriamo piuttosto cugini. Non ho altri fra i miei; sono rimasto assai presto orfano di padre e di madre. Come l'hanno accolta? Non ne sanno ancora molto; non piú di quanto ne sappia io. Da principio, quando mi sono messo a letto, ho scritto che ero molto raffreddato e non potevo affrontare il viaggio. E ieri, visto che si va un po' per le lunghe, ho riscritto dicendo che il catarro ha richiamato l'attenzione del consigliere Behrens sul mio petto, ed egli insiste perché io prolunghi il mio soggiorno finché ci si vedrà chiaro. Essi ne avranno preso nota con animo tranquillo. E il suo posto? Lei aveva accennato a un'attività pratica alla quale stava per dedicarsi. Sí, come volontario. Ho pregato quelli del cantiere di scusarmi per ora. Non creda che per questo saranno disperati. Possono cavarsela fin che vogliono anche senza un volontario. Benone. Sotto questo aspetto dunque tutto è in regola. Flemma su tutta la linea. In genere al suo paese la gente è flemmatica, vero? Ma anche energica! Certo, anche energica, anzi molto energica! rispose Castorp. Esaminando a distanza l'atmosfera vitale in patria gli parve che il suo interlocutore ne desse una definizione esatta. Flemmatici ed energici, cosí sono davvero. Ebbene continuò Settembrini, se lei dovesse restare qui un po' a lungo, non mancherà quassú l'occasione di conoscere suo zio, il prozio, intendo. Escluso! esclamò Castorp. In nessun caso. Neanche se lo tirassero con gli argani. Mio zio, deve sapere, è molto apoplettico, è quasi senza collo. Ha bisogno di una ragionevole pressione atmosferica, qui starebbe ancora peggio di quella sua signora venuta dalle province orientali, gli verrebbero tutti gli accidenti. E' una delusione per me.

Apoplettico? Che valgono allora la flemma e l'energia? Suo zio sarà ricco, penso. E' ricco anche lei? Tutti sono ricchi al suo paese. Castorp sorrise di quella generalizzazione letteraria, poi guardò di nuovo lontano, nell'ambiente del suo paese, dal quale era distaccato. Ricordò e cercò di giudicare oggettivamente; la distanza lo invitava a farlo e gliene dava la capacità. Rispose: Ci sono i ricchi, sí... ma anche gli altri. Se uno non lo è... tanto peggio. Io? Non sono milionario, ma ho l'esistenza assicurata, sono indipendente, ho di che vivere. Mi lasci da parte!... Se lei avesse detto che laggiú "si deve" essere ricchi, ...le avrei dato ragione. Ammesso che uno non sia ricco o abbia cessato di esserlo... guai a lui! "Quello?" domandano. "Ha ancora quattrini?" Cosí, testuale, e proprio con questa faccia. L'ho sentito io piú volte, e vedo che mi è rimasto impresso. Dunque deve essermi parso strano, benché fossi avvezzo a sentirlo; al trimenti non mi sarebbe rimasto in mente. O che ne dice lei? Ecco, non credo che lei, per esempio, lei homo humanus, si troverebbe bene da noi; persino a me, che pure vivo in quell'ambiente, è sembrato certe volte inaudito, come mi accorgo ora, benché personalmente non ne abbia avuto a soffrire. Chi nei pranzi non fa portare in tavola i vini piú buoni e piú cari, rimane senza ospiti e le sue figliole senza marito. Cosí sono fatti. Stando qui a letto e vedendo le cose da lontano mi sembra inaudito. Come ha detto lei? Flemmatici e? ed energici! Già, ma che significa? Significa duri, freddi. E che significa duro e freddo? Significa crudele. Spira un'aria crudele laggiú, inesorabile. Stando qui a letto e guardando da lontano, c'è da provarne orrore. Settembrini ascoltava e annuiva. E cosí fece anche quando Castorp, esaurita la sua critica, smise di parlare. Poi sospirò e disse: Non starò a giustificare le forme particolari che la naturale crudeltà della vita assume nella sua società. Comunque sia, la taccia di crudeltà è una taccia piuttosto sentimentale. Sul posto credo che lei non l'avrebbe formulata, per timore di apparire ridicolo davanti a se stesso. L'ha lasciata giustamente agli scansafatiche della vita. Se ora la formula lei, è indizio di un certo allontanamento che mi dispiacerebbe veder aumentare, perché chi si avvezza a formularla può facilmente estraniarsi alla vita, alla forma di vita per la quale è nato. Sa, ingegnere, che cosa significa estraniarsi alla vita? Io sí che lo so. 328 THOMAS MANN Lo vedo qui tutti i giorni. Dopo sei mesi al massimo il giovane che viene quassú (sono quasi tutti giovani quelli che vengono qua) non ha altri pensieri che quello di corteggiare le ragazze e di misurarsi la temperatura. E dopo un anno tutt'al piu non ne potrà nemmeno concepire altri, ma li sentirà tutti crudeli o, diciamo meglio, sbagliati e ingenui.

A lei piacciono le storie, ... gliene potrei offrire. Potrei parlarle di quel figlio e marito che è stato qui undici mesi; io l'ho conosciuto. Era un po' piú vecchio di lei, credo,... sí, un po' piú anziano. Fu dimesso per prova, migliorato, e ritornò a casa tra le braccia dei suoi; non erano zii, erano la madre e la moglie. Tutto il giorno stava a letto col termometro in bocca; non capiva altro. "Voi non potete capire" diceva loro. "Bisogna essere vissuti lassú per comprendere come dev'essere. Qui giú mancano i concetti fondamentali!" Andò a finire che sua madre prese una decisione: "Ritorna lassú! Qui non sappiamo che farne di te". E quello ritornò. Risalí a "casa sua"; lei si rende conto, quando uno è vissuto qui, la considera casa propria. Si era del tutto straniato dalla sua giovane moglie, che non possedeva i "concetti fondamentali" e quindi rinunciò a lei: comprese che a casa sua avrebbe trovato una compagna dotata di "concetti fondamentali" concordati, e che sarebbe rimasto qui. Castorp doveva aver ascoltato con un'orecchia sola. Ancora continuava a guardare il chiarore elettrico della camera bianca come un orizzonte lontano. Rise un po' in ritardo e replicò: Casa sua, la chiamava? Un po' sentimentale davvero, come dice lei. Di storie lei ne sa un numero infinito. Stavo ancora ripensando al nostro discorso sulla durezza e crudeltà; in questi giorni l'argomento mi ha dato piú volte occasione di riflettere. Vede, bisogna essere di pelle piuttosto dura per accettare pienamente e con naturalezza la mentalità della gente laggiú in pianura, nonché domande come "Quello ha ancora quattrini?" e la faccia con cui lo dicono. A dire il vero, per me non è mai stato un atteggiamento naturale, quantunque io non sia un homo humanus ... ora, riandando il passato, m'accorgo che mi è parso sempre sorprendente. Che non rispondesse alla mia indole, dipendeva forse dalla mia predisposizione alla malattia... io stesso ho sentito le vecchie cicatrici, e ora Behrens mi avrebbe trovato una zona molle, fresca. E' stata una sorpresa per me, certo, eppure in fondo non mi sono stupito gran che. Solidissimo, a dir il vero, non mi sono sentito mai; e poi i miei genitori li ho perduti assai presto... fin da bambino, deve sapere, sono orfano di padre e madre... Con la testa, con le spalle e le mani Settembrini descrisse un gesto complessivo che con garbo tranquillo doveva sostituire la domanda: "Bene, e poi?". Lei è uno scrittore, vero? riprese Castorp. Un letterato. Di queste cose se ne deve pur intendere per intuire che, in queste circostanze, non si può essere d'animo cosí rozzo da considerare ovvia la crudeltà della gente... della gente comune, capisce, di quelli che se la ridono e fanno quattrini e si empiono la pancia... non so se mi spiego... Settembrini s'inchinò. Lei vuol dire commentò che il precoce e ripetuto contatto con la morte crea un fondamentale stato d'animo, irritabile e sensibile alla brutalità e crudezza della sventata vita sociale, diciamo pure al suo cinismo. Proprio cosí! esclamò Castorp con sincero entusiasmo. Parole esatte, precise, fino ai puntini sull i. Con la morte...! Lo sapevo che lei, da letterato... Settembrini tese un braccio verso di lui reclinando la testa su una spalla e chiudendo gli occhi; atteggiamento molto bello e cordiale per chiedere silenzio e ulteriore attenzione.

Rimase cosí qualche secondo, anche dopo che Castorp aveva smesso di parlare e con un certo imbarazzo stava in attesa del seguito. Infine riaprí gli occhi neri - gli occhi dei sonatori d'organetto - e disse: Permetta. Mi permetta, ingegnere, di dirle e di farle notare che l'unico modo sano e nobile, nonché (lo voglio aggiungere espressamente) l'unico modo "religioso" di considerare la morte consiste nel comprenderla e sentirla come parte e accessorio, come sacra condizione della vita, non già- che sarebbe il contrario di sano e nobile, ragionevole e religioso - nel volerla scindere in qualche modo dalla vita, nel contrapporla o magari metterla in ripugnante antagonismo ad essa. Gli antichi ornavano i loro sarcofaghi con simboli della vita e della procreazione, persino simboli osceni; per la religiosità antica sacro e osceno erano spesso tutt'uno. Quelli sí che sapevano rispettare`la morte! La morte è veneranda come culla della vita, grembo materno del rinnovamento. Se la si considera scissa dalla vita, diventa spettro, grinta... o qualcosa di peggio. La morte infatti, come potenza spirituale autonoma, è una potenza quanto mai sconcia, la cui depravata forza di attrazione è indubbiamente fortissima; ma avere questa forza in simpatia è, altrettanto indubbiamente, indizio della piú orrenda aberrazione dello spirito umano. A questo punto Settembrini tacque. Si arrestò a questa sentenza facendo capire di essere giunto decisamente alla fine. Faceva sul serio; non aveva parlato, cosí, per conversare, aveva evitato di offrire all'interlocutore occasioni di soggiungere e ribattere, e alla fine della sua esposizione aveva abbassato la voce e messo un punto. Stava là a bocca chiusa, le mani incrociate in grembo, le gambe nei calzoni a quadretti accavallate, e si limitava ad alzare e abbassare leggermente il piede sospeso in aria, osservandolo con aria grave. Sicché anche Castorp taceva. Seduto contro il cuscino, teneva la testa rivolta alla parete e tamburellava coi pol pastrelli sulla trapunta. Aveva l'impressione di essere stato ammaestrato, ammonito, persino sgridato, e in quel suo silenzio c'era molta caparbietà puerile. La pausa durò parecchio. Infine Settembrini rialzò la testa e disse con un sorriso: Si ricorda, ingegnere, che abbiamo già fatto una volta una discussione simile? Potremmo anche dire la stessa. Si discorreva allora - durante una passeggiata, se non erro di malattia e stupidità, e la fusione di esse le era parsa paradossale, e precisamente per rispetto verso la malattia. Io dissi che questo rispetto è un tetro capriccio col quale si disonora il pensiero umano, e con mio spasso lei parve non del tutto alieno dal prendere in esame la mia obiezione. Si parlò anche della neutralità e della irresolutezza spirituale dei giovani, della loro libertà di scelta, e della loro tendenza a sperimentare i diversi criteri possibili e del fatto che non si devono considerare, che non è necessario considerare quegli esperimenti come opzioni serie e definitive per la vita. Mi vuol permettere e Settembrini, seduto, si sporse un po' dalla sedia, i piedi sul pavimento accostati, le mani giunte tra le ginocchia, sporgendo un po' anche la testa obliquamente, permettere di darle anche in

seguito una mano nelle sue esercitazioni e nella sua voce c'era come una leggera commozione, nei suoi esperimenti, e di proporre rettifiche, qualora lei corresse pericolo di fare dannose Costatazioni? Ma certo, signor Settembrini! e Castorp si affrettò ad abbandonare la sua prevenuta e quasi scontrosa avversione, a smettere di tamburellare sull'imbottita e a rivolgersi all'ospite con sgomenta cortesia. Lei è fin troppo gentile... Mi sto domandando come mai io... cioè, se mette conto per me... Naturalmente sine pecunia citò Settembrini alzandosi. Crepi l'avarizia! E fecero una risata. Si udí aprire la porta esterna e dopo un istante scattò anche la maniglia dell'interna. Era Joachim, di ritorno dalla serata in società. Vedendo l'italiano, anche lui arrossí come dianzi era arrossito Castorp; il volto scuro e abbronzato si fece di una sfumatura piú cupo. oh, hai visite disse. Puoi essere contento. Io sono stato trattenuto. Mi hanno costretto a una partita di bridge... Bridge lo chiamano per il pubblico aggiunse scotendo la testa, mentre andò a finire che era tutt'altra cosa. Ho vinto cinque marchi... Purché la vincita non abbia su di te una forza d'attrazione viziosa osservò Castorp. Uhm. Intanto il signor Settembrini mi ha fatto passare cosí bene il tempo... che però è un brutto modo di dire. Lo si può passare, semmai, col vostro falso bridge, mentre il signor Settembrini ha riempito il mio tempo con discorsi notevoli... Da persona assennata dovrei far fuoco e fiamme per uscire di qui... tanto piú che voi altri vi attaccate al falso bridge. Ma per ascoltare ancora molte volte il signor Settembrini e farmi dare una mano da lui conversando potrei quasi augurarmi la febbre a tempo indeterminato e quindi l'obbligo di rimanere qui... Si finirà col dovermi dare una "suora muta" per impedirmi di barare. Ripeto, ingegnere, che lei è un burlone disse l'italiano. E si accomiatò con le forme piú gentili. Rimasto solo con suo cugino, Hans Castorp sospirò: Che razza di pedagogo! ... Un pedagogo umanista, bisogna dire. Non la finisce di correggerti, alternando storielle e disquisizioni astratte. E si viene a discorrere di cose, ... non avrei mai immaginato che se ne possa parlare o si possano soltanto capire. E se l'avessi incontrato 3 3 4 THOMAS MANN laggiú in pianura aggiunse non le avrei capite davvero . Joachim a quell'ora restava un poco a fargli compagnia sacrificando due, tre quarti d'ora del suo riposo serale sulla sedia a sdraio. Qualche volta giocavano a scacchi sul piano della tavola da pranzo (Joachim aveva portato in camera una scacchiera).

Poi, il termometro in bocca, si trasferiva con la sua roba sul balcone, anche Castorp si misurava un ultima volta, mentre una musica leggera, vicina o lontana, saliva dalla valle notturna. Alle dieci terminava la cura a sdraio; si udiva Joachim, si udivano i coniugi della tavola dei "russi incolti"... E Castorp si girava su un fianco in attesa del sonno. La notte era la metà piú difficile delle ventiquattr'ore, perché Castorp si destava spesso, e non di rado rimaneva sveglio per ore e ore, sia che il non giusto calore del sangue gli impedisse di dormire, sia che la voglia e l'energia necessaria al sonno fossero compromesse dal suo tenore di vita esclusivamente orizzontale. In compenso le ore del sonno erano animate da sogni mutevoli e molto vivaci che egli poteva continuare da sveglio. E se la varia articolazione e suddivisione rendeva il giorno meno noioso, la notte otteneva lo stesso effetto con la nebulosa e uniforme progressione delle ore. Ma quando si avanzava il mattino, era divertente osservare il graduale albeggiare e apparire della camera, il sorgere e disvelarsi delle cose, e vedere il giorno accendersi in vampe torbide e fumiganti oppure serene; e a un tratto ecco di nuovo il momento in cui il bagnino, bussando energicamente, annunciava l'entrata in vigore del regolamento quotidiano. Castorp non aveva portato con sé un calendario, perciò non era sempre al corrente della data precisa. Ogni tanto s'informava da suo cugino il quale però a sua volta non era sempre sicuro del fatto suo. In ogni caso furono le domeniche, specie la seconda col concerto domenicale, che Castorp passò in quelle condizioni, a dargli un appiglio; e certo era che il mese di settembre era a poco a poco progredito, fin verso la metà. Di fuori, nella valle, da quando Castorp si era messo a letto, al tempo grigio e freddo di allora erano subentrati splendidi giorni di tarda estate, tutta una lunga serie, sicché tutte le mattine Joachim era entrato in calzoni bianchi nella camera di suo cugino, il quale non aveva saputo nascondere un sincero rammarico, un rammarico dell'anima e dei suoi giovani muscoli, per la perdita di quel magnifico tempo. Una volta con voce sommessa aveva persino affermato che era una "vergogna" trascurarlo in quel modo; ma poi per calmarsi aveva soggiunto che anche a piede libero non avrebbe potuto goderne di piú, poiché sapeva per esperienza che lassú gli era inibito di fare molto moto. E la porta del balcone, larga e spalancata, gli consentiva pure in qualche modo di partecipare al luminoso tepore esterno. Ma, verso la fine del periodo di riposo impostogli, il tempo mutò un'altra volta. Da un giorno all'altro si era fatto nebbioso e freddo, la valle si avvolse in un turbinare di neve bagnata e il secco respiro del riscaldamento a vapore empí la stanza. Cosí fu anche il giorno in cui, durante la visita mattutina dei medici, Castorp rammentò a Behrens che era a letto da tre settimane e chiese il permesso di alzarsi. Diavolo, ha già finito? esclamò il dottore. Vediamo un po'; perbacco, ha ragione. Dio buono, come s'invecchia! Non si può dire che per lei ci sia stato un gran mutamento. Come? Ieri ha avuto la temperatura normale? Sí, tranne che quando si è misurato alle sei di sera. Be', Castorp, non voglio insistere e la restituisco alla società umana.

Caro lei, si alzi e ambuli ! Con misura, s'intende, e nei giusti limiti. Prossimamente vedremo la sua effigie interiore. Prenotare! ordinò al dottor Krokowski indicando col pollice enorme della destra Hans Castorp dietro di sé e guardando il pallido assistente con quegli occhi arrossati e lacrimanti... Castorp uscí dalla "rimessa". Col bavero rialzato e con le soprascarpe di gomma accompagnò di nuovo suo cugino fino alla panca del ruscello e ritorno, non senza chiedere, durante la passeggiata, fin quando il consigliere lo avrebbe tenuto a letto se non lo avesse avvertito che il periodo era trascorso. Joachim, con lo sguardo spento, la bocca aperta quasi a un "ah" senza speranza, fece nell'aria il gesto dell'incalcolabile.

Dio mio, vedo ! . Ci volle una settimana prima che la superiora von Mylendonk invitasse Castorp nel gabinetto radiologico. Lui non voleva far pressione. C'era molto da fare al Berghof, medici e personale erano evidentemente occupatissimi. Negli ultimi giorni erano arrivati nuovi ospiti: due studenti russi coi capelli folti e la giubba nera accollata che non lasciava intravedere neanche un filo di biancheria; due coniugi olandesi, ai quali furono assegnati i posti alla tavola di Settembrini; un messicano gobbo che spaventava i commensali con paurosi attacchi di dispnea, si aggrappava con piglio ferreo ai suoi vicini, fossero uomini o donne, li stringeva come una morsa e, atterriti, recalcitranti, invocanti aiuto, li faceva partecipare alle proprie angosce. In breve, la sala da pranzo fu quasi tutta occupata, benché la stagione invernale cominciasse soltanto in ottobre. E l'entità del caso, il grado di malattia non dava a Castorp il diritto di pretendere particolare considerazione. La signora Stohr, per esempio, nella sua stupidità e ignoranza, era senza dubbio assai piú grave di lui, per non dire del dottor Blumenkohl. Bisognava essere del tutto privi del senso di distanza e di graduatoria per non seguire, nel caso di Castorp, un modesto riserbo,... tanto piú che questo era conforme allo spirito della casa. I malati leggeri contavano poco, egli l'aveva sentito dire piú volte. Di loro si parlava con disprezzo, secondo le valutazioni vigenti lassú erano guardati dall'alto in basso, e non solo dai superiori, ma anche da quelli che a loro volta erano "leggeri"; sicché costoro mostravano cosí di disprezzare anche se stessi, ma salvavano una maggior stima di sé assoggettandosi alla misura vigente. Atteggiamento umano. Oh, quello? erano capaci di dire a vicenda. Quello non ha nulla. Ha a mala pena il diritto di star qui. Non ha nemmeno una caverna... Questo era lo spirito, spirito aristocratico nel suo significato particolare, e Castorp lo salutava per innato rispetto della legge e di ogni specie di ordine.

Paese che vai, usanze che trovi, si dice. Poco educati si rivelano quei viaggiatori che deridono gli usi e valori del popolo che li ospita, dove non mancano le qualità che fanno onore. Persino verso Joachim Castorp nutriva un certo rispetto e riguardo... non tanto perché era là da piú tempo e gli faceva da mentore e cicerone in qualche modo, ma appunto perché era indubbiamente il "piú grave". Stando cosí le cose, si spiegava facilmente la tendenza a sfruttare al massimo il caso proprio e magari a esagerare in qualche punto per appartenere o almeno approssimarsi all'aristocrazia. Anche Castorp a chi s'informava a tavola indicava qualche linea in piú di quelle che aveva in realtà, e non poteva non sentirsi lusingato quando lo si minacciava col dito come fosse un burlone matricolato. Ma se anche esagerava, rimaneva pur sempre, a rigore, una persona di meno gradi, sicché pazienza e riserbo costituivano sicuramente il contegno che gli era adeguato. Aveva ripreso il tenore di vita delle sue prime settimane; quella vita ormai familiare, uniforme ed esattamente regolata al fianco di Joachim, e fin dal primo giorno tutto andò per le lisce, come non ci fosse stata l'interruzione. Questa infatti era di poco conto; ed egli dovette accorgersene subito, appena ricomparve a tavola. Joachim che a siffatte contingenze dava un peso speciale e studiato, aveva provveduto a che ci fosse qualche fiore sul posto del risorto. Ma il saluto dei commensali fu poco festoso, non molto diverso da quando, invece di tre settimane, era preceduta una separazione di tre ore; non tanto per indifferenza verso la sua persona semplice e simpatica e perché costoro avevano fin troppo da pensare a sé, vale a dire alle loro interessanti condizioni fisiche, quanto piuttosto perché non si erano resi conto dell'intervallo. E lo stesso Castorp era in grado di seguirli senza difficoltà, perché anche lui si era seduto a capotavola, tra la maestra e miss Robinson, come se vi fosse stato seduto il giorno prima. E se la fine della sua assenza era stata notata cosí poco alla sua tavola, perché la si sarebbe dovuta notare nell'ampia sala? Là nessuno se n'era neanche accorto... ad eccezione del solo Settembrini che, levate le mense, era venuto a salutare con aria cortese e faceta. Vero è che Castorp avrebbe fatto anche un'altra restrizione, ma non possiamo dire quanto fosse giustificata. Tra sé asseriva che Clavdia Chauchat aveva notato la sua ricomparsa fin da quando, sbattuta la porta a vetri era entrata in ritardo come al solito e aveva posato su di lui lo sguardo a occhi stretti, cui egli aveva risposto, e appena seduta si era voltata a guardarlo di sopra la spalla sorridendo, con lo stesso sorriso di tre settimane prima, quando egli stava per andare alla visita. Ed era stata una mossa cosí palese e senza riguardi (senza riguardi per lui e per gli altri commensali) che egli era rimasto incerto se dovesse esserne entusiasta o, prendendolo per un segno di disprezzo, indispettirsene. In ogni caso aveva provato una stretta al cuore a quegli sguardi che avevano rinnegato e smentito in un modo, secondo lui, portentoso e inebriante il distacco tra lui e l'ammalata; una stretta quasi dolorosa fin da quando la porta aveva tintinnato, poiché egli aveva aspettato quell'istante quasi trattenendo il respiro.

Dobbiamo tornare indietro e riferire che il segreto rapporto tra Castorp e la paziente della tavola dei "russi ammodo", la simpatia dei suoi sensi e della sua mente semplice per quella persona di media statura, dal passo morbido e slittante, dagli occhi chirghisi, il suo innamoramento insomma (diciamolo pure, benché sia una parola di laggiú, una parola di pianura, e possa suscitare l'idea che abbia avuto qualche riferimento alla canzonetta Con che piacer mi tocca), aveva fatto durante il suo isolamento notevolissimi progressi. L'immagine di lei gli era apparsa quando, svegliandosi presto, aveva guardato la camera che si disvelava a poco a poco, o quando la sera aveva osservato il crepuscolo che incupiva (anche nel momento in cui Settembrini era entrato facendo avvampare la luce all'improvviso, quell immagine gli si era affacciata ben chiara alla mente, e appunto per questa ragione era arrossito scorgendo l'umanista); alle labbra di lei, agli zigomi, agli occhi, dei quali portava impressi nell'anima il colore, la forma, la posizione, alle sue spalle cascanti, al portamento del capo, alla vertebra del collo nella scollatura posteriore della camicetta, alle braccia luminose sotto il velo finissimo, a tutto ciò aveva pensato nelle singole ore del giorno spezzettato... e se ci siamo astenuti dal dire che proprio per questo le ore gli passavano cosí, senza sforzo, l'abbiamo fatto perché partecipiamo con simpatia all'inquietudine che s'insinuava nella sbigottita felicità di quelle immagini e visioni. Era infatti sgomento, commozione, una speranza dilagante nell'inhnito, nell'illimitato, nel decisamente avventuroso, gioia e angoscia senza nome, ma tale che talvolta comprimeva il cuore del giovane - il suo cuore in senso effettivo e fisico - cosí improvvisamente da spingerlo a portarsi una mano sulla regione di quest'organo, l'altra invece alla fronte (posandola come uno schermo sopra gli occhi) e a mormorare: Dio mio ! Dietro a quella fronte infatti c'erano i pensieri o mezzi pensieri che conferivano alle immagini e visioni la loro eccessiva dolcezza e riguardavano la noncuranza e la indiscrezione di madame Chauchat, la sua infermità, il sostegno e l'evidenza in cui la malattia metteva il suo corpo, l'incarnazione della sua natura ad opera di quella malattia della quale lui, secondo la sentenza del medico, era partecipe. Della stravagante libertà con cui la Chauchat guardando in giro e sorridendo trascurava il distacco sociale che ancora vigeva tra loro, egli nella sua testa si faceva un'idea come se loro due non fossero affatto esseri sociali e non fosse neanche necessario che si scambiassero parole... e proprio questo lo sgomentava; allo stesso modo in cui si era sgomentato nell'ambulatorio quando aveva sollevato lo sguardo dal busto di Joachim cercando ansiosamente i suoi occhi... con la differenza che allora lo sgomento era causato da pietà e apprensione, mentre ora la causa era molto diversa. Cosí dunque la vita al Berghof, quella vita vantaggiosa e ben regolata in breve spazio, riprese il suo andamento normale: Castorp, in attesa della radiografia, continuò a condividere quella vita col buon Joachim eseguendo ora per ora esattamente le stesse cose; e quella compagnia gli faceva certo bene. Infatti, benché fosse la compagnia di un malato, aveva anche un certo decoro militare; un decoro però che, senza accorgersene, era già sul punto di accontentarsi del servizio con cui assolveva i doveri della cura, sicché questo diventava in certo qual modo un surrogato dei doveri di laggiú e una professione succedanea; Castorp non era tanto sciocco da non averne una precisa nozione. D'altra parte ne sentiva il freno, l'effetto moderante sul suo animo borghese; quella compagnìa, il suo esempio e la sorveglianza che gliene derivava, contribuivano forse addirittura a trattenerlo da passi estremi e imprese inconsulte.

Vedeva benissimo quanto il bravo Joachim soffrisse a causa di una certa atmosfera d'arancio che lo investiva tutti i giorni, nella quale c'erano due occhi castani tondi, un piccolo rubino, molta voglia di ridere, anche se scarsamente giustificata, e un seno ben formato all'esterno; la ragionevolezza e il senso di dignità con cui Joachim paventava e fuggiva l'influsso di quell'atmosfera facevano impressione a Castorp, lo tenevano entro un certo ordine, una certa disciplina e gli impedivano, per cosí dire, di "farsi prestare una matita" da quella donna con gli occhi stretti... mentre, secondo tutte le esperienze, senza la disciplina impostagli da quella compagnia sarebbe stato dispostissimo a farlo. Joachim non parlava mai della ridanciana Marusja, sicché anche per Castorp vigeva il divieto di parlargli di Clavdia Chauchat. Si ripagava conversando di nascosto con la maestra, la vecchia zitella, che gli sedeva accanto a tavola; la faceva arrossire stuzzicandola a proposito del suo debole per la flessuosa ammalata, e intanto imitava il modo del vecchio Castorp di sostenere il mento e la propria dignità. E la sollecitava a scoprire novità e particolari degni di nota intorno alle condizioni personali della signora Chauchat, alla sua origine, al marito e l'età, allo stato della sua malattia. Aveva figli? domandò. Ma no, non ne aveva. Che se ne faceva dei figli una donna come lei? Probabilmente le era rigorosamente vietato di averne... e d'altro canto che figli sarebbero stati? Castorp non poté fare a meno di approvare. Cominciava anche a essere tardi per averne, suppose con brutale realismo. Talvolta, di profilo, disse, il viso di madame Chauchat gli sembrava fosse un po' troppo affilato. Che avesse passato la trentina? La signorina Engelhart protestò decisamente. Clavdia trent'anni? Nella peggiore delle ipotesi ne aveva ventotto. E in quanto al profilo vietò al suo vicino di parlarne cosí. Il profilo di Clavdia, disse, era giovanile e di una quanto mai tenera dolcezza, anche se naturalmente era un profilo interessante e non quello di una qualunque oca in buona salute. E per castigo, senza interrompersi, la signorina asserí di sapere che la signora Chauchat riceveva spesso visite maschili, la visita di un connazionale che abitava a Platz: lo riceveva in camera sua nel pomeriggio. Il colpo aveva toccato il bersaglio. Castorp, a dispetto di ogni sforzo, torse il viso, e anche le sue frasi come Questa poi e Guarda un po' con le quali cercò di reagire alla rivelazione, gli riuscirono contorte. Incapace di prendere sottogamba l'esistenza di quel compatriota, come aveva voluto fingere da principio, vi riportava continuamente il discorso con labbra tremanti. Giovane? Giovane e bello, a quanto aveva sentito, rispose la maestra; non avendolo visto, non poteva darne un giudizio. Malato? Tutt'al piú leggermente. Sperava, disse Castorp con ironia, che mettesse in mostra piú biancheria di quanta non ne facevano vedere i compaesani alla tavola dei "russi incolti", e lei, ancora per punizione, rispose che voleva rendersene garante.

Egli ammise che era un particolare da non trascurare e la incaricò seriamente di informarsi sul conto di quel connazionale che andava e veniva. Ma invece di portargli notizie su questo punto, lei pochi giorni dopo arrivò con una vera novità. Aveva saputo che la Chauchat si faceva diyingere, ritrarre e chiese a Castorp se lo sapeva già. Se non lo sapeva, gli garantiva di averlo appreso da fonte sicura. Da qualche tempo posava, lí in casa, per il ritratto... e chi lo dipingeva? Il consigliere Behrens! Il quale a tal fine la vedeva quasi ogni giorno nel proprio appartamento. Questa notizia colpí Castorp ancora piú duramente dell'altra. In seguito ne celiò spesso con la bocca amara. Eh, certo, si sapeva che il direttore dipingeva a olio... che diamine! non era mica proibito, lo poteva fare chiunque. Ah sí? nel suo appartamento di vedovo? C'era da sperare che alle sedute assistesse almeno la signorina von Mylendonk! Quella? Non aveva tempo. Piú tempo della superiora non dovrebbe avere neanche Behrens obiettò Castorp, severo. Ma benché con ciò sembrasse detta l'ultima parola, egli era ben lontano dall'abbandonare l'argomento, e non la finiva di chiedere ulteriori notizie e precisazioni: la grandezza del quadro? solo il busto? o un ritratto a mezza figura? e a che ora avevano luogo le sedute? ... Mentre poi la signorina Engelhart non aveva pronti i particolari e dovette rimandarlo al risultato di indagini future. Dopo queste notizie Castorp ebbe la febbre a 37 e 7. Assai piú delle visite che la Chauchat riceveva, lo addoloravano e inquietavano quelle che faceva. La vita privata e personale di lei in sé e per sé, indipendentemente dal contenuto, aveva già cominciato a procurargli dolore e inquietudine: quanto piú dovevano aumentare l'uno e l'altra ora che gli giungevano alle orecchie notizie maligne intorno a quel contenuto! In linea generale, sí, era possibile che i rapporti tra il visitatore russo e la sua compatriota fossero di natura fredda e innocua; ma da qual che tempo Castorp aveva preso a considerare fandonie la freddezza e l'innocenza; come, d'altro canto, non riusciva a convincersi che fosse qualcosa di diverso la pittura a olio in quanto rapporto tra un vedovo dal linguaggio energico e una giovane donna dagli occhi stretti e dal passo morbido. Il gusto che Behrens aveva rivelato con la scelta del modello corrispondeva troppo al suo perché potesse credere in una freddezza, e l'idea delle guance blu del consigliere e dei suoi occhi gonfi e arrossati gli era anch'essa di scarso giovamento. Un'osservazione fatta in quei giorni per caso e per conto suo influí su di lui diversamente, benché si trattasse ancora d'una conferma del suo gusto. Alla tavola trasversale della signora Salomon e del vorace scolaro con gli occhiali, alla sinistra di quella dei due cugini, accanto alla porta vetrata laterale, era seduto un malato proveniente, come aveva appreso Castorp, da Mannheim, un uomo sulla trentina, coi capelli radi, i denti cariati e una certa timidezza nel parlare; quello stesso che talvolta, alle riunioni serali, sonava il pianoforte, per lo piú la marcia nuziale del Sogno d'una notte d'estate.

Si diceva che era molto religioso, come si capisce che accadeva non di rado tra gli ospiti di lassú: cosí almeno avevano detto a Castorp. Lui scendeva tutte le domeniche a Platz per la messa e sulla sedia a sdraio leggeva libri di preghiere, libri con un calice o una foglia di palma sulla copertina. Ora, costui - un giorno Castorp lo notò - teneva lo sguardo fisso dove lo fissava lui: sulla flessuosa persona di madame Chauchat, e con una timorosa invadenza che toccava la servilità. Dopo averlo notato una volta, Castorp fu costretto a ripetere piú volte quell'osservazione. Lo vedeva la sera nella stanza da giuoco, in piedi nel mezzo degli ospiti, accigliato e smarrito nella contemplazione della dolma bacata, che seduta sul divano nel salottino chiacchierava con Tamara (cosí si chiamava la comica ragazza dai capelli lanosi), col dottor Blumenkohl e coi suoi commensali dal petto concavo e dalle spalle cascanti; lo vedeva spostarsi, girare intorno e rivolgersi di nuovo là con gli occhi in tralice e il labbro superiore dolorosamente arricciato; lo vedeva impallidire e non alzare gli occhi, ma alzarli poco dopo e guardare avidamente, quando la porta vetrata sbatteva e la Chauchat con passo slittante andava al suo posto. E piú volte vide il poveretto andare a mettersi, dopo il pasto, tra l'uscita e la tavola dei "russi ammodo" per vedersi passare davanti la Chauchat, che a lui non badava, e divorarla da presso con gli occhi colmi di tristezza. Anche questa scoperta venne dunque a tormentare non poco il giovane Castorp, benché il mannheimese con la sua povera smania di guardare, non potesse inquietarlo quanto i contatti personali della signora col direttore Behrens, uomo tanto superiore a lui per età, importanza e posizione. Clavdia non si curava affatto del mannheimese; se fosse stato diversamente, la cosa non sarebbe sfuggita all'interiore acume di Castorp che, in questo caso, non sentiva quindi nell'animo l'odioso pungolo della gelosia. Provava però tutte le sensazioni che l'ebbrezza e la passione provano quando incontrano se stesse nel mondo esterno, e che formano il piú strano miscuglio di nausea e sentimenti di solidarietà. E' impossibile scandagliare ed esporre ogni cosa, Se non vogliamo arenarci qui. In ogni caso si erano accumulate troppe cose addosso al povero Castorp, anche senza che gli toccasse osservare l'uomo di Mannheim. Cosí passarono gli otto giorni fino alla radioscopia. Castorp non aveva pensato che sarebbero passati, ma una mattina quando alla prima colazione la superiora (che aveva di nuovo un orzaiolo, e non poteva essere lo stesso; evidentemente andava soggetta a quell'incomodo, innocuo, ma deformante) gli ordinò di presentarsi dopo mezzogiorno nel laboratorio, ecco che erano passati. Hans Castorp doveva essere sul posto insieme con suo cugino mezz'ora prima del tè, poiché anche di Joachim si doveva prendere, in quell'occasione, una nuova veduta interna; la precedente era da considerarsi superata. Ridotta quindi di trenta minuti la cura lunga di quel pomeriggio, alle tre e mezzo in punto erano scesi per la scala di pietra nello scantinato e stavano nella breve stanza d'aspetto che separava l'ambulatorio dal

gabinetto radiologico: Joachim, che non prevedeva nulla di nuovo, in santa pace, Castorp in attesa un po' febbrile, perché fino allora nessuno aveva ancora visto la sua vita organica interna. Non erano soli; entrando avevano già trovato alcuni ospiti con logore riviste illustrate sulle ginocchia, e questi aspettavano ora con loro: un giovane e gigantesco svedese che nella sala da pranzo sedeva alla tavola di Settembrini e, a quanto si diceva, al suo arrivo, in aprile, era stato malato al punto che quasi non lo volevano accettare; ora invece era aumentato quaranta chili e stava per essere dimesso perfettamente guarito; poi una donna della tavola dei "russi incolti", una madre, patìta, con un suo ragazzo ancor piú patìto, brutto, con un lungo naso, di nome Sascia. Queste persone dunque aspettavano da piú tempo che i cugini; nella sequenza delle convocazioni avevano certo la precedenza su di loro, doveva essere subentrato un ritardo nel gabinetto radiologico, sicché era da prevedere che si sarebbe bevuto il tè ormai freddo. Nel gabinetto si stava lavorando. Si udiva la voce di Behrens che impartiva ordini. Erano le tre e mezzo o poco piú quando la porta si aprí (la aprí un assistente tecnico che lavorava laggiú) e per primo entrò lo svedese gigante che doveva essere nato con la camicia; il suo predecessore si era certo allontanato da un'altra uscita. Tutto si svolse ora piú velocemente. Dopo soli dieci minuti si udí lo scandinavo guarito, ambulante pubblicità del luogo e della casa di cura, allontanarsi con passo franco per il corridoio, mentre la madre russa veniva introdotta insieme con Sascia. Anche ora, come già all'ingresso dello svedese, Castorp notò che nel gabinetto regnava una penombra, cioè una semiluce artificiale... esattamente come nel gabinetto analitico del dottor Krokowski. Le finestre erano oscurate e la luce del giorno preclusa, soltanto alcune lampadine elettriche erano accese. Mentre Sascia e sua madre entravano e Castorp li seguiva con lo sguardo, ...in quello stesso momento la porta del corridoio si aprí e il paziente successivo entrò nella stanza d'aspetto, in anticipo, dato il ritardo: era madame Chauchat. Nella stanzetta era entrata Clavdia Chauchat. Castorp la riconobbe con gli occhi sbarrati e sentí chiaramente che si sbiancava in viso e la mascella gli si rilassava, sicché stava per aprire la bocca. La comparsa di Clavdia era avvenuta cosí all'improvviso, per incidenza, che a un tratto lei si trovò a condividere la sosta dei cugini in quel breve spazio, mentre un momento prima non c'era stata. Joachim lanciò a Castorp una rapida occhiata e poi non solo abbassò lo sguardo, ma riprese dalla tavola la rivista illustrata che aveva già deposta e vi nascose la faccia. Castorp non trovò la forza di fare altrettanto. Dopo il pallore era diventato tutto rosso, e il cuore gli martellava. La signora si accomodò, accanto alla porta del gabinetto, su una seggiolina rotonda con i braccioli mozzi, quasi rudimentali; appoggiata alla spalliera pose leggermente una gamba sopra l'altra e guardò nel vuoto, ma i suoi occhi da Pribislav che, sapendosi lei osservata, erano nervosamente distratti dalla direzione in cui guardavano, apparvero un po' strabici.

Portava una giacca a maglia di lana bianca e una gonna blu, teneva in grembo un libro, un volume, pareva, della biblioteca circolante, e batteva piano piano il pavimento col piede che vi era posato. Dopo un solo minuto e mezzo cambiò posizione, si guardò intorno, si alzò come se non sapesse che pesci pigliare e da che parte voltarsi e... cominciò a parlare. Domandò qualcosa, rivolse una domanda a Joachim, benché questi fosse immerso nella sua rivista illustrata, mentre Castorp stava là disoccupato, ...formò parole con le labbra e attinse voce dalla sua candida gola: era la voce non fonda, ma un tantino acuta, deliziosamente velata che Castorp conosceva... conosceva da un pezzo e una volta aveva persino udita da vicino quando con quella voce qualcuno gli aveva detto: Volentieri. Ma dopo l'ora me la devi restituire sicuramente . Ma queste parole erano state pronunciate piú fluide e decise, mentre ora uscivano un po' strascicate e tronche, lei non vi aveva alcun diritto naturale, le prendeva soltanto a prestito, come Castorp l'aveva già udita fare qualche volta, con un certo senso di superiorità che però era in mezzo a ondate di umile rapimento. Una mano nella tasca della giacca di lana, l'altra sulla nuca, la signora Chauchat domandò: Scusi, per che ora è stato invitato a venire? Joachim, dopo aver gettato un rapido sguardo a suo cugino, rispose battendo i tacchi, benché seduto: Per le tre e mezzo. Lei riprese: Io per le tre e tre quarti. Che cosa succede? Sono quasi le quattro. Qualcuno è entrato poco fa, non è vero? Sí, due persone rispose Joachim. Toccava a loro, erano qui prima di noi. Il servizio è in ritardo. Pare che tutto sia spostato di mezz'ora. Spiacevole! disse lei toccandosi nervosamente i capelli. Piuttosto ribatté Joachim. Anche noi aspettiamo da quasi mezz'ora. Cosí discorrevano, mentre Castorp ascoltava in sogno. Che Joachim parlasse con madame Chauchat era come se avesse parlato lui stesso, quasi la stessa cosa... pur essendo, certo, una cosa del tutto diversa. Quel "piuttosto" aveva offeso Castorp, gli pareva sfacciato o almeno di una sgradevole indifferenza in quelle circostanze. Ma alla fin fine Joachim poteva anche parlare cosí... poteva, in genere, parlare con lei e forse davanti a lui si vantava un po' di quell'audace "piuttosto", press'a poco come lui stesso davanti a Joachim e Settembrini si era dato delle arie allorché, richiesto quanto tempo intendesse trattenersi, aveva risposto tre settimane . A Joachim lei aveva rivolto la parola, benché egli tenesse gli occhi fissi sul periodico, certo perché era lassú da piú tempo, e da piú tempo lei lo conosceva di vista; ma anche per un'altra ragione, perché nel caso suo le si addiceva una conversazione civile, uno scambio articolato e tra loro non c'era nulla di sfrenato, di profondo, di orrido, di misterioso. Se fosse stata lí in attesa, insieme con loro, una certa persona dagli occhi castani, col rubino all'anello e il profumo d'arancio, sarebbe toccato a lui, Castorp, di conversare e dire "piuttosto", dato che di fronte a lei era indipendente e puro. Certo, piuttosto spiacevole, cara signorina avrebbe detto, cavando forse con uno slancio il fazzoletto dal taschino per soffiarsi il naso.

Abbia pazienza. Non siamo in condizioni migliori. E Joachim si sarebbe stupito della sua disinvoltura... probabilmente pèrò senza augurarsi sul serio di essere al posto di lui. Ecco, nemmeno Castorp, stando cosí le cose, era geloso di Joachim, benché a lui fosse lecito parlare con la Chauchat. Era contento che si fosse rivolta a lui; facendolo, aveva tenuto conto delle circostanze e fatto capire che di queste circostanze era consapevole... Il cuore gli martellava. Dopo il calmo trattamento da parte di Joachim, nel quale Castorp aveva scorto persino una sua sottile ostilità contro la paziente, un'ostilità che nonostante l'emozione lo fece sorridere, la Chauchat tentò un giretto per la stanza; ma non c'era spazio, perciò prese anche lei un fascicolo illustrato e ritornò alla sedia dai braccioli rudimentali. Castorp, seduto, la guardava imitando il nonno nel reggersi il mento, e cosí somigliava al vecchio in modo veramente ridicolo. Siccome la Chauchat aveva posto di nuovo una gamba sull'altra, il suo ginocchio, anzi l'intera linea slanciata della gamba le si disegnava sotto la stoffa blu della gonna. Era di statura soltanto media, statura agli occhi di Castorp molto gradevole e giusta, ma aveva le gambe relativamente lunghe e non era larga di fianchi. Non stava appoggiata alla spalliera, ma china, le braccia in croce posate sulla coscia della gamba accavallata, la schiena curva e le spalle cascanti, con le vertebre del collo sporgenti; anzi, di sotto alla giacca attillata si vedeva quasi sporgere la spina dorsale, e il seno, non alto e prosperoso come quello di Marusja, ma piccolino, da ragazza, era compresso da ambo i lati. A un tratto venne in mente a Castorp che anche lei era in attesa della radioscopia. Behrens la dipingeva; riproduceva a colori a olio la sua figura esteriore sulla tela. Tra un po' nella penombra avrebbe diretto su di lei quei raggi che mettevano a nudo l'interno del suo corpo. E a questo pensiero volse la testa col viso decorosamente offuscato, con un'espressione discreta e costumata che a quell'idea gli parve opportuno assumere di fronte a se stesso. La presenza dei tre nella saletta d'aspetto non durò a lungo. Con Sascia e sua madre non si erano fatti là dentro tanti complimenti, si cercava di far presto per recuperare il ritardo. Il tecnico in camice bianco riaprí la porta, Joachim si alzò gettando la rivista sulla tavola e Castorp lo seguí, sia pure con una certa titubanza interiore. Scrupoli cavallereschi gli si affacciarono insieme con la tentazione di parlare garbatamente alla signora Chauchat e di offrirle la precedenza, magari in francese, se possibile, e, in fretta andò in cerca dei vocaboli, delle frasi. Ma non sapeva se tali cortesie fossero in uso lassú, se il turno stabilito non fosse molto superiore alla cavalleria.

Joachim lo doveva sapere e, siccome non accennava a cedere il passo alla signora, benché Castorp lo guardasse agitato e con insistenza, questi lo seguí dunque e, passando accanto alla Chauchat che, curva com'era, alzò solo fugacemente gli occhi, entrò nel gabinetto. Era troppo stordito da ciò che si lasciava alle spalle, dall'avventura degli ultimi dieci minuti, perché col passaggio nel gabinetto radiologico anche la sua presenza interiore potesse adeguarsi al mutamento. Nella semiluce artificiale non vide nulla o soltanto cose molto vaghe. Riudiva la voce deliziosamente velata della Chauchat, quando aveva detto: Che cosa succede?... Qualcuno è entrato poco fa... Spiacevole... e il suono di quella voce gli faceva scorrere un dolce brivido sulla schiena. Vedeva il ginocchio di lei modellato sotto il panno della gonna, le vedeva sporgere le vertebre del collo piegato, di sotto ai corti capelli biondo-rossicci che vi stavano sciolti, perché non inseriti nella pettinatura a treccia, e di nuovo rabbrividí. Vide il consigliere Behrens, voltato dall'altra parte, in piedi davanti a un armadio o una specie di scaffale, mentre stava osservando una lastra scura tenendola col braccio teso contro la pallida lampada del soffitto. Passandogli accanto s'inoltrarono nella stanza, sorpassati dal l'assistente che si mise a fare i preparativi per il loro esame. C'era nell'aria un odore speciale, come di ozono stantio. Sporgendo tra le finestre coperte di tende nere, lo scaffale divideva la stanza in due parti disuguali. Vi si distinguevano apparecchi di fisica, vetri concavi, quadri di distribuzione, solenni strumenti di misurazione, ma anche una cassetta simile a una macchina fotografica su un sostegno a rotelle, diapositive incastrate in serie nel muro... Non si capiva se fosse uno studio fotografico, una camera oscura o un laboratorio d'inventori, un'officina tecnica da streghe. Joachim aveva cominciato senz'altro a denudarsi il busto. L'assistente, un giovane del luogo, tarchiato, con le guance rosse, in camice bianco, invitò Castorp a fare altrettanto. Era questione di un momento, disse, e subito sarebbe toccato a lui... Mentre Castorp si levava il panciotto, Behrens uscí dalla parte piú stretta della stanza e passò nella piú spaziosa. Olà! esclamò. Ecco i nostri Dioscuri! Castorp e Polluce... I lamenti non sono ammessi. Aspettate, tra un po' vi scrutiamo tutti e due. Lei, Castorp, ha paura, penso, di svelarci le interiora. Stia tranquillo, l'estetica sarà salva. A proposito, ha già visto la mia pinacoteca personale? E lo tirò per un braccio davanti alla fila di vetri scuri, dietro ai quali accese le lampadine, sicché s'illuminarono e rivelarono le immagini. Castorp vide mani, piedi, rotule, cosce, gambe, braccia e pezzi di bacino.

Ma la forma arrotondata di quei frammenti del corpo umano appariva come un'ombra, coi contorni sfumati; come una nebbia e una scialba parvenza circondava, incerta, il suo nucleo, lo scheletro, che spiccava netto, deciso e minuZiOSO. Molto interessante disse Castorp. Certo che è interessante! replicò il direttore. Utile insegnamento intuitivo per i giovani. Anatomia luminosa, capisce, un trionfo dell'era moderna. Questo è un braccio femminile, lo si vede dalla grazia che ha. Questo stringe l'uomo nei momenti dell'idillio, capisce. E rise sollevando da una parte sola il labbro con i baffetti corti. Castorp si volse di fianco a guardare Joachim che si preparava per la radiografia. Era davanti a quello scaffale, al cui lato opposto avevano visto Behrens quando erano entrati. Joachim si era seduto su una specie di sgabello da calzolai davanti a un'asse contro la quale premeva il petto; oltre a ciò la teneva abbracciata. L'assistente gli spingeva avanti le spalle e massaggiandogli specialmente la schiena migliorava la sua posizione. Poi si mise dietro alla macchina come un fotografo qualunque, curvo, a gambe larghe, per valutare la veduta, si dichiarò soddisfatto e portandosi di fianco raccomandò a Joachim di aspirare profondamente e di trattenere il fiato sino alla fine. La schiena tonda di Joachim si tese e cosí restò: in quell'istante l'operatore aveva eseguito le opportune manovre al quadro di distribuzione. Per due secondi entrarono in azione potenti forze, il cui impiego era necessario per attraversare la materia, correnti di migliaia di volta, anzi di centomila, come Castorp credette di ricordare. Appena domate per lo scopo prefisso, le forze cercarono sfogo per le vie secondarie. Le scariche tonavano come spari, all'apparecchio misuratore si scatenò uno scoppiettio azzurro, lunghi lampi guizzarono crepitando lungo la parete. Una luce rossa balenò, simile a un occhio, quieta e minacciosa, e una fiala alle spalle diJoachim si empí di verde. Poi tutto cessò, i fenomeni luminosi si spensero e Joachim espirò l'aria con un sospiro. Era fatto. Avanti il prossimo delinquente! esclamò Behrens dando a Castorp una gomitata. E non mi venga a dire che è stanco! Le daremo una copia in omaggio con la quale potrà proiettare sul muro i segreti del suo petto fino ai figli e ai nipoti! Joachim si era tirato in disparte; il tecnico cambiò la lastra. Behrens istruí di persona il novellino sul modo di sedersi, di contenersi. Abbracciare! comandò. Stringere l'asse tra le braccia! Se crede, può figurarsi che sia qualcos'altro. E premere bene il petto contro l'asse, come se le desse un senso di felicità. Cosí va bene. Aspirare! Fermo ! Per favore, sorrida ! Castorp, coi polmoni gonfi, attese strizzando gli occhi. Dietro a lui si scatenò l'uragano, crepitando, tonando, scoppiettando, finché ritornò la calma. L'obiettivo aveva visto dentro di lui.

Si alzò, confuso e stordito da ciò che gli era toccato, benché non avesse avvertito minimamente il passaggio dei raggi. Bravo lo elogiò il consigliere. Ora vedremo un po noi. E Joachim, ormai pratico, si era già spostato andandosi a mettere, accanto alla porta d'uscita, davanti a un treppiede, avendo alle spalle il voluminoso apparecchio sul quale, all'altezza del dorso, si vedeva, empita d'acqua per metà, una boccia di vetro col tubo di evaporazione; e davanti a sé, all'altezza del petto, uno schermo incorniciato, sospeso a cordoni mobili. Alla sua sinistra, tra un quadro di distribuzione e una bacheca di strumenti, sporgeva una lampada con la campana rossa. Behrens, seduto a cavallo di uno sgabello davanti allo schermo appeso, la accese. La lampada del soffitto si spense, la scena rimase illuminata soltanto dalla luce color rubino. Con un breve scatto il maestro spense poi anche questa e tutti si trovarono avvolti nella piú fitta oscurità. Gli occhi si devono anzitutto abituare si udí nel buio la voce del consigliere. Qccorrono pupille dilatate, come quelle dei gatti, per vedere ciò che vogliamo vedere. Capirà che coi nostri occhi diurni non possiamo vedere bene senz'altro. Per i nostri scopi dobbiamo levarci dalla mente la luce del giorno con le sue gaie immagini. S'intende disse Castorp, in piedi dietro alle spalle del consigliere e chiuse gli occhi, poiché era indifferente tenerli aperti o chiusi, tanto era nera la notte. Prima di tutto dobbiamo lavarci gli occhi con la tenebra, se vogliamo vedere queste cose, è ovvio. Mi pare persino giusto e opportuno far precedere un po' di raccoglimento, come dire una preghiera mentale. Io sto qui in piedi con gli occhi chiusi, e sento una piacevole sonnolenza. Ma che odore è questo? Ossigeno rispose il consigliere. L'aria ne è impregnata. Prodotto atmosferico del temporale qui dentro, Capisce?... Apra gli occhi! Adesso comincia l'esorcismo. Castorp si affrettò a ubbidire. Si udí spostare una leva. Un motore si accese, il suo canto salí furioso, ma un nuovo scatto lo costrinse a girare con regola costante. Il pavimento tremava con sussulti uniformi. La lampadina rossa allungata e verticale, occhieggiava muta e minacciosa. Da qualche parte crepitò una scintilla. E piano piano, con un chiarore lattiginoso, come una finestra che s'illuminasse, emerse dal buio il pallido quadrato dello schermo, davanti al quale Behrens calcava sullo sgabello i pugni puntati sulle gambe divaricate, il naso schiacciato contro la lastra che permetteva di guardare l'interno dell'organismo umano. Vede, giovanotto? domandò... Castorp si chinò sulla spalla di lui, ma sollevò ancora una volta la testa verso il punto in cui, nella tenebra, dovevano essere gli occhi di Joachim dallo sguardo probabilmente dolce e triste come allora, il giorno della visita, e domandò: Permetti, vero? Figurati! risposeJoachimgeneroso dal buio. E tra i sussulti del pavimento, tra il ronzio e lo scoppiettio delle forze in moto Castorp si chinò a guardare attraverso la pallida finestra, a spiare attraverso il vuoto scheletro di Joachim Ziemssen. Lo sterno formava insieme con la spina dorsale una colonna scura, cartilaginosa.

All'armatura delle costole anteriori era sovrapposta quella della schiena che appariva piú scialba. Le clavicole si diramavano curve ai lati e sul tenero involucro luminoso della carne si disegnava secco e preciso lo scheletro della spalla, l'attacco dell'omero di Joachim. L'interno della cassa toracica era chiaro, ma vi si distinguevano un groviglio reticolare, macchie scure, un'increspatura nerastra. Immagine chiara commentò il consigliere. Ecco l'onorata magrezza, la gioventú militare. Ho avuto qui cuscini di grasso... impenetrabili, da non distinguere quasi nulla. Si hanno ancora da scoprire i raggi che possano attraversare un tale strato di adipe... Questo qui è un lavoro ben fatto. Vede il diaframma? domandò indicando l'arco scuro che in fondo alla finestra si alzava e si abbassava... Vede le gobbe qui a sinistra, le sporgenZe? Questa è la pleurite che ha fatto a quindici anni. Respiro profondo! ordinò. Piú profondo! Profondo dico! E il diaframma diJoachim si sollevò tremante, piú che poté, e nella parte superiore dei polmoni ci fu una schiarita, della quale però il consigliere non si dichiarò soddisfatto. Insufficiente! esclamò. Vede le ghiandole dell'ilo? Vede le aderenze? Vede qui le caverne? Da qui vengono i veleni che lo ubriacano. Ma l'attenzione di Castorp era attirata da una specie di sacco, una cosa informe e animalesca, scura, dietro al tronco centrale, con la parte maggiore a destra rispetto allo spettatore,... la quale si gonfiava regolarmente e si comprimeva, un po' come fanno le meduse in movimento. Vede il suo cuore? domandò Behrens sollevando di nuovo la manona dalla gamba e segnando con l'indice il pulsante pendaglio... Gran Dio, Castorp vedeva il cuore, il cuore onorato diJoachim! Vedo il tuo cuore disse con voce soffocata. Fai pure! replicò di nuovo Joachim, mentre probabilmente sorrideva rassegnato lassú, nel buio. Ma il dottore ordinò loro di tacere e di non darsi ai sentimentalismi. Stava studiando le macchie e le linee, la nera increspatura della cassa toracica, mentre anche l'altro osservatore non si stancava di guardare la figura funerea e lo scheletro di Joachim, quella nuda impalcatura, quel memento sottile come un fuso. Provava rispetto religioso e spavento. Sí, sí, vedo disse piú volte. Dio mio, vedo! Aveva sentito parlare di una donna, una parente del ramo Tienappel, da gran tempo defunta, la quale aveva avuto in dono, o in castigo, una grave qualità: le persone che stavano per morire si presentavano ai suoi occhi come scheletri. E ora Castorp vedeva cosí il buon Joachim, sia pure con l'ausilio e per iniziativa della scienza otticofisica, sicché non vi si celava alcun significato particolare e tutto si svolgeva per vie regolari, tanto piú che egli aveva ottenuto espressamente il consenso di Joachim. Tuttavia provò comprensione per la melanconica sorte di quella zia veggente. Vivamente agitato per ciò che vedeva o invero per il fatto che lo vedeva, si sentí pungolato da reconditi dubbi sulla legittimità di quel procedimento, e si chiedeva se quello spettacolo nella tenebra sussultante e crepitante fosse cosa lecita; e il travolgente piacere dell'indiscrezione si fondeva nel suo petto con sensi di commozione e di devozione religiosa.

Ma dopo pochi minuti lui stesso si trovò alla berlina in mezzo al temporale, mentre Joachim, a corpo richiuso, si vestiva. Di nuovo Behrens spiò attraverso la lastra smerigliata, ma nell'interno di Castorp questa volta, e dalle sue parole a mezza voce, da frasi mozze e imprecazioni si capiva che il reperto corrispondeva alle sue previsioni. Ebbe poi la bontà di permettere che il paziente, il quale glielo aveva chiesto con insistenza, osservasse la propria mano attraverso lo schermo luminoso. E Castorp vide ciò che doveva pur aspettarsi di vedere, ma a rigore non spetta agli uomini, ed egli stesso non aveva mai pensato che gli sarebbe stato concesso: gettò uno sguardo nella propria tomba. Vide in anticipo, grazie alla potenza della luce, la futura opera della decomposizione, la carne, che lo rivestiva, dissolta, distrutta, sciolta in una nebbia evanescente, e dentro a questa lo scheletro della sua destra finemente tornito, dove intorno alla falange dell'anulare era sospeso, nero e isolato, il suo anello col sigillo, ereditato dal nonno: un innocuo oggetto terLA MONTAGNA LNCANTATA 363 reno col quale l'uomo orna il suo corpo destinato a dissolversi, di modo che rimane libero e passa ad altra carne che lo porterà per qualche tempo. Con gli occhi di quell'antenata Tienappel osservò una parte familiare del suo corpo, con occhi penetranti, preveggenti, e per la prima volta in vita sua si rese conto che sarebbe morto. E intanto assunse l'espressione che soleva assumere quando ascol tava musica: un espressione un po melensa, assonnata, compunta, la bocca semiaperta, la testa piegata sulla spalla. Behrens disse: Spettrale, vero? Eh, una punta di spettralità c'è davvero. Poi pose freno alle forze scatenate. Il pavimento non tremò piú, i fenomeni luminosi si spensero, la finestra magica ridivenne buia. La lampada del soffitto si accese. E mentre anche Castorp si vestiva, Behrens diede ai giovani qualche cenno sulle sue osservazioni tenendo conto della loro intelligenza di profani. In quanto a Castorp, in modo particolare, il reperto ottico aveva confermato esattamente quello acustico, dando piena soddisfazione alla scienza. Si erano viste le vecchie cicatrici e la zona molle, e dai bronchi partivano "ramificazioni" che s'addentravano nell'organo, "ramificazioni con piccoli nodi". Castorp l'avrebbe riscontrato da sé sulla diapositiva che, secondo la promessa, gli avrebbero consegnato tra breve. Riposo dunque, pazienza, disciplina virile, misurare la temperatura, mangiare, stare coricato, e calma soprattutto ! Volse loro le spalle ed essi uscirono. Sulla soglia Castorp, dietro a Joachim, si voltò a guardare: invitata dall'assistente, la signora Chauchat entrava.

Libertà. Come la pensava Castorp in realtà? Le sette settimane che senza alcun dubbio e con prove irrefutabili aveva passate lassú, gli sembrava che fossero trascorse come sette giorni? O gli pareva, al contrario, di vivere là da molto, molto piú tempo di quanto non fosse passato davvero? Egli stesso se lo chiedeva, sia nella sua mente, sia ponendo questa domanda a Joachim, ma senza arrivare a una conclusione. Forse era vera una cosa e l'altra; a riguardare indietro, il tempo trascorso gli appariva eccezional mente breve ed eccezionalmente lungo, ma non riusciva a farsi un'idea di come fosse in realtà... e qui si presuppone che il tempo sia oggettivo e che sia lecito collegarlo col concetto di realtà. In ogni caso l'ottobre era alle porte e poteva subentrare da un giorno all'altro. Castorp non ebbe difficoltà a fare il computo, e oltre a ciò glielo fecero intendere i discorsi degli altri pazienti coi quali conviveva. Lo sapete che tra cinque giorni siamo di nuovo al primo del mese? aveva detto Hermine Kleefeld a due giovani del suo gruppo, lo studente Rasmussen e quel tale dalle labbra tumide che rispondeva al nome di Ganser. Stavano dopo il pasto principale fra le tavole, nell'odore dei cibi, e chiacchieravano prima di decidersi a raggiungere le sedie a sdraio. Primo ottobre. L'ho appreso dal calendario dell'Amministrazione. E' il secondo che passo in questo luogo di delizie. Be', l'estate se n'è ita, se pure c'è stata, se ne rimane defraudati, come della vita in genere. E sospirò con l'unico polmone scotendo la testa e levando al soffitto gli occhi velati di stupidità. Allegro, Rasmussen! esclamò poi battendo la spalla cascante del compagno. Ci racconti barzellette ! Ne so poche si scusò Rasmussen, tenendo le mani pendenti come pinne all'altezza del petto, e anche quelle non mi vengono, sono sempre tanto stanco. Neanche un cane affermò Ganser fra i denti vorrebbe vivere a lungo cosí o press'a poco. E risero alzando le spalle. Ma vicino a loro c'era anche Settembrini, con lo stecchino fra le labbra; uscendo disse a Castorp: Non gli creda, ingegnere, non gli creda mai quando imprecano ! Lo fanno tutti senza eccezione, benché si sentano fin troppo a casa loro. Fanno una vita oziosa e pretendono di incontrare compassione, si credono autorizzati all'amarezza, all'ironia, al cinismo. "In questo luogo di delizie!" Non lo è forse? Io sono del parere che lo è, nel piú problematico significato della parola. "Defraudati" dice quella ragazza, "defraudati della vita, in questo luogo di delizie." Ma la faccia scendere al piano e vedrà che dopo un po' il suo tenore di vita laggiú non lascerà sorgere alcun dubbio sulle sue intenzioni di risalire quassú al piú presto possibile. Eh, sí, l'ironia! Si guardi, ingegnere, dall'ironia che prospera qui ! In genere, si guardi da questo atteggiamento dello spirito! Dove non è un retto e classico mezzo dell'arte del dire, tale da non essere mai frainteso dal buon senso, diventa una cosa sciatta, un impedimento alla civiltà, un sordido civettare col quietismo, con la stoltezza, col vizio. Siccome l'atmosfera in cui viviamo favorisce indubbiamente la crescita di questa pianta palustre, posso sperare o devo temere che lei mi comprenda. In realtà le parole dell'italiano erano di quelle che soltanto sette settimane prima, laggiú al piano, sarebbero state per Castorp mero suono, mentre il soggiorno lassú

aveva reso il suo spirito accessibile al loro significato; accessibile nel senso di capace di comprensione intellettuale, non già di simpatia, che forse vuol dire anche di piú. Infatti, benché in fondo al cuore fosse lieto che Settembrini continuasse, nonostante tutto quanto era avvenuto, a parlargli ancora, a istruirlo, a metterlo in guardia, a cercare di influire su di lui, la sua intelligenza arrivava persino a giudicare le sue parole e a negare loro, almeno fino a un certo punto, il proprio consenso. "Guarda un po' " rifletté, "parla dell'ironia come della musica, manca poco che la definisca politicamente sospetta, dal momento cioè in cui cessa di essere un mezzo didattico e classico. Ma un'ironia che non fosse mai fraintesa, che razza d'ironia sarebbe, domando io in nome del cielo, se devo dire la mia? Una cosa arida sarebbe, una pedanteria! Cosí ingrata è la gioventú in formazione! Si fa dare un dono e poi vi cerca le magagne. ' Gli sarebbe sembrato però troppo rischioso esprimere a parole la sua opposizione. Limitò quindi le sue obiezioni al giudizio che Settembrini aveva dato di Hermine Kleefeld, e a lui era parso ingiusto" o cosí voleva che, per determinati motivi, gli paresse. Ma la signorina è malata! osservò. E' proprio gravemente malata e ha tutte le ragioni di disperarsi. Cosa pretende da lei? Malattia e disperazione dichiarò Settembrini sono anch'esse talvolta forme di sciatteria. "E Leopardi" pensò Castorp "che disperò espressamente persino della scienza e del progresso? E lui stesso, questo signor pedante? Non è malato anche lui e non ritorna sempre quassú? Carducci sarebbe poco contento di lui." E ad alta voce disse: Lei è buono. La signorina potrebbe da un momento all'altro andarsene con Dio. E lei dovrebbe spiegarsi meglio; se mi dicesse che talvolta la malattia è una conseguenza della sciatteria, sí, sarebbe plausibile... Molto plausibile interruppe Settembrini. In fede mia, lei sarebbe d'accordo che mi fermassi qui? O se dicesse che qualche volta la malattia deve fare da pretesto alla sciatteria, nemmeno questo mi dispiacerebbe. Grazie tante! Ma che la malattia sia una "forma" di sciatteria, vale a dire, non derivata dalla sciatteria, ma sciatteria essa stessa! oh, via, è paradossale! Scusi, ingegnere, non facciamo insinuazioni! Io disprezzo i paradossi, li ho in odio. Pensi che tutto quanto ho detto dell'ironia è valido anche per il paradosso, anzi piú ancora! Il paradosso è il fiore velenoso del quietiSmo, il cangiare dello spirito marcito, la piú grande fra tutte le sciatterie. D'altro canto noto che ancora una volta lei prende le difese della malattia... No. Bado a ciò che lei dice. Mi ricorda addirittura certe osservazioni che il dottor Krokowski propone nei suoi lunedí. Anche lui afferma che la malattia organica è un fenomeno secondario. Non è un idealista del tutto puro. Che può dire contro di lui? Appunto questo. Non vede di buon occhio l'analisi, lei? Non tutti i giorni, ingegnere. E ottima e pessima, alternando. Come sarebbe a dire? L'analisi è buona come strumento d'istruzione e di civiltà, è buona in quanto scuote convinzioni sciocche, distrugge pregiudizi naturali, scalza l'autorità; buona, con altre parole, in quanto libera, affina, umanizza e fa gli schiavi maturi per la libertà. E' cattiva, pessima, in quanto ostacola l'azione, guasta la vita alle radici, è incapace di formarla. L'analisi può essere una cosa molto disgustosa come la morte, della quale penso che possa far parte...

affine al sepolcro e alla sua equivoca anatomia... "Buono il tuo ruggito, leone non poté fare a meno di pensare Castorp come sempre quando Settembrini parlava da pedagogo. Ma si limitò a dire: Recentemente, al pianterreno, abbiamo fatto dell'anatomia luminosa. Cosí la chiamò Behrens quando ci assoggettò alla radioscopia. Ah? E' già arrivato anche a quella staZione? E come è andata? Ho visto lo scheletro della mia mano rispose Castorp cercando di rievocare le sensazioni che aveva avute in quella visita. Si è fatto mostrare qualche volta anche la sua? No, non m'interesso affatto al mio scheletro. E il reperto medico? Ha visto, dice, ramificazioni, ramificazioni con piccoli nodi. Il satanasso ! Un'altra volta lei ha chiamato cosí il consigliere Behrens. Che cosa intende? Creda a me, è una definizione appropriata. No, signor Settembrini, lei è ingiusto. Ammetto, l'uomo ha le sue debolezze. Anche a me, alla lunga, quel suo modo di parlare piàce poco; talvolta è un po' forzato, specie quando si pensa che ha avuto il grande dolore di perdere quassú la sua compagna. Eppure, tutto sommato, è persona benemerita e rispettabile, un benefattore dell'umanità sofferente. Ultimamente l'ho incontrato, mentre ritornava da un'operazione, una resezione delle costole, una faccenda disperata, o vincere o morire. Mi ha fatto profonda impressione vederlo arrivare dal suo difficile e utile lavoro che svolge con tanta maestria. Era ancora affannato e in premio si era acceso un sigaro. Devo dire che lo invidiai. Bello da parte sua. Ma la sentenza? Quanto le ha dato? Non ha fissato un termine. Meglio cosí. Andiamo ora, ingegnere, a coricarci. Occupiamo le nostre posizioni! Si separarono davanti al n. 34. Lei sale al tetto, signor Settembrini. Dev essere piú allegro star coricati in compagnia che soli. Ci si diverte? I suoi compagni di cura sono persone interessanti? Oh, che vuole? Sono tutti sciti e parti. Russi vuol dire? E russe rispose Settembrini, tendendo gli angoli della bocca. Addio, ingegnere ! L'aveva detto con intenzione, senza dubbio. Castorp entrò confuso nella sua camera. Settembrini era informato? Probabilmente lo aveva osservato da pedagogo e aveva seguito la via che i suoi occhi percorrevano. Castorp ce l'aveva con l'italiano e anche con se stesso, perché non sapendo dominarsi aveva provocato la punzecchiatura. Mentre raccoglieva l'occorrente per scrivere - voleva portarlo con sé sulla sedia a sdraio perché non poteva piú indugiare, ormai era necessario scrivere la lettera a casa, la terza, - continuava a stizzirsi, a brontolare tra sé contro quel pettegolo e fanfarone il quale ficcava il naso in cose che non lo riguardavano, mentre a sua volta canticchiava in faccia alle ragazze per la strada... e non si sentí piú disposto a prendere la penna,... quel sonatore d'organetto con le sue allusioni gliene aveva guastato la voglia.

Ma volere o no, aveva bisogno di roba invernale, denaro, biancheria, calzature, tutto insomma ciò che avrebbe portato con sé, qualora avesse saputo che veniva, non per tre settimane di piena estate, bensí... bensí per un periodo ancora indeterminato, che però in ogni caso si sarebbe protratto fino all'inverno o, anzi, secondo i concetti e i tempi vigenti "quassú da noi", lo avrebbero probabilmente incluso. Questo almeno, come eventualità, bisognava comunicarlo a casa. Ora era necessario andare fino in fondo, dire a quelli laggiú la schietta verità e non illudersi né illuderli... Con questo spirito si mise dunque a scrivere seguendo la tecnica che aveva visto spesso adottata da Joachim: sulla sedia a sdraio, con la stilografica, la cartella da viaggio sulle ginocchia sollevate. Scrisse su un foglio intestato della casa di cura (ne teneva pronta una provvista nel cassetto del tavolino) a James Tienappel, quello dei tre zii che gli era piú affezionato, e lo pregò di informare il console. Parlò di un increscioso contrattempo, di timori che si erano avverati, della necessità, confermata dal medico, di passare lassú una parte dell'inverno, forse anche tutto, perché ci sono casi, spesso, come il suo, piú ostinati di quelli che si presentano maggiormente vistosi, ed è opportuno intervenire con energia e ovviare in tempo utile. Sotto questo aspetto, scrisse, era una fortuna, una felice combinazione se era arrivato lassú proprio allora ed era stato indotto a farsi visitare; altrimenti chissà fin quando avrebbe ancora ignorato le sue condizioni e piú tardi ne avrebbe avuto notizia in maniera ben piú dolorosa. In quanto alla presumibile durata della cura, non si stupissero se probabilmente doveva sorbirsi l'inverno e forse -non poteva scendere al piano prima di Joachim. Lí il concetto del tempo era diverso da quello che può valere per il soggiorno nelle stazioni balneari o nei luoghi di cura; il mese era, per cosí dire, la piú piccola unità di tempo, e preso a sé non contava nulla... Faceva fresco ed egli scriveva col cappotto addosso, avvolto in una coperta, con le mani arrossate. Ogni tanto alzava gli occhi dal foglio che si andava coprendo di frasi ragionevoli e persuasive, e guardava il paesaggio familiare quasi senza vederlo, quella valle allungata, con le vette rocciose (in quel momento di un vitreo pallore) allo sbocco, col fondo chiaro e popolato, sul quale cadeva ogni tanto un raggio di sole, e le pendici, in parte prative, in parte irte di boschi, da dove veniva uno scampanio di mucche. Scriveva sempre piú spedito e non capiva come mai avesse avuto paura di quella lettera. Scrivendo si rendeva conto anche lui che nulla era piú lampante delle sue argomentazioni le quali a casa avrebbero incontrato senz'altro la piú profonda comprensione. Un giovane della sua classe e coi suoi mezzi doveva pur badare a sé, quando ciò risultasse consigliabile, e usufruiva delle comodità che venivano offerte ai suoi pari. Cosí conviene fare. Se fosse ritornato a casa, appena sentito il suo racconto lo avrebbero rimandato lassú. Pregò che gli mandassero quanto gli occorreva. E infine chiese che gli fosse inviato regolarmente il denaro necessario: con 800 marchi al mese poteva far fronte a tutto. Mise la firma. Fatto anche questo.

Quella terza lettera era esauriente, bastava cosí... non secondo il concetto del tempo che si aveva laggiú, ma secondo quello che vigeva lassú, e ne risultò consolidata la "libertà" di Hans Castorp. Ecco la parola adottata da lui, senza esprimerla, anzi senza neanche formularne mentalmente le sillabe, ma sentendone il piú ampio significato, come aveva imparato a fare durante quel soggiorno: un significato che aveva assai poco a che vedere con quello che Settembrini attribuiva a questa parola; e una ormai nota ondata di spavento e di agitazione lo investí facendolo sospirare col petto tremante. Lo scrivere gli aveva fatto montare il sangue alla testa, aveva le guance accese. Prese Mercurio dal tavolinetto della lampadina, e si misurò, come si trattasse di approfittare d'un'occasione. Mercurio salí a 37 e 8. "Avete visto?" pensò Castorp. E aggiunse un poscritto: "Ecco, questa lettera mi ha affaticato. Ho misurato 37 e 8. Vedo che per ora dovrò stare molto quieto. Mi dovrete scusare se scrivo di rado". Poi alzò la mano al cielo, la palma all'esterno, come l'aveva tenuta contro lo schermo. Ma la luce del giorno ne lasciò intatta la forma vivente, anzi contro il chiarore la sua materia apparve ancora piú scura e opaca, e soltanto i margini estremi erano attraversati da un barlume rossigno. Era la mano vivente che era avvezzo a vedere, a pulire, a usare... non quella bizzarra impalcatura che aveva osservata sullo schermo: la tomba analitica che allora aveva vista aperta, si era rinchiusa.

Capricci di Mercurio. L'ottobre spuntò come di solito spuntano i mesi nuovi: è per se stesso uno spuntare del tutto modesto e silenzioso, senza contrassegni o voglie di vino, un insinuarsi furtivo che, se l'attenzione non segue un ordine preciso, facil mente sfugge. In realtà il tempo non ha cesure, non ci sono buferè o squilli di trombe al principio di un nuovo mese o anno, e persino a quello d'un nuovo secolo siamo soltanto noi uomini a sonare e sparare. Nel caso di Hans Castorp il primo giorno di ottobre fu in tutto uguale all'ultimo di settembre: altrettanto freddo e inclemente, e tali furono anche i successivi. Ci volevano il cappotto invernale e tutt'e due le coperte di cammello durante la cura a sdraio, non solo di sera, ma anche di giorno; le dita che reggevano il libro erano umide e rigide, anche se le guance ardevano d'un calore secco; e Joachim era proprio tentato di ricorrere al sacco a pelo: non lo fece soltanto perché non voleva viziarsi prima del tempo. Ma dopo qualche giorno - si era già tra il principio e la metà del mese - tutto mutò, e sopravvenne un'estate tardiva, di uno splendore da sbalordire. Non per nulla Castorp aveva sentito magnificare l'ottobre di quella regione.

Per ben due settimane e mezza il cielo fu limpido e stupendo su monti e valli, ogni giorno superava il precedente in purezza di azzurro, e il sole bruciava con forza cosí immediata che tutti erano indotti a tirar fuori un'altra volta i piú leggeri abiti estivi, vestiti di mussolina LA MONTAGNA LNCANTATA 375 e calzoni di tela, ormai ripudiati; e persino l'ombrellone di tela grezza, senza manico, che mediante un ingegnoso dispositivo, un cavicchio a più buchi, poteva essere infisso nel bracciolo, offriva nelle ore meridiane soltanto un insufficiente riparo dalla vampa solare. Meno male che mi posso godere anche questo disse Castorp a suo cugino. Abbiamo avuto periodi pessimi... Sembra davvero che l'inverno sia superato e ora stia per venire la bella stagione. Diceva bene. Pochi indizi rivelavano la situazione reale, e anche quelli erano insignificanti. Ad eccezione di alcuni aceri coltivati apposta che crescevano stenti a Platz e, scoraggiati, da un pezzo avevano lasciato cadere le foglie, non c'erano nella zona altri alberi frondosi, le cui condizioni conferissero al paesaggio l'impronta della stagione, e soltanto l'ibrido ontano alpino, che si copre di teneri aghi e li muta come foglie, appariva nella sua nudità autunnale. I rimanenti alberi che, alti o nani, adornano la regione, sono tutti conifere sempreverdi, resistenti all'inverno che, entro limiti non precisi, può distribuire le sue tormente di neve su tutta l'annata; e soltanto una tinta rossiccia e rugginosa, stesa in varie gradazioni sul bosco, manifestava, nonostante il calore estivo dell'aria, il declinare dell'anno. Certo, a guardar bene, c'erano ancora i fiori di prato che sommessamente potevano dire la loro: non piú quella specie di orchidea che è la concordia, non piú gli alti gambi dell'aquilegia che all'arrivo dell'ospite avevano ancora abbellito i versanti, e nemmeno il garofano selvatico; si vedevano ancora la genziana e il colchico dal corto peduncolo, i quali facevano testimonianza di una certa interna frescura dell'atmosfera superficialmente scaldata, una frescura che a un tratto poteva penetrare nelle ossa di chi stava coricato e aveva la pelle quasi scottata, come quando un brivido gelato scuote il febbricitante. Castorp dunque non badava nell'intimo a quella sequenza con cui l'uomo che regola il proprio tempo ne controlla il decorso, ne suddivide, conta e domina le unità. Non aveva prestato attenzione al silenzioso inizio del decimo mese; lo toccava soltanto la parte sensibile, il calore del sole e il gelo segreto che vi si celava: sensazione nuova per lui in quelle proporzioni, la quale gli suggerí un paragone culinario: gli rammentò, parlando con Joachim, la omelette en surprise col gelato sotto la calda chiara d'uovo montata. Cose di questo genere ne diceva spesso, in fretta, correntemente, con voce mossa, come parla chi rabbrividisce dal freddo e ha la pelle che bru cia. A tratti però era anche taciturno, per non dire assorto, perché la sua attenzione era bensí volta all'esterno, ma a un punto solo; il resto, persone e cose, svaniva nella nebbia, in una nebbia che, formatasi nel suo cervello, i dottori Behrens e Krokowski avrebbero senza dubbio considerata un prodotto di veleni solubili, come l'annebbiato stesso ammetteva senza che questa intuizione provocasse in lui la facoltà o soltanto il lontanissimo desiderio di liberarsi dell'ebrietà. E' infatti, questa, un'ebrietà alla quale importa di esistere e nulla riesce sgradito e detestabile quanto la propria scomparsa.

Essa si afferma anche contro influssi smorzanti, non li accetta pur di conservare se stessa. Castorp sapeva, e ne aveva anche parlato, che la signora Chauchát non aveva un bel profilo, ma un po' affilato, non proprio giovanile. Conseguenze? Egli evitava di osservarla di profilo, e quando per caso gli si presentava cosí, da lontano o vicino, chiudeva letteralmente gli occhi: gli faceva male. Perché? Il suo cervello avrebbe dovuto approfittare, con gioia, dell'occasione per imporsi ! Ma che cosa si vuol pretendere?... Impallidiva estatico quando, in quelle splendide giornate, Clavdia scendeva per la seconda colazione in quella veste da mattina, di pizzo bianco, che portava nella stagione calda e la rendeva straordinariamente deliziosa,... quando compariva in ritardo, sbattendo la porta e sorridendo, le braccia lievemente sollevate a diversa altezza, e per presentarsi si metteva sull'attenti di fronte alla sala. Ma lui era in estasi non tanto perché appariva cosí seducente, quanto per il fatto in sé, poiché ciò infittiva la nebbia nel suo cervello, l'ebrietà che voleva se stessa e pertanto teneva a essere giustificata e alimentata. Di fronte a tanta assenza di buona volontà un perito della mentalità di Lodovico Settembrini poteva parlare addirittura di sciatteria, di una forma di sciatteria. Castorp ricordava talvolta le frasi letterarie che quello aveva pronunciate sul tema "malattia e disperazione" e a lui erano sembrate, o aveva finto che gli sembrassero, incomprensibili. Guardava Clavdia Chauchat, le sue spalle cascanti, la testa protesa; la vedeva arrivare a tavola sempre con grande ritardo, senza motivo o scusa, soltanto per mancanza di ordine e civile energia; la vedeva, appunto per quel difetto fondamentale, sbattere tutte le porte dalle quali usciva o entrava, rotolare palline di mollica ed eventualmente mangiarsi la punta delle dita intorno alle unghie... e gli nacque l'innominato sospetto che, se era malata - e lo era di certo, quasi senza speranza, dato che era stata costretta a vivere lassú tante volte e cosí a lungo -, la sua malattia, se non del tutto, almeno in gran parte fosse di natura morale, e realmente, come aveva detto Settembrini, non fosse causa o conseguenza della sua "trascuraggine", ma con essa si identificasse. Ricordava anche il gesto sprezzante dell'umanista, quando aveva parlato di "sciti e parti" coi quali era costretto a condividere la cura a sdraio, un gesto di naturale e spontaneo disprezzo e rifiuto che non aveva bisogno di essere motivato e Castorp ben conosceva da prima... da quando cioè lui, che a tavola stava molto composto e detestava cordialmente lo sbattere delle porte e non gli veniva neanche la tentazione di mangiarsi le dita (non fosse altro perché assaporava invece il "Maria Mancini"), si era profondamente scandalizzato del maleducato comportamento di madame Chauchat e non aveva saputo reprimere un senso di superiorità quando aveva udito la forestiera dagli occhi stretti fare il tentativo di esprimersi nella lingua di lui. Ora, in base alle sue condizioni interiori, Castorp aveva rinunziato quasi del tutto a siffatti sentimenti, e se la pigliava piuttosto con l'italiano perché nella sua albagia si era messo a discorrere di "parti e sciti"... mentre non aveva preso di mira neanche individui della tavola dei "russi incolti", alla quale si sedevano gli studenti dai capelli troppo spessi e dalla biancheria invisibile che non la finivano di discutere nella loro ignotissima lingua, oltre alla quale era chiaro che non ne parlavano nessun'altra, quella lingua-mollusco che faceva pensare a un torace senza costole, come quello recentemente descritto da Behrens.

E' vero che gli usi di quella gente potevano destare in un umanista vivaci sentimenti di avversione. Mangiavano col coltello e lordavano i gabinetti in modo irrepetibile. Settembrini asseriva che uno della loro brigata, uno studente di medicina dei corsi superiori, si era rivelato assolutamente ignaro del latino, non sapeva, ad esempio, che cosa fosse un vacuum, e secondo le quotidiane esperienze di Castorp era verosimile che la signora Stohr non mentisse quando riferiva, a tavola, che i coniugi del n. 32, la mattina, allorché il bagnino arrivava per i massaggi, lo ricevevano coricati insieme a letto. Ma se anche tutto ciò corrispondeva al vero, non per niente si era fatta la tangibile distinzione tra "ammodo" e "incolti" e Castorp si convinse che degnava soltanto d'un'alzata di spalle un qualunque propagandista della repubblica e del bello stile il quale, altezzoso e freddo (soprattutto freddo, benché anche lui fosse febbricitante e alticcio), univa le due tavolate nell'unica definizione di "sciti e parti". Come bisognasse intenderla, Castorp lo sapeva largamente, tant'è vero che aveva cominciato a capire anche il nesso tra la malattia della Chauchat e la 3 80 THOMAS MANN sua "trascuraggine". Ma avveniva ciò che lui stesso aveva detto un giorno aJoachim: si comincia dal dispetto e da moti di avversione, ma ad un tratto "intervengono fatti assai diversi" che non hanno "niente a che vedere coi giudizi", ed ecco che il rigore morale non conta piú,... si è ben poco disposti a subire influssi di natura repubblicana e retorica. Ma qual è, domandiamo seguendo forse anche noi ragionamenti settembriniani, qual è quel problematico incidente che paralizza ed elimina il giudizio umano, lo priva del diritto che vi ha o meglio lo induce a rinunziare a questo diritto con folle giubilo? Non ne chiediamo il nome, poiché tutti lo sanno. Vorremmo soltanto conoscerne l'aspetto morale... e francamente non ci aspettiamo una risposta molto serena. Nel caso di Castorp questo aspetto fu di tale efficacia che egli non solo smise di giudicare, ma cominciò anche a sperimentare a sua volta la forma di vita che lo aveva affascinato. Volle provare come si sente chi siede rilassato, con le spalle cascanti, e trovò che è un grande sollievo per i muscoli del bacino. Provò anche a non chiudere adagio una porta dalla quale passava, ma a lasciarla scattare; e anche questo gli risultò e comodo e adeguato: corrispondeva nell'espressione a quella spallucciata con la quale a suo tempo Joachim l'aveva salutato alla stazione; poi l'aveva notata molte volte tra gli ospiti. Per dirla schietta, il nostro viaggiatore era dunque pazzamente innamorato di Clavdia Chauchat... Usiamo ancora queste parole perché ci pare di aver sufficientemente ovviato al malinteso che potrebbero suscitare. Il suo innamoramento non consisteva quindi in una gentile e sentimentale malinconia secondo lo spirito di quella canzonetta. Era invece una piuttosto arrischiata e disancorata varietà di questa malia, mista di gelo e calore, come lo stato di salute d'un febbricitante o una giornata d'ottobre in regioni superiori; e le mancava appunto un mezzo sentimentale che unisse i suoi due capi estremi. Riguardava da un canto, con una immediatezza che faceva impallidire il nostro giovane e gli stirava i lineamenti, il ginocchio della signora Chauchat e la linea della gamba, le spalle, le vertebre del collo e le

braccia che comprimevano il piccolo seno... il suo corpo, insomma, quel corpo indolente e potenziato, messo enormemente in risalto dalla malattia e reso, cosí, doppiamente corpo. D'altro canto era qualcosa di assai fuggevole ed esteso, ossia un sogno, il sogno pauroso e infinitamente aLlettante d'un giovane, alle cui domande precise, anche se inconsce, aveva risposto soltanto un vuoto silenzio. Come tutti, anche noi ci arroghiamo il diritto di avere le nostre idee personali intorno alracconto che andiamo svolgendo, e formuliamo la congettura che Hans Castorp non avrebbe oltrepassato il termine, fissato in origine al suo soggiorno lassú, nemmeno fino al limite ormai raggiunto, se dagli abissi del tempo gli fosse arrivata una notizia, soddisfacente in qualche modo, circa il significato e lo scopo della vita. Del resto il suo innamoramento gli inflisse tutti i dolori e gli largí tutte le gioie che questo stato comporta da per tutto e in tutte le circostanze. Il dolore è assiduo, insistente; contiene un elemento disonorante, come ogni dolore e rappresenta una tale scossa del sistema nervoso che toglie il fiato e a un uomo adulto può spremere lacrime amare. Per giudicare rettamente anche le gioie, diremo che erano numerose e, benché derivanti da umili occasioni, non meno insistenti delle sofferenze. Quasi ogni momento della giornata al Berghof era tale da produrle. Per esempio: mentre sta per entrare nella sala da pranzo, Castorp s'accorge che l'oggetto dei suoi sogni è dietro di lui. La conseguenza è subito ovvia e della massima semplicità, ma dentro è deliziosa fino a spremere il pianto. I loro occhi si incontrano da vicino, i suoi e quelli grigioverdi di lei, il cui taglio e la cui posizione leggermente asiatica lo incantano fino al midollo. Egli è incosciente, ma anche senza coscienza si trae in disparte per lasciarla passare. Con un mezzo sorriso e un sommesso "merci" lei accetta l'offerta nient'altro che cortese, passa ed entra. Nell'aria mossa dal passaggio di lei egli si sofferma, folle di felicità per l'incontro e perché una parola pronunciata da lei, quel"merci", era diretta a lui personalmente. Egli la segue, barcolla a destra verso la sua tavola e, mentre si siede, può osservare che Clavdia, accomodandosi anche lei, si volta a guardarlo... come se, gli pare, ripensasse a quell'incontro sulla soglia. Oh, inverosimile avventura ! oh, giubilo, trionfo, illimitata esultanza! No, Castorp non avrebbe provato quell'ebbrezza di fantastica soddisfazione allo sguardo di una qual siasi ochetta in buona salute, alla quale laggiú nel piano avesse "donato il suo cuore" in modo lecito, pacifico e pieno di speranza, secondo lo spirito di quella canzonetta. Con febbrile allegrezza saluta la maestra che ha visto tutto ed è arrossita,... dopo di che assalta miss Robinson con una conversazione inglese di tale assurdità che la signorina, poco pratica di estasi, balza indietro e lo squadra con gli occhi pieni di terrore. Un'altra volta, a cena, i raggi del sole prossimi al tramonto cadono sulla tavola dei "russi ammodo". Sulle porte e sulle finestre della veranda sono state tirate le tende, ma in qualche punto è rimasto uno spiraglio dal quale la luce rossa entra fredda, ma abbagliante, e colpisce proprio la testa della Chauchat che, mentre discorre col concavo compatriota alla sua destra, è costretta a farsi schermo con una mano.

E' una molestia, ma non grave; nessuno vi bada, la stessa colpita non si rende forse neanche conto di quel disturbo. Ma Castorp, attraverso la sala, se ne accorge e per un po' anche lui sta a guardare. Esamina la situazione, osserva il percorso del raggio, stabilisce il punto dal quale entra; è la finestra ad areo laggiú in fondo, nell'angolo tra una porta della veranda e la tavola dei "russi incolti", lontano dal posto della signora Chauchat e quasi altrettanto lontano da lui. Presa la decisione, senza dire una parola, si alza, attraversa di sbieco fra una tavola e l'altra tutta la sala, col tovagliolo in mano, sovrappone esattamente le tende color crema, si assicura con un'occhiata al di sopra della spalla che il raggio è intercettato e la Chauchat liberata... e fingendo molta indifferenza torna indietro; un giovane attento che fa quanto occorre, poiché a nessun altro viene l'idea di farlo. Pochissimi hanno notato il suo intervento, ma la Chauchat ha avvertito subito il sollievo e si è voltata a guardare: e rimane in quell'atteggiamento finché Castorp è ritornato al suo posto e, sedendosi, guarda verso di lei, che lo ringrazia con un sorriso di cortese stupore, cioè sporge il capo piú di quanto non lo chini. Egli risponde con un inchino. Il suo cuore era immobile, pareva che non battesse affatto. Solo piú tardi, quando tutto era passato, si mise a martellare, e soltanto allora Castorp notò che Joachim teneva gli occhi bassi suL piatto, e soltanto in seguito s'accorse che la Stohr aveva dato una gomitata al dottor Blumenkohl e reprimendo le risa cercava, sia alla propria tavola, sia alle altre, complici occhiate... Qui abbiamo descritto un fatto ben comune; ma anche i fatti quotidiani diventano stravaganti quando prosperano su basi stravaganti. Ci furono tensioni e benefiche soluzioni tra i due; o, se non proprio tra loro (poiché resta ancora da vedere fino a qual punto la signora Chauchat ne fosse toccata), almeno per la fantasia e il sentimento di Hans Castorp. In quelle belle giornate una gran parte dei pazienti soleva spostarsi dopo colazione sulla veranda davanti alla sala da pranzo per stare un quarto d'ora, a gruppi, a godersi il sole. Si chiacchierava e lo spettacolo era simile a quello cui si assisteva durante il concerto della banda ogni seconda domenica. I giovani, perfettamente oziosi, fin troppo sazi di carne e dolciumi, e tutti con un po' di febbre, conversavano, scherzavano, lanciavano occhiate. La signora Salomon di Amsterdam si sedeva magari sulla balaustrata... assediata a destra dalle ginocchia di Ganser, quello dalle labbra tumide, a sinistra dal gigante svedese che, pur essendo guarito, prolungava un poco il suo soggiorno per un supplemento di cura. La signora Iltis sembrava che fosse vedova perché da qualche tempo godeva la compagnia di uno "sposo", una figura malinconica e subordinata, la cui presenza però non le impediva di accettare contemporaneamente gli omaggi del capitano Miklosich, uomo dal naso aquilino, con baffi unti, petto convesso e occhi minacciosi. C'erano donne di varia nazionalità che facevano la cura nelle verande comuni, tra esse alcune nuove, comparse soltanto dopo il primo ottobre, delle quali Castorp non conosceva forse neanche il nome,

accompagnate da cavalieri sul tipo del signor Albin; diciassettenni che portavano il monocolo; un giovane olandese col viso roseo e con una monomaniaca passione per lo scambio di francobolli; diversi greci, impomatati, con gli occhi a mandorla, pronti agli abusi quando erano a tavola; una coppia di zerbinotti affiatati, soprannominati "Max e Moritz", che passavano per grandi evasori... Il messicano gobbo, cui l'ignoranza delle lingue parlate lassú conferiva l'espressione di chi è sordo, scattava continuamente fotografie e con comica destrezza trascinava il treppiede da un punto all'altro della terrazza. Anche Behrens si faceva vedere qualche volta per presentare il giochetto delle stringhe. Tra i gruppi s'infilava anche il pio solitario di Mannheim i cui occhi, profondamente tristi, percorrevano, con grande disgusto di Castorp, certe vie segrete. Per tornare ora a qualche esempio di quelle "tensioni" e "soluzioni" diremo che in uno di quei quarti d'ora Castorp si era seduto su una seggiola da giardino verniciata, contro il muro della casa, conversando vivacemente con Joachim che egli, nonostante la sua riluttanza, aveva costretto a uscire, mentre davanti a lui la signora Chauchat con i suoi commensali stava vicino alla balaustrata e fumava una sigaretta. Egli parlava per lei, affinché lo ascol tasse. Lei gli volgeva le spalle... Come si vede, qui puntiamo su un caso determinato. La conversazione col cugino non gli era sufficiente per la sua affettata loquacità, perciò aveva fatto apposta una conoscenza. Quale? Quella di Hermine Kleefeld; come per caso aveva rivolto la parola alla giovane, le aveva presentato se stesso e Joachim, accostando anche per lei una seggiola verniciata perché in tre si poteva mettersi meglio in mostra. Ricordava ancora, le domandò, che diabolica paura gli aveva fatto quando si erano incontrati la prima volta durante la passeggiata mattutina? Ah, era stato lui? a lui aveva dato il lieto benvenuto col suo fischio? Già, e aveva raggiunto lo scopo, glielo confessava spontaneamente, perché era rimasto come colpito da una bastonata sulla testa: lo poteva chiedere a suo cugino. Ah, fischiare col pneumotorace e spaventare innocui viandanti! Secondo lui, era un giuoco sacrilego, e nella sua giusta collera si prendeva la libertà di definirlo un iniquo abuso... E mentreJoachim, conscio della parte di cavia che stava facendo, teneva gli occhi bassi e anche la Kleefeld, osservando gli sguardi ciechi e divaganti di Castorp, cominciava ad accorgersi, mortificata, di essere il mezzo per un fine, Castorp s'imbronciava e faceva il prezioso e torniva le frasi e affettava una voce armoniosa finché ottenne davvero che la Chauchat si voltasse, udendo quella parlantina insistente, e lo guardasse in viso... ma un solo istante. Avvenne infatti che i suoi occhi da Pribislav scivolassero velocemente sulla persona di lui, seduto con le gambe accavallate, e, con un'espressione di cosí intenzionale indifferenza da parere disprezzo, proprio disprezzo, si soffermassero un momento sulle sue scarpe gialle... dopo di che si ritirarono con flemma e forse con un accenno di sorriso. Un grave, grave infortunio! Castorp continuò un po' a parlare febbrilmente, poi, visto bene dentro di sé quello sguardo alla scarpa, ammutolí quasi a metà d'una parola e restò angosciato.

La Kleefeld, annoiata e offesa, se ne andò. Non senza un'irritazione nella voce Joachim disse che ora potevano andarsi a sdraiare. E un afflitto gli rispose con le labbra esangui che, sí, potevano. Quell'incidente causò a Castorp due giorni di sofferenze atroci; poiché intanto non accadde nulla che fosse bal samo per la sua bruciante ferita. Perché quello sguardo? Perché, in nome di Dio uno e trino, quel disprezzo per lUi? Lo considerava forse un sano babbeo di pianura, la cui infezione fosse soltanto innocua? Un innocente del piano, per cosí dire, un individuo qualunque che gironzolasse ridendo ed empiendosi la pancia e facendo quattrini... un esemplare alunno della vita che non s'intendesse se non dei noiosi vantaggi dell'onore? Era forse un frivolo ascoltante di tre settimane, estraneo al mondo di lei, o non aveva pronunciato i voti in base a una zona molle?... Non era inquadrato e pertinente, uno di "noi quassú", con due mesi arditi sul groppone, e Mercurio non era forse salito un'altra volta, la sera prima, a 37 e 8?... Ma questo era il punto che completava la sua pena! Mercurio non saliva piú. La paurosa depressione di quei giorni provocò un raffreddamento, un disinganno, una fiacchezza della natura di Castorp che, con sua grande umiliazione, si manifestò in temperature basse, appena sopra il normale, e crudele fu per lui accorgersi che la sua pena e il suo avvilimento nulla potevano tranne che allontanarlo ancora e sempre piú dalla persona di Clavdia. Il terzo giorno recò la dolce liberazione, la recò di prima mattina. Era un magnifico mattino d'autunno, fresco e soleggiato, coi prati coperti da un velo grigio-argenteo. Il sole e la luna calante stavano insieme, ad altezza quasi uguale, nel cielo puro. I due cugini si erano alzati prima del solito per allungare, in onore del bel tempo, la loro passeggiata mattutina e procedere un po' al di là del limite prescritto, lungo la via del bosco, dove sorgeva la panca accanto al condotto dell'acqua. Joachim, la cui curva segnava anche per lui una gradevole discesa, aveva caldeggiato la confortante irregolarità e Castorp non aveva detto di no. Siamo guariti ormai aveva detto, sfebbrati e disintossicati, maturi, si può dire, per scendere al piano. Perché non dovremmo scalciare come i puledri? Cosí si avviarono a capo scoperto (da quando infatti aveva pronunciato i voti, Castorp si era adeguato in santa pace al vigente costume di andare senza cappel lo, per quanto da principio, di fronte a quell'usanza, si fosse sentito sicuro del suo tenore di vita e della propria civiltà) e puntarono i bastoni. Ma non avevano ancora percorso la salita della via rossastra, erano arrivati press'a poco soltanto al punto in cui a suo tempo la brigata pneumatica aveva incontrato il novellino, allorché a una certa distanza scorsero la signora Chauchat che saliva adagio, la Chauchat in bianco, in sweater bianco, gonna di flanella bianca e persino scarpe bianche, i capelli rossicci illuminati dal sole mattutino. Per essere piú precisi: Castorp l'aveva riconosciuta; Joachim fu messo al corrente del fatto attraverso una sgradevole sensazione di strappi e strattoni al suo fianco..., una sensazione causata dal passo incitante e accelerato, improvvisamente adottato dal suo compagno il quale, un momento prima, aveva a un tratto frenato l'andatura e si era quasi fermato.

Quell'incitamento parve a Joachim molto svantaggioso e indisponente; il suo respiro si fece corto ed egli cominciò a tossicchiare. Ma Castorp, i cui organi dovevano funzionare a meraviglia, sapeva ciò che voleva e di suo cugino si curò ben poco, e questi, afferrata la situazione, si limitò ad aggrottare la fronte in silenzio e si mise al passo, perché non poteva certo lasciare che l'altro corresse avanti solo. Il giovane Castorp si sentiva animato dalla bella mattina. Nella depressione le sue energie spirituali si erano tacitamente ristorate e nella sua mente brillava la certezza luminosa che era giunto il momento di rompere il bando, al quale era stato messo. Allungò quindi il passo tirandosi dietro l'ansante e, in genere, riluttante Joachim, e prima della svolta dove la strada diventava piana e a destra procedeva lungo il colle boschivo avevano, si può dire, raggiunto la Chauchat. Castorp rallentò di nuovo per non dover attuare il suo disegnoin condizioni di affanno a causa dello sforzo. E dopo il gomito della strada, tra il pendio e la parete del monte, tra gli abeti rugginosi i cui rami erano attraversati dai raggi del sole, avvenne il miracolo che Castorp, alla sinistra di Joachim, sorpassasse l'amabile malata, le camminasse al fianco con passo virile e nell'istante in cui si trovò accanto a lei, con un inchino senza cappello e un "Buon giorno" detto a mezza voce, la salutasse rispettosamente (perché proprio rispettosamente?) e da lei ricevesse risposta: ringraziò infatti con un inchino cortese, niente affatto stupito, disse a sua volta "Buon giorno" nella lingua di lui, con un sorriso negli occhi... e tutto ciò era diverso, fondamentalmente e beatamente diverso dall'occhiata alla scarpa, era un caso fortunato, una svolta verso il bene e ii meglio, senza esempio e quasi inconcepibile: era la liberazione. Con le ali ai piedi, abbagliato da una gioia irragionevole per il possesso del saluto, della parola, del sorriso, Castorp corse avanti, a fianco dello strapazzato Joachim che in silenzio guardava giú per il pendio. Era stato un tiro, e piuttosto impertinente, persino una specie di tradimento e di perfidia secondo Joachim, Castorp lo sapeva benissimo. Non era proprio come chiedere una matita a una persona del tutto sconosciuta... anzi sarebbe stata quasi scortesia passare rigidi e senza un atto di omaggio accanto a una signora, con la quale si viveva da mesi sotto il medesimo tetto; e ultimamente nella stanza d'aspetto Clavdia non aveva persino attaccato discorso con loro? Perciò Joachim dovette tacere. Ma Castorp capiva molto bene per quale altra ragione l'ambizioso cugino taceva e camminava guardando dall'altra parte, mentre lui era cosí prodigiosamente e gaiamente felice. Non poteva essere piú felice chi, poniamo, laggiú al piano avesse "donato il cuore" a un'oca in buona salute riportando un trionfo in modo lecito, pieno di speranze e, in fondo, non privo di soddisfazione,... no, quello non poteva essere "tanto felice" come lo era lui di quel poco che si era appropriato e assicurato in un momento buono... Perciò, dopo alcuni istanti, batté con forza una spalla al cugino e disse: Ohilà, che stai pensando? Guarda che bel tempo! Dopo scendiamo alla casa di cura, probabilmente ci sarà musica, forse suonano "Il fior che avevi a me donato" dalla Carmen. Che cosa ti piglia? Niente rispose Joachim. Ma tu mi sembri molto accaldato.

Temo che il tuo miglioramento sia finito. Era finito davvero. L'umiliante depressione di Castorp era superata dal saluto che egli aveva scambiato con Clavdia, e per dirlo con esattezza, alla coscienza di ciò era dovuta veramente la sua soddisfazione. Sí, Joachim aveva visto giusto: Mercurio riprese a salire. Dopo la passeggiata, quando Castorp lo consultò, salí a 38 gradi tondi tondi.

Enciclopedia. Se certe allusioni di Settembrini lo avevano indispettito, Castorp non se ne doveva stupire né aveva alcun diritto di accusarlo di investigazione pedagogica. Anche un cieco avrebbe visto in che condizioni si trovava, egli non moveva un dito per tenere il segreto, una certa magnanimità e una sua nobile semplicità gli impedivano di aver peli sulla lingua, e in questo si distingueva pur sempre - e, se vogliamo, a suo vantaggio - dall'innamorato di Mannheim e dal suo fare quatto e silenzioso. Rileviamo e ripetiamo che lo stato in cui si trovava contiene di regola un ardente desiderio e una necessità di manifestarsi, una innata tendenza a confessare, una cieca fiducia nel proprio valore e una smania di empire il mondo di sé... che a noi spassionati appaiono tanto piú strane quanto minor senno, ragionevolezza e speranza contengono. Come costoro facciano a tradirsi è difficile dire; non possono, sembra, fare od omettere nulla di ciò che non li tradisca... specie in una società che, a sentire un uomo di giudizio, aveva in mente in complesso due cose sole: in primo luogo la temperatura e poi... ancora la temperatura, come a dire, per esempio, il problema con chi la consorte viennese del console generale Wurmbrandt si consolasse della volubilità del capitano Miklosich, se col gigante svedese perfettamente guarito o col procuratore di stato Paravant di Dortmund o, terzo, con entrambi. Che infatti il legame, durato parecchi mesi, tra il procuratore e la signora Salomon fosse stato sciolto per benevola intesa, e lei, seguendo l'impulso dei suoi anni, si fosse rivolta a classi più giovani e avesse preso sotto le sue ali quel Ganser dalle labbra tumide portandolo via dalla tavola della Kleefeld o, come si espresse la signora Stohr in una specie di stile burocratico, ma non privo di evidenza, se lo fosse "allegato"... tutto ciò era noto e certo, sicché il procuratore ebbe mano libera di battersi o accordarsi con lo svedese per la moglie del console. A questi processi dunque che s'intentavano tra gli ospiti del Berghof, in particolare tra la gioventú febbricitante, nei quali il passaggio per i balconi (lungo i tramezzi di vetro e la ringhiera) aveva una grande e palese importanza, a questi fatti si poneva mente, essi costituivano un cospicuo elemento dell'atmosfera locale; ma nemmeno questo basta ad esprimere l'idea che abbiamo in testa. Castorp infatti aveva la singolare impressione che una faccenda fondamentale, cui in tutto il mondo si accorda una sufficiente importanza, espressa con parole serie e scherzose, aveva invece lassú un tono, un

valore, un signifihcato cosí gravi e a causa della gravità cosí nuovi che la cosa stessa appariva sotto una luce novissima e, se non paurosa, almeno terrificante nella sua novità. Mentre lo diciamo, il nostro viso muta espressione e noi facciamo notare che, qualora fin qui avessimo parlato dei rapporti in questione in un tono leggero e faceto, ciò sarebbe avvenuto per gli stessi reconditi motivi per i quali spesso avviene, senza che questo costituisca una qualsiasi prova della leggerezza o spassosità della cosa; e nell'ambiente in cui ci troviamo, meno che mai sarebbe il caso di farlo. Castorp aveva creduto di intendersi abbastanza di quella fondamentale faccenda che è messa volentieri in burletta, e forse aveva ragione di crederlo. Ora s'accorse che in pianura se n'era inteso in misura molto insufficiente, era stato anzi di un'ingenua ignoranza in proposito,... mentre lí le esperienze personali, che parecchie volte abbiamo cercato di delineare e che in certi momenti gli strapparono dal petto l'invocazione "Dio mio!", lo avevano reso interiormente capace di percepire e comprendere quel rilevante aspetto di inaudito, di avventuroso, di senza nome, che la cosa aveva lassú per tutti e per ognuno. Non che non la si fosse messa in burletta anche lí. Ma questo vezzo recava molto piú che laggiú l'impronta dell'inopportunità, come se, per mo' di dire, lo si adattasse battendo i denti e col respiro corto, la qual cosa lo definiva fin troppo chiaramente come diafano verme del male nascosto o piuttosto tale da non potersi nascondere. Castorp ricordava il pallore comparso a macchie sul viso di Joachim, quando per la prima e ultima volta, alla maniera innocente della pianura aveva portato scherzosamente il discorso sul fisico di Marusja. Ricordava anche il pallore freddo che aveva sbiancato lui stesso quando aveva liberato la signora Chauchat dall'importuno raggio del tramonto... nonché il fatto che prima e dopo, in diverse occasioni, l'aveva notato in parecchi visi sconosciuti: normalmente in due nello stesso tempo, come per esempio nei visi della Salomon e del giovane Ganser quando s'era avviato tra loro il procedimento che la Stohr aveva definito con quel suo modo di dire. Se ne ricordava, ripetiamo, e capiva che in siffatte circostanze, non solo sarebbe stato assai difficile non tradirsi, ma anche gli sforzi relativi avrebbero reso ben poco. In al tre parole: non doveva essere soltanto effetto della generosità e schiettezza, ma anche di un certo incoraggiamento ambientale se Castorp non si sentí proprio in dovere di far violenza ai suoi sentimenti e di tenere nascoste le sue condizioni. Se non ci fosse stata la difficoltà, annunciata fin da principio da Joachim, di fare conoscenze, dovuta in particolare al fatto che i due cugini formavano, per cosí dire, nella massa dei pazienti un partito o gruppo in miniatura, e che il militaresco Joachim mirando a nient'altro che a guarire rapidamente, era per principio alieno dal cercare contatti e vita comune coi compagni di sventura, Castorp avrebbe avuto e trovato ben piú occasioni di diffondere tra la gente i suoi sentimenti con sfrenata generosità. Ciò nonostante però Joachim lo poté sorprendere una sera, alla riunione nel salotto, in compagnia di Hermine Kleefeld, dei due commensali di lei Ganser e Rasmussen e, quarto, del giovane dal monocolo e dall'unghia, mentre con occhi che non celavano l'anormale luccicore e con voce commossa improvvisava un discorso sui singolari e strani lineamenti della signora Chauchat...

e i suoi ascoltatori si scambiavano occhiate, si urtavano col gomito e ridacchiavano. Per Joachim fu un fatto penoso, ma l'autore di quell'allegria rimase insensibile all'inopportunità di svelare le sue condizioni, credendo forse che queste, inosservate e nascoste, non si fossero fatte notare. Della comprensione di tutti poteva essere sicuro; d'altro canto doveva accettare per soprammercato anche l'altrui gioia maligna. Non solo dalla sua tavola, ma a poco a poco anche dalle tavole vicine gli arrivavano occhiate di persone che si godevano il suo pallore e il suo rossore quando, servito il primo piatto, si udiva sbattere la porta vetrata: e anche di questo era forse contento, poiché gli sembrava che la sua ebbrezza, essendo avvertita, ottenesse un certo riconoscimento, una certa conferma obiettiva, tale da favorire la sua causa e da incoraggiare le sue vaghe e irragionevoli speranze... e ciò lo rendeva persino felice. Si arrivò al punto che molti addirittura si radunavano per osservare l'illuso: ciò poteva capitare sulla terrazza dopo colazione o nei pomeriggi domenicali davanti alla portineria quando gli ospiti vi andavano a ritirare la corrispondenza che di domenica non veniva recapitata nelle camere. Molti sapevano dell'esistenza di uno sborniato fradicio che metteva tutto in vista, e cosí facevano gruppo la signora Stohr, la signorina Engelkart, la Kleefeld e l'amica sua dalla faccia di tapiro, nonché l'inguaribile Albin, il giovane dall'unghia, e l'uno e l'altro dei pazienti, e con gli angoli della bocca abbassati, sbuffando dal naso, lo stavano a guardare, mentre col sorriso di chi è perdutamente innamorato, le guance accaldate come le aveva fin dalla sera del suo arrivo, negli occhi quella luce che già vi aveva acceso il gentleman rider, teneva lo sguardo fisso in una data direzione... A dir il vero, fu bello che in quelle circostanze Settembrini gli si avvicinasse per intavolare un discorso e chiedergli come stava; ma c'è da dubitare che Castorp apprezzasse con gratitudine quel gesto dì spregiudicatezza filantropica. Si era nel vestibolo, la domenica pomeriggio. Gli ospiti si affollavano davanti al portiere e allungavano le mani per prendere la loro corrispondenza. C'era anche Joachim. Suo cugino era rimasto indietro e, nello stato d'animo descritto, cercava di intercettare uno sguardo di Clavdia, che era a breve distanza insieme coi suoi commensali, in attesa che la calca davanti alla portineria si diradasse. Era l'ora che mischiava i clienti tra loro, il momento delle occasioni, ben visto e desiderato perciò dal giovane Castorp. Otto giorni prima, allo sportello, era arrivato vicinissimo alla Chauchat che lo aveva persino urtato e, volgendo istintivamente la testa, gli aveva detto pardon al che, in virtú di una febbrile presenza di spirito (che egli benedisse) era riuscito a replicare: aPas de quoi, madame! Quale benedizione, pensò, quelle domeniche con la certezza che nel vestibolo si distribuisse la posta! Aveva consumato, si può dire, la settimana aspettando per sette giorni il ritorno di quella stessa ora, e aspettare significa precorrere, significa considerare il tempo non come un dono, ma soltanto come un ostacolo, negarne il valore, annullarlo e scavalcarlo con la mente. Aspettare, si dice, è noioso.

Ma è invece altrettanto, anzi propriamente, il contrario in quanto inghiotte periodi di tempo senza che siano vissuti e sfruttati per se stessi. Si potrebbe dire che soltanto chi aspetta somiglia a un divoratore il cui apparato digerente fa passare una grande quantità di alimenti senza estrarne l'utile valore nutritivo. Si potrebbe fare un passo avanti e dire: come il cibo non digerito non dà forza, cosí il tempo trascorso nell'attesa non fa invecchiare. Vero è che in pratica l'attesa pura e semplice non esiste. La settimana dunque era ingoiata e l'ora della posta domenicale rientrata in vigore, come fosse ancora quella di otto giorni prima. Nel modo piú eccitante continuava a preparare occasioni, celava e offriva, ogni minuto, la possibilità di annodare rapporti sociali con la signora Chauchat: eventualità dalle quali Castorp si sentiva incalzare e soffocare senza farle diventare realtà. Vi si opponevano inibizioni di carattere in parte militare, in parte borghese: le quali cioè per un verso erano connesse con la presenza del probo Joachim e col proprio senso dell'onore e del dovere, e per un altro verso si fondavano sul sentimento che relazioni sociali con Clavdia Chauchat, relazioni civili nelle quali ci si dava del lei, si facevano inchini e, se possibile, si parlava francese... non erano necessarie, non desiderabili, non giuste... La stette a guardare, mentre rideva, esattamente come a suo tempo nel cortile della scuola aveva parlato e riso Pribislav Hippe; la sua bocca si allargava parecchio, e gli occhi grigioverdi e obliqui sopra agli zigomi si restringevano fino a formare sottili fessure. Non era certo bello; ma era come era, e quando uno è innamorato il razionale giudizio estetico s'impone tanto poco quanto quello etico. Aspetta lettere anche lei, ingegnere? Cosí poteva parlare uno solo, un seccatore. Castorp si riscosse e si voltò verso Settembrini che stava davanti a lui sorridendo. Era quel sorriso fine, umanistico, col quale un giorno, presso la panca del ruscello aveva salutato il nuovo arrivato, e come allora, Castorp vedendolo provò vergogna. Ma per quante volte in sogno avesse cercato di allontanare il "sonatore d'organetto", perché "disturbava", l'uomo desto è migliore di quello che sogna, sicché Castorp rivide quel sorriso non solo con sua vergogna e con suo disinganno, ma anche con un senso di riconoscente necessità. Disse: Buon Dio, che lettere vuole che aspetti, signor Settembrini? Non sono un ambasciatore! Ci sarà, se mai, una cartolina per uno di noi. Mio cugino è andato a vedere. A me il diavolo zoppo lí ha già consegnato la mia magra corrispondenza disse Settembrini portando la mano alla tasca dell'immancabile giacca di rattina. Roba interessante, di portata letteraria e sociale, non lo nego. Si tratta di un'opera enciclopedica, alla quale un'istituzione umanitaria mi considera degno di collaborare... Insomma, un bel lavoro. Settembrini s'interruppe. E le sue faccende? domandò. Come andiamo? A che punto, per esempio, è la sua assuefazione? Tutto sommato lei non è ancora tanto tempo qui con noi che la

domanda non possa essere all'ordine del giorno. Grazie, signor Settembrini, rimangono ancora delle difficoltà. Temo che ci potranno essere fino all'ultimo giorno. Certuni non si avvezzano mai, disse mio cugino al mio arrivo. Ma ci si avvezza a non avvezzarsi. Complicato rise l'italiano. Strano modo di naturealizzarsi. Si sa, i giovani sono capaci di tutto. Non si avvezzano, ma mettono radici. E in fin dei conti questa non è poi una miniera siberiana. Eh no. Vedo che ama paragoni orientali. Si capisce. L'Asia ci divora. Dovunque si guardi: visi tartari. E con discrezione Settembrini si guardò intorno. GenghisKan, disse, occhi da lupo delle steppe, neve e acquavite, knut, Schiusselburg e cristianesimo. Qui nel vestibolo bisognerebbe erigere un altare a Pallade Atena... a titolo di difesa. Vede, là davanti, c'è un Ivan Ivanovic senza biancheria che sta litigando col procuratore Paravant. Ciascuno vuol arrivare prima dell'altro a ricevere le sue lettere. Non so chi abbia ragione, ma ho l'idea che il procuratore sia sotto protezione della dea. E' un asino, siamo d'accordo, ma almeno sa il latino. Castorp rise, cosa che Settembrini non faceva mai. Non si poteva nemmeno figurarsi che ridesse di cuore; oltre la sottile e arida tensione degli angoli della bocca non arrivava mai. Guardò il giovane che rideva, poi domandò: La sua diapositiva, l'ha avuta? Sí, l'ho ricevuta confermò Castorp con aria d'importanza. Ultimamente. Eccola. E mise la mano nella tasca interna della giacca. Oh, la tiene nel portafoglio. Come, diciamo, un certificato, un lasciapassare, una tessera sociale. Benissimo. Faccia vedere! E sollevò verso la luce la lastrina incorniciata di strisce di carta nera, tenendola fra il pollice e l'indice della sinistra: gesto frequente lassú, visto molte volte. Mentre osservava la funebre fotografia, la sua faccia dai neri occhi a mandorla fece una piccola smorfia... senza far capire se era per guardar meglio o per altre ragioni. Già, già disse. Eccole la sua tessera, grazie mille. E restituí il vetrino al suo proprietario, glielo porse di fianco, quasi al di sopra del proprio braccio, guardando dall'altra parte. Ha visto le ramificazioni? domandò Castorp. E i nodi? Lei sa rispose Settembrini strascicando le parole come la penso intorno al valore di questi prodotti. Lei sa che le macchie e i punti oscuri lí dentro sono per la maggior parte fisiologici. Ho visto cento fotografie press'a poco come la sua, che lasciavano all'arbitrio dell'osservatore la facoltà di decidere se fossero o non fossero un vero "certificato".

Parlo da profano, ma un profano che è qui da molti anni. Il suo certificato è peggiore? Sí, un po' peggiore. - So d'altro canto che i nostri maestri e donni non fondano le loro diagnosi soltanto su questi giochetti. - E lei, dunque, avrebbe intenzione di svernare qui da noi? Dio buono, sí... Comincio ad assuefarmi all'idea che ridiscenderò soltanto insieme con mio cugino. Vuole dire che si avvezza a non... La sua frase era molto spiritosa. Avrà ricevuto, spero, la sua roba... vestiti pesanti, scarpe solide... Tutto. Tutto in perfetto ordine, signor Settembrini. Avevo informato i miei parenti e la nostra governante mi ha mandato tutto per espresso. Cosí potrò resistere. Questo mi rassicura. Ma, un momento... lei ha bisogno di un sacco, un sacco a pelo... Non ci avevamo pensato. Questa estate tardiva inganna: tra un'ora possiamo trovarci in pieno inverno. Lei passerà qui i mesi piú freddi... Già, il sacco a pelo confermò Castorp. Anche quel lo ci vuole. Avevo già avuto mezza idea di scendere nei prossimi giorni con mio cugino nel villaggio ad acquistarne uno. Roba che dopo non servirà mai piú, ma infine, per quattro o sei mesi, mette conto di acquistarlo. Mette conto, e come! - Senta, ingegnere mormorò Settembrini avvicinandosi al giovane. Lo sa che è raccapricciante sentirla giocare cosí coi mesi? Raccapricciante perché non naturale e contrario al suo carattere, frutto soltanto della sua età aperta alle nuove esperienze. Oh, l'eccessiva apertura dei giovani!... E' la disperazione degli educatori, perché anzitutto è pronta a farsi valere nel male. Non parli, giovanotto, secondo l'atmosfera, ma in conformità al suo tenore di vita europeo! Qui c'è anzitutto molta Asia nell'atmosfera... non per nulla si vedono brulicare i tipi della Mongolia moscovita! Questa gente e Settembrini accennò col mento dietro a sé, non si regoli spiritualmente su di loro, non si lasci contagiare dai loro concetti, ponga invece la sua natura, la sua superiore natura contro la loro, e consideri sacro tutto quanto a lei, figlio dell'Occidente, del divino Occidente, figlio della civiltà, è sacro per natura e tradizione, per esempio il tempo! Codesta liberalità, codesta barbara larghezza nel consumo del tempo è stile asiatico... e forse per questo i figli dell'Oriente si trovano cosí bene quassú. Non ha mai notato che quando un russo dice "quattro ore" non dice piú di quando uno di noi dice "una"? Non è difficile immaginare che la noncuranza di costoro in riferimento al tempo dipenda dalla selvaggia vastità del loro paese. Dove c'è molto spazio c'è molto tempo,... infatti si dice che sono il popolo che ha tempo e può aspettare. Noi no, noi europei non possiamo. Abbiamo poco tempo, come il nostro nobile continente, articolato con tanto garbo, ha poco spazio, noi dobbiamo ricorrere alla precisa amministrazione dell'uno e dell'altro, allo sfruttamento, caro ingegnere! Prenda per simbolo le nostre grandi città, centri e fuochi della civiltà, crogioli del pensiero? Come il terreno vi rincara, e lo spreco di spazio diventa impossibile, nella stessa misura, noti, anche il tempo diviene sempre piú prezioso.

Carpe diem ! Lo disse uno che viveva in una metropoli. Il tempo è un dono di Dio, dato all'uomo affinché ne usi... ne usi, ingegnere, al servizio dell'umano progresso! Settembrini pronunciò queste parole con chiarezza armoniosa e, possiamo ben dire, plastica. Castorp rispose soltanto col breve, rigido e impacciato inchino dello scolaro che riceva un insegnamento sotto forma di rabbuffo. Che cosa poteva replicare? La lezione privata che Settembrini gli aveva tenuto in segreto, con le spalle rivolte a tutta la compagnia, quasi sussurrando, aveva un tono troppo oggettivo, troppo poco sociale, poco discorsivo, perché il tatto gli consentisse di esprimere la sua approvazione. Non si risponde a un maestro: Come ha detto bene! . Castorp l'aveva bensí fatto qualche volta, quasi a conservare il rapporto di parità sociale: ma l'umanista non aveva parlato mai con tanta insistenza pedagogica; non gli rimase che incassare la ramanzina... stordito, come uno scolaretto, da tanta morale. D'altro canto si leggeva in faccia a Settembrini che anche tacendo continuava a rimuginare. Stava ancora quasi addosso a Castorp il quale si piegò persino un po' all'indietro, e i suoi occhi neri, fissi e ciechi a causa del pensiero vagante, erano rivolti al viso del giovane. Lei soffre, ingegnere! proseguí. Soffre come un uomo smarrito... Come si fa a non accorgersi? Ma anche il suo contegno verso la sofferenza dovrebbe essere un contegno europeo,... non quello dell'Oriente che, essendo molle e predisposto alla malattia, manda qua rappresentanti in numero cosí cospicuo... Compassione e immensa pazienza: ecco il suo modo di combattere le sofferenze. Non puo, non deve essere il nostro, il suo contegno!... Si diceva della mia corrispondenza... Qui, vede... O meglio ancora, venga! Qui non è possibile... Ritiriamoci! Possiamo entrare laggiú. Le rivelerò cose che... Venga! E voltandosi si tirò dietro Castorp dal vestibolo nella prima stanza di ritrovo, la piú vicina al portone, che era arredata a sala di lettura e scrittura e in quel momento era deserta. Le pareti erano rivestite di legno di rovere, sotto la volta chiara, c'erano librerie, nel mezzo una tavola coperta di giornali incorniciati, con sedie intorno, e l'occorrente per scrivere sotto gli archi delle finestre. Settembrini andò fino a una delle finestre, seguito da Castorp. La porta rimase aperta.< Queste carte cominciò l'italiano cavando con mano tremante dalla gonfia tasca della giacca di rattina un plico, una grossa busta già aperta e facendone scorrere il contenuto, vari stampati e una lettera, davanti agli occhi di Castorp, queste carte recano in francese l'intestazione: "Lega internazionale per l'organizzazione del progresso!". Mi arrivano da Lugano dove c'è una filiale della Lega. Lei vuol saperne i princípi, gli scopi? Glielo dico in due parole. La Lega per l'organizzazione del progresso trae dalla dottrina dell'evoluzione di Darwin il concetto filosofico che la piú intima vocazione dell'uomo è il perfezionamento di se stesso.

Ne deduce inoltre che chiunque voglia soddisfare la sua naturale vocazione ha il dovere di collaborare attivamente al progresso umano. Molti hanno accolto l'appello; il numero dei soci in Francia, Italia, Spagna, Turchia e persino in Germania è rilevante. Anch'io ho l'onore di figurare nei registri della Lega. E' stato elaborato scientificamente e steso un ampio programma di riforme che abbraccia tutte le presenti possibilità di perfezionamento dell'organismo umano. Si studia il problema della sanità della nostra razza, si considerano tutti i metodi atti a combattere la degenerazione che senza dubbio è un deplorevole fenomeno concomitante della sempre piú estesa industrializzazione. La Lega cura inoltre la fondazione di università popolari, il superamento delle lotte di classe mediante tutti gli adeguati miglioramenti sociali, infine l'eliminazione delle lotte tra i popoli, della guerra, attraverso lo sviluppo del diritto internazionale. Come vede, gli sforzi della Lega sono generosi e vasti. Alcuni periodici internazionali stanno a testimoniarne l'attività: riviste mensili che intre o quattro lingue mondiali recano interessanti relazioni sul progressivo sviluppo dell'umanità civile. Nei diversi paesi si sono costituiti numerosi gruppi locali che con pubbliche discussioni e manifestazioni festive dovranno illustrare e divulgare l'ideale progressista. La Lega si adopera anzitutto a fornire il suo materiale ai partiti politici progressisti di tutti i paesi... Mi segue, ingegnere? Perfettamente! rispose Castorp con energia ed eccessiva fretta. A queste parole provò l'impressione di chi scivola ma riesce a tenersi felicemente ritto. Settembrini parve soddisfatto: Suppongo che le si aprano vedute nuove, sorprendenti. Sí, devo confessare, è la prima volta che sento parlare di questi... di questi sforzi. Ne avesse esclamò Settembrini a voce bassa, ne avesse sentito parlare prima! Ma forse non è troppo tardi. Ebbene, questi stampati... Lei vorrebbe sapere di che cosa trattano... Ascolti! In primavera era stata convocata una solenne assemblea generale della Lega a Barcellona... Lei sa che quella città tiene il vanto di particolari relazioni con l'idea politica progressista. Il congresso durò una settimana tra banchetti e festeggiamenti. Io ci volevo andare, Dio buono, avevo un grande desiderio di partecipare alle discussioni. Ma quel manigoldo di Behrens me lo vietò con minacce di morte... e, che vuole? Io ebbi paura della morte e non partii. Come può immaginare, ero disperato del tiro birbone che mi giocava la mia precaria salute. Non c'è niente di piú doloroso che vedere come la nostra parte organica, animale, ci impedisca di servire la ragione. Tanto piú viva è la mia soddisfazione per questo scritto dell'ufficio di Lugano. Lei è curioso di saperne il contenuto? Lo credo. Le do in fretta alcune informazioni...

La Lega per l'organizzazione del progresso, memore del fatto che il suo compito consiste nel procurare la felicità al genere umano, ossia: nel combattere e infine eliminare del tutto la sofferenza umana mediante un opportuno lavoro sociale,... memore altresí del fatto che questo supremo compito può essere assolto soltanto con l'ausilio della scienza sociologica, il cui ultimo fine è lo stato perfetto, ... la Lega, dunque, ha deliberato a Barcellona di compilare un'opera in vari volumi che sarà intitolata Sociologia delle sofferenze, in cui le sofferenze umane saranno studiate in tutte le loro classi e specie, entro un sistema preciso ed esauriente. Lei obietterà: che giovano classi, specie, sistemi? Le rispondo: ordine e cernita sono il principio del dominio, e il nemico veramente temibile è quello che non conosciamo. Occorre aiutare il genere umano a uscire dai primitivi stadi della paura e della paziente ottusità e avviarlo alla fase dell'attività sagace. Bisogna fargli capire che gli effetti, dei quali prima si avvistano e poi si annullano le cause, non hanno alcun vigore, e quasi tutte le sofferenze del singolo sono malattie dell'organismo sociale. Bene! Queste sono le intenzioni della "patologia sociale". Essa elencherà e descriverà dunque in circa venti volumi, formato enciclopedia, tutti i casi della sofferenza umana che si possano immaginare, dai piú intimi e personali ai grandi scontri fra gruppi, alle sofferenze che derivano da ostilità di classi e conflitti internazionali, indicherà, per farla breve, gli elementi chimici, dalle cui molteplici miscele e combinazioni hanno origine tutte le sofferenze umane, e prendendo per norma la dignità e la felicità dell'uomo gli fornirà in ogni caso i mezzi e le misure che le sembrano indicati ad allontanare le cause del dolore. Qualificati competenti, scelti tra i dotti europei, medici, economisti e psicologi, si divideranno tra loro l'elaborazione dell'enciclopedia e l'ufficio della redazione generale a Lugano sarà il luogo di raccolta degli articoli. Leggo nei suoi occhi una domanda, lei vuol sapere quale parte sarà riservata a me. Mi lasci finire! La grande opera non intende di trascurare la bellezza spirituale in quanto ha per oggetto la sofferenza umana. Perciò è previsto un volume che, a conforto e istruzione dei sofferenti, conterrà una raccolta e una breve analisi di tutti i capolavori della letteratura universale che riguardano ogni singolo conflitto; e... questo è il compito che con la lettera qui presente si è voluto affidare al suo umilissimo servitore. Ma che sento, signor Settembrini! Permetta che le porga le mie felicitazioni vivissime. un incarico grandioso, sembra fatto apposta per lei. Non mi meraviglio affatto che a lei abbia pensato la Lega. Mi figuro la sua gioia di poter esser d'aiuto a eliminare le sofferenze umane! E' un lavoro lungo replicò Settembrini soprappensiero che richiede molta prudenza e molte letture. Tanto piú che aggiunse, mentre il suo sguardo sembrava perduto nelle complicazioni della sua impresa, tanto piú che i cultori dello spirito hanno trattato quasi regolarmente l'argomento della sofferenza, e persino i capolavori di secondo e terzo ordine se ne occupano in qualche modo.

Poco importa, o tanto meglio! Per quanto vasto sia, questo compito è certamente tale che alla peggio mi sarà possibile svolgerlo anche in questa maledetta sede benché non voglia prevedere di essere costretto a terminarlo qui. Non si può dire la stessa cosa continuò accostandosi di nuovo a Castorp e abbassando la voce fino al bisbiglio, non si può dirlo dei compiti che la natura ha imposto a lei, ingegnere! Qui volevo arrivare, questo le volevo rammentare. Lei sa quanto ammiro la sua professione, ma siccome è una professione pratica, non spirituale, lei a differenza di me, non la può svolgere se non laggiú nel mondo. Soltanto nel bassopiano lei può essere europeo, combattere attivamente la sofferenza alla sua maniera, favorire il progresso, utilizzare il tempo. Le ho parlato del compito a me assegnato soltanto per avvertirla, per richiamarla a se stesso, per rettificare i suoi concetti che sotto l'influsso atmosferico cominciano evidentemente a confondersi. Le raccomando: abbia stima di sé! Sia orgoglioso e non si dia al forestierume! Eviti questa palude, quest'isola di Circe, dove lei non è abbastanza Ulisse da dimorare impunemente. Finirà col camminare a quattro zampe, già sta piegandosi sulle estremità anteriori, tra poco si metterà a grugnire. Stia in guardia! Facendo le sue sommesse raccomandazioni l'umanista aveva scosso la testa con insistenza. Tacque con gli occhi bassi e le sopracciglia contratte. Non si poteva dargli una risposta scherzosa o evasiva, come Castorp soleva fare e come anche ora pensò un attimo che fosse possibile. Anche lui teneva le palpebre abbassate, poi alzò le spalle e disse con voce altrettanto sommessa: Che dovrei fare? Quello che le ho detto. Cioè: partire? Settembrini non rispose. Vuol dire che dovrei ritornare a Casa? Gliel'ho consigliato fin dalla prima sera, ingegnere. Vero, e allora ero libero di farlo, benché mi sembrasse irragionevole perdermi d'animo soltanto perché l'aria di qui mi dava fastidio. Da allora però molte cose sono cambiate. Mi sono fatto visitare e Behrens mi ha detto chiaro e tondo che non mette conto fare il viaggio, perché, tanto, in breve dovrei ritornare, e se continuassi cosí laggiú, un giorno tutto il lobo del polmone, che è che non è, se ne andrebbe a patrasso. Lo so, adèsso ha in tasca la sua tessera di riconoscimento. Già, lei lo dice con ironia... con la giusta ironia, s'intende, quella che non è mai fraintesa, ma è un retto e classico mezzo dell'arte oratoria... come vede, non dimentico le sue parole. Ma lei è pronto ad assumersi la responsabilità di consigliarmi il ritorno a casa in base a questa fotografia e dopo il risultato della radioscopia, dopo la diagnosi del consigliere? Settembrini esitò un istante. Poi si rizzò, aprí anche gli occhi, li rivolse neri e sicuri a Castorp, e in un tono non privo di teatralità e di ricerca dell'effetto rispose: Sí, ingegnere. Me ne assumo la responsabilità. Ma anche l'atteggiamento di Castorp si era fatto piú rigido. Teneva i tacchi uniti e gli occhi addosso a Settembrini. Questa volta era un combattimento e Castorp stava con le armi in pugno.

Influssi vicini gli conferivano vigore. Qui c'era un pedagogo, là fuori una donna dagli occhi stretti. Non si scusò nemmeno delle sue parole, non aggiunse Non se ne abbia a male!. Rispose: Vuol dire che lei è piú prudente per sé che per gli altri. Lei contro il divieto del medico non è andato a Barcellona al congresso progressista. Aveva paura della morte ed è rimasto qui. Con ciò la posa di Settembrini era indubbiamente distrutta fino a un certo punto. Egli sorrise non senza sforzo e ribatté: So apprezzare la prontezza della risposta, anche se la sua logica non è lontana dalla sofisticheria. Mi disgusta entrare in una delle abominevoli dispute che usano qui, altrimenti le risponderei che io sono molto piú malato di lei,... purtroppo, in verità, tanto malato che soltanto ad arte e ingannando me stesso coltivo la speranza di poter lasciare un giorno che sia questo luogo e ritornare nel mondo laggiú. Nel momento in cui sarà del tutto indecoroso sostenerla, volterò le spalle a questo sanatorio e affitterò per il resto dei miei giorni un alloggio privato in qualche luogo della valle. Sarà triste, ma siccome il mio campo di lavoro è quanto mai libero e spirituale, ciò non m'impedirà di servire fino all'ultimo respiro la causa dell'umanità e di tener testa allo spirito della malattia. Io le ho già fatto notare la differenza che in questo punto corre tra noi due. Ingegnere, lei non è uomo da affermare qui la sua migliore natura, l'ho notato fin dal nostro primo incontro. Lei mi rinfaccia di non essere andato a Barcellona. Mi sono piegato al divieto per non distruggermi anzi tempo. Lo feci con la piú ampia riserva, con la piú orgogliosa e dolorosa protesta del mio spirito contro l'imposizione del mio misero corpo. Che questa protesta sia viva anche in lei, che si assoggetta alle prescrizioni dei poteri locali,... che lei non obbedisca fin troppo volentieri al corpo e alle sue male tendenze... Che cosa ha da dire contro il Corpo? lo interruppe bruscamente Castorp guardandolo stupito con gli occhi azzurri, il cui bulbo era rigato di venine rosse. Era sopraffatto dalla propria temerità, e si vedeva. "Che cosa dico?" pensò. "La faccenda diventa mostruosa. Ma ormai mi sono messo sul piede di guerra e, finché sarà possibile, non vòglio lasciare a lui l'ultima parola. Naturalmente l'avrà, ma non importa, io ne avrò pur un vantaggio. Lo provocherò." E completò l'obiezione: Lei è un umanista, no? Possibile che ce l'abbia col Corpo? Settembrini sorrise, questa volta spontaneamente e sicuro di sé. "Che cos'ha contro l'analisi?" citò, la testa piegata sulla spalla. "Non vede di buon occhio l'analisi?"... Ingegnere, lei mi troverà sempre pronto a dare spiegazioni disse con un inchino, facendo con la mano il saluto verso il pavimento, specialmente quando le sue obiezioni sono fatte con spirito. Le sue parate non sono prive di eleganza. Umanista,... certo lo sono.

Non mi troverà mai colpevole di tendenze ascetiche. Onoro e amo il corpo, ne affermo il valore, come onoro e amo la bellezza, la libertà, la serenità e il godimento, e ne affermo il valore... come difendo il mondo, gli interessi della vita contro l'ascesi sentimentale, il classicismo contro il romanticismo. La mia posizione, penso, è chiara e univoca. Ma esiste un potere, un principio, cui devo la mia piú alta affermazione, il mio massimo rispetto, il mio supremo amore, e questa potenza, questo principio è lo spirito. Come detesto che si contrapponga al corpo una sospetta chimera o un fantasma lunare, detto "anima": entro l'antitesi di corpo e "spirito" il corpo è il principio maligno, diabolico, perché il corpo è natura, e la natura (entro la sua contrapposizione allo spirito, alla ragione, ripeto!) è cattiva... mistica e cattiva. "Lei è umanista!" Certo che lo sono, perché sono amico dell'uomo, come fu Prometeo, amante del genere umano e della sua nobiltà. Questa nobiltà però è racchiusa nello spirito, nella ragione, e perciò lei lancerà invano il rimprovero dell'oscurantismo cristiano... Castorp fece un gesto di protesta. ... Invano insistette Settembrini lancerà tale rimprovero, quando l'umanistico orgoglio della nobiltà insegna a sentire l'asservimento dello spirito al corpo, alla natura d'un giorno come umiliazione, come oltraggio. Lo sa che il grande Plotino avrebbe detto: "Mi vergogno di avere un corpo?" domandò Settembrini esigendo una risposta cosí seriamente che Castorp si vide costretto a confessare di averlo sentito ora per la prima volta. Lo riferisce Porfirio. Affermazione assurda, se vogliamo. Ma l'assurdo è spiritualmente onorevole, e in fondo nulla può essere piú meschino che la taccia di assurdità dove lo spirito vuol mantenere la sua dignità contro la natura, e rifiuta di abdicare davanti ad essa... Ha sentito parlare del terremoto di Lisbona? No... Un terremoto? Qui non leggo giornali... Lei mi fraintende. E giacché ci siamo, è deplorevole ... e significativo di questo luogo... che lei trascuri di leggere i giornali. Ma lei mi fraintende. Il cataclisma cui alludo non è attuale, è avvenuto circa centocinquant'anni fa... Ho capito! Sí, sí,... aspetti! Ho letto che quella notte, a Weimar, Goethe nella sua camera disse al domestico... Via, non volevo dir questo... lo interruppe Settembrini chiudendo gli occhi e agitando la piccola mano bruna. D'altro canto lei confonde le catastrofi. Lei ha in mente il terremoto di Messina. Io alludo alle scosse che sconvolsero Lisbona nel 1755- Mi scusi. Ebbene, Voltaire si ribellò. a Cioè... come sarebbe? Si ribellò? Sí, ebbe un moto di rivolta. Non accettò il fatto e fato brutale, rifiutò di abdicare. Protestò in nome dello spirito e della ragione contro quello scandaloso eccesso della natura, del quale caddero vittime tre quarti di una città fiorente e migliaia di vite umane...

Si meraviglia? Sorride? Si meravigli fin che vuole, ma in quanto al sorriso mi prendo l'arbitrio di vietarglielo! L'atteggiamento di Voltaire fu quello di un autentico discendente di quegli antichi Galli che lanciavano le loro frecce contro il cielo... Vede, ingegnere, questa è l'ostilità dello spirito contro la natura, la sua superba diffidenza contro di essa, la sua magnanima insistenza sul diritto di criticarla insieme con la sua maligna e irragionevole potenza. Poiché essa è la potenza, ed è da schiavi accettare la potenza, venire con essa ad accomodamenti... beninteso "interiori". Lei trova però qui anche quello spirito di umanità che non s'irretisce in contraddizioni, non si rende colpevole di alcuna ricaduta nella ipocrisia cristiana, quando decide di vedere nel corpo il principio del male, dell'avversario. La contraddizione che lei crede di scorgere è in fondo sempre la stessa. "Che cos'ha da dire contro l'analisi?" Niente... quando significa istruzione, liberazione, progresso. Tutto... quando ha l'orribile hautgout del sepolcro. Per il corpo vale la stessa cosa: bisogna onorarlo e difenderlo quando si tratta della sua emancipazione e bellezza, della libertà dei sensi, della felicità, del piacere. Lo si deve disprezzare in quanto, come principio della pesantezza e dell'inerzia, si oppone al moto verso la luce; e aborrire in quanto rappresenta addirittura il principio della malattia e della morte, in quanto il suo spirito specifico è lo spirito della stortura, della putrefazione, della voluttà e della vergogna... Settembrini aveva pronunciato queste ultime parole stando vicinissimo a Castorp, quasi senza voce e molto velocemente per arrivare alla fine. Castorp stava per essere liberato dall'assedio: nella sala di lettura entrò Joachim, con due cartoline in mano, il discorso del letterato rimase tronco, l'abilità con cui la sua espressione passò subito sul piano della leggerezza sociale, non mancò il suo effetto sull'allievo... seppur si può dare a Castorp questo nome. Eccola qui, tenente! Avrà cercato suo cugino,... mi scusi! Ci eravamo ingolfati in un discorso... se non erro, c'è stato anche un piccolo contrasto. Non è mica male come ragionatore, suo cugino, avversario abbastanza pericoloso nella diatriba, quando ci tiene.

Humaniora. Hans Castorp e Joachim Ziemssen, in calzoni bianchi e giacca azzurra, erano seduti nel giardino dopo colazione. Era ancora una di quelle benedette giornate d'ottobre, un giorno caldo e leggero, festoso e arcigno a un tempo, col cielo d'un cupo azzurro meridionale sopra la vallata, i cui pascoli popolati e attraversati da viottole verdeggiavano ancora, si può dire, serenamente, e dai cui versanti, irti di boschi, giungeva uno scampanare di armenti: quel suono pacifico e metallico, ingenuamente musicale, che chiaro e indisturbato stava sospeso nell'aria vuota, silenziosa, rarefatta, accrescendo quel senso di festa che domina l'alta montagna.

I due cugini erano seduti su una panca in fondo al giardino davanti a un semicerchio di giovani abeti. Il giardino si stendeva al margine nordoccidentale dello spiazzo cintato che a cinquanta metri sopra la valle formava la piattaforma su cui sorgeva il Berghof Entrambi tacevano. Castorp fumava. Dentro di sé se la prendeva con Joachim, perché dopo la colazione non aveva voluto andare con tutti gli altri sulla veranda; contro la sua volontà e il suo desiderio l'aveva invece costretto a scendere nel silenzioso giardino prima di andare a coricarsi. Era da parte di Joachim un atto tirannico. A rigore, non erano i fratelli siamesi. Quando avevano inclinazioni diverse potevano anche separarsi. Castorp non era là per far compagnia a Joachim, anche lui era un paziente. Teneva il broncio e lo poteva anche tenere, perché aveva il "Maria Mancini '. Le mani nelle tasche della giacca, i piedi nelle scarpe marrone davanti a sé, stringeva tra le labbra il lungo sigaro, d'un grigio opaco - che era nel primo periodo della consunzione, dalla cui punta ottusa, cioè, non era ancora stata scossa la cenere - e lo lasciava penzolare un poco assaporando dopo il pasto copioso il forte aroma, che ora poteva gustare di nuovo pienamente. Se anche l'assuefazione al luogo consisteva soltanto nell'assuefarsi a non assuefarsi, ... in quanto al chimismo gastrico e ai nervi delle mucose aride e soggette a emorragie, l'adattamento era pur avvenuto final mente: inavvertito e senza che egli ne potesse seguire il progresso nel giro dei giorni, di quei sessantacinque o settanta giorni, si era infatti ristabilito tutto il suo organico compiacimento per quel ben lavorato stimolante o narcotico vegetale. Era lieto di questa ricuperata facoltà. La soddisfazione morale acuiva il godimento fisico. Durante la degenza aveva fatto economie sulla provvista di duecento sigari che aveva portato con sé; una buona rimanenza c'era ancora. Ma insieme con la biancheria e con gli abiti invernali si era fatto mandare da Schalleen altri cinquecento esemplari di quella merce di Brema per non trovarsi sfornito. Erano eleganti cassette verniciate, ornate di un mappamondo, di numerose medaglie e d'un palazzo da esposizioni, in mezzo a uno sventolio di bandiere, impresso in oro. Mentre erano là seduti, a un tratto eccoti arrivare il consigliere Behrens. Quel giorno aveva partecipato al pranzo nella sala; lo si era visto alla tavola della signora Salomon conle grosse mani davanti al piatto. Poi doveva essersi trattenuto sulla terrazza, facendo osservazioni personali e probabilmente eseguendo il trucco delle stringhe per chi non l'avesse ancora visto. Ora veniva lemme lemme per la viottola inghiaiata, senza camice, in coda di rondine a quadrettini, il cappello duro sull'occipite, anche lui con un sigaro in bocca, nerissimo, dal quale traeva larghe nuvole di fumo bianchiccio.

La sua testa, il viso dalle guance accese e paonazze, dal naso camuso, dagli occhi azzurri, umidi, e dalla barbetta riccia era piccolo in proporzione alla persona alta, leggermente curva e piegata e alla mole delle mani e dei piedi. Innervosito, provò una scossa scorgendo i due cugini, e si fermò anzi un po' perplesso perché non poteva che andare verso di loro. Li salutò alla solita maniera, gioviale, con la frase fatta: "To', chi si vede!" e con auguri di proficuo metabolismo, e costringendoli a non alzarsi in suo onore. Per carità, non si disturbino! Non facciano complimenti, sono un uomo semplice. Non mi spetta, avvegnadioché sono pazienti, l'uno e l'altro. Non fa d'uopo. Niente da obiettare; le condizioni sono quelle che sono. E rimase in piedi davanti a loro, il sigaro tra l'indice e il medio della gigantesca mano. Buono il rotolo d'erba, Castorp? Faccia vedere, sono un intenditore, un appassionato. La cenere è promettente: di che tipo è la sua bella bruna? "Maria Mancini". Postre de Banquett di Brema, consigliere. Costa poco o nulla, diciannove Pfennig soltanto, ma ha un profumo che non se ne trova a questo prezzo. Sumatra-Avana, rivestito con la foglia piú bassa, come vede. Mi ci sono affezionato. E' un miscuglio medio e molto aromatico, ma non pizzica la lingua. Non gli dispiace tenere la cenere a lungo, io la scuoto due volte al massimo. Naturalmente fa anche i suoi capriccetti, ma il controllo alla manifattura dev'essere molto accurato, perché delle qualità del "Mancini" ci si può fidare, e tira che è un piacere. Vuol favorire? Grazie, le darò uno dei miei. Ed estrassero i loro astucci. Questo è di razza affermò il consigliere porgendo il suo tipo. Ha un carattere, capisce, corpo ed energia. "St. Felix-Brasile", mi sono attenuto sempre a questa marca. Un vero scacciamalanni, arde come il rum, e specie verso la fine ha un che di fulminante. Si raccomanda un po' di discrezione nell'uso, non si può accenderli in serie, schianterebbero anche un uomo robusto. Ma meglio un boccone sostanzioso una volta sola che tutto il giorno un brodo lungo... Girarono tra le dita i doni scambiati, esaminarono con obiettiva competenza quei cosi cilindrici che con le costole oblique e parallele dei margini della copertura qua e là leggermente sollevati, con le sporgenti venature che sembrava palpitassero, con le piccole scabrosità della pelle, col giuoco della luce sulle superfici e sugli spigoli avevano un che di vivo e organico. Castorp lo disse: Un sigaro cosí è una cosa viva. Ha un regolare respiro. Una volta, a casa, mi era venuto in mente di conservare "Maria" in una scatola di latta a chiusura ermetica per preservarla. dall'umidità.

Vuol credere che morí? Spacciata e defunta entro una settimana,... non rimasero che aridi cadaveri. E si scambiarono le loro esperienze sul modo migliore di conservare i sigari, specie quelli d'importazione. Questi erano particolarmente graditi al consigliere, che avrebbe fumato sempre pesanti Avana. Ma purtroppo non li tollerava, e due piccoli "Henry Clay", che una volta aveva accettati in un ritrovo, per poco, disse, non lo mandavano a far terra da pipe. Me li fumo prendendo il caffè raccontò a l'uno dopo l altro, senza pensieri. Ma arrivato in fondo mi domando che cosa diavolo stia succedendo. Mi sento diverso, in condizioni stranissime, come non mi era mai capitato. Non fu un'inezia arrivare fino a casa, e quando ci arrivo, rimango di stucco: le gambe gelate, capisce, sudori freddi da per tutto, il viso bianco come un lenzuolo, il cuore a rotoloni, un polso... ora filiforme, quasi spento, ora galoppante, a rompicollo, capisce, e il cervello in un'agitazione... Ero convinto di essere giunto all'ultimo balletto. Dico cosí, perché è la parola che mi venne in mente allora, la parola che usai per spiegare come mi sentivo. A rigore, infatti, ero allegro, festoso, benché avessi una paura blu, anzi, dirò meglio, fossi tutto paura... Ma, si sa, paura e festevolezza non si escludono. Il giovanotto che per la prima volta deve possedere una ragazza, ha paura anche lui, e anche lei, mentre si struggono dal piacere. Be', poco mancò che mi struggessi anch'io, col petto ansante stavo per dare l'ultimo sgambetto. Se non che la Mylendonk coi suoi interventi mi levò dalle peste, compresse di ghiaccio, massaggi con la spazzola, un'iniezione di olio canforato, fatto sta che l'umanità non ebbe la disgrazia di perdermi. Castorp, seduto perché paziente, con una faccia che rivelava la febbrile attività del pensiero, guardò Behrens negli occhi azzurri e gonfi che, mentre raccontava, si erano empiti di lacrime. Scusi, consigliere, lei dipinge anche disse a un tratto. Behrens finse di balzare indietro. Eh, giovinotto, che le passa per la testa? Perdoni. Ne avevo sentito parlare. E ora mi è venuto in mente. Be', non voglio negare. Tutti abbiamo le nostre debolezze. Sí, è capitato anche a me. Anch'io sono pittore, come diceva quello spagnolo. Paesaggi? domandò brevemente Castorp, con aria di superiorità. Le circostanze lo inducevano ad assumere quel tono. A volontà ! rispose il consigliere con impacciata vanteria. Paesaggi, nature morte, animali,... chi ha fegato non ha paura di nulla. E niente ritratti? Oh, vi ho infilato anche qualche ritratto. Vuol ordinarmi il SUO? Ah, ah, no. Ma sarebbe molto gentile se una volta o l'altra ci facesse vedere i suoi quadri. Anche Joachim, dopo aver guardato Castorp con stupore, si affrettò ad assicurare che sarebbe stato molto gentile. Behrens era gongolante, lusingato fino all'entusiasmo.

Arrossí persino dal piacere, e questa volta sembrò che i suoi occhi volessero versare le lacrime. Ben volentieri! esclamò. Col massimo piacere. Anche subito, sui due piedi, se credono. Vengano, vengano con me, prenderemo un caffè turco nella mia baracca! E presili per un braccio li fece alzare dalla panca. In mezzo a loro, a braccetto, si diresse per il viottolo verso la sua abitazione che, come essi sapevano, era nella vicina ala nordoccidentale del grande edificio. Anch'io dichiarò Castorp in altri tempi mi ci sono provato qualche volta. Oh, senti ! A olio, seriamente? No, no. Non sono arrivato piú in là di qualche acquerello. Non so, una nave, una marina, fanciullaggini. Ma mi piace veder quadri, e perciò mi sono preso la libertà... Questa spiegazione tranquillò alquanto specialmente Joachim e gli chiarí la strana curiosità di suo cugino... e piú per lui che per il consigliere Castorp aveva infatti accennato ai propri tentativi artistici. Arrivarono: da questa parte non c'era, come di là, alla rampa d'accesso, un sontuoso portale fiancheggiato da fanali. Alcuni gradini arrotondati portavano alla porta di rovere che il consigliere aprí con una chiave del suo abbondante mazzo. La mano gli tremava, era decisamente nervoso. Li accolse un'anticamera, attrezzata a guardaroba, dove Behrens appese il cappello duro. Dentro, nel breve corridoio, che una porta vetrata separava dalla parte comune dell'edificio, e ai cui lati si aprivano le stanze dell'appartamentino privato, Behrens chiamò la fantesca e le diede gli ordini. Poi, con frasi gioviali e invitanti, fece entrare gli ospiti da una delle porte a destra. Un paio di stanze con la comune mobilia borghese, sul davanti, con la vista sulla valle, erano comunicanti, divise non da usci, ma soltanto da portiere: una sala da pranzo "vecchia Germania, una stanza di soggiorno, uno studio con la scrivania, sopra la quale erano appesi un berretto goliardico e due spade incrociate, con tappeti di lana, libreria, divano, e uno stanzino da fumo ammobiliato "alla turca". A tutte le pareti c'erano quadri, i quadri del consigliere: gli occhi degli ospiti vi si posarono subito cortesemente, pronti e disposti all'ammirazione. La defunta moglie del consigliere appariva varie volte, a olio e anche in fotografia: era una bionda un po' enigmatica, in veste leggera e fluente, che con le mani giunte contro la spalla sinistra - non proprio giunte e strette, ma soltanto con le falangi leggermente appoggiate - teneva gli occhi o rivolti al cielo o molto bassi e nascosti sotto le lunghe ciglia, sporgenti oblique dalle palpebre: soltanto davanti a sé o verso lo spettatore la buon'anima non guardava mai. C'erano poi soprattutto paesaggi di montagna, monti nevosi o vestiti di verdi abeti, monti avvolti nella nebbia delle solitudini e monti, i cui netti e secchi contorni si stagliavano, sotto l'influsso di Segantini, contro il cielo profondamente azzurro.

C'erano anche malghe, mucche con grandi giogaie, in piedi o coricate su pascoli soleggiati, un pollo spennato col collo torto penzolante da una tavola in mezzo a vari legumi, nonché fiori, tipi di montanari e altro: tutto dipinto con una certa disinvoltura da dilettante, a spavalde macchie di colore che talvolta pareva fossero schiacciate sulla tela direttamente dal tubetto e dovevano avere messo parecchio ad asciugare... Tra gravi errori anche qualche bell'effetto. Osservando come in un'esposizione passarono lungo le pareti, accompagnati dal padrone di casa, che di quando in quando nominava un soggetto, ma per lo piú taceva e, con l'orgoglioso imbarazzo dell'artista, era felice di fissare lo sguardo insieme con quello di estranei sulle proprie opere. Il ritratto di Clavdia Chauchat era appeso nel salotto alla parete della finestra: appena entrato, Castorp l'aveva adocchiato, benché offrisse soltanto una lontana rassomiglianza. Evitò apposta quel punto, trattenne gli altri due nella sala da pranzo dove finse di ammirare una verde veduta della Val Sergi coi ghiacciai azzurrini nello sfondo, li guidò poi di proprio arbitrio prima nello stanzino turco che, con parole di elogio sulle labbra, perlustrò a fondo, e contemplò poi la parete d'ingresso del salotto, invitando anche Joachim a fare i suoi elogi. Infine si voltò e con moderato stupore domandò: Ma questo è un viso noto, vero? La riconosce? chiese Behrens. Ma certo, non è possibile sbagliare. E' la signora della tavola dei "russi ammodo", quella che ha un nome francese... Esatto, la Chauchat. Sono contento che abbia notato la rassomiglianza. Parlante mentí Castorp, non tanto per falsità, quanto perché sapeva che, se non ci fossero stati sottintesi, egli non avrebbe dovuto riconoscere il modello, ...come da solo non lo avrebbe mai riconosciuto Joachim, il buono, aggirato Joachim che ora soltanto capí l'antifona, quella vera dopo la falsa che Castorp gli aveva cantato prima. Ho inteso sussurrò e si accinse a dare una mano nell ammirare il dipinto. Suo cugino aveva saputo indennizzarsi per la loro mancata presenza alla riunione sulla terrazza. Era un busto, di mezzo profilo, un po' piú piccolo del vero, scollato, con un panneggio di veli intorno alle spal le e al seno, entro una cornice larga, nera, decline verso l'interno, ornata al margine della tela da una listerella dorata. La Chauchat dimostrava dieci anni piú di quelli che aveva, come capita spesso nei ritratti di dilettanti che vogliono essere espressivi. Tutto il viso era troppo rosso, il naso era delineato molto male, il colore dei capelli poco azzeccato, troppo color paglia, la bocca distorta, il particolare fascino della fisionomia o non visto o non reso, sbagliato per averne colto le cause troppo rozzamente, l'insieme un lavoro piuttosto abborracciato e, in quanto ritratto, solo lontanamente affine al soggetto. Ma Castorp non guardò tanto per il sottile, i rapporti tra quella tela e la persona di Clavdia Chauchat erano per lui abbastanza stretti, il ritratto doveva necessariamente riprodurre la Chauchat che in quelle stanze aveva posato: ciò gli bastava, sicché ripeté: Tale e quale ! Sembra viva ! Non lo dica protestò il consigliere. E' stato un lavoraccio, non mi illudo di aver colto nel segno, benché avremo fatto una ventina di sedute...

Come vuole che uno se la cavi con un frontespizio cosí strambo? Sembra facile coglierlo, con quegli zigomi iperborei e quegli occhi come spacchi in una pasta lievitata. Già, bisogna provare! Si eseguiscono bene i particolari e si sciupa l'insieme. Un vero rebus. La conosce? Forse non si dovrebbe copiarla dal vero, ma dipingerla a memoria. Dica, la conosce? Sí, no, di sfuggita come ci si conosce qui... Vede, io la conosco meglio dentro, sotto la cute, capisce; della sua pressione arteriosa, della tensione istologica e del moto linfatico saprei dire parecchio... per buone ragioni. La superficie presenta maggiori difficoltà. L'ha mai vista camminare? Come il passo, cosí il suo viso: strisciante. Prenda, per esempio, gli occhi,... non intendo il colore che pure ha le sue perfidie; alludo alla posizione, al taglio. L'apertura delle palpebre, dice lei, è una fessura obliqua. Invece cosí sembra. L'inganno proviene dal l'epicanto, una varietà che si riscontra in alcune razze e consiste nel fatto che un allargamento della cute, proveniente dalla piatta radice del naso, va a coprire gli angoli interni degli occhi. Se lei tira e tende la pelle fino alla radice del naso, l'occhio diventa come il nostro. Una lepida mistificazione, che non è molto onorevole, poiché, a guardar bene, l'epicanto risale a un atavico arresto di Sviluppo. Ora ho capito disse Castorp. Non lo sapevo, ma da un pezzo cercavo di spiegarmi la natura di quegli occhi. Inganno, burla confermò Behrens. Se li disegna cosí, a fessura obliqua, lei è perduto. Il taglio obliquo lei lo deve eseguire come lo eseguisce la natura, deve, dirò cosí, creare l'illusione nell'illusione, e per questo è necessario, beninteso, sapere che cosa sia l'epicanto. In genere, il sapere non nuoce mai. Guardi la pelle, qui, la cute. E' evidente o, secondo lei, non è abbastanza evidente? Evidentissima rispose Castorp. E' dipinta, la cute, con la massima evidenza. Credo di non averne viste altre dipinte cosí bene. Sembra di vedere i pori. E passò leggermente la mano sulla scollatura del ritratto che risaltava bianchissima sull'esagerato rosso del viso, come una parte del corpo non esposta di solito alla luce, e perciò, fosse intenzione o no, suscitava l'insistente idea del nudo: effetto in ogni caso piuttosto grossolano. Ciò nonostante la lode di Castorp era giustificata. Il bianco appannato di quel busto esile, ma non magro, che si perdeva nel panneggio dei veli azzurrini, era molto naturale; si vedeva che era dipinto con sentimento, ma ad onta di una certa sdolcinatezza cke ne emanava, l'artista aveva saputo conferirle una specie di realtà scientifica e di viva precisione. Aveva approfittato della granulosità della tela per ridare, specie nella regione delle clavicole delicatamente rilevate, attraverso il colore ad olio, la naturale scabrosità della pelle.

Una efelide a sinistra, dove il petto cominciava a dividersi, non era trascurata, e tra i due rilievi pareva di veder trasparire un insieme di vene azzurrognole. Era come se sotto lo sguardo dell'osservatore un appena percettibile brivido sensuale trascorresse su quelle nudità,... od oseremo dire che si poteva figurarsi di percepire la traspirazione, l'invisibile emanazione vitale di quella carne, come se premendovi eventualmente le labbra si dovesse sentire non già un odore di colori e vernici, bensí quello del corpo umano. Dicendo cosí ripetiamo le impressioni di Castorp: ma se lui era ben disposto a riceverle, vuol dire che obiettivamente la scollatura della signora Chauchat era di gran lunga la pittura piú notevole di quella stanza. Behrens, le mani nelle tasche dei calzoni, si dondolava sui tacchi e sulle piante dei piedi, mentre osservava le sue pitture insieme coi visitatori. Ho piacere, collega disse, piacere che se ne renda conto. E' utile e non nuoce che si sia un po' informati anche su quello che sta sotto l'epidermide e si possa dipingere anche ciò che non si vede... ossia, che si abbia con la natura anche un altro rapporto, diciamo cosí, non esclusivamente lirico; che, per esempio, uno eserciti la professione accessoria di medico o fisiologo o anatomista e conosca un po' anche il disotto, dica quello che vuole, non può che essere un vantaggio, o certo una priorità. Quella buccia lí è scientifica, lei può control larne l'esattezza organica al microscopio. E vedrà non solo gli strati cornei e mucosi dell'epidermide, ma sotto è immaginato il tessuto del derma con le sue ghiandole sebacee e sudorifere, coi vasi sanguigni e le papille, ... e piú sotto ancora l'ipoderma, il pannicolo adiposo, capisce, lo strato sottocutaneo, che con le sue numerose cel lule di adipe plasma le soavi forme femminili. Ora, le aggiunte di scienza e di pensiero offrono la loro collaborazione. Vengono in soccorso e fanno il loro effetto, non ci sono, eppure in qualche modo ci sono, e di qui ha origine l'evidenza. Castorp era tutto fuoco e fiamma per questa conversazione, aveva la fronte arrossata, gli occhi accesi, non sapeva che risposta scegliere perché aveva molte cose da dire. In primo luogo voleva portare il ritratto dalla parete della finestra, dov'era in ombra, in un posto piú favorevole, poi intendeva assolutamente sviluppare le spiegazioni date dal consigliere intorno alla natura della pelle, le quali avevano incontrato il suo profondo interessamento, in terzo luogo avrebbe tentato di esprimere una propria idea universale, filosofica, che gli stava vivamente a cuore. Mentre poneva già le mani sul ritratto per staccarlo dalla parete, cominciò affannato: Sicuro, benissimo, molto importante. Vorrei dire... Cioè, lei, consigliere, ha detto: "Anche un altro rapporto". Sarebbe opportuno - cosí ha detto mi pare - che, oltre al rapporto lirico, artistico, ce ne fosse anche un altro, che si considerassero le cose, insomma, anche sotto un altro angolo visuale, ad esempio quello della medicina. E' giusto, giustissimo - mi perdoni, consigliere - voglio dire, è piú che giusto, perché, a rigore, qui non si tratta di rapporti e angoli visuali fondamentalmente diversi, bensí, per essere precisi, sempre e soltanto dello stesso, ... soltanto di varietà, voglio dire, di sfumature, intendo; voglio dire, cioè: varianti del

medesimo interessamento generale, del quale anche l'attività artistica è solo una parte e un'espressione, dirò cosí. Sí, mi scusi, stacco il dipinto, qui gli manca la luce, vedrà, lo porto là di fronte sul divano, tutt'un'altra cosa... Volevo dire: di che cosa si occupa la medicina? Certo, io non ne capisco niente, ma si occupa dell'uomo, no? E la giurisprudenza, la legislazione, l'amministrazione della giustizia? Anch'esse dell'uomo. E la linguistica, con la quale di solito va unito l'esercizio della professione pedagogica? E la teologia, la cura d'anime, l'ufficio pastorale del clero? Tutti dell'uomo, si tratta sempre di sfumature d'uno stesso, importante e... principale interessamento, dell'interessamento al l'uomo; sono, in breve, le professioni umanistiche, e chi le voglia studiare, impara anzitutto, come fondamento, le lingue antiche, vero? per la cultura formale, come si suol dire. Lei si meraviglia forse se ne parlo, dato che sono un realista, un tecnico. Ma ci pensavo anche ultimamente durante la cura a sdraio: è pur bello, squisito, che qualunque specie di professione umanistica sia fondata su elementi formali, sull'idea della forma, della bella forma,... ne deriva un che di raffinato e superfluo, e oltre a ciò un certo sentimento e ... una gentilezza, ... con ciò l'interessamento diventa quasi una faccenda galante... Cioè molto probabilmente mi sono espresso male, ma qui si vede come lo spirito e il bello si fondano insieme e, se vogliamo, siano sempre stati una cosa sola, o con altre parole: la scienza e l'arte; si vede dunque che l'attività artistica ne fa assolutamente parte, come quinta facoltà, per cosí dire, e anch'essa non è altro che una professione umanistica, gradazione dell'interessamento umanistico, in quanto il suo argomento e scopo è ancora e sempre l'uomo, lei lo ammetterà. Nei tentativi che feci in questo campo da giovane, dipinsi soltanto navi e acque, ma in pittura la cosa piú attraente è e rimane il ritratto, perché ha per soggetto direttamente l'uomo, perciò le ho chiesto subito, consigliere, se lavora anche in questo campo... Che ne dice? Non si avvantaggerebbe di molto in questa posizione? Entrambi, Behrens e Joachim, lo guardarono per vedere se non si vergognasse di ciò che era venuto improvvisando. Castorp era già troppo immerso nell'argomento per sentirsi imbarazzato. Teneva il quadro contro la parete, sopra il divano, e voleva sapere se non fosse in luce molto migliore. In quella arrivò la domestica recando, su un vassoio, acqua bollente, un fornello a spirito e tazzine da caffè. Il consigliere la mandò nello stanzino e disse: Allora lei non dovrebbe veramente interessarsi tanto alla pittura quanto piuttosto alla scultura... Sí, è vero, costí prende piú luce. Se crede che ne possa tollerare tanta... All'arte plastica, intendo, perché l'uomo in genere ne è il soggetto piú puro ed esclusivo. Ma badiamo che l'acqua non trabocchi! Giusto, la scultura esclamò Castorp, mentre passavano nello stanzino, e dimenticò di riappendere il ritratto o di deporlo; lo prese con sé e lo portò penzoloni nella stanza attigua. Certo, in una Venere greca o un atleta si vede indubbiamente con la massima chiarezza l'elemento umanistico; in fondo, a pensar bene, è il vero, il vero e proprio genere umanistico d'arte. In

quanto alla piccola Chauchat osservò il consigliere, direi che in ogni caso è piuttosto un soggetto da pittura; Fidia, credo, o quell'altro con la desinenza mosaica avrebbero arricciato il naso a questo tipo di fisionomia... Ma che fa? perché si trascina dietro quella crosta? Grazie. Intanto lo appoggio qui alla gamba della sedia, qui per ora ci sta benissimo. Gli scultori greci però non badavano molto alla testa, badavano al corpo, e qui stava forse il loro lato umanistico... E le forme femminili sarebbero dunque grasso? Sicuro, grasso ! confermò definitivamente Behrens, dopo aver aperto un armadietto a muro e averne tolto l'occorrente per preparare il caffè, un macinino turco a tubo, la cuccumetta col manico lungo, il doppio vasetto per lo zucchero e il caffè macinato, tutto di ottone. Palmitina, stearina, oleina disse versando chicchi di caffè da un barattolo di latta nel macinino, del quale si mise a girare la manovella. Come vedono, io faccio tutto da me, dal principio; riesce migliore. - O che credeva? che fosse ambrosia? No, lo sapevo anch'io. Ma è strano sentirlo affermare cosí disse Castorp. Erano seduti nell'angolo tra la porta e la finestra a uno sgabello col piano d'ottone, ornato di incisioni orientali, sul quale le stoviglie del caffè erano posate insieme con l'occorrente per fumare: Joachim accanto a Behrens sull'ottomana doviziosamente fornita di cuscini di seta, Castorp su una poltrona di cuoio a rotelle, alla quale aveva appoggiato il ritratto della Chauchat. Sotto di loro era steso un tappeto multicolore. Il consigliere versò cucchiai di caffè e zucchero nella cuccuma, aggiunse acqua e portò tutto a ebollizione sopra la fiamma a spirito. La bevanda nelle tazzine a cipolla si coprí d'una schiuma bruna e all'assaggio risultò altrettanto forte quanto dolce. Anche le sue, del resto riprese Behrens. a Le sue forme, se crede che se ne possa discorrere, sono naturalmente grasso, sia pure in minor misura delle donne. Il nostro grasso costituisce di solito soltanto un ventesimo del peso complessivo, nelle donne un sedicesimo. Senza il tessuto cellulare sottocutaneo saremmo tutti altrettanti spugnòli. Con gli anni scompare e allora si vede il ben noto e antiestetico drappeggio di grinze. Nella donna l'adipe si accumula specialmente sul petto e sul ventre, sulle cosce, nelle parti insomma che attirano il cuore e la mano. Anche le piante dei piedi sono grasse e sensibili al solletico. Castorp rigirava tra le mani il macinino tubolare che, come tutto il fornimento, era di origine indiana o persiana piuttosto che turca: lo faceva supporre lo stile delle incisioni in ottone, i cui rilievi emergevano lucidi dal fondo opaco. Castorp osservò quegli ornamenti senza capirli subito. Quando se ne rese conto, arrossí improvvisamente. Sono oggetti, questi, per uomini soli spiegò Behrens. Perciò li tengo sotto chiave. Altrimenti la mia donzella ci si potrebbe guastare gli occhi.

Loro non ne riporteranno, penso, alcun pregiudizio. Li ho ricevuti in dono una volta da una paziente, una principessa egiziana che ci aveva fatto l'onore di restar qui un annetto. Come vedono, il disegno è ripetuto su tutti i pezzi. Buffo, no? Curioso replicò Castorp. Oh, Dio, si sa, a me non fa impressione. Anzi, se vogliamo, può essere una cosa seria e solenne,... benché in fondo non sia proprio intonata a un servizio da caffè. Ma gli antichi raffiguravano, si dice, roba simile sui sarcofaghi. Per loro l'osceno e il sacro era, si può dire, la stessa cosa. Be', la principessa insinuò Behrens era, credo, piuttosto per il primo. Di lei possiedo ancora bellissime sigarette, una specialità finissima, viene a galla soltanto nel le grandi occasioni. E andò a prendere dall'armadietto la scatola a colori vivaci, per offrire. Joachim si astenne e batté i tacchi. Castorp si serví e fumò la sigaretta insolitamente lunga e grossa, ornata da una sfinge stampata in oro; effettivamente era meravigliosa. Consigliere, faccia il favore, ci parli ancora della pel le pregò. Aveva ripreso il ritratto, se l'era posato sulle ginocchia e, appoggiato alla spalliera, la sigaretta tra le labbra, lo stava osservando. Non proprio dell'ipoderma, questo sappiamo già che cos'è. Ma della pelle umana in genere, che lei sa dipingere cosí bene. Della pelle? Lei s'interessa alla fisiologia? Molto. E' una cosa che mi ha sempre appassionato. Il corpo umano: un argomento che ho sempre sentito profondamente,. Qualche volta mi sono chiesto se non era il caso che facessi il medico,... in un certo senso, credo, avrei fatto buona riuscita. Poiché chi s'interessa al corpo, s'interessa anche alla malattia, ... anzi segnatamente a questa,... non è cosí? D'altronde non vuol dire, parecchie cose avrei potuto fare. Potevo, per esempio, farmi prete. Come? Sí, in certi periodi mi è sembrato che mi sarei trovato nel mio elemento. E allora perché è diventato ingegnere? Per caso. Piú o meno sono state le circostanze esteriori a dare la spinta. La pelle? Che vuol che le dica della sua beniamina? Essa è il suo cervello esterno, capisce... che è, per ontogenesi, di origine identica a quella dell'apparato per i cosí detti sensi degli organi superiori, lassú, nel suo cranio: il sistema nervoso centrale, deve sapere, è soltanto una lieve trasformazione dell'epidermide, e negli animali inferiori non esiste ancora affatto la differenza tra centrale e periferico, quelli sentono odori e sapori con la pelle, si figuri, hanno la sensibilità soltanto nella pelle,... dev'essere comodo, se ci mettiamo nei loro panni. Per contro, in esseri viventi altamente differenziati, come lei e io, l'ambizione della cute si limita al solletico, essa non è che un organo di protezione e trasmissione, ma sempre all'erta contro tutto quanto vorrebbe accostarsi troppo al corpo,... manda avanti persino dispositivi tattili, cioè i peli, i peluzzi del corpo che constano soltanto di cellule cornee e avvertono un avvicinamento prima ancora che la pelle stessa sia toccata.

Detto fra noi, può anche darsi che il compito della pelle di proteggere e allontanare non si limiti al corpo... Sa lei come le avviene di arrossire e impallidire? Non esattamente. Ecco, con precisione, confesso, non lo sappiamo neanche noi, almeno per quanto riguarda il rossore della vergogna... La cosa non è ancora chiarita, perché muscoli dilatati i quali possano essere messi in moto da nervi vasomotori, non si sono trovati fino ad oggi nei vasi. Perché si gonfi la cresta del gallo (o qualunque altro mirabolante esempio si voglia citare), è, diremo, un mistero, specialmente perché si tratta di influssi psichici. Noi supponiamo che esistano collegamenti tra la corteccia cerebrale e il centro vascolare encefalico. E a determinati stimoli, che lei, poniamo, si vergogni profondamente, questo collegamento entra in azione, e i nervi vascolari agiscono sul viso, e i relativi vasi sanguigni si dilatano e riempiono, e la sua testa diventa come quella d'un tacchino, lei è gonfio di sangue e quasi non ci vede piú. Per contro, in altri casi Dio sa che cosa l'attende, magari qualcosa di bello e pericoloso a un tempo, ed ecco i vasi sanguigni della pelle si contraggono, la pelle diventa pal lída e fredda e s'infossa, e l'emozione la fa sembrare un cadavere, con le occhiaie plumbee e il naso bianco e aguzzo. Il simpatico fa però martellare il cuore a tutt'andare. Cosí sta dunque la faccenda conchiuse Castorp. Cosí press'a poco. Si tratta di reazioni, capisCe? Siccome però tutte le reazioni e tutti i riflessi hanno per natura uno scopo, noi fisiologi sospettiamo che anche questi fenomeni legati a moti psichici siano, in fondo, opportune misure protettive, riflessi di difesa da parte del corpo, come la pelle d'oca. Sa in che modo le viene la pelle d'oca? Propriamente non saprei. E', vede, una manifestazione delle ghiandole sebacee che secernono l'unto della pelle, sa, un secreto grasso, albuminoso, non direi piacente, ma serve a tener morbida la pelle, perché la secchezza non la screpoli e spacchi e sia piacevole al tatto,... non si può neanche immaginare come sarebbe al tatto la pelle umana senza l'untume della colesterina. Queste ghiandole unguentarie possiedono piccoli muscoli organici, muscoli erettori e quando questi erigono le ghiandole, le capita come a quel ragazzo, cui la principessa versò addosso il secchio di ghiozzi, la sua pelle diventa una grattugia, e se lo stimolo è forte, anche i peli si erigono... Le si rizzano i capelli e i peli del corpo, come al porcospino che si difende, e lei può dire di aver imparato il brivido della paura. Oh, in quanto a questo esclamò Castorp posso dire di averlo imparato parecchie volte. Anzi, rabbrividisco facilmente, per i piú diversi motivi. Mi stupisce soltanto che le ghiandole si erigano in cosí varie occasioni. Quando uno striscia una punta metallica sul vetro, mi viene la pelle d'oca, quando ascolto una musica molto bella, mi viene pure, e quando andai la prima volta alla comunione, la ebbi di continuo, non la smetteva piú di frizzare e pizzicare. E' strano, ammetterà, quanti motivi mai possano mettere in moto quei muscoletti. Che vuole? disse Behrens. Uno stimolo vale l'al tro. Al corpo l'essenza d'uno stimolo non importa un fico secco. O ghiozzi o eucaristia, fatto è che le ghiandole sebacee si erigono. Scusi, consigliere continuò Castorp guardando il ritratto che teneva sulle ginocchia, vorrei tornare indietro un momento.

Lei ha parlato dianzi di fenomeni interni, del moto linfatico o qualcosa di simile... Che cosa sarebbe? Mi piacerebbe saperne di piú, sul movimento della linfa, per esempio. Vuol avere la compiacenza? M'interessa molto. Lo credo rispose Behrens. La linfa è la cosa piú fine, piú intima, piú delicata di tutto l'organismo... lei se la figura in qualche modo, se ha formulato la domanda. Si parla sempre del sangue e dei suoi misteri, come di un succo particolare. E' la linfa invece il succo dei succhi, l'essenza, capisce, il latte del sangue, un liquido deliziosissimo,... nel caso di alimentazione grassa somiglia realmente al latte. E col suo stile fiorito si mise allegramente a spiegare come il sangue, un brodo di grasso, albumina, ferro, sale e zucchero, rosso come un manto teatrale, prodotto dalla respirazione e dalla digestione, saturato di gas, carico di scorie di sfaldamento, che a un calore di trentotto gradi è spinto dalla pompa cardiaca attraverso i vasi e in tutto il corpo, sostenga il metabolismo, il calore animale, insomma la cara vitaccia,... come, cioè, il sangue non giunga direttamente a contatto con le cellule, ma la pressione che subisce ne faccia trasudare dalle pareti dei vasi un estratto, un succo latteo, e lo prema nei tessuti, di modo che arrivi da per tutto, e nella sua qualità di liquido istologico empia ogni piú piccola fessura e dilati e tenda l'elastico parènchima. Questa sarebbe la tensione dei tessuti, il turgore, il quale a sua volta fa sí che la linfa, dopo aver lambito le cellule e scambiato sostanze con esse, venga cacciata nei vasi linfatici e rifluisca nel sangue: un litro e mezzo al giorno. Behrens descrisse il sistema tubolare dei vasi linfatici, parlò dell'afflusso di latte al seno che raccoglie la linfa delle gambe, del ventre e del petto, d'un braccio e di una parte del corpo, poi di sensibili filtri disposti lungo il decorso dei vasi linfatici, detti ghiandole linfatiche e presenti nel collo, nelle ascelle, nell'articolazione del gomito e nel poplite, e in simili punti intimi e delicati. Ora, vi si possono formare inturgidimenti, come dicevamo da principio spiegò Behrens, ingrossamenti delle ghiandole linfatiche, poniamo nei popliti o nell'articolazione del braccio, enfiagioni qua e là di forma idropica, le quali hanno sempre una loro ragione, anche se non proprio bella. Talvolta sorge vivo il sospetto che si tratti di un'ostruzione tubercolare dei vasi linfatici. Castorp taceva. Già mormorò dopo una pausa, avrei potuto davvero fare il medico. L'afflusso di latte al seno... La linfa delle gambe... Interessantissimo. Cosa è mai la carne, il corpo umano! Di che cosa è fatto? Ce lo dica, lei, consigliere, oggi stesso! Ce lo dica una volta per sempre, con precisione, perché lo vogliamo sapere. Di acqua rispose Behrens. Dunque le piace anche la chimica organica? Il corpo umanistico consta per la massima parte di acqua, niente di meglio e niente di peggio, non è il caso di agitarsi. La sostanza secca arriva soltanto fino al venticinque per cento, e di questa il venti per cento è comune albume d'uovo di gallina, proteine, se vuol usare una parola piú scelta, alle quali è aggiunto soltanto un po' di grasso e di sale: e questo, possiamo dire, è tutto. Ma l'albume dell'uovo di gallina, che cos'è? Una serie di elementi: carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, zolfo. Qualche volta anche fosforo.

Ma lei ha una sconfinata smania di sapere! Certi albumi sono combinati con carboidrati, come dire con glucosio e amido. Con l'età la carne si fa tigliosa, e ciò dipende dal fatto che il collageno aumenta nel tessuto connettivo, la colla, capisce, che è un costituente fondamentale delle ossa e delle cartilagini. Che vuole che le spieghi anCora? Ecco, nel plasma dei muscoli troviamo un albume, il miosinogeno, che con la morte si coagula in fibrina muscolare e determina la rigidità cadaverica. Già, già, la rigidità cadaverica disse Castorp allegramente. Bene, bene. E poi viene l'analisi generale, l'anatomia sepolcrale. Certo, va da sé. Lei lo ha formulato molto bene. Poi la faccenda diventa prolissa. Ci si squaglia, per cosí dire. Pensi a tutta quell'acqua! E gli altri ingredienti privi della vita, si conservano poco, la putrefazione li scompone in combinazioni piú semplici, inorganiche. Putrefazione, corruzione commentò Castorp, è come chi dicesse combustione, per quanto ne so, combinazione con l'ossigeno. Perfettamente, ossidazione. E la vita? Anche. Anche, giovanotto. Sempre ossidazione. La vita è soprattutto combustione ossigenata dell'albume cellulare, donde viene il bel calore animale, che certe volte è eccessivo. Eh sí, vivere è morire, non c'è da farsi illusioni... une destruction organique, come ha detto non so quale francese nella sua consueta fatuità. Ne ha anche l'odore, la vita. E se ci sembra diverso, vuol dire che il nostro giudizio è prezzolato. E quando ci si interessa alla vita soggiunse Castorp, ci si interessa specialmente alla morte. Non è cosí? Be', una certa differenza c'è ancora. La vita significa che nel ricambio della materia si conserva e rimane la forma. A che conservare la forma? domandò Castorp. A che SCOpO? Senta, la sua osservazione non è affatto umanistica, neanche un poco. La forma non importa. Oggi, si vede, lei è in vena intraprendente, direi quasi aggressivo. Io invece vado alla deriva disse il consigliere. Mi viene la malinconia aggiunse coprendosi gli occhi con la mano enorme. Vede, cosí mi piglia. Ora che ho preso il caffè con loro, e l'ho bevuto volentieri, mi agguanta all'improvviso e divento triste. Vi prego, signori, di scusarmi. Mi ha fatto molto piacere e mi sono proprio divertito... I cugini si erano alzati subito. Erano veramente mortificati, dissero, di aver incomodato... tanto tempo... Egli li rassicurò del contrario. Castorp si affrettò a riportare il ritratto della Chauchat nell'altra stanza e a riappenderlo al suo posto. Per tornare alle loro sedi non ripassarono dal giardino.

Behrens insegnò loro la via attraverso il palazzo e li accompagnò fino alla vetrata di comunicazione. Nello stato d'animo che l'aveva colto pareva che la sua nuca fosse piú prominente del solito, strizzava gli occhi gonfi, e i baffi, obliqui perché le labbra erano arricciate da una parte sola, avevano assunto un aspetto pietoso. Mentre passavano per scale e corridoi, Castorp osservò: Ammetterai che è stata una mia idea felice. In ogni caso è stato un diversivo rispose Joachim. E bisogna dire che avete approfittato dell'occasione per discorrere di varie cose. Per me è stato un po' un guazzabuglio. E' ora però che prima del tè andiamo a compiere il nostro dovere, almeno venti minuti. Tu pensi forse che è un'esagerazione da parte mia insistere tanto,... intraprendente come sei da qualche tempo. Ma alla fin fine tu ne hai meno bisogno di me. Indagini. Cosí avvenne ciò che doveva avvenire, ciò che Castorp fino a poco prima non avrebbe mai immaginato di dover vedere: venne l'inverno, l'inverno locale che Joachim conosceva già, poiché al suo arrivo il precedente era stato ancora in pieno vigore; Castorp ne aveva un po' di paura, benché sapesse di essere ottimamente attrezzato. Suo cugino cercò di tranquillarlo. Non te lo devi figurare troppo feroce disse, non proprio artico. Il freddo lo si avverte poco, perché l'aria è asciutta e non tira vento. Quando si e bene imballati si può rimanere sul balcone fino a notte inoltrata senza gelare. E' la questione del rovesciamento della temperatura al di sopra della nebbia, nelle zone superiori fa piú caldo, cosa che una volta non si sapeva. Fa freddo piuttosto quando piove, ma ormai hai il tuo sacco a pelo, e quando si arriva alle strette si accendono un poco i caloriferi. )> D'altro canto non fu una sopraffazione o un assalto di sorpresa, l'inverno arrivò dolcemente, per il momento non era molto diverso da certe giornate che si erano viste già nel colmo dell'estate. Per qualche giorno il vento aveva soffiato da sud, il sole era pesante, la valle sembrava accorciata e ristretta, le quinte alpine dell'uscita parevano vicine e fiacche. Poi montarono le nubi, avanzarono dal Piz Michel e dal Tinzenhorn verso nord-est, e la valle si oscurò. Indi si mise a piovere sodo. In seguito la pioggia divenne grigia, lattiginosa, mista a neve, e LA MONTAGNA LNCANTATA 445 infine cadde soltanto la neve, la valle era coperta dalla tormenta, e siccome in questo modo si andò avanti parecchio, e nel frattempo la temperatura era scesa alquanto, la neve non poté sciogliersi del tutto, era bagnata, ma rimase, la valle aveva indossato un abito sottile, umido, d'un bianco a strappi, contro il quale si stagliavano nere le conifere dei versanti. Nella sala da pranzo i tubi erano tiepidi. Cosí fu al principio di novembre, intorno ai Morti, e non fu una novità.

Anche in agosto era stato cosí, e da un pezzo si era perduta la consuetudine di considerare la neve una prerogativa dell'inverno. Sempre e con ogni tempo, sia pure soltanto da lontano, se ne era avuta davanti agli occhi, poiché tracce e rimasugli se ne vedevano balenare sempre nelle crepe e fenditure della rocciosa catena del Ratikon che pareva chiudesse l'ingresso della valle, e i piú distanti sovrani della montagna a sud avevano sempre mandato lassú il loro saluto nevoso. Ma entrambi perseverarono, la caduta della neve e il regresso della temperatura. Il cielo incombeva basso, grigio, scialbo sopra la valle, si scioglieva in fiocchi che cadevano senza posa, in silenzio, e di ora in ora l'aria si faceva piú fredda. Venne il mattino in cui Castorp si trovò nella sua camera con sette gradi, e la mattina seguente non ce n'era che cinque. Era il gelo, sempre entro limiti discreti, ma continuo. Di notte era gelato, ora gelò anche di giorno, e precisamente da mattina a sera, e continuò a nevicare il quarto, il quinto, il settimo giorno. La neve si andò accumulando, presto divenne un ostacolo. 446

TIOMAS MANN Sulla strada obbligata fino alla panchina del ruscello e sulla

carrozzabile che scendeva a valle si erano spalati passaggi per pedoni, ma erano stretti, non si poteva cedere il passo, incontrando qualcuno bisognava spostarsi sull'argine di neve e vi si affondava fino al ginocchio. Un rullo di pietra, tirato da un cavallo che un uomo guidava con la cavezza, passava tutto il giorno per le strade del villaggio, e una slitta gialla, dall'aspetto d'un'antica diligenza postale, con lo spartineve che spingeva ai lati i cumuli bianchi, faceva servizio tra il quartiere delle case di cura e la parte nord del luogo chiamata Dorf. Il mondo ristretto, alto, isolato, degli ospiti di lassú, apparve impellicciato e ovattato, non c'era palo o colonna che non portasse una cuffia candida, i gradini davanti al portone del Berghof scomparvero, si mutarono in un piano inclinato, cuscini pesanti, di forma buffa, premevano da per tutto i rami degli abeti, ogni tanto uno di quei carichi scivolava giú, si scioglieva in un polverío e come nebbia o nube bianca scorreva fra i tronchi. La montagna intorno era coperta di neve, dura nelle zone inferiori, morbida sulle multiformi cime sovrastanti il limite del bosco. Era buio, il sole non era che un pallido barlume dietro a quei veli. La neve però mandava una luce indiretta e moderata, un chiarore latteo che stava bene al mondo e alle persone, anche se sotto i berretti di lana bianca o colorata i nasi erano rossi. Nella sala da pranzo, alle sette tavole, la comparsa del l'inverno, la grande stagione di quelle regioni, era al centro delle conversazioni. Numerosi turisti e sportivi, LA MONTAGNA LNCANTATA

447 si diceva, erano arrivati e

popolavano gli alberghi di Dorf e di Platz. La neve, si calcolava, aveva raggiunto i sessanta centimetri e, vista dagli sciatori, era ideale.

Alla pista di bob che sul versante di nord-ovest scendeva dalla Schatzalp al fondovalle si lavorava assiduamente e già nei prossimi giorni la si poteva inaugurare, sempre che il Fohn non venisse a rompere le uova nel paniere. Con gioia si aspettava l'animazione recata dai sani, dai nuovi arrivati, le feste sportive e le gare, alle quali ci si preparava ad assistere, anche se era vietato, marinando la cura a sdraio e scappando di nascosto. C'era, udí Castorp, anche una novità, un'invenzione nordica, lo skikjoring, una corsa nella quale lo sciatore in piedi sugli sci si fa trainare da un cavallo. Per questo si voleva svignarsela. Anche del Natale si discorreva. Il Natale! Castorp non ci aveva pensato ancora. Gli era stato facile dire e scrivere che in base al referto medico doveva passare lí l'inverno insieme con Joachim. Ma ciò - ora lo notava - comprendeva anche il Natale, ed era senza dubbio un pensiero pauroso, già per il fatto, ma non soltanto per il fatto che egli non aveva mai passato le feste natalizie se non in patria, nella cerchia della famiglia. Pazienza, bisognava rassegnarsi anche a questo. Non era piú un ragazzino. Joachim, a quanto pareva, non se ne sentiva affatto urtato, anzi se la pigliava senza piagnucolare, e poi dove e in quali circostanze non si è festeggiato il Natale nel mondo intero? Ciò nonostante gli sembrava intempestivo discorrere di Natale prima che cominciasse l'avvento; mancavano 448 THOMAS MANN ancora sei settimane abbondanti. Le quali però nella sala da pranzo venivano scavalcate e inghiottite,... procedimento interiore che Castorp aveva imparato a capire a sue spese, anche se non era ancora avvezzo ad applicarlo con l'ardita disinvoltura dei compagni residenti lassú da maggior tempo. Le tappe annuali, come la festa natalizia, erano benvenuti punti d'appoggio e attrezzi ginnici sui quali si poteva volteggiare agilmente oltre intervalli vuoti. Tutti avevano la febbre, il loro ricambio era intensificato, la vita fisica rafforzata e accelerata,... perciò forse facevano scorrere il tempo cosí velocemente e a grandi blocchi. Egli non si sarebbe stupito se avessero considerato già passato il Natale e si fossero messi a parlare di capodanno e carnevale: ma al Berghof non si era cosí leggeri e avventati, a Natale ci si fermava, anche perché era un periodo di apprensioni e rompicapi. Si discuteva del regalo comune che, secondo l'usanza vigente, si doveva offrire aI direttore, al consigliere Behrens, la sera della vigilia; e per esso si era avviata una colletta. L'anno precedente gli avevano donato una valigia, come riferirono quelli che erano lí da piú di un anno. Questa volta si fecero varie proposte: una nuova tavola operatoria, un cavalletto da pittore, una pelliccia da passeggio, una sedia a dondolo, uno stetoscopio di avorio o in qual che modo intarsiato, e Settembrini, interrogato, suggerí il dono d'un'opera enciclopedica, che era in preparazione, dal titolo Sociologia delle sofferenze: ma incontrò soltanto il consenso di un libraio che da poco sedeva alla tavola della Kleefeld. Un accordo non si era ancora ottenuto.

LA MONTAGNA LNCANTATA

449 Difficile era intendersi con gli ospiti russi.

La colletta seguí due correnti. I moscoviti dichiararono di voler pensare a un dono per conto loro. La signora Stohr si mostrò parecchi giorni molto inquieta per un importo di dieci franchi che a proposito della colletta aveva sventatamente versato per la signora Iltis, la quale si era "scordata" di restituirlo. "Scordata": le intonazioni con le quali la Stohr pronunciava questa parola erano variamente graduate, ma tutte miranti a manifestare la massima incredulità per una dimenticanza, renitente, pareva, a tutte le allusioni e le sollecitazioni della memoria, che la Stohr, a quanto assicurava, non le faceva mancare. Rinunciò, la Stohr, ripetutamente e dichiarò che condonava il debito alla lltis. Pago dunque per me e per lei diceva. Bene, la vergogna non è mia. Infine però aveva trovato una via d'uscita che, con loro grande spasso, comunicò ai commensali: si era fatta versare i dieci franchi dall'Amministrazione che l'aveva messi in conto alla Iltis,... e con ciò la tarda debitrice era sconfitta con l'astuzia, e tutta la faccenda sistemata. Era cessato di nevicare. Il cielo si aprí in parte; le nubi grigiazzurre, squarciatesi, lasciarono passare raggi di sole che tinsero il paesaggio d'una luce celestina. Poi venne il sereno. C'era un freddo puro, limpido, una costante magnificenza invernale a metà novembre, e il panorama dalle arcate del balcone, i boschi incipriati, le gole colme di neve candida, la bianca valle soleggiata sotto il cielo luminoso offrivano uno spettacolo stupendo. La sera specialmente, quando appariva la luna quasi piena, il mondo era un incanto meraviglioso. Da per tutto un luccichio cristallino, un folgorio di diamanti. I boschi erano candidi e neri, le zone del cielo lontane dalla luna, buie e trapunte di stelle. Ombre nette, precise, intense, che sembravano piú reali e tangibili delle cose stesse, erano proiettate dalle case, dagli alberi, dai pali del telegrafo sul piano scintillante. Un paio d'ore dopo il tramonto si arrivava a sette, otto gradi sotto zero. Il mondo pareva stretto in una purità glaciale, la sua naturale sporchezza ricoperta e irrigidita nel sogno d'una fantastica magia mortale. Hans Castorp rimaneva fino a tarda notte sul balcone sopra l'incantata valle invernale, molto piú a lungo di Joachim che si ritirava alle dieci o non molto piú tardi. La sua eccellente sedia a sdraio col cuscino tripartito e il rullo per il collo era spinta contro il parapetto di legno sul quale si era posato un cuscino di neve; a fianco, sul tavolinetto candido era accesa la lampadina elettrica, accanto a una pila di libri e a un bicchiere di latte grasso, il latte della sera, che alle nove era portato in camera a tutti gli inquilini del Berghof; Castorp vi versava un po' di cognac per renderlo piú piacevole al gusto. Aveva giá mobilitato tutti i ripari contro il freddo, tutta l'apparecchiatura. Fino al petto era infilato nell'abbottonabile sacco a pelo che aveva acquistato tempestivamente in un negozio del ramo, e vi aveva avvolto, secondo il rito, le due coperte di cammello.

Oltre a ciò portava sopra il vestito invernale una giacchetta di pelliccia, in testa un berretto di lana, ai piedi scarpe di feltro e alle mani grossi guanti foderati, 1nsufficienti però a evitare che gli si irrigidissero le dita. Il motivo che lo tratteneva a lungo là fuori, fin verso e oltre la mezzanotte (quando la incolta coppia russa aveva lasciato da un pezzo il balcone), era certo anche il fascino della notte invernale, tanto piú che fino alle undici vi s'inseriva una musica che saliva dalla valle, ora vicina, ora piú lontana... ma soprattutto l'inerzia e il lavorio mentale, uniti e collegati: l'inerzia cioè e stanchezza fisica, contraria al moto, e il vivace interessamento del suo spirito, il quale essendosi applicato a certi studi nuovi e avvincenti non trovava pace. Il tempo lo infiacchiva, il gelo stancava e consumava il suo organismo. Mangiava molto, sfruttava i pantagruelici pasti del Berghof nei quali il filetto di bue era seguito dall'oca arrosto, con quel l'inconsueto appetito che aveva sempre e d'inverno, come poté notare, ancora piú che d'estate. Nello stesso tempo soffriva di sonnolenza, sicché di giorno e nelle sere di luna si addormentava spesso sui libri, che studiava e che descriveremo, per riprendere le sue indagini dopo qualche minuto d'incoscienza. Parlare con vivacità (e lí piú che a suo tempo in pianura era portato a parlare veloce, senza riguardi, persino spericolatamente), quel discorrere vivace con Joachim durante le passeggiate di servizio nella neve lo affaticava assai; vertigini e tremiti, un senso di stordimento ed ebbrezza lo prendevano, e la testa gli scottava. Dopo la comparsa dell'inverno la sua curva era salita e Behrens aveva fatto allusione a iniezioni cui era solito ricorrere nei casi di temperatura ostinata, alle quali i due terzi degli ospiti, anche Joachim, dovevano assoggettarsi regolarmente. L'aumentata produzione di calore del suo corpo, pensò Castorp, dipendeva però certamente dall'eccitazione e operosità mentale che a sua volta lo teneva legato alla sedia a sdraio fino a tardi, nella notte gelida e scintillante. Le letture avvincenti che stava seguendo gli suggerivano questa spiegazione. Si leggeva parecchio nelle verande e sui balconi privati del sanatorio internazionale, specie da parte dei principianti e di chi ci veniva per brevi soggiorni: infatti quelli che ci stavano molti mesi o addirittura anni avevano già imparato ad ammazzare il tempo, e a lasciarselo alle spalle, anche senza distrazioni od occupazioni mentali, anzi dichiaravano che aggrapparsi a un libro era azione di schiappini inesperti; e in ogni caso tenerne uno in grembo o sul tavolino accanto a sé era del tutto sufficiente per sentirsi a posto. La biblioteca del sanatorio, poliglotta e ricca di libri illustrati, una specie di ampliata raccolta delle letture divertenti nella sala d'aspetto dei dentisti, era a disposizione di tutti. Si scambiavano anche romanzi della biblioteca circolante di Platz. Ogni tanto compariva un libro, una pubblicazione che andava a ruba, alla quale anche coloro che non leggevano piú aspiravano con una flemma che però era ipocrita. Nel momento in cui siamo arrivati passava di mano in mano un fascicolo stampato alla peggio, importato dal signor Albin e intitolato L'arte di sedurre.

Era tradotto molto letteralmente dal francese conservando persino la sintassi di questa lingua, donde gli derivava uno stile sostenuto e una piccante eleganza, e svolgeva la filosofia dell'amore carnale e della voluttà secondo lo spirito d'un paganesimo allegro e mondano. La signora Stohr lo lesse subito e le parve "inebriante". La Magnus, quella stessa che perdeva albumina, fu d'accordo con lei senza riserve. Suo marito, il birraio, dichiarò che a quella lettura aveva imparato, sí, qualcosa, ma si rammaricò che l'avesse letto la sua consorte, perché quella roba "vizia" le donne e inculca loro idee immodeste. Questo giudizio aumentò non poco la richiesta del libretto. Tra due signore della veranda sottostante, arrivate in ottobre, la signora Redisch, moglie d'un industriale polacco, e una vedova berlinese, certa Hessenfeld, ciascuna delle quali asseriva di essersi prenotata a quella lettura prima dell'altra, si svolse, dopo pranzo, una scena piú che spiacevole, anzi violenta, che Castorp fu costretto ad ascoltare dal suo balcone; terminò poi con strilli convulsi e isterici da parte di una di loro - poteva essere la Redisch, ma poteva anche essere la Hessenfeld - e con il trasporto della infuriata nella sua camera. I giovani si erano impadroniti del trattato prima delle classi piú anziane e se lo studiavano anche insieme in diverse camere. Castorp vide il giovane dell'unghia, mentre nella sala da pranzo lo consegnava a una giovane malata, non grave, arrivata di fresco, certa Franzchen Oberdank, una biondina coi capelli divisi in due bande, che la mamma aveva accompagnata lassú poco tempo prima. Forse c'erano eccezioni, persone che empivano le ore obbligate della sedia a sdraio con qualche seria occupazione intellettuale, con qualche studio utile per un verso o per l'altro, sia pure al solo scopo di mantenere un collegamento con la vita del piano o per conferire al tempo un po' di peso e di profondità, affinché non fosse soltanto tempo o magari niente affatto. Oltre al signor Settembrini con i suoi sforzi di eliminare le sofferenze e all'onorato Joachim con i suoi manuali di russo, c'era forse qualche altro che agiva cosí, se non tra i frequentatori della sala da pranzo, com'era realmente poco probabile, almeno tra i malati costretti a letto e tra i moribondi: Castorp era disposto a crederlo. In quanto a lui, a suo tempo, quando gli Ocean steamships non avevano piú nulla da dirgli, si era fatto inviare da casa, insieme con l'occorrente per l'inverno, anche alcuni libri riferentisi alla sua specialità, opere d'ingegneria, opere scientifiche sulla tecnica delle costruzioni navali. Questi volumi però erano trascurati in favore di altri manuali, appartenenti a tutt'altro ramo, a tutt'altra facoltà, a una materia cui il giovane aveva preso gusto. Erano libri di anatomia, fisiologia e biologia, in diverse lingue, tedeschi, francesi, inglesi, che un giorno gli furono mandati dal libraio del luogo, evidentemente perché li aveva ordinati, e proprio di sua iniziativa, alla chetichella, durante una passeggiata che aveva fatto a Platz senza Joachim (il quale aveva dovuto presentarsi per l'iniezione e la pesatura). Joachim restò sorpreso quando li vide tra le mani di suo cugino. Erano molto cari, come sono appunto le opere scientifiche; il prezzo era ancora segnato nell'interno della copertina e sulle sopraccoperte.

Domandò perché, volendo proprio leggere libri del genere, non se li fosse fatti prestare dal direttore che pur doveva possederne una buona scelta. Castorp rispose che preferiva averli di suo, è assai diverso leggere volumi propri, e poi gli piaceva intervenire con la matita e sottolineare. Per ore e ore Joachim udiva dalla loggia del cugino il rumore del tagliacarte che apriva i sedicesimi in brossura. I volumi erano pesanti, poco maneggevoli; coricato, Castorp li appoggiava col margine inferiore sul petto, sullo stomaco. Premevano, ma egli accettava anche questo; a labbra socchiuse faceva scorrere lo sguardo giú per le dotte pagine che era quasi inutile illuminare con la luce rossastra della lampadina schermata, perché in caso di necessità le avrebbe potute leggere al chiaro lume della luna,... seguiva con la testa finché il mento gli toccava il petto, e in quella positura il lettore si soffermava un po', riflettendo, pisolando o pensando nel dormiveglia, prima di alzare il viso alla pagina successiva. Studiava sul serio e, mentre la luna percorreva la via prescritta sopra la valle d'alta montagna in un luccichio di cristalli, leggeva osservazioni sulla materia organica, sulle qualità del protoplasma, sulla sostanza sensibile che si mantiene stranamente sospesa tra la formazione e il dissolvimento, e sulla sua origine da forme iniziali, fondamentali, ma sempre presenti; leggeva con vivo interessamento descrizioni della vita e del suo impuro e sacro mistero. Che cos'è la vita? Non si sa. Non appena è vita, ha coscienza di sé, senza dubbio, ma non sa che cosa sia. La coscienza in quanto sensibilità agli stimoli si desta, senza alcun dubbio, fino a un certo punto già negli stadi inferiori, meno informati della sua comparsa; non è possibile legare la prima presenza di fatti coscienti a un dato punto della sua storia generale o individuale, condizionare ad esempio, la coscienza all'esistenza di un sistema nervoso. Le infime forme animali non hanno sistema nervoso, men che meno un cervello, eppure nessuno osa negar loro la capacità di avvertire stimoli. Si può anche assopire la vita come tale, non soltanto i particolari organi della sensibilità che essa sviluppa, non solo i nervi. Nel regno vegetale e in quello animale si può annullare temporaneamente la sensibilità di ogni sostanza dotata di vita. Si possono narcotizzare uova e spermatozoi con cloroformio, idrato di cloralio o morfina. Coscienza di sé è dunque semplicemente una funzione della materia ordinata in modo che possa vivere e, rafforzata, la funzione si rivolge contro il proprio substrato, diventa l'aspirazione a sondare e spiegare il fenomeno prodotto, aspirazione, piena di speranze e disperata, della vita a conoscere se stessa, uno sforzo di natura per scandagliare e scavare dentro di sé, sforzo vano in fin dei conti, dato che la natura non può risolversi in conoscenza, la vita non può in fondo indagare se stessa. Che cos'è la vita? Nessuno lo sa. Nessuno conosce il punto naturale da cui scaturisce, in cui si accende.

Da quel punto in poi non c'è nulla di immediato o malmediato nell'ambito della vita: la vita stessa invece appare immediata. Se qualcosa se ne può dire, sarebbe questo: essa dev'essere di una fattura tanto evoluta che nel mondo inanimato non si trova neanche lontanamente qualcosa che le stia a pari. Tra l'ameba pseudopodia e il vertebrato il distacco è esiguo, non importante, in confronto a quello che corre tra il piú rudimentale fenomeno di vita e quella natura che non merita neanche di essere definita morta, perché è inorganica. La morte infatti è soltanto la logica negazione della vita; ma tra la vita e la natura inanimata c'è un abisso che la scienza tenta invano di colmare. Si cercò di superarlo, questo abisso, con teorie che esso ingoia senza per questo perdere alcunché in profondità e larghezza. Per trovare un anello di congiunzione la scienza si prestò al controsenso dell'ipotesi di una materia vitale priva di struttura, di organismi disorganizzati, i quali precipiterebbero da sé nella soluzione albuminosa come il cristallo nell'acqua madre,... mentre il differenziamento organico rimane a un tempo condizione e manifestazione di ogni vita, e non si è scoperto nessun essere vivente che non debba la sua esistenza a una procreazione. L'esultanza con la quale si pescò il protoplasma dalla estrema profondità del mare fu alla fine un'umiliazione: risultò che si erano presi sedimenti di gesso per protoplasma. Ma per non doversi arrestare davanti a un miracolo - poiché la vita che si forma con le stesse sostanze della natura inorganica sarebbe improvvisamente un miracolo - si è costretti a credere nella generazione spontanea, cioè nell'origine dell'organico dall'inorganico, che d'altronde è anch'essa un miracolo. Cosí si continua a escogitare stadi intermedi, a congetturare l'esistenza di organismi inferiori a tutti quelli che si conoscono, che però sarebbero preceduti da tentativi di vita naturale ancor piú primitivi, da probii che nessuno vedrà mai perché sarebbero al di sotto di ogni dimensione microscopica, e la sintesi di combinazioni albuminose dovrebbe essere avvenuta prima della immaginata origine di essi... Che cos'è dunque la vita? E' calore, il prodotto calorico di una sostanza sostenitrice di forme, una febbre della materia che coinvolge inarrestabile e inarrestabile accompagna il processo d'un'incessante dissociazione e ricostruzione di molecole d'albumina disposte con arte. E' l'essere del non poter essere, di ciò che, in questo complicato e febbrile processo di dissoluzione e di rinnovamento, sta a mala pena, con fatica dolce e penosa, in bilico sul punto dell'essere: non è materia e non è spirito è qualcosa d'intermedio, un fenomeno su base materiale come l'arcobaleno sopra la cascata e come la fiamma. Ma benché non materiale, è sensuale fino al piacere e alla nausea, l'impudenza della materia fattasi suscettibile ed eccitabile, la forma impudica dell'essere. E' un segreto e sensibile agitarsi nel casto gelo del tutto, una furtiva e voluttuosa impurità di assorbimento alimentare e di eliminazione, un respiro secretorio di acido carbonico e di cattive sostanze di qualità e provenienza occulte. E' il rigoglio, lo sviluppo, la formazione - resi possibili dalla supercompensazione della loro incostanza e fissati entro innate forme formative - di un turgido composto d'acqua, albumina, sale e grassi, che

chiamiamo carne e diventa forma, elevata immagine, bellezza, pur essendo la quintessenza della sensualità e della brama. Questa forma infatti e questa bellezza non hanno per base lo spirito, come le opere politiche e musicali, e nemmeno una sostanza neutra, consumata dallo spirito, che innocentemente simboleggi lo spirito, come la forma e la bellezza delle opere figurative. Sono invece sorrette e sviluppate dalla sostanza destatasi misteriosamente alla voluttà, dalla stessa materia organica che esiste e si corrompe, dalla carne odorante... Al giovane Hans Castorp, che sopra la valle scintillante riposava nel calore del suo corpo protetto da lana e pel liccia, nella gelida notte rischiarata dal lume del morto satellite, si presentò l'immagine della vita: gli apparve, in qualche parte dello spazio, lontano e pur tangibile, il corpo, opaco e bianchiccio, esalante vapore e odore, appiccicoso, la pelle, con tutta la sporcizia e i difetti della sua natura, con le sue macchie, papille, chiazze gialle, screpolature e zone granulose o squamose, ricoperta dei teneri fiumi e vortici della lanuggine rudimentale. Separata dal gelo delle cose inanimate, l'immagine della vita sorgeva nella sua sfera di vapori, indolente, il capo incoronato di un che di fresco, di corneo, di pigmentato, prodotto dalla sua pelle, le mani intrecciate dietro la nuca, e di sotto alle palpebre abbassate guardava l'osservatore con occhi che una varietà di forma della palpebra faceva sembrare obliqui, le labbra semiaperte, un po' arricciate, appoggiata a una delle gambe di modo che il pesante osso iliaco risaltava alquanto nella sua carne, mentre il ginocchio della gamba rilassata, lievemente piegato, col piede posato sui diti, toccava la parte interna della gamba gravata dal peso. Stava cosí rigida e sorridente, avvolta nella sua grazia, puntati in avanti i bianchi gomiti nella pari simmetria della struttura fisica, dei caratteri del corpo. All'oscurità fortemente odorante delle ascelle corrispondeva nel triangolo mistico la notte del grembo, come agli occhi corrispondeva l'apertura della bocca dal rosso epitelio, ai bocciòli rossi del seno l'ombelico allungato sulla verticale. Sotto la spinta di un organo centrale e di nervi motori partenti dal midollo spinale si movevano il ventre e la cassa toracica, la cavità pleuroperitoneale si espandeva e si restringeva, il respiro scaldato e inumidito dalle mucose della trachea, saturo di sostanze da eliminare, sgorgava di tra le labbra dopo aver fissato, negli alveoli polmonari, il suo ossigeno all'emoglobina del sangue per la respirazione interna. Castorp infatti si rendeva conto che questo corpo vitale, nel misterioso equilibrio della sua struttura alimentata dal sangue, irrorata dalla linfa, in un reticolato di nervi, vene e arterie e filtri capillari, con la sua interna impalcatura di ossa tubolari piene di midollo adiposo, di ossa piatte, di vertebre, le quali dall'originaria sostanza d'appoggio, dal tessuto glutinoso, si sono consolidate con l'ausilio di sali di calcio e colla, per sostenerlo; con le capsule e cavità lubrificate da yischiosa sinovia, con i tendini e le cartilagini delle articolazioni, i suoi piú di duecento muscoli, i suoi organi centrali deputati all'alimentazione, alla respirazione, all'invio e alla recezione di stimoli, con le sue membrane protettive, le sue cavità sierose, le ghiandole secretorie, l'insieme di canali e solchi della sua complicata faccia interna che attraverso aperture del corpo sbocca nella natura esterna: che questo io è un'unità di vita d'ordine elevato, ben lontana dalla qualità di quegli esseri semplicissimi che con tutta la superficie del loro corpo respirano, si nutrono e

persino pensano; un'unità invece costrutta con miriadi di siffatti microrganismi, i quali presero l'avvio da un solo, si moltiplicarono per scissioni sempre ricorrenti, si ordinarono, sceverarono e svilupparono apposta in diverse posizioni di servizio e associazioni, ed emisero forme che sono condizione ed effetto della loro crescita. Il corpo che aveva in mente, essere singolo ed io vivente, era dunque un'enorme moltitudine di individui che respirano e si nutrono, i quali in seguito all'inquadramento organico e al delineamento del fine particolare hanno perduto il carattere dell'io, la libertà, l'immediatezza vitale, sono diventati elementi anatomici a tal punto che il compito di alcuni si limita unicamente alla sensibilità agli stimoli della luce, del sonno, del contatto, del calore, altri non sanno che modificare per contrazione la loro forma o produrre secrezioni digerenti, altri ancora sono esclusivamente capaci e addestrati a proteggere, aiutare, inoltrare i succhi o a procreare. Ci sono rilassamenti di questa pluralità organica, unita a formare l'io elevato, casi nei quali la pluralità dei sottindividui è raccolta soltanto in maniera leggera e problematica nella superiore unità di vita. Il discente rifletteva sul fenomeno delle colonie di cellule, apprendeva nozioni intorno a semiorganismi, a certe alghe, le cui singole cellule, avvolte soltanto in un involucro di gelatina, sono spesso lontane l'una dall'altra, formazione pluricellulare certo, le quali però, se interrogate, non saprebbero dire se vogliano essere considerate colonie di individui unicellulari o esseri singoli e nella loro propria testimonianza oscillerebbero stranamente tra l'io e il noi. Qui la natura presenta uno stato medio fra l'unione altamente sociale di innumerevoli individui elementari per formare tessuti e organi d'un io superiore... e la libera esistenza singola di questi esseri semplici: l'organismo multicellulare è soltanto una forma fenomenica del processo ciclico nel quale si svolge la vita, cioè in un circolo da procreazione a procreazione. L'atto di fecondazione, la fusione sessuale di corpi cellulari, sta al principio dell'edificio di ogni individuo plurimo, come stette al principio di ogni serie di generazioni di esseri elementari, viventi una vita singola, per ritornare poi a se stesso. Questo atto si mantenne per numerose generazioni che non ne avevano bisogno per moltiplicarsi mediante divisioni sempre ripetute, finché venne un momento in cui i discendenti formatisi asessualmente si videro obbligati a rinnovare l'accoppiamento, e cosí il cerchio si chiuse. Cosí il molteplice stato della vita, scaturito dalla fusione nucleare di due cellule genitrici, è la convivenza di numerose generazioni di individui cellulari, sorte asessualmente; la sua crescita è la loro moltiplicazione, e il ciclo generativo si chiude quando cellule sessuali, elementi formati per il fine particolare della procreazione, vi si sono prodotte e hanno trovato la via attraverso una copulazione che sprona di nuovo la vita. Con un volume di embriologia appoggiato sulla fossetta epigastrica il giovane avventuriero seguiva l'evoluzione dell'organismo dall'istante in cui lo spermatozoo, uno del novero e questo per primo, spingendosi avanti col moto serpeggiante del posteriore flagello, urta con la testa contro l'involucro dell'uovo e penetra nella membrana che il protoplasma ha incurvato quasi a muovergli incontro. Nessuno saprebbe escogitare uno scherzo o una farsa in cui la natura non si sia seriamente compiaciuta di variare questo stabile procedimento.

Ci sono animali il cui maschio fa vita da parassita nell'intestino della femmina; altri, nei quali il braccio del genitore s'introduce attraverso le fauci nelle viscere della genitrice per deporvi la sua seminagione, dopo di che, staccato con un morso e sputato, se ne fugge sulle dita, beffando la scienza che per molto tempo ha creduto di doverlo interpellare in greco-latino come creatura autonoma. Castorp sentiva litigare tra loro le dotte scuole degli ovulisti e degli animalculisti, dei quali gli uni avevano sostenuto che l'uovo è una rana, un cane, un uomo in sé completo e il seme soltanto il promotore della sua crescita, mentre gli altri scorgevano nella cellula sessuale, fornita di testa, braccia e gambe, una creatura preformata, cui l'uovo serve sol tanto da alimento... finché si era trovato un accordo, di riconoscere cioè ugual merito all'ovocellula e al gamete maschile, derivati da cellule di riproduzione originariamente indistinguibili. Egli vedeva l'organismo unicel lulare dell'uovo fecondato in procinto di maturarsi, per solcatura e segmentazione, in uno pluricellulare, vedeva i protoplasti unirsi nella lamina della mucosa, la blastula invaginarsi e formare una coppa, una cavità che inizia il lavoro della nutrizione e della digestione: si trattava dell'archenteron, del protozoo, della gastrula, la forma basilare di ogni vita animale, la forma basilare della bellezza fondata sulla carne. I suoi due strati epiteliali, il foglietto embrionale esterno e quello interno, l'ectoderma e l'endoderma, gli apparvero come organi primitivi, dai quali per rientramenti e rovesciamenti hanno origine le ghiandole, i tessuti, gli organi dei sensi, le appendici del corpo. Una striscia dell'ectoderma s'ingrossa, si piega fino a formare una scanalatura che diventa il tubo dei nervi, la colonna vertebrale, il cervello. E come la mucosa fetale si consolida nel fibroso tessuto connettivo, nella cartilagine, in quanto le cellule delle mucose si mettono a produrre una sostanza collosa invece di mucosa, vedeva in alcuni punti le cellule del tessuto connettivo attirare dai succhi circolanti sali di calcio e grassi e ossificarli. Vedeva,l'embrione umano rattrappito, caudato, in nulla diverso da quello del porco, con l'enorme stelo ventrale e le estremità simili a informi tronconi, la maschera del viso curva sulla pancia enfiata, e ad una scienza, in cui l'idea del vero è tetra e lungi da ogni lusinga, il divenire di quell'embrione si presenta con la fugace ripetizione d'una filogenesi zoologica. Transitoriamente l'embrione ha fessure branchiali come una razza. Dalle fasi di evoluzione percorse sembrava lecito o necessario dedurre l'aspetto poco umanistico che l'uomo portato a termine deve aver avuto in epoca primordiale. Allora la sua pelle era coperta di fitto pelo e fornita di muscoli contrattili per scacciare gli insetti, l'estensione della mucosa nasale era enorme, le orecchie a ventola, mobili, vivacemente partecipi all'espressione del viso, molto piú adatte di oggi ad accogliere i suoni. Allora i suoi occhi, protetti da una terza palpebra mobile, i cui rudimenti sono l'epifisi, erano situati ai lati della testa, ad eccezione del terzo che era in grado di sorvegliare l'aria soprastante. Quell'uomo possedeva inoltre un intestino lunghissimo, molti molari e sacchi di risonanza alla laringe per poter urlare e portava le ghiandole sessuali maschili nell'interno della cavità pelvica. L'anatomia toglieva la pelle e preparava per il nostro studioso gli arti del corpo umano, gli mostrava i muscoli superficiali e quelli interni, i tendini e i fasci: quelli delle gambe, dei piedi e soprattutto delle

braccia, dell'omero e dell'avambraccio; gli insegnava i nomi latini coi quali la medicina, questa sfumatura dello spirito umanistico, li ha signorilmente e galantemente denominati e distinti, e lo portava avanti fino allo scheletro, la cui formazione gli offrí nuovi angoli visuali che gli permisero di scorgervi l'unità delle cose umane, il cerchio conchiuso di tutte le discipline. Questo infatti gli rammentò stranamente la sua vera e propria - o dobbiamo dire: precedente, professione, il ramo scientifico al quale aveva dichiarato di appartenere, quando, appena arrivato lassú, si era presentato al dottor Krokowski e a Settembrini. Per imparare qualcosa - indifferente che cosa - aveva appreso, nelle scuole superiori, nozioni di statica, di sostegni flessibili, di carico e di costruzione, in quanto vantaggioso trattamento del materiale meccanico. Sarebbe stato puerile pensare che le scienze dell'ingegneria, le leggi meccaniche, trovino applicazione nella natura organica, ma non si può neanche asserire che ne siano derivate. Vi sono semplicemente ripetute e confermate. Il principio del cilindro cavo governa la struttura delle lunghe ossa tubolari in maniera che l'esatto minimo di sostanza solida risponde alle esigenze statiche. Un corpo, aveva imparato Castorp, che, in relazione alle esigenze impostegli dalla pressione e dalla trazione, viene composto soltanto con verghe e nastri d'un materiale meccanicamente adatto può sopportare lo stesso carico di un corpo massiccio che sia dello stesso materiale. Cosí nella formazione delle ossa cilindriche si può notare come, al passo col formarsi di sostanza compatta alla loro superficie, le parti interne, risultando meccanicamente inutili, si trasformino in tessuto grasso, nel midollo giallo. Il femore è una gru alla cui costruzione la natura organica, mediante la disposizione delle lamelle, ha conferito quasi esattamente le stesse curve di trazione e pressione che Castorp avrebbe dovuto rigorosamente delineare nella rappresentazione grafica d'un impianto cosí impegnato. Egli lo notò con compiacimento, perché si trovò ad avere con l'osso della coscia, o in genere con la natura organica, già tre rapporti: quello lirico, quello medico e quello tecnico... tanta era la sua esultanza. E questi tre rapporti gli apparvero, sul piano umano, come uno solo, come mutazioni della medesima mansione, come facoltà umanistiche... Nonostante tutto ciò le funzioni del protoplasma gli restavano inesplicabili: gli pareva che alla vita fosse negato di comprendere se stessa. La maggior parte dei processi biochimici è ignota, non solo, ma per loro natura essi si sottraggono all'intuizione. Della struttura, della composizione di quell'unità vitale che chiamiamo "cellula" non si sa quasi niente. A che serve svelare le componenti del muscolo morto? Non si può fare l'analisi chimica di quello vivo; bastano i mutamenti provocati dalla rigidità cadaverica per togliere valore a qualunque esperimento. Nessuno sa che cosa sia il processo metabolico, che cosa l'essenza della funzione nervosa. A quali proprietà devono il loro sapore i corpi che ne hanno? In che cosa consiste la diversa eccitazione di certi nervi sensori da parte di sostanze odorose? in che cosa, in genere, l'odorosità? L'odore specifico di animali e uomini proviene dall'evaporazione di sostanze che nessuno saprebbe denominare. La composizione del secreto che chiamiamo sudore è poco chiara.

Le ghiandole che lo secernono producono effluvi che tra i mammiferi hanno senza dubbio una parte cospicua, ma della loro importanza per l'uomo si dichiara di non essere edotti. L'importanza fisiologica di parti del corpo evidentemente significative è avvolta nel buio. Si trascuri pure l'intestino cieco - un mistero che nel coniglio è regolarmente pieno di una sostanza poltigliosa, la quale non si sa come possa uscirne o rinnovarsi; ma che cosa si può dire della sostanza bianca e grigia dell'encefalo, che del talamo ottico comunicante col nervo della vista, che dei nuclei grigi nel "ponte"? La sostanza del cervello e del midollo spinale è talmente soggetta a decomporsi che ben poco si può sperare di sviscerarne un giorno la struttura. Nell'atto di addormentarsi che cosa dispensa la corteccia cerebrale dalla sua attività? Che cosa impedisce allo stomaco di digerire se stesso, come pur talvolta avviene nei cadaveri? Si risponde: la vita, una speciale resistenza del protoplasma vivente... e si finge di non accorgersi che questa è una spiegazione mistica. La teoria di un fenomeno quotidiano come la febbre è contraddittoria. Un aumento dell'attività metabolica causa una maggiore produzione di calore: ma perché non aumenta, come di solito, in compenso la cessione di calore? L'arresto della secrezione di sudore dipende da contrazioni della pelle? Ma queste si riscontrano soltanto nel freddo brivido febbrile, mentre la pelle è calda. Il "colpo di calore" indica il sistema nervoso centrale quale sede delle cause dell'aumentato ricambio, come anche di una qualità della pelle che ci si accontenta di definire anormale, perché non si sa come determinarla Ma che cos'è tutta questa ignoranza in confronto della perplessità in cui ci mettono fenomeni come la memoria o, piú ancora, quella piú stupefacente memoria che sarebbe la trasmissione ereditaria di qualità acquisite? L'impossibilità, o soltanto il sospetto di poter concepire una spiegazione meccanica di siffatte prestazioni della sostanza cellulare è incolmabile. Lo spermatozoo che trasmette all'uovo innumerevoli e complicate qualità specifiche e individuali del genitore, è visibile soltanto al microscopio, e neanche il piú forte ingrandimento è sufficiente a presentarlo diversamente che come corpo omogeneo e a dar modo di determinarne la provenienza; poiché quello di un animale è uguale a quello dell'altro. Queste situazioni portano necessariamente all'ipotesi che la cellula non si comporta diversamente dal corpo sviluppato e costituito di cellule: che pertanto anch'essa è già un organismo superiore il quale a sua volta si compone di parti viventi, di individuali unità di vita. Si procede quindi un'altra volta dal preteso piccolissimo all'ancora piú piccolo, si suddivide giocoforza l'elemento in subelementi. Senza dubbio, come il regno animale si compone di diverse specie d'animali e come l'organismo animaleumano è composto di un intero regno animale di specie di cellule, cosí l'organismo della cellula è composto di un nuovo e molteplice regno animale di elementari unità di vita, le cui dimensioni stanno molto al di sotto del limite della visibilità microscopica, e crescono per virtú propria, secondo la legge che ciascuna può produrre sol tanto individui della stessa specie, e si moltiplicano e, seguendo la norma della divisione del lavoro, servono in comune al successivo ordine superiore di vita. Castorp, lieto di conoscerli per nome, leggeva nella notte gelida che ci sono i geni, i bioplasti, i biofori... Ora, nella sua euforia, vedendoci meglio, si chiedeva quale potesse essere la loro natura elementare.

Siccome sono portatori di vita, devono essere organizzati, poiché la vita è fondata sull'organizzazione; ma se sono organizzati non possono essere elementari, perché un organismo non è elementare; è multiplo. Sono unità di vita inferiori alla cellula che essi compongono. Se è cosí, essi, sia pure piccoli al di là di ogni immaginazione, devono essere a loro volta "composti', e proprio organicamente, "costruiti" come un ordine di vita; infatti il concetto di unità di vita è identico a quello di costruzione di unità di vita minori, subordinate, cioè ordinate per una vita superiore. La divisione, fin tanto che dà unità organiche le quali possiedano le qualità della vita, cioè le facoltà di assimilare, crescere e moltiplicarsi, non ha limiti. Fin tanto che si parla di unità di vita, non può essere che errore discorrere di unità elementari, perché il concetto di unità include all'infinito il parallelo concetto di unità subordinata e costruente, e non esiste una vita elementare, cioè qualcosa che sia già vita, ma ancora elementare. Però, pur non avendo un'esistenza logica, infine qualcosa di simile ci deve pur essere in realtà, perché l'idea della generazione spontanea, cioè dell'origine della vita dalla non-vita, non va respinta, e quella lacuna che nella natura esterna si cerca invano di colmare, lo stacco cioè tra vita e non-vita, dovette pur colmarsi in qualche modo nell'organico interno della natura. In qualche momento la divisione dovette condurre a "unità" che, composte bensí, ma non ancora organizzate, fecero da mediatrici fra vita e non-vita, gruppi di molecole costituenti il passaggio tra ordine vitale e mera chimica. Ma giunti alla molecola chimica ci si trovò già nelle vicinanze di un abisso, spalancato assai piú misteriosamente di quello tra natura organica e inorganica: vicino all'abisso tra materia e non-materia. Infatti la molecola si compone di atomi, e l'atomo non è piú di gran lunga abbastanza grande da essere definito straordinariamente piccolo: è talmente piccolo, un ammasso cosí minuscolo, precoce e transitorio, di non-materia, di non ancora materia, di già simile alla materia, di energia, che non bisogna, già o ancora, pensarlo come materia, ma piuttosto come punto intermedio o limite fra la materia e la nonmateria. Ed ecco porsi il problema di un'altra generazione spontanea, ben piú enigmatica e fantastica di quella organica: la generazione spontanea della sostanza dalla non-sostanza. Di fatto l'abisso tra materia e non-materia esigeva di essere colmato con altrettanta, anzi con ancora maggiore urgenza di quello tra la natura organica e l'inorganica. Ci doveva essere necessariamente una chimica dell'immateriale, combinazioni immateriali donde scaturisse la materia come gli organismi provengono da combinazioni inorganiche, e gli atomi potevano forse essere i probii e le monere della materia,... materiali per loro natura e d'altro canto non ancora tali. Ma quando si arrivò al "non piú neanche piccolo", il metro sfuggí di mano; "non piú neanche piccolo" fu già equivalente a "enormemente grande", e il passo verso l'atomo risultò, senza esagerazione, sommamente fatale: nel momento infatti dell'ultima scissione e minuscolizzazione della materia si aprí all'improvviso il cosmo astronomico! L'atomo è un sistema cosmico, carico di energia, nel quale rapidissimi corpi celesti rotano intorno a un nucleo solare; attraverso il suo etere passano, con la velocità di anni-luce, comete che l'energia del nucleo centrale costringe nelle loro orbite eccentriche.

E questo non è soltanto un paragone, come non è paragone chiamare il corpo degli esseri pluricellulari "uno stato o una comunità di cellule". La città, lo stato, la comunità sociale ordinata secondo il principio della divisione del lavoro non solo è paragonabile alla vita organica, ma ne è la ripetizione. Cosí nell'intimo della natura si ripete, come in un immenso specchio, il macrocosmico mondo degli astri, i cui sciami, ammassi, gruppi, figure, impalliditi a causa della Luna, si libravano sul capo dell'imbacuccato adepto sopra il gelido scintillio della vallata. Era forse illecito pensare che certi pianeti del sistema solare atomico - diquegli eserciti, di quelle vie lattee di sistemi solari che costituiscono la materia - che, diciamo, l'uno o l'altro di quegli astri si trovasse in condizioni corrispondenti a quelle che della Terra fanno un domicilio della vita? Per un giovane adepto di pelle "anormale", un po' ebbro nel centro, il quale nel campo dell'illecito non era privo di ogni e qualsiasi esperienza, quella era speculazione non solo non assurda, ma persino raccomandabile fino all'indiscrezione, chiara e lampante, con la logica impronta del vero. La "piccolezza" dei corpi astrali del mondo interiore avrebbe costituito una obiezione inadeguata, perché la misura di grande e piccolo era andata perduta al piú tardi nel momento in cui si era manifestato il carattere cosmico delle "piú piccole" particelle di materia, e i concetti di fuori e dentro avevano perduto anch'essi via via un po' della loro stabilità. Il mondo dell'atomo è un "fuori", come molto probabilmente il pianeta Terra che noi abitiamo, considerato sotto l'angolo visuale organico, è un profondo 'dentro". La sognante audacia di un dotto non ha forse alluso ad "animali galattici", mostri cosmici, la carne, le ossa e il cervello dei quali sarebbero composti di sistemi solari? Ma in tal caso, pensava Castorp, nel momento in cui si era creduto di venire a una conclusione bisognava ricominciare da capo! Allora nell'interno, nel piú intimo interno della sua natura, c'era forse lui stesso, il giovane Hans Castorp, ripetuto una volta, cento volte, nel tepore delle coperte, su un balcone davanti al panorama d'alta montagna, illuminato dalla Luna nella gelida notte, con le dita diacce e il viso acceso, a studiare la vita del corpo, per interessamento medico-umanistico? L'anatomia patologica, della quale teneva un volume alla luce rosata della lampadina, lo istruí, con un testo disseminato di figure, intorno alla natura della fusione di cellule parassite e dei tumori infettivi. Questi gli si presentarono come forme di tessuti - forme particolarmente rigogliose - provocate dall'introdursi di cellule estranee in un organismo che, disposto ad accoglierle, offra alla loro crescita in qualche modo (ma qui bisogna dire in qualche malvagio modo) condizioni favorevoli. Non tanto che il parassita sottragga alimento al tessuto circostante; ma col suo ricambio, che è compito di qualsiasi cellula, produce combinazioni organiche che sono quanto mai tossiche, immancabilmente rovinose per le cellule del l'organismo ospitante. Si è trovato il modo di isolare le tossine di alcuni microrganismi e di presentarle concentrate, e con stupore si e visto quali piccole dosi di tali sostanze, che sono semplicemente da annoverare tra le combinazioni di albumina, siano sufficienti, se immesse nel circolo di un animale, per produrre i piú pericolosi fenomeni di avvelenamento, la piú travolgente rovina.

La natura esteriore di questo guasto è un'ipertrofia di tessuti, è il tumore patologico, una reazione delle cellule allo stimolo esercitato dai bacilli che hanno preso stanza tra loro. Si formano nodi della grandezza d'un grano di miglio, composti di cellule simili al tessuto delle mucose, tra le quali e nelle quali si annidano i bacilli; e alcuni sono straordinariamente ricchi di protoplasma, giganteschi e pieni di nuclei. Ma questa euforia porta presto alla rovina, perché ora i nuclei delle grandi cellule cominciano a restringersi, a decomporsi, il loro protoplasma a coagularsi e perire; altre parti del tessuto circostante sono colpite dagli effetti dello stimolo estraneo; fatti infiammatori si propagano e coinvolgono i vasi limitrofi; globuli bianchi accorrono, attirati dal luogo della disgrazia; il deperimento per coagulazione progredisce; e intanto i solubili veleni dei batteri hanno ubriacato i centri nervosi, l'organismo è in regime di alta temperatura e, per cosí dire, col petto ansante va barcollando incontro al suo dissolvimento. Fin qui la patologia, la dottrina delle malattie, del potenziamento doloroso del corpo, il quale però, in quanto rilievo dato al corpo, è nello stesso tempo un rilievo di voluttà: la malattia è la forma impudica della vita. E la vita a sua volta? E' forse soltanto una malattia infettiva della materia,... come, forse, quella che è lecito chiamare generazione spontanea della materia, è soltanto malattia, una esuberanza di stimoli della non-materia? Il primo passo verso il male, verso il piacere e la morte, va indubbiamente collocato nel punto in cui, provocato dal sol letico d'una ignota infiltrazione, avviene quel primo aumento di densità dello spirito, quella esuberanza patologicamente rigogliosa del suo tessuto, la quale, un po' piacere, un po' difesa, costituisce il primissimo gradino della materia, la transizione dalla non-materia alla materia. Questo è il peccato originale. La seconda generazione spontanea, la nascita dell'organismo dall'inorganico, non è che una brutta salita della corporeità alla coscienza, come la malattia dell'organismo è un ebbro potenziamento e un'incivile messa in mostra della sua corporeità... La vita non è che un passo successivo sul bizzarro sentiero dello spirito ormai disonesto, un riflesso di vergognoso calore della materia destata alla sensibilità e disposta ad accogliere quello che l'ha destata... I libri erano ammucchiati sul tavolino della lampada, uno era per terra, accanto alla sedia a sdraio, sulla stuoia della loggia, e quello che Castorp aveva consultato per ultimo gli premeva lo stomaco e gli ostacolava il respiro, ma senza che la sua corteccia cerebrale mandasse ai muscoli pertinenti l'ordine di spostarlo. Era arrivato in fondo alla pagina, il mento toccava il petto, le palpebre gli erano scese sugli schietti occhi azzurri. E vedeva l'immagine della vita, il florido edificio delle membra, la bel lezza incarnata. Essa aveva staccato le mani dalla nuca, e le sue braccia aperte, sul cui lato interno, specie sotto la pelle delicata dell'articolazione del gomito, i vasi, i due rami delle grandi vene, apparivano di un colore azzurrino,... quelle braccia erano di una dolcezza ineffabile. Lei si chinava verso di lui, sopra di lui, egli ne sentiva il profumo organico, sentiva il battito apicale del suo cuore.

Una calda tenerezza gli abbracciava il collo e, mentre languendo dal piacere e dallo sgomento le posava le mani sugli omeri, dove la pelle granulosa che riveste il tricipite era voluttuosamente fresca, sentí sulle labbra l'umido risucchio del bacio di lei.

Danza macabra. Poco dopo Natale morí il gentleman rider... Ma prima ci fu appunto la solennità del Natale, le due, o se vogliamo contare anche il giorno della vigilia, tre feste che Castorp aveva atteso con un po' di paura e scotendo il capo, chiedendosi come si sarebbero presentate, mentre poi erano arrivate e scomparse come giorni soliti con mattino, mezzogiorno e sera e con un qualunque tempo medio (ci fu un po' di sgelo), non diversi da altri del loro genere: esteriormente un pochino ornati e distinti, avevano dominato, nel periodo ad essi assegnato, la coscienza e il cuore degli uomini e, lasciandosi dietro un sedimento di non quotidiane impressioni, erano diventati un passato piú o meno prossimo... Il figlio del consigliere, che aveva nome Knut, era venuto a passare le vacanze e abitava con suo padre nell'ala laterale,... un bel giovanotto, che però cominciava già ad avere la nuca troppo sporgente. Si sentiva nell'aria la presenza del giovane Behrens; le signore avevano voglia di ridere, di ornarsi, erano irritabili e la loro conversazione si aggirava intorno a incontri con Knut nel giardino, nel bosco o nel quartiere delle case di cura. Anche lui ricevette visite: un gruppo di compagni d'università risalí la valle, sei o sette studenti, che alloggiavano nel villaggio, ma prendevano i pasti in casa del direttore e, uniti in squadra, perlustravano la zona. Castorp li evitava. Evitava quei giovani e li scansava insieme con Joachim, e se non poteva farne a meno, era seccato d'incontrarli. Tutto un mondo lo separava - lui che era uno di quelli lassú - da quei giganti che cantavano e agitavano il bastone, e non voleva saperne di loro. Oltre a ciò venivano per la maggior parte dal settentrione, poteva darsi che tra loro ci fossero suoi concittadini, e i concittadini gli davano ombra: spesso considerava con disgusto l'eventualità che al Berghof arrivasse qualche amburghese, tanto piú che, secondo quanto aveva detto Behrens, la città mandava sempre lassú un cospicuo contingente. Qualcuno ce n'era forse tra i gravi e i moribondi che non si vedevano. Visibile era soltanto un commerciante dalle guance incavate, il quale da alcune settimane sedeva alla tavola della Iltis e doveva essere di Cuxhaven. Anche a proposito di lui Castorp era lieto che lassú fosse cosí difficile avere contatti coi non-commensali, e che la sua regione fosse cosí estesa e ricca di centri sociali.

L'indifferente presenza di quel commerciante attenuò le apprensioni che lo avevano assillato in vista di incontri con amburghesi. La vigilia di Natale dunque si avanzò, un bel giorno divenne imminente e il giorno dopo arrivò di fatto... Mancavano sei settimane abbondanti al suo arrivo quando Castorp si era meravigliato che lassú già si parlasse di Natale; altrettanto tempo, quindi, volendo fare il calcolo, quanto la somma del suo soggiorno secondo il primo preventivo, piú la durata della sua degenza a letto. Eppure allora era un tempo assai lungo, specialmente la prima metà, come gli sembrò quando fu trascorso,... mentre l'uguale quantità gli parve ora molto breve, quasi niente: i frequentatori della sala da pranzo, pensò ora, avevano avuto ragione di valutarlo cosí poco. Sei settimane, dunque nemmeno tante quante sono i giorni della settimana: che cosa sono per chi si chiede cosa sia mai una settimana, un breve giro dal lunedí alla domenica e a un altro lunedí! Basta considerare sempre il valore e il significato dell'unità immediatamente inferiore per comprendere che la somma non può essere gran che, e per vedere oltre a ciò che l'effetto è anche un accorciamento, una cancellatura, una contrazione, una distruzione. Che cos'è un giorno, calcolato, poniamo, dal momento in cui uno si siede a colazione fino al rinnovarsi dello stesso momento dopo ventiquattr ore? Niente,... quantunque siano sempre ventiquattr'ore. Ma che cos era mai un'ora, passata, ad esempio, sulla sedia a sdraio, durante una passeggiata o a tavola, che erano quasi tutti i modi possibili di passare quest'unità di tempo. Niente nemmeno questa. Sommare il niente però è poco serio. Seria diventava la faccenda quando si scendeva alle misure minime. Quelle sette volte sessanta secondi, nei quali si teneva il termometro tra le labbra per poter continuare il tracciato della curva, erano quanto mai tenaci e pesanti, si allungavano fino a diventare una piccola eternità, formavano giacimenti saldissimi nel fulmineo trascorrere del grande tempo... La festa non turbò quasi affatto la vita regolare degli inquilini del Berghof. Un abete diritto e senza difetti era stato collocato alcuni giorni prima contro la parete destra, sul lato corto della sala da pranzo, presso la tavola dei "russi incolti", e il suo profumo che attraverso il sapore delle abbondanti portate arrivava ogni tanto ai commensali, rendeva pensierosi gli sguardi di qualche paziente seduto a una delle sette tavole. La sera del 24 dicembre, a cena, l'albero apparve ornato di fili d'argento, palle di vetro, pine indorate, piccole mele raccolte in reticelle, e ogni sorta di confetti, e le candeline colorate rimasero accese durante il pasto e dopo. Anche nella camera degli infermi c'erano, si diceva, alberelli accesi, a ciascuno il suo. E l'arrivo di pacchi era stato cospicuo negli ultimi giorni. Joachim Ziemssen e Hans Castorp avevano ricevuto, anche loro, invii dalla casa lontana laggiú, doni accuratamente impaccati, sciorinati ora nelle loro camere: capi di vestiario adatti, cravatte, lussuosi oggettini di cuoio e nichel, nonché dolci preparati per la circostanza, noci, mele e marzapane: provviste che i due cugini osservavano perplessi, chiedendosi quando mai avrebbero potuto gustarle.

Il pacco di Castorp era stato confezionato (egli lo sapeva) da Schalleen che, dopo seria discussione con gli zii, aveva anche acquistato i doni. Era inclusa anche una lettera di James Tienappel, su spessa carta sua personale, ma scritta a macchina. Lo zio inviava a nome del prozio e proprio gli auguri di buone feste e rapida guarigione e, per ragioni pratiche, aggiungeva addirittura gli auguri per il vicino capodanno, come del resto aveva fatto anche Castorp quando, sdraiato, aveva scritto per tempo al console Tienappel la lettera natalizia e la relazione clinica. L'albero nella sala da pranzo ardeva, scoppiettava, olezzava e teneva desta nelle menti e nei cuori la coscienza del momento. Tutti si erano vestiti per l'occasione, gli uomini portavano l'abito di società, le donne i gioielli che la mano amorosa del marito aveva forse mandato loro dai paesi del piano. Anche Clavdia Chauchat aveva sostituito al locale maglione di lana un abito da sera che però aveva un che di arbitrario o, meglio, di nazionale: era un abito chiaro, ricamato, stretto alla vita da una cintura, che arieggiava il costume dei contadini russi, o almeno balcanici, forse bulgari, con molti lustrini dorati; l'abbondanza di pieghe conferiva alla sua persona un aspetto insolitamente morbido e pienotto e s'accordava magnificamente con quella che Settembrini chiamava la sua "fisionomia tartara" e, in particolare, gli"occhi da lupo della steppa". Alla tavola dei "russi ammodo" regnava l'allegria: là saltarono i primi tappi di sciampagna, che poi comparve su quasi tutte le tavole. A quella dei cugini lo ordinò la prozia per la nipote e per Marusja, ma lo offrí a tutti. La lista delle vivande era squisita, terminò con tortino di formaggio e confetti, ai quali si aggiunsero caffè e liquori; ogni tanto un ramo dell'abete prendeva fuoco provocando strilli e un panico eccessivo, finché si accorreva a spegnere. Settembrini, vestito come sempre, stette un po', verso la fine del banchetto, alla tavola dei cugini, col solito stuzzicadenti, prese in giro la signora Stohr e sciorinò un discorsetto sul figlio del falegname e rabbi umanitario, del quale si stava festeggiando il natalizio. Che sia vissuto davvero, disse, non è certo. Ma quel giorno è nata e ha cominciato il suo ininterrotto e vittorioso cammino l'idea del valore delle singole anime, insieme con l'idea dell'uguaglianza: insomma la democrazia individualistica. In suo onore vuotò il bicchiere che gli avevano porto. La Stohr dichiarò che quelle erano frasi "equivoche e apatiche" e per protesta si alzò: i commensali, d'altronde, fecero altrettanto perché gli ospiti cominciavano già a riunirsi nei salotti. La riunione della serata acquistò vita e importanza dall'offerta dei doni al consigliere che insieme a Knut e la Mylendonk era venuto a passare una mezz'oretta con gli ospiti. La cerimonia si svolse nel salotto degli apparecchi ottici a sorpresa. Il dono particolare dei russi consisteva in un oggetto d'argento, un grandissimo piatto rotondo, nel cui centro era inciso il monogramma del festeggiato, un oggetto evidentemente inutile. Sulla sedia a sdraio donata dagli altri si poteva almeno coricarsi, benché fosse ancora priva di cuscini e coperte, rivestita soltanto di panno..Ma la testiera era smontabile e Behrens ne saggiò la comodità

sdraiandosi quant'era lungo, col piatto inservibile sotto il braccio, e mettendosi a russare, ad occhi chiusi, come una segheria, dopo aver avvertito che egli si sentiva Fafner a custodia del tesoro. Seguí un'esplosione di allegria generale. A quella scena anche la Chauchat rise di gusto stringendo le palpebre e aprendo la bocca, esattamente, parve a Castorp, come a suo tempo Pribislav Hippe quando rideva. Appena uscito il principale i presenti si sedettero alle tavole da giuoco. I russi si raggrupparono, come al solito, nel salotto piccolo. Altri rimasero nella sala intorno al l'albero di Natale, stettero a guardare i moccolini che si spegnevano nelle coppette di metallo, e a beccolare i dolci appesi. Alle tavole, già apparecchiate per la prima colazione, c'erano singole persone, appoggiate in vario modo, lontane le une dalle altre, e separate dal silenzio. La prima festa di Natale fu umida e nebbiosa. Si era dentro alle nuvole, disse Behrens; lassú non esisteva la nebbia. Nube o nebbia che fosse, ad ogni modo l'umidità era notevole. La neve per terra si sciolse alla superficie e divenne porosa e attaccaticcia. Mani e viso si irrigidivano durante la cura assai piú dolorosamente che al freddo asciutto. La giornata si distinse con una manifestazione musicale, un vero e proprio concerto con file di sedie e programmi stampati che il Berghof offrí agli ospiti. Era una serata di canti eseguiti da una cantante di professione che risiedeva nel luogo e vi dava lezioni: portava due medaglie sul petto, sotto la scollatura dell'abito da ballo, aveva le braccia simili a bastoni e una voce, la cui singolare afonia bastava a spiegare tristemente perché lei avesse fissato il suo domicilio lassú. Cantò: Porto il mio amore sempre nel cuore. Il pianista che l'accompagnava era anche lui uno del luogo... La signora Chauchat era in prima fila, ma approfittò dell'intervallo per ritirarsi, di modo che da quel momento Castorp poté seguire la musica (musica era in ogni caso) con animo tranquillo leggendo, durante l'esecuzione, il testo dei canti che era stampato sul programma. Settembrini stette un po' al suo fianco, ma anche lui scomparve dopo aver fatto alcune osservazioni frizzanti, plastiche, sul cupo "bel canto" dell'indigena e aver espresso il suo satirico compiacimento per la serata così cordiale e familiare. A dir il vero, Castorp si sentí sollevato quando quei due, la donna dagli occhi stretti e il pedagogo, uscirono ed egli poté liberamente prestare attenzione alle canzoni. Gli sembrava una bella cosa che in tutto il mondo si eseguisse musica, anche nelle piú particolari circostanze, e forse persino nelle spedizioni polari. La seconda festa di Natale non si distinse piú per nulla tranne per il lieve sentore della sua presenza, da una qualunque domenica o soltanto giornata feriale, e quando fu trascorsa, ecco che la solennità natalizia fece parte del passato... o, con ugual diritto, del lontano avvenire, alla distanza di un anno: di nuovo mancavano dodici mesi perché si rinnovasse nel giro, ... tutto sommato, soltanto sette mesi piú di quelli che Castorp aveva già passati lassú. Immediatamente dopo Natale, dunque, prima di capodanno, morí il cavallerizzo.

I due cugini lo seppero da Alfreda Schildknecht, detta Schwester Berta, l'infermiera del povero Fritz Rotbein, la quale lo comunicò loro in confidenza nel corridoio. Castorp vi prese viva parte, un po' perché le manifestazioni di vita del cavallerizzo erano tra le prime impressioni che aveva ricevuto lassú - tra quelle che, secondo lui, gli avevano primamente provocato, sulla pelle del viso, quel riflesso di calore che poi non aveva piú voluto scomparire - e un po' per ragioni morali, o come dire religiose. Trattenne a lungo Joachim a conversare con l'infermiera cui non pareva vero di essere interpellata e di poter scambiare quattro parole. Era un miracolo, disse, che il cavallerizzo fosse vissuto fino alle feste; da un pezzo aveva dato prova di essere un gentiluomo tenace, ma negli ultimi tempi nessuno riusciva a capire con che cosa respirasse; vero che da qualche giorno si teneva su con enormi quantità di ossigeno: solo nelle ultime ventiquattr ore aveva consumato la bellezza di quaranta bombole, da sei franchi l'una. Era una grossa spesa, come i signori potevano calcolare, senza dire che sua moglie, tra le cui braccia era deceduto, era rimasta assolutamente priva di mezzi. Joachim disapprovò quel dispendio. A che scopo prolungare la tortura e quella costosa vita artificiale in un caso del tutto disperato? Certo, non c'era da prendersela con lui se aveva consumato alla cieca il prezioso gas vitale, considerando che glielo avevano imposto. I curanti avrebbero invece dovuto essere piu ragionevoli e lasciarlo andare in santa pace per il suo inevitabile cammino, prescindendo dalle condizioni finanziarie o anzi tenendone conto. Anche i vivi hanno i loro diritti, e cosí via. Castorp reagí con energia. Suo cugino, disse, cominciava già a parlare come Settembrini, senza rispetto o riguardo per la sofferenza. Infine il cavallerizzo era morto, c'era poco da scherzare, non si poteva piú far nulla per dimostrargli la propria serietà; ai morenti spettano tutti gli onori e i riguardi. Castorp insistette su questo punto. Voleva anche sperare che alla fine non lo avessero sgridato o rimproverato senza pietà. Non c'era stato motivo, dichiarò la Schildknecht. Un breve sventato tentativo di scappare l'aveva fatto, cercando di scendere dal letto: ma era bastato un modesto richiamo all'inutilità dell'impresa per farlo desistere una volta per sempre. Castorp andò a vedere il defunto. Lo fece per dispetto, per opporsi al vigente sistema di tener segreti i decessi, perché disprezzava l'egoistica smania di non voler sapere, vedere, sentire, e desiderava reagirvi coi fatti. A tavola aveva tentato di portare il discorso su quel decesso, ma si era visto respingere l'argomento con tale unanime ostinazione che ne era rimasto umiliato e indignato. La Stohr era stata persino villana: che gli veniva in mente? parlare di una cosa simile! che educazione era la sua? Il regolamento interno, aggiunse, proteggeva con cura i pazienti, affinché non fossero molestati da tali casi, e ora uno sbarbatello aveva l'ardire di discorrerne apertamente, e all'arrosto per giunta, e

addirittura alla presenza del dottor Blumenkohl che poteva fare la stessa fine da un giorno all'altro. (Questo a parte.) Se la cosa dovesse ripetersi, lei avrebbe sporto lagnanza. A questo punto il redarguito aveva preso e anche manifestato la decisione di rendere per conto suo gli estremi onori al coinquilino defunto andandolo a vedere e sostando in raccoglimento presso il suo letto, e aveva convinto Joachim ad accompagnarlo. Per il tramite di Schwester Alfreda ottennero il permesso di entrare nella camera del morto che era situata al primo piano, sotto di loro. Furono ricevuti dalla vedova, una piccola bionda, scarmigliata, spossata dalla veglia, il fazzoletto sulle labbra, il naso rosso, con un pesante cappotto di lana, il bavero alzato perché nella camera faceva molto freddo. Il calorifero era spento, la porta del balcone aperta. Con voce sommessa i due giovani fecero i convenevoli e, invitati da un gesto desolato, si avvicinarono al letto: attraversarono la camera con passo elastico, senza posare il piede sui tacchi, in un inchino rispettoso, e si soffermarono a contemplare il morto, ciascuno a suo modo: Joachim in positura militare, con un mezzo inchino di saluto, Castorp abbandonato e assorto, le mani incrociate davanti a sé, la testa su una spalla, con un'espressione simile a quella che assumeva ascoltando la musica. La testa del cavallerizzo era sollevata, di modo che il corpo, quella lunga struttura, quel molteplice circolo generatore di vita, con i piedi sporgenti in fondo sotto la coperta, appariva tanto piú piatto, quasi come un'asse. Una coroncina di fiori era posata sul posto delle ginocchia, e la foglia di palma che ne sporgeva toccava le grosse mani, gialle, ossute, giunte sul petto incavato; giallo e ossuto era anche il viso col cranio calvo, il naso gobbo, gli zigomi appuntiti e i baffi rossicci, folti, il cui spessore rendeva ancor piú fonda la grigia, ispida cavità delle guance. Gli occhi erano chiusi in un certo modo non naturale... premuti, non chiusi, pensò Castorp: quello che si dice l'ultimo atto di pietà, benché lo si faccia per i sopravvissuti piú che per il morto. E lo si deve fare in tempo, subito dopo la morte; poiché una volta progredita la formazione di miosina nei muscoli, non è piú possibile, il morto s'irrigidisce e la significativa imitazione del "sonno" è bell'e perduta. Castorp stava accanto al letto da competente e per piú versi nel suo elemento, da uomo pratico ma anche devoto. Pare che dorma disse per senso umanitario, benché ci fossero notevoli differenze. Poi, con voce convenientemente smorzata, attaccò discorso con la vedova e chiese informazioni intorno alla dolorosa vicenda di suo marito, ai suoi ultimi giorni e istanti, all'atto della traslazione in Carinzia, rivelando le sue nozioni di medicina e, d'altra parte, la sua simpatia morale e religiosa. La vedova, parlando tra i singhiozzi il tedesco austriaco strascicato e nasale, dichiarò degno di nota il fatto che dei giovani si mostrassero cosí ben disposti a prendersi a cuore le angosce altrui; al che Castorp replicò che suo cugino e lui erano malati a loro volta, e oltre a ciò lui stesso si era trovato assai presto accanto al letto di morte di parenti prossimi, era orfano di entrambi i genitori, la morte gli era, per cosí dire, familiare da un pezzo. Lei domandò quale professione avesse scelto. Egli rispose che era "stato ingegnere.

Stato? Sí, stato, in quanto erano intervenuti la malattia e un soggiorno lassú, ancora tutt'altro che delimitato, e ciò significava una non trascurabile interruzione e forse anche, chi lo poteva sapere? una svolta nella vita. (Joachim lo guardò attento e spaventato.) E suo cugino? Quello voleva fare laggiú la vita militare, era aspirante ufficiale. Oh, disse lei, certo, anche il mestiere delle armi è una professione che obbliga alla serietà, e il soldato deve prevedere di venire eventualmente in stretto contatto con la morte ed è opportuno che si abitui presto a guardarla in faccia. Congedò i cugini con ringraziamenti e gentili parole che dovevano incutere rispetto in vista delle sue penose condizioni e, in modo particolare, del cospicuo conto di ossigeno lasciatole da suo marito. I cugini salirono al loro piano e Castorp si disse soddisfatto della visita e intimamente stimolato dalle impressioni ricevute. Requiescat in pace disse. Sit tibi terra levis. Requiem aeternam dona ei, Domine. Vedi, quando si tratta della morte e si parla di morti o ai morti, ritorna in auge anche il latino che in questi casi e la lingua ufficiale, e cosí si avverte che la morte è un fatto particolare. Ma in suo onore non si parla latino per galanteria umanistica, la lingua dei morti non è il latino aulico, capisci, ha uno spirito diverso, direi affatto contrario, è il latino sacerdotale, barbaro, dialetto medievale, un canto, dirò cosí, cupo, monotono, sotterraneo, ... che non piacerebbe a Settembrini, e non è roba da umanisti e repubblicani o pedagoghi di questo genere, appartiene a un ben diverso indirizzo spirituale, cioè a quell'altro che pur esiste. Bisognerebbe, credo, distinguere chiaramente tra i diversi indirizzi o, direi meglio, le diverse atmosfere spirituali: c'è la religiosa e c'è la libera. Ciascuna ha i suoi pregi, ma contro la libertà, la settembriniana intendo, avrei soltanto da obiettare che reputa di aver appaltato in esclusiva la dignità umana: e qui esagera. Anche l'altra contiene a modo suo alquanta dignità umana ed è causa di molto decoro e atteggiamento pulito e nobili forme, persino piú che la "libera", anche se considera soprattutto la debolezza e caducità umana e se l'idea della morte e della decomposizione vi ha una parte preponderante. Hai mai visto a teatro il Don Carlos e la vita alla corte di Spagna quando re Filippo entra, tutto in nero con l'ordine della giarrettiera e il vello d'oro, e si toglie il cappello che sembra quasi una delle nostre bimbette... se lo leva all'insú e dice: "Copritevi, miei grandi" - o qualcosa di simile, ed è, bisogna dire, un gesto sommamente equilibrato, non si può certo parlare di noncuranza o trascuratezza, al contrario anzi, tant'è vero che la regina soggiunge: "Nella mia Francia però era diverso" - si capisce, per lei è un contegno troppo meticoloso e cerimonioso, lei lo preferirebbe piú libero, piú umano. Ma che significa umano? Tutto è umano. Il timor di Dio della Spagna, la solenne umiltà e il compassato rigore sono, direi, una ben degna forma di umanità, e d'altro canto la parola "umano" può servire a mascherare qualsiasi fiacchezza o sciatteria, ammetterai anche tu. Ammetto replicò Joachim. E tu sai che non posso soffrire la trascuratezza, il lasciar correre. Disciplina ci vuole. Già, tu lo dici da militare; riconosco che nell'esercito ve ne dovete intendere.

La vedova aveva pienamente ragione di dire che il vostro mestiere è una cosa seria, perché dovete sempre tener presente il caso estremo di aver a che fare con la morte. Voi portate l'uniforme, che è attillata, pulita, col colletto rigido: tutte cose che vi danno bienséance. E poi avete la gerarchia e l'obbedienza e il cerimonioso saluto reciproco, che è secondo lo spirito spagnolo, per spirito di devozione, e in fondo a me piace. Anche tra noi civili codesto spirito dovrebbe essere piú diffuso, nei nostri costumi, nel comportamento, io ci terrei, mi parrebbe conveniente. Secondo me il mondo e la vita richiederebbero che tutti si vestissero di nero, con una gorgiera inamidata invece del vostro colletto, e si dovesse conversare con serietà, parlando con voce smorzata e con le debite forme, presente sempre il pensiero della morte: con ciò sarei d'accordo, sarebbe morale. Anche questo, vedi, è un errore, una presunzione di Settembrini, una delle tante, ed è opportuno che ne discorriamo. Egli crede di avere in appalto non solo la dignità umana, ma anche la morale... col suo "lavoro pratico" e le sue feste domenicali del progresso (come se proprio la domenica non si avesse da pensare ad altro che al progresso) e con la sua sistematica eliminazione delle sofferenze, della quale tu non sai nulla, è vero, ma ne ha parlato a me per mia informazione: sistematicamente le vuole eliminare, mediante un'enciclopedia. E se proprio questo mi sembrasse immorale? A lui beninteso non lo dico, mi subissa con la sua loquela plastica e dice: "Stia in guardia, ingegnere!". Ma sarà lecito pensare come si vuole... Sire, conceda la libertà di pensiero! Ti voglio dire una cosa conchiuse (erano saliti fin nella camera di Joachim e questi si preparava a coricarsi). Ti esporrò il mio proponimento. Qui si vive a uscio e bottega con persone che muoiono e con i piú strazianti dolori, e non solo si finge che ciò non riguardi nessuno, ma si è anche risparmiati e protetti, affinché non si abbiano contatti e, per carità, non si veda nulla, e anche il gentleman rider sarà ora messo da parte in segreto mentre faremo merenda o colazione. A me sembra un fatto immorale. La Stohr andò sulle furie perché ho soltanto menzionato il decesso, ed è una grossa scemenza, o se è cosí ignorante da credere che "Piano, piano, canto pio" è nel Tannhauser, come le è capitato recentemente a tavola, potrebbe però avere un tantino di sensibilità morale; e cosí gli altri. Ora mi sono proposto di occuparmi un po' piú, in avvenire, dei malati gravi e dei moribondi che abbiamo qui, mi farà bene, come mi ha già fatto bene la visita di testé. Il povero Reuter, quello del n. 25, che vidi una volta, nei miei primi giorni, dalla porta aperta, sarà andato da un pezzo in paradiso e l'avranno messo da parte in seguito, ...già allora aveva gli occhi esageratamente grandi. Ma al suo posto ce ne sono altri, tutte le camere sono occupate, i nuovi arrivi non mancano, e la Schwester Alfreda o anche la superiora e persino lo stesso Behrens ci aiuteranno certamente ad allacciare qualche relazione, non sarà un'impresa difficile. Supponi che sia il compleanno di un moribondo, e noi lo veniamo a sapere,... è facile informarsi. Bene.

Noi mandiamo al tale ... o alla tale, a lui o a lei, un vaso di fiori, attenzione anonima di due colleghi,... cordiali auguri di guarigione,... la parola guarigione è sempre cortese e opportuna. Naturalmente i nostri nomi vengono poi svelati... e lui o lei, nella sua debolezza, prega di recarci il suo amichevole saluto, o magari ci invita in camera un istante, e noi andiamo a scambiare ancora alcune parole umane prima che arrivi alla fine. Così me lo figuro. Non sei d'accordo? Per parte mia me lo sono ormai prefisso. Joachim non ebbe gran che da obiettare a queste intenzioni. E' contro il regolamento qui vigente osservò, e tu in certo qual modo lo infrangeresti. Ma in via eccezionale, se proprio hai questo desiderio, Behrens penso che ti darà il permesso. Potresti far valere il tuo interessamento alla medicina. Già, anche a questo confermò Castorp, poiché in realtà il suo desiderio era frutto di diversi moventi. La protesta contro l'egoismo invalso ne era soltanto uno. C'entrava anche e particolarmente il bisogno che il suo spirito sentiva di poter prendere sul serio e rispettare il dolore e la morte..., bisogno dal quale sperava che accostandosi ai malati gravi e ai morenti avrebbe ricavato soddisfazione e conforto, a controbilanciare le varie offese alle quali ogni giorno, ogni ora, ad ogni piè sospinto lo vedeva esposto, e nelle quali certi giudizi di Settembrini trovavano una conferma che lo mortificava. Esempi ce n'erano a bizzeffe; se qualcuno glieli avesse chiesti, Castorp avrebbe forse cominciato con l'indicare persone del Berghof che per loro esplicita confessione non erano affatto malate e stavano lí di loro propria volontà, col pretesto efficace di lievi attacchi, in realtà invece soltanto per loro svago e perché quel tenore di vita fra i malati era di loro gradimento, come ad esempio la brevemente citata vedova Hessenfeld, una donna vivace che nutriva la passione delle scommesse: scommetteva con gli uomini, scommetteva tutto e su tutto, sul tempo che avrebbe fatto, sulle portate che sarebbero arrivate in tavola. sul risultato di visite mediche, sul numero dei mesi che sarebbero stati appioppati a un paziente, su certi bob e slittini, su campioni di sci e di pattini nelle gare sportive, sullo svolgimento di sboccianti storie d'amore tra gli ospiti, e su mille altre cose, spesso futili e indifferenti, scommetteva cioccolata, sciampagna, caviale, roba che poi era consumata in allegria nel ristorante, scommetteva denaro, biglietti del cinematografo e persino baci da dare o da ricevere,... con questa passione, insomma, portava animazione e movimento nella sala da pranzo, ma era un'attività che a Castorp non poteva sembrare molto seria, anzi la sua stessa esistenza pregiudicava, secondo lui, la dignità d'un luogo di sofferenze. Il suo cuore infatti mirava seriamente a salvaguardare quella dignità e a farla valere, per quanto gli riuscisse difficile dopo quasi sei mesi di soggiorno tra gli ospiti di lassú. L'idea che a poco a poco si era fatta della loro vita e attività, dei loro usi e concetti, favoriva ben poco la sua buona volontà. C'erano quei due zerbinotti, di diciassette e diciotto anni, detti Max e Moritz, le cui scappate serali per andare a giocare a poker e per gozzovigliare in compagnia di donne dava non poca esca alle chiacchiere. Recentemente, vale a dire una settimana dopo capodanno (bisogna considerare che, mentre raccontiamo, il tempo cammina infaticabile alla sua maniera fluida e silenziosa), si era propagata durante la prima

colazione la notizia che il bagnino passando da loro quella mattina, li aveva trovati nel letto in abito da sera tutto stazzonato. Anche Castorp rise; ma benché fosse un'umiliazione per la buona volontà, non era molto grave al paragone con quel che si diceva dell'avvocato Einhuf di Juterbog, un quarantenne col pizzo e con le mani coperte di peli neri, il quale da qualche tempo aveva preso il posto dello svedese guarito alla tavola di Settembrini e non solo ritornava a casa ogni notte ubriaco, ma ultimamente non era ritornato affatto: era rimasto sul prato. Passava per un discolo pericoloso e la Stohr era in grado di mostrare a dito la signorina (fidanzata per giunta laggiú nel piano) che a una data ora era stata vista uscire dalla camera di lui, con indosso la sola pelliccia, sotto la quale, si diceva, non portava altro che un paio di mutandine. Uno scandalo... non solo per la morale in genere, ma scandalo personale e offesa a Castorp e al suo nobile assunto. Per giunta questi non era capace di pensare all'avvocato senza comprendervi anche Franzchen Oberdank, la ragazzina dai capelli lisci che poche settimane prima era stata accompagnata lassú dalla madre, una degna matrona di provincia. Al suo arrivo e dopo la prima visita la ragazza pareva soltanto leggermente malata; ma sia che avesse commesso qualche fallo, sia che nel suo caso l'aria non fosse stata utile "contro" la malattia, ma una volta tanto soprattutto ' per" la malattia, sia infine che la piccola si fosse impicciata in intrighi e agitazioni che le avevano nuociuto, fatto sta che quattro settimane dopo il suo arrivo, ritornando da una nuova visita, entrò nella sala da pranzo e gettando in aria la borsetta esclamò con voce squillante: Evvíva, devo restarci un anno! la qual cosa suscitò in tutta la sala una risata omerica. Ma dopo due settimane si era sparsa la voce che l'avvocato Einhuf si era comportato con la Oberdank da vero mascalzone: titolo che va messo in conto a noi o, se mai, a Castorp, poiché ai latori della notizia questa non parve, a quanto sembra, abbastanza nuova da spingerli a usare parole cosí forti. D'al tro canto fecero intendere con una scrollata di spalle che in questi casi si è sempre in due e certo non era avvenuto nulla senza il desiderio e il consenso di una delle parti. Questo era per lo meno l'atteggiamento, il tono morale della signora Stohr. Karoline Stohr era insopportabile. Se c'era qualcosa che intralciava l'opera di Castorp, intrapresa in buona fede, erano il carattere e la presenza di quella donna. Sarebbero bastati i gamberi che prendeva in fatto di cultura. Diceva "angonia ' invece di agonia, "intero clisma" per enteroclisma, e intorno ai fenomeni astronomici che provocano un eclissi di sole sfoderava un sacco di StUpidaggini. Diceva che quella neve cosí alta era "una vera calamita", e un giorno fece rimanere di stucco il signor Settembrini comunicandogli che stava leggendo un libro preso a prestito dalla biblioteca del sanatorio, la Vita di Benvenuto Cilleni tradotta in tedesco dallo Schiller! Amava modi di dire che, per il cattivo gusto o il volgare abuso della moda, urtavano i nervi del giovane Castorp, come ad esempio: "Questo è il colmo!" o "Figuriamoci!" e siccome la parola "stupendo" che era stata di moda a lungo per dire "ottimo" o "eccellente" si trovò a un certo punto svuotata, fiacca, prostituita e quindi invecchiata, lei si buttò

sull'ultima novità, sulla parola "spaventoso", e da quel momento, dicesse sul serio o per ironia, tutto le fu spaventoso, la pista per la slitta, la torta e la sua propria temperatura, il che dava un senso di ribrezzo. Vi si aggiunga la sua smania di pettegolare, che era veramente smisurata. Finché riferiva che un dato giorno la signora Salomon portava la piú costosa biancheria ornata di merletti perché doveva andare alla visita e con quegli indumenti eleganti teneva a farsi bella davanti ai medici, si poteva lasciar correre perché in fondo era vero, lo stesso Castorp si era convinto che la visita sanitaria, a prescindere dal risultato, faceva piacere alle donne, sicché vi si ornavano con civetteria. Ma che dire quando la Stohr assicurava che la signora Redisch di Posen, sospettata di tubercolosi spinale, era costretta una volta la settimana a marciare per dieci minuti interamente nuda davanti a Behrens in su e in giú per l'ambulatorio? L'affermazione era quasi al trettanto inverosimile quanto scandalosa, ma la Stohr la difendeva a spada tratta,... benché non fosse facile capire come mai la poveraccia insistesse su cose come questa con tanto zelo, tanto vigore, tanta cocciutaggine, mentre aveva non poco da pensare ai casi suoi. Ogni tanto aveva infatti attacchi di codarda e piagnucolosa apprensione, dovuti, diceva, alla sua peggiorata "fiacchezza" e al salire della sua curva. Arrivava a tavola singhiozzando, le rosse guance screpolate e rigate di lacrime, e piangeva col fazzoletto sulla bocca dicendo che Behrens la voleva mandare a letto, ma lei voleva sapere che cosa aveva detto alle sue spalle, a che punto era il suo male, voleva guardare in faccia la verità. Un giorno aveva scoperto con terrore che il suo letto era collocato col piede in direzione della porta di casa e a quella scoperta le erano venute quasi le convulsioni. Non si capí subito il suo orrore, la sua collera, e Castorp specialmente ci mise un po' a comprendere. Ebbene? Come mai? Perché il letto non doveva stare come stava? - Ma come? non si rendeva conto? "Coi piedi in avanti!..." Fece un baccano indiavolato, sicché si dovette spostare subito il letto, benché poi la luce le battesse sul guanciale turbandole il sonno. Tutto ciò era poco serio e soccorreva assai poco ai bisogni spirituali di Hans Castorp. Un pauroso incidente scoppiato in quel periodo durante un pasto, gli fece molta impressione. Un paziente arrivato da poco, il maestro Popov, un uomo magro e quieto, che con la fidanzata, anche lei magra e quieta, era seduto alla tavola dei "russi ammodo", mentre tutti stavano mangiando, si rivelò epilettico: ebbe un violento attacco del male e con quell'urlo diabolico e disumano che fu spesso descritto cadde a terra accanto alla sedia agitando le gambe e le braccia con i piú orribili contorcimenti. Il caso era aggravato dalla circostanza che poco prima era stato servito un piatto di pesce, sicché c'era pericolo che Popov nelle sue convulsioni si facesse male con una lisca. La confusione fu indescrivibile. Le signore, prima di tutte la Stohr, ma non meno di lei le Salomon, Redisch, Hessenfeld, Magnus, Iltis, Levi e che so io, furono colte da diverse smanie e poco mancò che alcune si trovassero quasi nelle stesse condizioni di Popov. Si udirono le loro stridule grida. Non si vedevano che occhi convulsamente chiusi, bocche aperte, busti piegati. Una sola preferí svenire in silenzio.

Alcuni minacciarono di soffocare, perché il fatto sconvolgente aveva sorpreso tutti nell'atto di masticare e inghiottire. Una parte dei commensali cercò di prendere il largo dalle uscite disponibili, anche dalle porte della veranda, benché fuori l'aria fosse fredda e umida. Il caso però aveva una nota particolare e, oltre che orrenda, anche scandalosa, a causa di un'associazione di idee che s'affacciò a tutti facendoli pensare all'ultima conferenza del dottor Krokowski. Proprio l'ultimo lunedí l'analista, esponendo le sue idee sull'amore come potenza patogena, era venuto a parlare dell'epilessia, malattia che l'umanità dall'epoca preanalitica aveva considerata ora come iattura sacra e persino profetica, ora come ossessione diabolica; e con parole tra poetiche e inesorabilmente scientifiche l'aveva definita un equivalente dell'amore e un orgasmo del cervello, rendendola insomma sospetta in un modo che i suoi ascoltatori dovettero scorgere nel contegno del maestro Popov - vero commento alla conferenza- una smaccata rivelazione e un misterioso scandalo, sicché la discreta fuga delle donne fu anche espressione di un certo pudore. A quel pasto era presente anche il consigliere e fu lui insieme con la Mylendonk e un paio di commensali giovani e robusti a portare l'invasato, paonazzo, schiumante, rigido e contorto, dalla sala nell'atrio, dove si videro i medici, la superiora e altro personale affaccendati a lungo intorno allo svenuto, finché fu portato via su una barella. Ma dopo un brevissimo intervallo si vide Popov tranquillo e contento, insieme con la fidanzata altrettanto tranquil la e contenta, sedersi di nuovo alla tavola dei russi, come nulla fosse stato, e terminare la colazione! Castorp aveva assistito all'episodio con manifestazioni di rispettoso spavento, ma in fondo nemmeno questa, Dio gli perdoni! gli era parsa una cosa seria. Vero è che Popov, col boccone di pesce in bocca, poteva restare strozzato, ma in realtà non si era strozzato, anzi nonostante l'incosciente furore e l'euforia doveva essere pur stato un po attento. Ora se ne stava là sereno e terminava di mangiare, come se non si fosse mai comportato da pazzo furioso e folle ubriaco, e certo non se ne ricordava nemmeno. La sua stessa figura non era tale da confortare Castorp nel suo rispetto per le sofferenze: anch'essa a modo suo veniva ad aumentare le impressioni di poco seria sciatteria, alle quali, riluttante com'era, si vedeva esposto e alle quali, in contraddizione coi costumi vigenti, desiderava reagire occupandosi intensamente dei gravi e moribondi. Sul piano dei cugini, poco discosto dalle loro camere, stava a letto una giovinetta, certa Leila Gerngross che, secondo le notizie di Schwester Alfreda, era sul punto di morire. In dieci giorni aveva avuto quattro abbondanti emorragie, e i suoi genitori erano venuti per vedere di portarla a casa ancora viva; ma ciò risultò impossibile il consigliere dichiarò che la povera piccola non era trasportabile. Aveva sedici, diciassette anni. Castorp scorse la buona occasione di attuare il suo progetto del vaso di fiori e degli auguri di guarigione. Vero è che non era il compleanno di Leila, e secondo le umane previsioni non l'avrebbe piú festeggiato, poiché in base alle informazioni di Castorp cadeva soltanto in primavera; ma ciò non era necessariamente un ostacolo al suo pietoso omaggiO.

Durante la passeggiata meridiana nei pressi del sanatorio entrò con Joachim nel negozio di un fioraio, dove respirò col petto ansante l'odore di terra umida e gli intensi profumi, e acquistò una bella ortensia fiorita che, senza far nomi, con un biglietto che diceva soltanto "Da parte di due ospiti con i migliori auguri di guarigione", fece portare neLla camera della piccola moribonda. Agí con gioia, piacevolmente stordito dal sentore vegetale, dal tepore del luogo che dopo il freddo esterno gli faceva lacrimare gli occhi, col batticuore e con una sensazione di avventura, di audacia, di compiacimento per la sua modesta impresa, alla quale in segreto attribuiva una portata simbolica. La Gerngross non aveva infermiere personali, ma era affidata direttamente alle cure della signorina von Mylendonk e dei dottori; Schwester Alfreda però che entrava e usciva riferí ai giovani l'effetto della loro attenzione. La piccola, nella disperata strettezza delle sue condizioni, aveva manifestato un piacere infantile al saluto degli ignoti. Accarezzava con lo sguardo e con le mani la pianta che teneva accanto al letto, badava a che fosse annaffiata e la guardava con gli occhi dolenti persino nei piú gravi accessi di tosse. I suoi genitori, il maggiore in pensione Gerngross e la signora, erano rimasti a loro volta commossi e contenti e siccome, non avendo conoscenti nel sanatorio, non potevano neanche fare il tentativo di indovinare chi fossero i donatori, la Schildknecht (cosí confessò) non aveva saputo fare a meno di svelare il segreto dicendo che il dono veniva dai due cugini. Ai quali recò l'invito dei tre Gerngross a presentarsi per accogliere i loro ringraziamenti. Due giorni dopo, guidati dall'infermiera, entrarono quindi, in punta di piedi nella camera di Leila. La morente era una graziosissima creatura bionda con gli occhi d'un azzurro esattamente uguale al non-tiscordar-di-me, la quale nonostante le paurose perdite di sangue e la respirazione, dovuta solo a un resto del tutto insufficiente di utile tessuto polmonare, aveva un aspetto fragile bensí, ma non proprio miserando. Ringraziò e parlò con voce un po' afona, ma gradevole. Un barlume roseo le tinse i pomelli e vi rimase. Del suo modo di agire Castorp diede ai genitori presenti e a lei la spiegazione che si aspettavano e chiese quasi scusa parlando con voce sommessa e commossa, con tenera riverenza. Poco mancò (l'interiore impulso c'era senza dubbio) che piegasse un ginocchio davanti al letto; strinse a lungo la mano di Leila, benché la manina scottasse e fosse non solo umida, ma addirittura bagnata per l'eccessiva secrezione di sudore; la piccola espelleva tanta acqua che la sua carne si sarebbe aggrinzita e risecchita se l'avida ingestione di limonata, di cui c'era un'intera caraffa sul comodino, non avesse press'a poco controbilanciato la traspirazione. I genitori nella loro ambascia avvivarono la breve conversazione, secondo il galateo umano, con domande intorno alle circostanze personali dei cugini e con simili discorsi. Il maggiore era un uomo con tanto di spalle, la fronte bassa e i baffi irti, un gigante la cui organica innocenza rispetto alla disposizione e cagionevolezza della figliola saltava agli occhi. La colpa doveva essere piuttosto della madre, una personcina di tipo decisamente tubercoloso, la cui coscienza pareva davvero oppressa da quella dote.

Quando infatti, dopo dieci minuti, Leila diede segni di stanchezza o, meglio, di eccitazione (il roseo delle guance si fece piú intenso, gli occhi celesti brillarono irrequieti) e i cugini, avvertiti dalle occhiate di Alfreda, presero commiato, la signora Gerngross li accompagnò fin fuori della porta lanciando contro se stessa accuse che a Castorp fecero una profonda impressione. Era lei, lei, la cagione, confessò contrita, sol tanto da lei poteva aver preso il male la povera bimba, suo marito era del tutto fuori causa, non c'entrava per nulla. Ma anche lei, cosí poteva assicurare, ne era stata colpita soltanto di passaggio, solo un pochino, superficialmente, per brevissimo tempo, quand'era ragazza. Poi l'aveva superato, in modo perfetto, le avevano assicurato, perché voleva maritarsi, teneva tanto a prender marito e a vivere, e c'era riuscita, completamente guarita e sana si era sposata con quel caro uomo, robusto come una quercia, il quale non aveva mai pensato neanche lontanamente a cose simili. Ma per quanto puro e forte,... nonostante il suo influsso non aveva potuto evitare la sciagura. Nella bambina era ricomparso il male terribile, sepolto, e dimenticato, ed essa non aveva la forza di vincerlo, e ne moriva, mentre lei, la madre, l'aveva superato e aveva raggiunto un'età piú resistente... E moriva, la povera cara piccola, i medici non davano piú nessuna speranza, e la colpa era tutta sua, della sua vita precedente. I giovani cercarono di consolarla, accennarono alla possibilità di una svolta felice. Ma la signora continuò a singhiozzare e ancora li ringraziò di tutto, dell'ortensia, della visita che aveva un po' distratto e resa contenta la sua creatura. La poveretta, aggiunse, stava là a soffrire in solitudine, mentre altre giovinette erano liete di essere al mondo e andavano a ballare con bei giovanotti, poiché la malattia non ne sopprime la voglia. Le avevano recato un raggio di sole, Dio mio, probabilmente l'ultimo. L'ortensia era stata per lei come un trionfo al ballo, e la chiacchierata coi due prestanti cavalieri come un garbato piccolo flirt, lei, mamma Gerngross, l'aveva notato. L'osservazione urtò Castorp, anche perché la signora pronunciò male la parola, cioè non all'inglese, ma con la i, e ciò lo irritò enormemente. E poi non era un cavaliere prestante ed era andato a trovare la piccola Leila per protestare contro il vigente egoismo e con intenzioni terapeutico-religiose. Rimase insomma un po' seccato dall'esito del suo passo in quanto all'interpretazione data dalla signora, ma in complesso molto animato e contento dello svolgimento dell'impresa. Due impressioni soprattutto gli erano rimaste vive nell'anima e nei sensi: l'odore di terra e il profumo nella bottega del fioraio e l'umidore della manina di Leila. E una volta rotto il ghiaccio concertò lo stesso giorno con Schwester Alfreda una visita al suo protetto Fritz Rotbein che si annoiava immensamente con la sua infermiera, benché, secondo tutti gli indizi, gli fosse concesso ancora ben poco da vivere. Tutto inutile, Joachim non poté sottrarsi.

L'impulso e il caritatevole spirito d'iniziativa di Castorp erano piú forti della ripugnanza di suo cugino che la poteva manifestare tutt'al piú col silenzio e abbassando lo sguardo, poiché non avrebbe saputo motivarla senza dar prova di leso cristianesimo. Castorp lo capiva benissimo e ne approfittava. Intuiva anche il significato militare di quella malavoglia. Ora, se lui stesso si sentiva incoraggiato e felice di quelle imprese e se gli parevano utili, non poteva che passar sopra alla muta resistenza di Joachim. Discusse con lui se era il caso di mandare o portare fiori anche al giovane Rotbein, benché questo moribondo fosse di sesso maschile. Egli lo desiderava vivamente; i fiori ci volevano secondo lui; l'idea dell'ortensia, di color lilla e di forma elegante, gli era piaciuta moltissimo; stabilí pertanto che il sesso di Rotbein era compensato dalle sue condizioni estreme, e neanche in questo caso era necessario che ricorresse il suo compleanno per fargli accettare un'offerta floreale, poiché i moribondi hanno in permanenza il giorno natalizio e come tali vanno festeggiati. Con questi ragionamenti andò di nuovo con suo cugino a respirare l'aria calda e profumata e l'odor di terra nel negozio di fiori ed entrò nella camera di Rotbein con un mazzo di rose, garofani e violacciocche, spruzzato di fresco e profumato; faceva da guida Alfreda Schildknecht che aveva annunciato la visita dei due giovani. Il malato, assai grave, meno che ventenne e già un po' calvo e brizzolato, cereo e consunto, con grandi mani, gran naso e grandi orecchie, si mostrò grato fino alle lacrime delle parole incoraggianti e della distrazione: pianse davvero un po', per debolezza, salutando i cugini e prendendo in consegna il mazzo di fiori, ma a questo proposito venne subito a parlare - sia pure con voce ridotta a un soffio - del commercio dei fiori in Europa che stava diventando sempre piú florido, dell'imponente esportazione delle piantagioni di Nizza e Cannes, dei vagoni carichi e delle spedizioni postali che da quelle città partono tutti i giorni in tutte le direzioni, dei mercati all'ingrosso di Parigi e di Berlino e delle forniture alla Russia. Era commerciante e a questo campo era rivolta la sua attenzione, fin tanto che era ancora vivo. Suo padre, che aveva una fabbrica di bambole a Coburgo, laveva mandato a perfezionarsi in Inghilterra bisbigliò - dove si era ammalato. Ma il suo stato febbrile era stato preso per tifo e curato come tale, era stato messo cioè a dieta di minestrine lunghe e perciò era molto deperito. Lassú invece gli avevano permesso di mangiare e aveva anche mangiato: col sudore della fronte, rimanendo a letto, aveva cercato di nutrirsi. Ma era troppo tardi, il male si era propagato all'intestino, invano gli mandavano da casa lingua e anguilla affumicate, cibi che non tollerava. Ora suo padre, chiamato da Behrens con un telegramma, stava per arrivare da Coburgo. Ormai infatti bisognava procedere a un intervento decisivo, alla resezione delle costole, si voleva in ogni caso fare il tentativo, benché le speranze fossero minime. Rotbein ne bisbigliò in tono molto realistico e considerò il problema dal lato prettamente finanziario...

Finché era vivo doveva vedere le cose sotto questo angolo visuale. La spesa, mormorò, comprendendovi l'anestesia del midollo spinale, era preventivata in mille franchi, poiché vi era interessato quasi tutto il torace, e ora si trattava di stabilire se l'investimento poteva essere redditizio. Behrens lo incoraggiava, ma il motivo del suo interessamento era palese, mentre a lui stesso la cosa sembrava dubbia, e non si poteva sapere se non fosse piú saggio morire in pace con tutte le costole. Era difficile dargli un consiglio. I cugini erano del parere che si dovesse valutare e comprendere nel calcolo l'eminente abilità chirurgica del consigliere. E rimasero d'accordo di lasciare la decisione a Rotbein padre, il quale era in arrivo. Al momento del commiato il giovane Fritz pianse di nuovo un po', e quantunque lo facesse soltanto a causa della sua debolezza, le lacrime che versava formavano uno strano contrasto con l'arida obiettività del suo modo di pensare e di esprimersi. Pregò i signori di ripetere la visita ed essi glielo promisero molto volentieri, ma non fecero in tempo a ritornare. Essendo il fabbricante di bambole arrivato quella sera stessa, l'operazione era stata eseguita la mattina successiva, e in seguito il giovane Fritz non fu piú in grado di ricevere visite. Due giorni dopo passando di lí con Joachim, Castorp vide che nella camera di Rotbein si stava facendo pulizia. La Schwester Alfreda con la sua valigetta aveva già lasciato il Berghof, perché era stata chiamata in tutta fretta ad assistere un moribondo in un altro sanatorio, e con un sospiro, il cordoncino degli occhiali dietro l'orecchio, c'era andata: era l'unica soluzione che le si presentava. Una camera "abbandonata", resasi libera, dove i mobili erano ammucchiati e, spalancati i battenti, si faceva pulizia, come poteva notare chi passava davanti recandosi nella sala da pranzo o all'aperto, era uno spettacolo eloquente, ma cosí comune che ormai diceva ben poco, specie a chi una volta aveva preso possesso di una camera appena "resasi libera" e ripulita e vi si era acclimato. Talvolta si sapeva chi aveva occupato quel dato numero, e ciò dava certo da pensare; cosí questa volta, cosí dopo otto giorni quando Castorp passando per caso vide la camera della piccola Gerngross nelle medesime condizioni. In questo caso però, alla prima occhiata, la sua intelligenza si ribellò contro il significato del lavorio che vi si svolgeva. Si fermò a guardare, colpito e pensieroso, allorché vide venire il consigliere. Vedo che fanno pulizia disse. Buon giorno, consigliere. La piccola Leila... Eh, già... esclamò Behrens alzando le spalle. Dopo una pausa, durante la quale il gesto fece il suo effetto, soggiunse: Le ha fatto regolarmente la corte in fretta, prima della chiusura, vero? Mi piace che, relativamente vigoroso com'è, si prenda un po' a cuore i miei polmoncini fischianti nelle loro gabbie. E' un bel tratto, sí, sí, mi lasci dire, è un bellissimo tratto del suo carattere.

Vuole che all'occasione la introduca da uno o dall'altro, Ce n'ho ancora di questi lucherini... se le interessano. Adesso, per esempio, vado dalla mia ''stragonfia''. Vuol venire? La presento come compagno di pena simpatizzante. Castorp disse che il consigliere gli aveva tolto la parola di bocca e gli aveva offerto proprio il permesso che stava per chiedere. Accettava con animo grato e lo seguiva, ma chi era mai la "stragonfia" e come doveva intendere questo nome? Alla lettera rispose il consigliere. Nel preciso significato della parola, senza metafora. Se lo faccia raccontare da lei. Dopo pochi passi giunsero alla camera della "stragonfia". Il consigliere entrò ordinando al suo compagno di aspettare fuori. Risa e parole affannate, di chi ha il respiro corto, ma limpide e gaie, uscirono dalla camera alla comparsa di Behrens e furono poi troncate dal chiudersi della porta. Ma dopo qualche minuto squillarono anche incontro al visitatore simpatizzante, quando gli fu permesso di entrare e Behrens lo presentò alla bionda coricata i cui occhi celesti lo guardarono incuriositi: con le spalle contro il guanciale stava piú seduta che sdraiata, irrequieta, e rideva continuamente d'un riso spumeggiante, alto e argentino, ansando, eccitata e solleticata, pareva, dalla sua oppressione. Rise forse anche delle frasi con le quali il consigliere le presentò il visitatore, e mentre quello usciva gli disse alcune volte addio e mille grazie e arrivederci, salutandolo anche col gesto, con sospiri sonori, con argentini passaggi di risa; e reggendosi il seno che le ondeggiava sotto la camicia di batista non riusciva a tener ferme le gambe. Era, per dirne il nome, la signora Zimmermann. Castorp la conosceva di vista. Era stata alcune set timane alla tavola della Salomon e dello scolaro vorace e aveva sempre riso molto. Poi era scomparsa senza che egli se ne desse pensiero. Poteva essere partita, aveva pensato, seppure se n'era fatto un'idea non vedendola piú. Ora la ritrovava lí, ne aveva udito il nome di "stragonfia'' e aspettava la spiegazione. Ah ah ah spumeggiò lei col prurito in gola, col petto ansante. Com'è buffo quel Behrens, buffissimo e divertente, c'è da morir dal ridere. Si sieda, s'accomodi, signor Kasten, signor Karsten, non so se dico bene, ha un nome cosí ridicolo, ih ih, ah ah, mi scusi! Costí, su quella sedia ai miei piedi, ma mi lasci sgambettare, non posso... ah... ah sospirò a bocca aperta, riprendendo poi a fiorettare, non posso farne a meno. Era quasi bella, coi lineamenti puri, forse un po' troppo spiccati, ma simpatici, e un leggero accenno di pappagorgia. Aveva però le labbra bluastre e la punta del naso dello stesso colore, indubbiamente a causa della mancanza d'aria. Le sue mani, di una piacevole magrezza, abbellite con molto garbo dai polsini merlettati della camicia, erano sempre in moto come i piedi. Il collo sembrava quello di una fanciulla, con "saliere" sulle tenere clavicole, e anche il petto, sempre in moto sussultante sotto il lino e agitato dalle risa e dalla difficoltà di respiro, pareva tenero e giovane. Castorp decise di mandare o portare anche a lei i bei fiori delle piantagioni di Nizza e Cannes, spruzzati e profumati.

E solo con una certa apprensione partecipò alla scapigliata e ansimante allegria della signora Zimmermann. Sicché lei viene a visitare chi ha la febbre alta? domandò. Divertente e molto gentile da parte sua, ah ah ah! Pensi però, io non ho affatto la febbre alta, cioè non l'avevo affatto fino a poco tempo fa, affatto davvero... finché ultimamente mi capita... Stia a sentire se non è la cosa piú buffa che sia mai ... E ansando, fra trilli e risatine, raccontò la sua avventura. Era venuta lassú un po' malata... malata certo, altrimenti non sarebbe venuta, forse non proprio leggermente, ma piuttosto leggera che grave. Il pneumotorace, conquista ancor giovane ma rapidamente diffusa della tecnica chirurgica, aveva dato ottimi risultati anche nel caso suo. L'intervento era riuscito splendidamente, le condizioni e la salute della signora facevano i piú promettenti progressi, suo marito (poiché era sposata, benché senza figli) aveva motivo di aspettare che ritornasse fra tre o quattro mesi. Allora, per svagarsi aveva fatto una gita a Zurigo, ... il viaggio non aveva altro scopo, soltanto svago e divertimento. Lei si era infatti divertita a volontà, ma a un certo punto aveva anche avvertito la necessità di rigonfiare il torace e ne aveva affidato il compito a un dóttore di laggiú, un giovane garbato, buffo, ah ah ah, ma che cosa aveva fatto? L'aveva gonfiata troppo! Non si poteva usare una definizione diversa, la parola diceva tutto. Aveva dimostrato un eccesso di buona volontà, forse era anche poco pratico, fatto sta che era ritornata lassú stragonfia, con oppressione di cuore e mancanza di respiro... ah! ih ih ih!... e Behrens s'era messo a sacramentare come un turco e l'aveva cacciata immediatamente a letto. Ora era grave, ... non proprio con febbre altissima, ma sciupata, rovinata, ... ah ah ah! e lui perché faceva quella faccia buffa? E puntando il dito rise di quella faccia talmente che anche la fronte le cominciò a diventare paonazza. Ma la cosa piú comica, disse, era Behrens con le sue imprecazioni villane... Ne aveva riso in anticipo, appena si era accorta di essere stragonfia. Lei corre rischio di lasciarci subito la pelle! le aveva gridato sul muso, senza ambagi o velami. Che razza di orso, ih ih ih, ah ah ah, mi scusi! Non si capiva in che senso la dichiarazione del consigliere la facesse spumeggiare d'allegria: se per il solo fatto della "villania" e perché non ci credeva, o nonostante che ci credesse (poiché certo non poteva farne a meno), considerando però terribilmente ridicola la cosa in sé cioè il rischio che correva di morire. Castorp ebbe l'impressione che si trattasse di questa seconda alternativa e lei stesse spumeggiando e trillando solo per puerile leggerezza e per la stupidità del suo cervellino d'uccello: cosa che egli non poté approvare. Le mandò fiori lo stesso, ma non rivide piú la ilare signora Zimmermann.

Infatti, dopo essere vissuta ancora alcuni giorni a furia di ossigeno, era realmente deceduta tra le braccia del marito chiamato d'urgenza: un'oca in grande stile, fu il commento che Castorp udí dalle labbra del consigliere. Ma già prima, con l'aiuto di quest'ultimo e del personale, lo spirito di simpatizzante iniziativa aveva messo Hans Castorp in relazione con altri malati gravi, e Joachim lo dovette secondare. Dovette andare con lui dal figlio di "Tous-les-deux", il secondo, dopo che la camera attigua, quella del primo, era stata da un pezzo pulita e suffumigata con H2CO. Poi dal ragazzo Teddy che era venuto recentemente dal Fridericianum, un istituto nel quale il suo caso era stato considerato troppo grave. Poi da Anton Karlovic Ferge, un impiegato alle assicurazioni russo-tedesco, un paziente rassegnato. Poi dalla infelice e pur tanto civettuola signora von Mallinckrodt che come i sopra nominati ricevette un omaggio di fiori e Castorp, presente Joachim, persino imboccò dandole la pappa... A poco a poco salirono in fama di samaritani e fratelli della misericordia. In questo senso Settembrini interpellò un giorno il giovane Castorp. Perdiana, ingegnere, ho avuto sorprendenti notizie del suo cambiamento! Si è dato alla vita caritatevole? Cerca la giustificazione nelle opere di carità? Inezie, signor Settembrini. Non è il caso di parlarne. Mio cugino e io... Via, lasci da parte suo cugino! Si sa bene che si tratta di lei, quando la coppia fa parlare di sé, questo è certo. Il tenente è un essere rispettabile, ma semplice, il cui spirito non corre pericoli, uno che non fa stare in pensiero l'educatore. Non vorrà darmi a intendere che l'iniziativa sia partita da lui! Il piú importante, ma anche piú esposto ai pericoli, è lei. Lei, se mi vuol passare l'espressione, è un pupillo della vita, ... bisogna prendersi cura di lei. D'altronde mi ha dato il permesso di farlo. Certo, signor Settembrini. Una volta per sempre. Molto gentile da parte sua. "Pupillo della vita" è detto bene. Guarda un po', una vera trovata da scrittore! Non so proprio se posso vantarmi di questa definizione, ma suona bene, bisogna dire. Be', io mi dedico ora un po' ai "pupilli della morte", lei voleva dire questo, no? Quando ho tempo, cosí, di passaggio, senza che la cura prescritta ne soffra, do un'occhiata ai casi seri e gravi, capisce, a quelli che non sono qui per divertirsi e fare vita sregolata, ma stanno morendo. Però sta scritto "Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti" ribatté l'italiano. Castorp alzò le braccia e con l'espressione del viso fece capire che molte cose stanno scritte, questa e qualche altra, sicché è difficile discernere la giusta e seguirla. Naturalmente il sonatore d'organetto aveva tirato fuori un criterio scomodo, come era da prevedere. Ma pur essendo sempre disposto a prestargli orecchio, a considerare senza impegno degni di essere ascoltati i suoi insegnamenti e a subire in prova il suo influsso pedagogico, Castorp era ben lontano dal rinunciare, per amore di qualche criterio educativo, a imprese che - nonostante mamma Gerngross e la

sua frase del "garbato piccolo flirt", nonostante il prosaico carattere del povero Rotbein e gli stolti gorgheggi della stragonfia - gli pareva pur sempre in qualche modo giovevole e di ampia portata. Il figlio di "Tous-les-deux" si chiamava Lauro. Aveva ricevuto fiori, violette di Nizza che odoravano di terra, "da parte di due ospiti simpatizzanti, con i migliori auguri di guarigione", e siccome l'anonimo era diventato meramente formale e tutti sapevano da chi venivano gli omaggi, la stessa " Tous-les-deux", la nera e pallida madre messicana, incontrando i cugini nel corridoio, rivolse loro la parola e il suo ringraziamento; e con frasi stridenti, ma soprattutto con la mimica dolente li invitò ad accogliere di persona il grazie di suo figlio, de son seul et dernier fils qui allait mourir aussi. Lauro si rivelò un giovanotto straordinariamente bello, con occhi di fuoco, il naso aquilino dalle pinne mobilissime, le labbra stupende dalle quali spuntavano i baffetti neri,... ma assunse un contegno cosí drammatico, con tali arie che i visitatori, Castorp in verità non meno di Ziemssen, furono lieti quando la porta di quella camera si richiuse alle loro spalle. Mentre infatti " Tous-les-deux" nel suo abito di casimir nero, il velo nero annodato sotto il mento, rughe trasversali sulla fronte bassa ed enormi borse sotto gli occhi color giada, camminava in su e in giú con le ginocchia rientranti, piegava in giú per il dolore un angolo della larga bocca e si avvicinava ogni tanto agli ospiti accanto al letto per ripetere loro la tragica frase pappagallesca: "Tous les dé, VOUS comprenez, messiés... Premièrement l'un ef maintenant l'autre", ... il bel Lauro discorreva, pure in francese, in tono stridulo, rumoroso, insopportabilmente enfatico, affermando che intendeva morire da eroe, "comme l'éros, à l'espagnol", pari a suo fratello, "de meme que son fier jeunefrère Fernando", che era morto come un eroe di Spagna;... e gesticolando si sbottonò la camicia per offrire il petto giallo ai fendenti della morte, e continuò cosí finché un accesso di tosse, che gli fece montare alle labbra una schiuma sottile, rosata, soffocò le sue spacconate e indusse i cugini a uscire in punta di piedi. Non parlarono piú tra loro della visita a Lauro e anche mentalmente, ciascuno per conto suo, si astennero dall'esprimere un giudizio sul suo comportamento. Meglio si trovarono entrambi da Anton Karlovic Ferge di Pietroburgo, il quale, coi grandi baffi bonari e il pomo d'Adamo sporgente con uguale espressione bonaria, se ne stava a letto e si andava piano piano e con difficoltà riavendo dal tentativo di farsi praticare il pneumotorace col quale per un pelo aveva rischiato di morire all'istante. Ne aveva riportato una scossa violenta, lo choc pleurico, noto incidente in quell'intervento di moda. Ma il suo urto era stato di natura pericolosissima, con un completo collasso e un grave deliquio, di una forma insomma cosí seria che si era dovuto interrompere e rimandare l'operazione. I buoni occhi grigi di Ferge si dilatavano e il suo viso si faceva terreo ogni qualvolta parlava di quell'avvenimento che per lui doveva essere stato spaventoso. Senza narcosi, signori. Ecco, gente come noi non la tollera, non vi si può ricorrere in questi casi, allora si capisce e da persone ragionevoli ci si adatta. Ma l'anestesia locale non agisce in profondità, rende insensibile soltanto la carne all'esterno, ed è vero che quando uno viene aperto sente solo premere e schiacciare.

Sto disteso con la faccia coperta affinché non possa guardare, l'assistente mi tiene a destra, la superiora a sinistra. Ho l'impressione di essere premuto, schiacciato, è la carne che viene aperta e fissata con le grappe. In quella sento il consigliere che dice: "Eccoci!" e nello stesso istante comincia a tastare la pleura con uno strumento ottuso (deve essere ottuso perché non perfori prima del tempo); la tasta cercando il punto giusto da perforare per l'immissione del gas, e in quel mentre, quando con lo strumento sta percorrendo la mia pleura, signori, signori miei, compresi che era finita, che non c'era rimedio, una sensazione indescrivibile. La pleura, cari signori, non va toccata, è tabú, è coperta di carne, isolata, inavvicinabile, una volta per sempre. E lui l'aveva messa a nudo e la tastava... Allora, signori, mi sentii male. Spaventevole... Non avrei mai creduto che si potesse avere una sensazione cosí orrenda e infame su questa terra, prescindendo dall'inferno! Svenni,... tre svenimenti in una volta sola, uno verde, uno bruno, uno violetto. Oltre a ciò nel deliquio sentivo un grande puzzo, lo choc pleurico, signori, mi si riversò sull'olfatto, c'era un odoraccio di idrogeno solforato, l'odore che deve appestare l'inferno, e in tutto ciò mi udivo ridere, mentre ero all'ultimo respiro, ma non come ridono gli uomini, era invece la risata piú oscena e schifosa che abbia udito nella mia vita, poiché, signori miei, quel tasteggiamento della pleura è come un solletico, ma il solletico piú infame, esagerato e disumano, ecco, cosí è questa dannata vergogna e tortura, questo è lo choc pleurico che il buon Dio vi voglia risparmiare. Sovente e soltanto con tetro raccapriccio Ferge riportava il discorso su quella "infame" esperienza ed era non poco atterrito di doverla ripetere. D'altronde, fin da principio aveva dichiarato di essere un uomo semplice, ben lontano da tutte le cose "elevate", al quale non si potevano porre particolari esigenze di mente e di cuore, come lui stesso non le poneva agli altri. Stabilito questo, fece un racconto abbastanza interessante della sua vita precedente, dalla quale l'aveva sbalzato la malattia: una vita di viaggiatore al servizio di una compagnia d'assicurazione contro gli incendi. Da Pietroburgo, viaggiando in lungo e in largo per tutta la Russia, aveva visitato le fabbriche assicurate e assolto il compito di investigare quelle che finanziariamente erano meno sicure; essendo dimostrato dalle statistiche che proprio nelle industrie meno floride gli incendi sono piú frequenti. Perciò era incaricato di saggiare con un pretesto o l'altro l'andamento di un'azienda e di riferire alla compagnia, affinché mediante piú cospicue riassicurazioni o suddivisioni dei premi si potessero prevenire perdite rilevanti. Parlò dei viaggi invernali nel vasto impero, viaggi durati notti intere con freddi tremendi, coricato nella slitta, sotto pelli di pecora, e raccontò di aver visto, svegliandosi, gli occhi dei lupi, fiammeggianti come stelle sopra la neve.

Aveva sempre con sé una cassetta di provviste congelate, come minestra di cavoli e pane bianco, che alle fermate, dove si cambiavano i cavalli, si sgelavano, mentre il pane si presentava fresco come il primo giorno. Grave era quando, durante il viaggio, sopravveniva lo sgelo improvviso: la minestra di cavoli, portata con sé in pezzi solidi, si squagliava e scolava via. Cosí narrava Ferge interrompendosi ogni tanto con un sospiro e dicendo che erano tutte belle cose, purché non si ritentasse la prova del pneumotorace. Non diceva niente di elevato, ma erano fatti reali, interessanti, specie per Castorp, cui sembrava utile raccogliere notizie intorno all'impero russo e alla vita che vi si faceva, intorno ai samovar, ai piroghí, ai cosacchi, alle chiese di legno con tanti campanili a cipolla da somigliare a colonie di funghi. Inoltre fece parlare Ferge della gente di laggiú, della loro nordica vita amorosa e perciò, ai suoi occhi, tanto piú bizzarra, della punta di sangue asiatico che aveva nelle vene, degli zigomi sporgenti, della posizione finnico-mongolica degli occhi, e stava ad ascol tare con interessamento antropologico; lo faceva persino parlare in russo: l'idioma orientale sgorgava veloce, sbiadito, ignoto e senza nerbo dal pomo d'Adamo bonario e prominente dell'ammalato, di sotto ai suoi baffi bonari e Castorp ci si divertiva (si sa come sono i giovani) tanto piú, perché ruzzava su un terreno pedagogicamente vietato. Stettero anche altre volte a chiacchierare un quarto d'ora con Anton Karlovic Ferge. Nel frattempo andarono a trovare Teddy, il ragazzo del Fridericianum, un quattordicenne elegante, biondo e fine, con infermiera personale e un pigiama di seta bianca con cordoncini. Era orfano e ricco, lo disse lui stesso. In attesa di un intervento profondo che si voleva tentare, l'estirpazione di parti tarlate, lasciava talvolta il letto, quando si sentiva meglio, per andare, col suo bell'abito sportivo, a passare un'oretta in società. Le donne gli facevano scherzi galanti ed egli ascoltava i loro discorsi, specialmente quando parlavano dell'avvocato Einhuf, della signorina in mutandine o di Franzchen Oberdank. Poi si rimetteva a letto. Cosí Teddy, il ragazzo elegante, viveva alla giornata facendo intendere che dalla vita non aspettava altro che questo. Al numero 50 però stava la signora von Mallinckrodt, Natalia si chiamava, con gli occhi neri e cerchi d'oro alle orecchie, civetta, amante dei fronzoli, ma un vero Lazzaro o Giobbe femminile, colpito da Dio con ogni sorta di malanni. Il suo organismo doveva essere inondato di sostanze tossiche di modo che tutte le malattie possibili si vi alternavano e agivano contemporaneamente. Vi era gravemente coinvolta anche la sua epidermide, coperta in larghe zone da un eczema che le causava un tormentoso prurito ed era qua e là piagato, anche in bocca sicché le riusciva difficile introdurre il cucchiaio. Infiammazioni interne, come quelle della pleura, dei reni, dei polmoni, del periostio e perfino del cervello, donde i momenti d'incoscienza, si susseguivano nella Mallinckrodt, e l'astenia cardiaca, provocata dalla febbre e dai dolori le procurava grandi angosce, sicché, ad esempio, non riusciva a inghiottire bene i cibi: le si fermavano nell'esofago.

Insomma, era conciata male e per giunta sola al mondo; dopo aver abbandonato il marito e i figli per amore di un altro uomo, poco piú di un ragazzo, era stata lasciata a sua volta dall'amante, come i due cugini appresero dalle sue labbra, e ora era senza casa, seppure non priva di mezzi, dato che il marito glieli passava. Senza orgoglio fuori di posto approfittava del fatto che era un uomo per bene e ancora innamorato; di se stessa non aveva molta stima, sapeva di essere soltanto una femmina disonesta e peccatrice, e su questa base sopportava tutti i suoi malanni degni di Giobbe con stupefacente pazienza e tenacia, con la naturale resistenza d'una femminilità di razza che riusciva a vincere la miseria del suo corpo abbronzato, e persino della fasciatura di garza bianca, che per qualche triste ragione era costretta a portare, sapeva fare un indumento elegante. Cambiava continuamente i gioielli, cominciava la mattina coi coralli e terminava la sera con le perle. Felice dell'omaggio floreale di Castorp, cui attribuí evidentemente un significato piuttosto galante che caritatevole, i nvitò i due giovani a prendere il tè accanto al suo letto; lei lo prese in una tazza con beccuccio e aveva tutte le dita, compresi i pollici, coperte fino alle giunture di opali, ametiste e smeraldi. Dondolando i cerchi d'oro che portava alle orecchie raccontò ai cugini in quattro e quattr'otto tutta la sua storia: del marito per bene, ma noioso, dei figli altrettanto per bene e noiosi, che padreggiavano, per i quali lei non aveva mai provato un grande attaccamento, e dell'altro, poco piú di un ragazzo, col quale aveva preso il largo e della cui poetica tenerezza fece alti elogi. Se non che i parenti di lui l'avevano allontanato da lei con l'astuzia e con la forza, e poi aveva forse anche provato ribrezzo delle varie e violente eruzioni del male che allora l'aveva colpita. Ne avevano ribrezzo anche loro? domandò civettando: e la sua femminilità di razza riportò un trionfo sull'eczema che le sfigurava una metà del viso. Castorp reputò spregevole il ragazzo che aveva provato ribrezzo e manifestò questo sentimento con un'alzata di spalle. In quanto a lui, prese la mollezza del quasiragazzo poeta come incitamento nella direzione opposta, e approfittò dell'occasione per rendere, in ripetute visite, all'infelice Mallinckrodt piccoli servizi d'infermiere, per i quali non c'era bisogno di nozioni speciali, come alutarla a prendere cautamente la pappa di mezzogiorno appena servita, porgerle da bere con la tazza a beccuccio quando il boccone le restava in gola, o darle una mano a girarsi nel letto, poiché, oltre a tutto il resto, la ferita di un'operazione le impediva persino di stare supina. Si dedicava a questi piccoli aiuti quando, recandosi nella sala da pranzo o ritornando dalla passeggiata, l'andava a salutare, dicendo a Joachim che andasse pure avanti, egli intanto voleva dare un'occhiata alle condizioni del numero 50... Ed era beato di sentirsi allargare la personalità, gioiva al pensiero dell'utilità e della segreta portata della sua azione, che d'altro canto era anche accompagnata dall'immenso piacere di scorgervi la perfetta impronta cristiana, un impronta effettivamente cosí pia, mite e lodevole che non vi si poteva opporre nessuna seria obiezione né sotto l'aspetto militare né sotto quello umanistico-pedagogico. Di Karen Karstedt non si è parlato ancora, eppure Castorp e Ziemssen le si dedicarono con cura particolare.

Era una paziente esterna del consigliere il quale l'aveva raccomandata alla carità dei cugini. Senza mezzi, era lassu da quattro anni e dipendeva da parenti di cuor duro i quali, dopo averla ritirata una volta, sapendo che doveva morire, soltanto in seguito alla protesta del consigliere l'avevano rimandata. Stava in una modesta pensione a Dorf, aveva diciannove anni, i capelli lisci, unti con olio, occhi che timidamente cercavano di nascondere una lucentezza intonata alle guance troppo accese dalla tisi, e la voce velata in modo caratteristico ma di timbro simpatico. Esile com'era, tossiva quasi senza interruzione e aveva la punta di tutte le dita incerottata, perché aperta in seguito all'intossicazione. Per intercessione di Behrens i due giovani, visto che erano cosí buoni diavoli, si dedicarono a lei in modo particolare. Cominciarono con un invio di fiori, seguí una visita alla povera Karen sul piccolo balcone a Dorf, poi un paio di straordinarie imprese a tre: andarono a vedere una gara di pattinaggio e una corsa di bobsleigh. La stagione degli sport invernali nell'alta valle era al culmine, vi si era indetta una settimana di festeggiamenti, le manifestazioni s'incrociavano, con divertimenti e spettacoli ai quali i due cugini avevano prestato fino allora un'attenzione fuggevole e occasionale. Joachim era contrario a qualsiasi distrazione: non era lassú per distrarsi, ... in genere non era là per vivere e adattarsi a quel soggiorno rendendolo vario e piacevole, ma unicamente per disintossicarsi il piú presto possibile e scendere al piano a prestare servizio, servizio vero invece del servizio richiesto dalla cura, il quale era soltanto un surrogato, e soltanto a malincuore ne tollerava detrazioni. Prendere parte attiva ai diporti invernali gli era vietato, andare a curiosare gli ripugnava. Castorp a sua volta si sentiva, in un senso fin troppo intimo e rigoroso, talmente legato alla famiglia dei pazienti che certo non aveva voglia di assistere alla baraonda di gente che prendeva quella valle per un campo sportivo. Ora, la caritatevole simpatia per la povera signorina Karstedt introdusse un piccolo mutamento... e Joachim non poté esimersi senza fare la figura di essere poco cristiano. Andarono a prendere la malata nella sua misera abitazione a Dorf e, con uno stupendo tempo gelido sotto i raggi del sole, la condussero attraverso il Quartiere inglese, cosí chiamato dall'Hotel d'Angleterre, tra i lussuosi negozi della via principale, dove tintinnavano i sonagli delle slitte e passeggiavano ricchi gaudenti e perdigiorno convenuti dal mondo intero, clienti della Casa di cura e degli altri grandi alberghi, a capo scoperto, in abiti sportivi di stoffa nobile e costosa, con la faccia abbronzata dal sole invernale e dalle radiazioni della neve e scesero con lei alla pista di pattinaggio, che d'estate era un prato per il giuoco del calcio, un po' in basso nella valle, non lontano dalla Casa di cura. Vi sonava la musica del luogo, sul podio del chiosco di legno che sorgeva a un capo della pista quadrata, dietro alla quale i monti nevosi si stagliavano sul cielo turchino. Pagarono l'ingresso, attraversarono il pubblico che circondava la pista da tre lati, trovarono posto sulle gradinate, e stettero a guardare. Gli artisti del pattinaggio, in abito succinto di maglia nera, con la giubba gallonata e orlata di pel liccia, dondolavano, saltavano, si libravano in aria, disegnavano cerchi e figure.

Una coppia di virtuosi, uomo e donna, professionisti fuori concorso, eseguirono esercizi che soltanto loro in tutto il mondo sapevano fare suscitando squilli di tromba e battimani. Nella gara per il premio di velocità, sei giovani di diverse nazioni, curvi, le mani sulla schiena, portandosi ogni tanto il fazzoletto alla bocca, percorsero sei volte l'ampio quadrato. Una campana sonava durante il concerto, mentre la folla gridava ogni tanto incitando i corridori e applaudendo. In quella moltitudine variopinta i tre malati, i cugini e la loro protetta, si guardarono in giro. Inglesi col berretto scozzese e i denti candidi conversavano in francese con le signore dal profumo penetrante, vestite da capo a piedi di lana bianca, alcune in calzoni. Americani microcefali coi capelli lisci e appiccicati, la pipa carica di shag tra le labbra, portavano pellicce col pelo all'esterno. Russi barbuti ed eleganti, dall'aspetto di ricchi barbari, e olandesi d'incrocio malese erano seduti in mezzo a tedeschi e svizzeri, mentre ogni sorta di gente indefinibile che parlava francese picchiettava il quadro; erano balcanici o levantini, tipi di avventurieri per i quali Castorp manifestava un debole, Joachim invece una certa ripugnanza, perché li considerava equivoci e senza carattere. Bambini facevano gare scherzose a modo loro, passando e incespicando sulla pista, una scarpa da neve a un piede, un pattino all'altro, e ragazzi spingevano davanti a sé le loro damine sedute su una pala. Correvano con in mano una candela accesa, e vinceva chi riusciva a portarla al traguardo ancora accesa, o nella corsa dovevano scavalcare ostacoli o raccogliere patate con cucchiai di stagno e gettarle in appositi annaffiatoi. I grandi erano esultanti: si indicavano l'un l'altro i bambini piú ricchi, piú celebri, piú graziosi, la figlioletta d'un multimilionario olandese, il figlio di un principe prussiano e un dodicenne che portava il nome d'una famosa marca di sciampagna. La povera Karen esultava a sua volta e tossiva. Dalla gioia batteva le mani con le dita piagate. Ed era tanto grata. I cugini la portarono anche alle corse di guidoslitta; non era lontano né dal Berghof, né dalla casa di Karen, perché la pista, scendendo dalla Schatzalp, terminava a Dorf nell'abitato del versante occidentale. Vi sorgeva una cabina di controllo dove veniva annunciata per telefono la partenza di ciascun bob. Dall'alto, a lunghi intervalli scendevano singoli, tra gli argini di neve gelata, lungo le curve dai riflessi metallici, i piatti bolidi, occupati da uomini e donne vestiti di lana candida, il petto coperto di sciarpe nei colori di tutte le nazioni. Si vedevano visi rossi, affaticati, investiti da spruzzi di neve. Il pubblico fotografava le cadute, le slitte che s'incagliavano e capovolgevano seminando l'equipaggio sulla neve. Anche là c'era una musica che sonava. Gli spettatori stavano seduti su piccole tribune o arrancavano per lo stretto sentiero spalato lungo la pista. Anche i ponti di legno che attraversavano la pista, sotto i quali ogni tanto filava un bob concorrente, erano pieni di gente.

Le salme di chi moriva lassú nel sanatorio percorrevano la stessa via, pensò Castorp e anche lo disse, giú a precipizio per quelle curve, sotto i ponti, a valle, a valle. Visto che ci trovava tanto gusto, un pomeriggio condussero Karen persino nel bioscopio di Platz. In quel l'aria corrotta che diede a tutti e tre un fastidio fisico perché erano avvezzi a quella pura e causò loro un senso di oppressione e in testa quasi una nebbia, videro tremolare sulla tela, davanti agli occhi dolenti, una vita molteplice, spezzettata e accelerata in modo divertente, in un'irrequietezza tutta sbalzi, con soste saltellanti e guizzanti sparizioni, accompagnata da una musichetta che applicava la presente suddivisione del tempo alla fuga di eventi del passato e, con mezzi limitati, riusciva a tirare tutti i registri della solennità e della pompa, della passione sfrenata e dalla sospirosa sensualità. Videro un'agitata e cruenta vicenda d'amore che si dipanava muta alla corte d'un despota orientale, scene veloci di splendore e nudità, di concupiscenza tirannica e d'esaltata sottomissione religiosa, di crudeltà, desiderio, piacere con visioni insistenti quando si trattava di far vedere i bicipiti d'un carnefice,... una creazione insomma, dovuta alla familiare ed esperta simpatia per i segreti desideri della curiosa civiltà internazionale. Settembrini, uomo giudicante, avrebbe certo dovuto bollare con asprezza quello spettacolo antiumanitario e censurare severamente, con retta e classica ironia, l'abuso della tecnica datasi ad animare rappresentazioni di tanto disprezzo per gli uomini; cosí pensò Castorp e lo sussurrò a suo cugino. La signora Stohr invece, che pure era presente e non molto discosto dai tre, era tutta abbandono e la sua rossa faccia di ignorante tutta tesa dal godimento. Simile al suo appariva però il viso di tutti i presenti. Quando l'ultima tremolante immagine d'una sequenza di scene guizzò via e, riaccesa la luce nella sala, il campo delle visioni comparve tutto vuoto agli occhi della folla, non ci poterono essere nemmeno applausi. Non c'era nessuno da ringraziare con l'applauso o chiamare alla ribalta per la bravura artistica. Gli attori convocati per la recita testé ammirata si erano sparpagliati da un pezzo a tutti i venti; si erano viste soltanto le ombre della loro produzione, milioni di immagini e di brevissimi momenti, nei quali si era spezzettata la loro azione per riconsegnarla quante volte si volesse, in rapido ammiccante decorso, all'elemento tempo. Il silenzio della folla, dopo l'illusione, aveva un che di snervato e odioso. Le mani giacevano impotenti davanti al nulla. La gente si sfregava gli occhi, fissi nel vuoto, si vergognava della luce e non vedeva l'ora che ritornasse il buio per riprendere a guardare, e veder riaccadere cose che avevano avuto il loro tempo, trapiantate nel presente e imbellettate di musica. Il tiranno moriva accoltellato con un urlo che non si udiva. Si videro poi immagini di una rassegna mondiale: il presidente della repubblica francese in cilindro e gran cordone che dal sedile del landò rispondeva a un'allocuzione di saluto; Il viceré dell'India alle nozze d'un ragià; il Kronprinz tedesco nel cortile d'una caserma di Potsdam. Si videro la vita e il movimento d'un villaggio di indigeni nel New Ireland, un combattimento di galli a Borneo, selvaggi nudi che sonavano un loro flauto, la cattura di elefanti selvatici, una cerimonia alla corte

del re del Siam, una strada di bordelli in Giappone dove le geishe stavano dietro alla grata di gabbie di legno. Si videro samojedi imbacuccati che guidavano slitte tirate da renne attraverso le distese di neve dell'Asia settentrionale, pellegrini russi in preghiera a Hebron, un delinquente persiano punito a colpi di bastone. A tutte queste cose gli spettatori erano presenti: lo spazio era abolito, il tempo sospeso, l'ibi et olim tramutato in un frettoloso e svolazzante hic et nunc entro un alone di musica. Una giovane marocchina, vestita di seta a righe, bardata di collane, bracciali e anelli, il petto colmo seminudo, fu a un tratto avvicinata in grandezza naturale: aveva le narici larghe, gli occhi vibranti di una vita animalesca, i lineamenti mossi; rideva mostrando i denti candidi; con una mano, le cui unghie erano piú chiare della carne, si faceva schermo agli occhi, mentre con l'altra salutava il pubblico. Quest'ultimo fissava imbarazzato la graziosa ombra che pareva vedesse e non vedeva, e non era toccata dagli sguardi, e quel riso e quei cenni non vivevano nel presente, ma nell'ibi et olim, sicché sarebbe stato assurdo volerli ricambiare. Ciò aggiungeva, ripetiamo, al piacere un senso di impotenza, finché il hntasma scomparve, la luce vuota inondò la tela, sulla quale fu proiettata la parola "Fine; il ciclo della rappresentazione era chiuso, e il teatro si vuotò in silenzio, mentre altro pubblico si affollava all'ingresso, perché desiderava godere la ripetizione dello spettacolo. Su proposta della signora Stcihr, unitasi a loro, andarono poi, per far piacere alla povera Karen, che per gratitudine teneva le mani giunte, al caffè della Casa di cura. Anche là si faceva musica. Un'orchestrina, tutti in frak rosso, sonava diretta da un primo violino ceco o ungherese che, staccato dal gruppo, stava in mezzo alle coppie danzanti e con vivaci contorsioni maneggiava il suo strumento. Ai tavolini si svolgeva una vita mondana, si stavano servendo bevande rare. I cugini ordinarono aranciata per sé e per la loro protetta, perché faceva caldo e l'aria era polverosa, mentre la Stohr prendeva un liquore dolce. A quell'ora, spiegò, non regnava ancora la vera animazione. A sera piú avanzata la pista da ballo accoglieva ben piú gente; piú tardi vi convenivano piú numerosi i pazienti di diversi sanatori e anche malati indipendenti che arrivavano dagli alberghi e dalla stessa Casa di cura. Lí già parecchi malati gravi erano entrati a passo di danza nell'eternità vuotando il calice della gioia di vivere, percossi in duki iubilo dall'emottisi finale. Bisognava sentire che cosa l'immensa ignoranza della Stohr facesse di quel dulci iubilo; la prima parola la trasse dal vocabolario italiano e musicale di suo marito trasformandola in "dolce", la seconda divenne una specie di "giubileo" o Dio sa cosa; al fiorire di quel latino i cugini si misero contemporaneamente a sorbire la bevanda con lo stelo di paglia infilato nel bicchiere, ma la Stohr non se ne adontò. Cercò invece con allusioni e colpi di spillo, scoprendo caparbia i denti leporini, di scandagliare quale relazione ci fosse fra i tre giovani, poiché l'aveva capita chiaramente solo in ciò che riguardava la povera Karen, cui, disse la Stohr, garbava certamente, dato la sua vita facile, di essere accompagnata da ben due cavalieri cosí perfetti.

Il caso le pareva meno chiaro da parte dei cugini: ma nonostante l'ignoranza e la stupidità il suo intuito femminile l'aiutò a farsene un'idea, sia pure incompleta e volgare. Capí infatti, e lo disse con espressioni pungenti, che in quel caso il vero e proprio cavaliere era Hans Castorp, mentre il giovane Ziemssen faceva soltanto da assistente, e Castorp, del quale conosceva l'inclinazione verso madame Chauchat, accompagnava la misera Karstedt soltanto in sostituzione del l'altra, alla quale evidentemente non sapeva avvicinarsi: intuizione fin troppo degna della Stohr e senza alcuna profondità morale, insufficiente quanto mai e volgare, che, quando fu manifestata con frasi scipite e motteggiatrici, Castorp accolse soltanto con un'occhiata stanca e sprezzante. Infatti, la compagnia della povera Karen era, sí, per lui una specie di surrogato e di ripiego vagamente utile, su per giú come lo erano tutte le sue caritatevoli iniziative, ma erano ad un tempo fine a se stesse, quelle pietose iniziative, e la soddisfazione che provava quando aiutava la Mallinckrodt, piena di acciacchi, a prendere la pappa, o quando si faceva descrivere da Ferge l'infernale choc pleurico o vedeva la povera Karen applaudire, beata e riconoscente, con quelle mani dai polpastrelli incerottati, era, benché metaforica e relativa, pur sempre immediata e pura; scaturiva da uno spirito culturale contrapposto a quello pedagogico di Settembrini, degna pertanto, sembrava al giovane Castorp, che vi si applicasse il placet experiri. La casetta dove abitava Karen Karstedt non era lontana dal corso d'acqua e dal binario della ferrovia sulla strada che portava a Dorf, sicché per i cugini era comodo andarla a prendere quando, dopo la colazione, desideravano averla con sé nella loro escursione d'obbligo. Scendendo cosí verso Dorf per raggiungere la passeggiata principale vedevano davanti a sé il Piccolo Schiahorn, poi piú a destra tre guglie dette le Torri Verdi, ora però coperte di neve abbagliante al sole, e piú a destra ancora la cima tondeggiante del Monte di Dorf A un quarto d'altezza del suo pendio appariva il cimitero di Dorf, cinto da un muro, donde si doveva godere un bel panorama, probabilmente sul lago, e perciò era da prendere in considerazione come meta di una passeggiata. Vi salirono infatti, tutti e tre, una bella mattina... Ora tutti i giorni erano belli, senza vento, assolati, turchini, caldogelidi e d'un candore scintillante. I cugini, l'uno rossomattone in viso, l'altro abbronzato, andavano in giacchetta, perché a quella vampa di sole il soprabito avrebbe dato fastidio, il giovane Ziemssen in abito sportivo con calosce da neve, Castorp con calzatura uguale, ma in calzoni lunghi, perché il suo fisico non era adatto a portarli corti. Si era tra il principio e la metà di febbraio, nell'anno nuovo. Proprio cosí, da quando Castorp era salito, il millesimo era cambiato, era aumentato di uno. Una grande lancetta dell'orologio universale era avanzata di una unità; non proprio una delle maggiori, non quella, poniamo, che misura i millenni (pochissimi tra i viventi vi assisteranno); e nemmeno quella che segna i secoli o soltanto i decenni, no, ma la lancetta dell'anno era scattata da poco, benché Castorp non fosse lassú da un anno, ma soltanto da poco piú di mezzo, e s'era fermata come la lancetta di certi grandi orologi che scatta di cinque in cinque minuti, per poi riprendere ad avanzare. Ma per arrivarci, la lancetta dei mesi doveva scattare ancora dieci volte, un paio di volte piú di quelle che erano scattate da quando Castorp era lassú,... il febbraio non lo contava piú, perché una volta incignato era bell'e liquidato, come la moneta spicciolata può considerarsi bell'e spesa.

Anche al camposanto sul Monte di Dorf andarono dunque una volta quei tre: per l'esattezza del racconto diremo anche di quella escursione. L'iniziativa era partita da Castorp, mentre Joachim aveva avuto da principio qualche scrupolo per via della povera Karen, ma poi aveva compreso e ammesso che era inutile giocare con lei a rimpiattino e preservarla, secondo gli intendimenti della codarda Stohr, da tutto ciò che poteva rammentarle l'exitus. La Karstedt non si abbandonava ancora alle illusioni dell'ultimo stadio, sapeva benissimo a che punto fosse e che cosa significasse la necrosi dei suoi polpastrelli. Né ignorava che i suoi parenti, duri di cuore com'erano, non avrebbero voluto saperne del lusso di trasportarla a casa, ma dopo la fine avrebbe trovato il modesto alloggio di un posticino lassú. Si poteva dunque pensare che quella meta d'una passeggiata era per lei piú adatta di parecchie altre, piú di quanto non fossero, ad esempio, la pista dei bob o il cinema,... come d'altro canto una visita occasionale a quelli di lassú non era che un decoroso atto di cameratismo, posto che non si considerasse il cimitero soltanto come un luogo da andare ad ammirare o una zona neutra da andarvi a passeggio. Salirono adagio in fila indiana, perché il sentiero spalato consentiva soltanto di procedere alla spicciolata, si lasciarono alle spalle e sotto di sé le ville costruite sul versante e, via via che montavano, videro aprirsi e spostarsi un po' la prospettiva del paesaggio familiare nella sua stupenda veste invernale; esso si allargò verso nordest, verso l'inizio della valle, si spalancò con l'atteso panorama del lago, il cui cerchio circondato dai boschi era gelato e coperto di neve, e oltre la sua riva piú lontana pareva s'incrociassero al suolo i pendii montani, dietro ai quali vette sconosciute e nevose si sormontavano a vicenda stagliandosi sull'azzurro del cielo. In piedi nella neve, davanti al portone di pietra del cimitero, si soffermarono a guardare quel paesaggio ed entrarono poi dal cancello di ferro che era adattato agli stipiti di pietra e soltanto accostato. Anche là trovarono i sentierini spalati che conducevano tra i tumuli coperti dalla coltre di neve, cinti di cancelletti, tra quei giacigli pianamente sistemati, con le loro croci di pietra o metallo, i monumentini ornati di medaglioni ed epitaffi; ma non si vedeva né si udiva nessuno. Il silenzio, l'isolamento e la solitudinè del luogo erano profondi e misteriosi sotto vari aspetti; un angioletto o putto di pietra che, uno sbilenco berretto di neve sulla testolina, stava in mezzo ai cespugli con un dito sulle labbra ne poteva apparire il genio tutelare,... vale a dire il genio del silenzio, e precisamente di un silenzio che si sentiva quanto fosse il contrario e l'opposto del parlare, quanto fosse un ammutolire, ma certo non privo di contenuto e di eventi. Quella sarebbe stata per i due visitatori l'occasione di levarsi il cappello se l'avessero avuto; ma erano a capo scoperto, anche Castorp, e camminavano quindi in atteggiamento riverente, col peso del corpo sulla punta dei piedi, facendo quasi piccoli inchini a destra e a sinistra, in fila indiana dietro a Karen che apriva la marcia. Il cimitero era di forma irregolare, cominciava con uno stretto rettangolo verso sud e si apriva poi pure a rettangolo da una parte e dall'altra. Si notava che c'era stato piú d'una volta bisogno di allargarlo e vi si erano aggregati tratti di campagna. Ciò nonostante il recinto era, si può dire, tutto occupato, sia lungo il muro, sia nelle parti interne, meno preferite, ed era difficile vedere e dire dove si sarebbe potuto, se mai, trovare alloggio.

I tre esterni camminarono a lungo e con discrezione per gli stretti viottoli e passaggi tra le tombe, fermandosi ogni tanto a decifrare un nome con le relative date di nascita e di morte. Lapidi e croci erano senza pretese, si capiva che non erano costate molto. Nelle iscrizioni si leggevano nomi affluiti da tutti i punti cardinali, in inglese, in russo o genericamente slavo, anche in tedesco, portoghese e altre lingue, le date invece erano acerbe, la distanza fra l'una e l'altra chiaramente breve; tra la nascita e la morte la differenza si aggirava sempre sui vent'anni o poco piú, il campo era popolato quasi soltanto da giovani, gente poco salda, convenuta da tutto il mondo e stabilitasi nella definitiva forma orizzontale dell'esistenza. Da qualche parte, nell'interno del campo, verso il centro, tra la folla dei tumuli, c'era un posticino piano, lungo quanto un uomo, liscio e libero, in mezzo a due rialti, sulle cui lapidi erano appese corone di metallo, e i tre visitatori senza volerlo si fermarono là, la signorina un passo piú avanti dei due uomini, e si misero a leggere le affettuose scritte sulle lapidi,... Castorp COll abbandono, le mani incrociate davanti a sé, con la bocca aperta e gli occhi assonnati, il giovane Ziemssen chiuso e non solo ritto, ma persino un po' reclinato all'indietro,... dopo di che i due cugini con simultanea curiosità guardarono di soppiatto il viso della Karstedt. Lei però se n'accorse, umile e vergognosa, sporgendo un po' la testa su una spalla, e abbozzò un sorriso lezioso facendo il bocchino e battendo rapidamente le palpebre.

Notte di Valpurga. Nei giorni successivi compirono sette mesi dacché il giovane Hans Castorp soggiornava lassú, mentre suo cugino Joachim che ne aveva cinque sul gobbo quando quello era arrivato, ora ne annoverava dodici, dunque un annetto... un anno tondo,... tondo in senso cosmico, perché da quando la piccola, forzuta locomotiva lo aveva scaricato, la terra aveva compiuto il suo giro intorno al sole ed era ritornata al punto di allora. Era tempo di carnevale. Il martedí grasso era alle porte e Castorp s'informò presso chi era là da un anno per sapere come si sarebbe presentato. Magnifico! )> rispose Settembrini quando i cugini lo incontrarono durante i quattro passi del mattino. Meraviglioso! rispose. Un'allegria come al Prater. Vedrà, ingegnere. Poi siamo tra i danzanti gli splendidi galanti disse e continuò a sparlare accompagnando la reboante maldicenza con efficaci movimenti delle braccia, della testa e delle spalle. Che volete, anche nella "maison de santé" si organizzano balli talvolta, a quanto ho letto, per i pazzi e i deficienti,... perché non lo si dovrebbe fare qui? Il programma, come potete immaginare, comprende le piú varie danze macabre.

Purtroppo un certo gruppo dei partecipanti d'un anno fa non potrà esserci questa volta, perché la festa termina già alle nove e mezzo... Lei vuol dire... ah, buona questa! rise Castorp. Lei ha sempre pronta la freddura!... "Alle nove e mezzo", hai sentito? Troppo presto, cioè, perché un certo gruppo di quelli dell'anno scorso vi possa partecipare ancora un'oretta: questo vuol dire il signor Settembrini. Ah, ah, pauroso. E cioè quel gruppo che nel frattempo ha detto definitivamente vale alla "carne". Hai capito il bisticcio? Oh, sono proprio curioso... A me sembra giusto che qui si celebrino le feste nei giorni stabiliti e si seguano secondo la consuetudine le tappe, gli stacchi nel tempo per evitare la monotonia disarticolata; sarebbe strano se fosse altrimenti. Abbiamo avuto il Natale, si sapeva che era arrivato capodanno, e ora dunque viene il martedí grasso. Poi s'avanza la domenica delle Palme (li fanno qui i buccellati?), la settimana santa, Pasqua e Pentecoste, cioè dopo sei settimane, e poi manca poco al giorno piú lungo dell'anno, al solstizio d'estate, capisce, e si va verso l'autunno... Si fermi, si fermi, per carità! esclamò Settembrini alzando il viso al cielo e coprendosi le tempie. Stia zitto! Le proibisco di correre cosí a briglia sciolta! Mi scusi, ma dicevo, al contrario... D'altro canto Behrens si dovrà pur decidere una buona volta a farmi le iniezioni per disintossicarmi, perché ho in permanenza 37 e 4, e 5, e 6 e persino 7. Non vuol mutare. Inutile, sono e resto un pupillo della vita. Non sono qui a lunga scadenza, è vero, Radamanto non mi ha mai appioppato un termine preciso, dice però che sarebbe assurdo interrompere la cura prematuramente, dopo che sono qui ormai da un pezzo e ho investito, per cosí dire, tanto tempo. E poi, che mi gioverebbe, se fissasse un termine. Non risolverebbe nulla, perché quando, per esempio, dice sei mesetti, il computo è molto ristretto, bisogna prepararsi a un periodo piú lungo. Lo si vede con mio cugino: ai primi del mese doveva essere alla fine... essere, intendo, guarito, l'ultima volta invece Behrens gli ha rifilato altri quattro mesi per la guarigione completa... be', e allora dove saremo? Al solstizio d'estate, come dicevo senza voler irritare lei, e si andrà verso l'inverno. Ma per il momento, è vero, siamo a carnevale... Le ho detto, mi pare una bella cosa che si festeggi tutto di seguito come vuole il calendario. La signora Stohr diceva che nello sgabuzzino del portiere si possono acquistare trombette da bambini, è vero? Era vero. Già alla prima colazione del martedí grasso, che arrivò in un baleno, prima che lo si fosse scorto bene da lontano,... già al mattino si udirono nella sala da pranzo ogni sorta di suoni, gracchianti e strombettanti, di burleschi strumenti a fiato; a mezzogiorno si videro già partire stelle filanti dalla tavola di Ganser, di Rasmussen e della Kleefeld, e parecchie persone, per esempio Marusja, la ragazza dagli occhi tondi, portavano un copricapo di carta, che pure si poteva comprare dallo zoppo nello sgabuzzino; ma la sera nella sala e nei salotti di ritrovo, si svolse una festa, durante la quale...

Soltanto noi per ora sappiamo come andò a finire quella festa di carnevale. Ma da' fatto che lo sappiamo non ci lasciamo frastornare o distrarre dalla nostra prudenza; noi rendiamo invece al tempo gli onori dovuti e non intendiamo di precipitare nulla,... anzi, forse tiriamo gli eventi per le lunghe, perché condividiamo la soggezione morale del giovane Castorp che per tanto tempo aveva differito l'avverarsi di questi avvenimenti. Nel pomeriggio tutti erano andati a Platz a vedere l'animazione carnevalesca. Già per la strada avevano incontrato maschere, vari pierrot e arlecchini che sbattevano la spatola, e tra i pedoni e i passeggeri pure (mascherati) delle slitte guernite e scampanellanti si erano combattute scaramucce di coriandoli. Per la cena ci si ritrovò in piena allegria alle sette tavole, con l'intenzione di continuare in cerchia ristretta la popolare euforia. I berretti di carta, le raganelle e le trombette del portiere avevano avuto un grande smercio; l'avvocato Paravant aveva dato la stura ai travestimenti adottando un chimono femminile e una treccia falsa, che a sentire varie voci apparteneva alla signora Wurmbrandt; si era anche piegato col ferro i baffi all'ingiú sicché assomigliava perfettamente a un cinese. L'Amministrazione non era stata da meno. Aveva ornato ciascuna delle sette tavole con un lampioncino di carta, una luna colorata con, dentro, una candela accesa, sicché Settembrini, entrando nella sala e sfiorando la tavola di Castorp, citò dei versi relativi a quella luminaria: Che fiamme tinte, oh guarda un po' ! Brigata allegra si adunò disse con un fine e arido sorriso proseguendo fino al suo posto dove fu accolto con piccoli proiettili, palline dall'involucro sottile, piene di un liquido odoroso, che nell'urto scoppiavano e versavano profumo addosso al colpito. In breve, l'atmosfera era decisamente festosa fin dal principio. Si udivano risate, nella corrente d'aria ondeggiavano stelle filanti che penzolavano dai lampadari, nel sugo dell'arrosto nuotavano coriandoli, dopo un po' si vide accorrere la nana affaccendata che recava il primo secchiello di ghiaccio con la prima bottiglia di sciampagna; a un segnale dell'avvocato Einhuf si mescolò spumante e borgogna, e quando verso la fine del pranzo furono spente le lampade e la sala rimase illuminata, come una notte italiana, dalla sola scialba luce multicolore dei lampioncini, l'allegria toccò il culmine; alla tavola di Castorp si udirono molti consensi quando Settembrini mandò un biglietto (lo consegnò alla commensale piú vicina a lui, a Marusja che si era messa un berretto da fantino di carta velina verde), sul quale aveva scritto a matita: Ma pensate ! Impazza la montagna di magia; se un fuoco fatuo vi indica la via, non pigliatela troppo pel sottile ! Il dottor Blumenkohl, che di nuovo stava molto male, mormorò con quella sua caratteristica espressione del viso, o meglio delle labbra, alcune parole donde si poté desumere che versi fossero. Castorp a sua volta pensò che non poteva esimersi dal rispondere, si sentí in obbligo di scrivere sul biglietto una replica, anche se non poteva essere che insignificante. Cercò nelle tasche una matita, non la trovò né poté ottenerla da Joachim o dalla maestra. I suoi Qcchi arrossati andarono in cerca di soccorso in Oriente, nell'angolo in fondo, a sinistra, e si vide come il suo momentaneo proposito divagasse in associazioni cosí lontane da farlo impallidire e dimenticare del tutto la sua prima intenzione.

Ragioni d'impallidire non gli mancavano. La signora Chauchat là in fondo si era vestita apposta per il carnevale, portava un abito nuovo, in ogni caso un abito che Castorp non le aveva ancora visto, di seta leggera e scura, anzi nera, che soltanto qua e là mandava riflessi bruno-dorati, con una breve scollatura rotonda, da ragazza, cosí poco profonda da lasciare scoperta soltanto la gola, l'attacco delle clavicole, e dietro, quando sporgeva un po' la testa, le vertebre cervicali, un tantino rilevate sotto i capelli sciolti sulla nuca; ma le braccia di Clavdia erano nude fino alle spalle,... quelle braccia tenere e piene ad un tempo, e anche fresche secondo tutte le congetture, che spiccavano straordinariamente bianche sulla serica scurezza del vestito, in maniera cosí impressionante che Castorp chiuse gli occhi mormorando tra sé: Dio mio! . Non aveva mai visto un taglio cosí: conosceva abiti da ballo, scollature lecite a una festa, anzi prescritte, che erano state molto piú profonde di questa, senza fare neanche lontanamente tanta impressione. E risultò errata la vecchia supposizione del povero Castorp che la seduzione, l'irrazionale seduzione di quelle braccia, a lui già note attraverso un velo di garza, si sarebbe rivelata forse meno profonda senza le intuizioni di quella che allora aveva chiamato "trasfigurazione . Errore! Fatale illusione! La completa, spiccata, abbacinante nudità di quelle membra d'un organismo attossicato fu un avvenimento che si rivelò ben piú forte della trasfigurazione di allora, un fenomeno cui non era possibile reagire se non chinando la testa e ripetere senza voce: "Dio mio!". Poco dopo arrivò un altro biglietto che diceva: Società desiderabile: sono tutte spose rare ! E un buon numero di celibi che Ci fan bene sperare. Bene! Bravo! si udí esclamare. Si era già al moca, servito in bricchetti di terra marrone, e anche ai liquori; cosí vi era arrivata, per esempio, la Stohr che aveva una vera passione per le bevande forti e dolci. I gruppi cominciarono a sciogliersi e a circolare. Si andava da una tavola al l'altra, si scambiavano le visite. Una parte dei commensali si era già ritirata nei salotti, mentre altri erano rimasti ai loro posti, facendo onore alla mescolanza dei vini. Settembrini arrivò con in mano la tazzina del caffè e, lo stuzzicadenti fra le labbra, si sedette come ospite all'angolo della tavola tra Castorp e la maestra. Monti del Harz cominciò. Regione di Schierke ed Elend. Le ho promesso troppo, ingegnere? Questa, sí, che è una fiera! Ma aspetti, la nostra arguzia non si esaurisce tanto presto, non siamo ancora all'apice, meno ancora alla fine. Da quanto si vocifera ci saranno anche altre maschere. Certe persone si sono ritirate... ciò autorizza a sperare ogni sorta di sorprese. Vedrà, vedrà. Effettivamente comparvero nuovi travestimenti: donne in abito maschile, come nelle operette, inverosimili a causa delle forme prominenti; i baffi segnati sul viso col turacciolo carbonizzato; viceversa uomini in veste femminile, che inciampavano nclla gonna, come lo studente Rasmussen che in abito nero, guarnito di giaietto, metteva in mostra una scollatura pustolosa e si faceva vento, anche sulla schiena, con un ventaglio di carta. C'era un mendicante con le gambe rattrappite, sorretto dalle grucce.

Uno portava un costume da pierrot confezionato con biancheria candida e con un feltro da donna, si era incipriato la faccia, dando agli occhi un aspetto non naturale, e tinto le labbra con una pomata affinché apparissero d'un rosso piú vivo: era il giovane dall'unghia. Un greco della tavola dei "russi incolti" che possedeva un paio di belle gambe si pavoneggiava in mutande di maglia lilla con mantellina, gorgiera di carta e spadino, come fosse un grande di Spagna o il principe della fiaba. Tutte queste maschere erano state improvvisate in fretta alla fine del pranzo. La signora Stohr non riuscí piú a star ferma sulla sedia: scomparve per ritornare poco dopo come ragazza di fatica, con la gonna succinta e le maniche rimboccate, i nastri della cuffia di carta annodati sotto il mento, armata di secchio e scopa che si diede a maneggiare passando lo straccio bagnato sotto le tavole, tra i piedi di quelli che vi erano seduti. La vecchia Ballbo arriva sola, citò Settembrini a quella vista e aggiunse anche il verso seguente chiaro e plastico. Lei lo udí, gli diede del "gal letto meridionale" e lo invitò a tenere per sé le sue "sconcezze", mentre secondo lo spirito della licenza carnevalesca gli dava del tu: forma adottata da tutti già a tavola. Egli stava per risponderle allorché risa e baccano provenienti dall'atrio lo interruppero e richiamarono l'attenzione dei presenti. Seguite da gente che veniva dai salotti di ritrovo, entrarono due strane figure che probabilmente avevano appena terminato di acconciarsi. L'una era vestita da infermiera, ma sul camice nero, dal collo fino all'orlo inferiore, erano cuciti pezzi di nastro bianco, brevi e accostati, l'uno sotto l'altro, e altri piú lunghi a maggiori intervalli, imitanti la scala d'un termometro. Teneva l'indice sulle labbra scolorite e, nella destra, una tabella clinica. L'altra maschera era in azzurro su azzurro: labbra e sopracciglia tinte di blu, anche il viso e il collo dipinti dello stesso colore, un berretto di lana azzurra messo di sbieco su un orecchio, l'abito o soprabito di tela turchina lucida che, tutto d'un pezzo, era legato con nastri alle caviglie e imbottito nel mezzo per gonfiare la pancia. Erano la Iltis e Albin, entrambi con un'insegna di cartonecherecava le scritte: "La suora muta" e "L'azzurro Enrico". Con passo malfermo fecero il giro della sala. Che applausi! Le acclamazioni s'intrecciavano. La Stohr con la scopa sotto il braccio, le mani sulle ginocchia, rideva d'un riso sgangherato e volgare, senza freno, dando rilievo alla sua parte di donna delle pulizie. Soltanto Settembrini pareva impassibile: lanciò una rapida occhiata alla trionfante coppia di maschere, dopo di che le sue labbra, sotto la bella curva dei baffi, si fecero piú che mai sottili. Tra coloro che al seguito dell'Azzurro e della Muta erano rientrati dai salotti di ritrovo, c'era anche Clavdia Chauchat. Insieme con Tamara dai capelli lanosi e col commensale dal torace concavo, un certo Bulighin che era in abito da sera, sfiorò con l'abito nuovo la tavola di Castorp e si avviò di sbieco verso quella del giovane

Ganser e della Kleefeld dove, le mani dietro la schiena e gli occhi stretti, si trattenne a ridere e a chiacchierare, mentre i suoi compagni seguivano gli allegorici fantasmi e con essi abbandonavano la sala. Anche la Chauchat si era messa in testa un berretto carnevalesco... che non era nemmeno di quelli acquistati, ma di quelli che si fanno ai bambini, ripiegando un foglio bianco a tricorno: e, messo di traverso, le stava benissimo. L'abito di seta scura e bruno-dorata lasciava liberi i piedi, la gonna era lavorata a rigonfi. Qui non diciamo piú nulla delle braccia: erano nude fino alle spalle. Osservala bene! udí Castorp - era la voce di Settembrini che pareva venisse da lontano - mentre la guardava avviarsi verso la porta vetrata e uscire dalla sala. Lilith è quella. )> Chi? domandò Castorp. Il letterato replicò tutto contento: La prima moglie di Adamo. Sta' in guardia... Oltre a loro due non c'era che Blumenkohl alla loro tavola, al suo posto lontano. Gli altri commensali, anche Joachim, si erano trasferiti nei salotti. Castorp osservò: Oggi sei imbottito di versi e di poesia. Che Lilli sarebbe codesta? Che fu ammogliato due volte, Adamo? Non ne avevo un'idea... La leggenda ebraica lo afferma. Quella Lilith è diventata uno spettro notturno, un pericolo per i giovani, specialmente a causa dei bei capelli. Al diavolo! Uno spettro notturno con bei capelli. Roba che tu non puoi soffrire, vero? Perciò arrivi e accendi, dirò cosí, tutte le lampade per istradare i giovani sulla retta via... Non fai cosí? disse Castorp fantasticando: della miscela di vini ne aveva bevuta parecchio. Senta, ingegnere, la smetta! ordinò Settembrini aggrottando le ciglia. Adoperi per favore, la terza persona femminile, come usa in Occidente tra persone civili. Il tentativo che fa non si attaglia al suo tipo. Ma perché? E' carnevale! E tutti sono d'accordo questa sera... Già, per soddisfare un prurito incivile. Il tu fra estranei, cioè persone che a rigore devono darsi del lei, è una grossolanità ripugnante, un ritorno allo stato primitivo, un giuoco sciatto che aborro, perché in sostanza è volto contro la civiltà e l'umanità evoluta,... svergognato e insolente. Io non le ho dato del tu, non s'illuda! Ho citato soltanto un passo del capolavoro della sua letteratura nazionale. Ho parlato quindi poeticamente... Anch'io! Anch'io parlo, per cosí dire, poeticamente,... perché il momento mi sembra adatto, per questo parlo. Non dirò che mi riesca facile e spontaneo darti del tu, anzi mi costa un certo sforzo, per farlo devo darmi uno scrollone, ma questo scrollone me lo do volentieri, me lo do con gioia e di cuore... Di cuore? Sí, di cuore, mi puoi credere. Siamo da tanto tempo vicini quassú,... sette mesi, se fai il calcolo; per le nostre condizioni di quassú non è torse neanche molto, ma per i concetti di laggiú, se ci ripenso, è un mucchio di tempo. Ebbene, noi l'abbiamo passato insieme, perché la vita ci ha fatto incontrare qui, e ci siamo visti quasi ogni giorno e ci siamo scambiati discorsi interessanti, in parte su argomenti dei quali laggiú non avrei capito

un'acca Qui invece sí, qui sono stati per me molto importanti e avvincenti, tanto che quando se ne discuteva ero tutto orecchi. O meglio, quando mi spiegavi le cose da homo humanus, poiché è ovvio che con la mia precedente inesperienza non potevo recare grandi contributi e mi limitavo ad ascoltare quello che dicevi tu. In grazia tua ho imparato e compreso tante cose... Le notizie su Carducci erano il meno, ma come, ad esempio, la repubblica sia connessa col bello stile e il tempo col progresso dell'umanità,... e come, per contro, se non ci fosse il tempo, non ci potrebbe essere neanche il progresso umano, ma il mondo sarebbe una pozza stagnante, una putrida palude,... che ne saprei se non ci fossi stato tU? Ti dico semplicemente tu e non ti do altro nome, scusami, perché non saprei come farlo,... non ci riesco. Sei qui seduto e io ti dico soltanto tu, è sufficiente. Tu non sei un uomo qualunque che abbia un nome, sei un rappresentante, signor Settembrini, un rappresentante quassú e al mio fianco,... questo sei! confermò Castorp battendo sulla tovaglia la mano distesa. E ora ti voglio ringraziare proseguí spingendo il calice pieno di sciampagna e borgogna verso la tazzina da caffè di Settembrini, quasi volesse brindare con lui sulla tavola perché in questi sette mesi ti sei preso cura di me cosí gentilmente e hai aiutato me, giovane matricola, trovatomi di fronte a tante cose nuove, negli esercizi e negli esperimenti, e hai cercato di aggiustarmi le idee, sempre sine pecunia, un po' con racconti, un po' in forma astratta. Ho la precisa sensazione che sia giunto il momento di ringraziarti di questo e di tutto e di chiederti persino se sono stato un cattivo scolaro, un "pupillo della vita", come dicevi. Quando l'hai detto, rimasi molto commosso, e ancora mi commuovo tutte le volte che ci penso. Un pupillo sono stato forse anche per te e per la tua vena pedagogica, della quale mi parlasti fin dal primo giorno,... certo, anche questo è uno dei rapporti che mi hai insegnato, il rapporto tra umanesimo e pedagogia,... col tempo me ne verrebbero certo in mente anche altri. Perdonami dunque e non pensare male di me! Alla tua salute, Settembrini, evviva! Vuoto il bicchiere alla salute delle tue fatiche letterarie intese a eliminare le sofferenze umane! Cosí conchiuse, vuotò a grandi sorsi, con la testa reclinata, la miscela dei vini e si alzò. E ora andiamo a raggiungere gli altri! Senta, ingegnere, che diamine la piglia? esclamò l'italiano, gli occhi sbarrati dallo stupore, e si alzò a sua volta. Si direbbe un congedo... No. Perché congedo? si schermí Castorp. E si schermí non solo metaforicamente, con le parole, ma anche fisicamente, descrivendo un arco col busto e aggregandosi alla Engelhart che in quel momento veniva a prenderli. Il consigliere, annunciò la signorina, serviva di persona, nella saletta di musica, un ponce di carnevale offerto dall'Amministrazione. E invitò i signori a seguirla subito se desideravano agguantare ancora un bicchierino. Andarono quindi di là. Infatti là dentro, attorniato dagli ospiti che gli porgevano bicchierini col manico, il consigliere Behrens stava al centro davanti alla tavola rotonda coperta d'una tovaglia bianca, e con un mestolino attingeva la bevanda fumante da una zuppiera.

Anche lui si era dato un lieve tono carnevalesco aggiungendo al camice bianco che portava anche ora, perché naturalmente la sua attività non cessava mai, un autentico fez turco, d'un rosso carminio, con la nappina nera che gli dondolava da un orecchio; le due cose erano maschera sufficiente per lui, bastavano a dar rilievo alla sua già spiccata figura con quel po' di stranezza e di giovialità. Il lungo camice lo faceva sembrare piú alto; e se gli si toglieva mentalmente la piega del collo immaginando eretta tutta la persona, diventava addirittura piú grande che al naturale, con quella testa piccola, multicolore, di singolarissima fattura. Al giovane Castorp per lo meno quel viso non era mai apparso strano come sotto quello strano copricapo: quella fisionomia accaldata, paonazza, col naso piatto, nella quale gli occhi azzurri sotto le ciglia biondicce lacrimavano gonfi e i chiari baffetti obliqui sovrastavano la bocca torta all'insú. Scostando la faccia dal vapore che saliva turbinando dalla zuppiera versava la bruna bevanda, un ponce di arrak zuccherato, a parabola dal mestolo ai bicchieri che gli erano porti, facendo continue osservazioni nel suo lepido gergo, di modo che intorno alla mescita scoppiavano risate fragorose. Messer Urian presiede commentò Settembrini sottovoce indicando il consigliere, poi venne spinto dalla parte di Castorp. Anche il dottor Krokowski era presente. Piccolo, tarchiato e sodo, il camice di alpaca con maniche vuote buttato sulle spalle come fosse un domino, teneva il bicchiere all'altezza degli occhi e discorreva allegramente con un gruppo di maschere di sesso scambiato. Ci fu anche un po' di musica. La paziente dal viso di tapiro, accompagnata al pianoforte dal signore di Mannheim, suonò col violino il Largo di Handel e poi una sonata di Grieg, musica nazionale e da salotto. Seguirono applausi benevoli, anche dalle due tavole dove mascherati e non mascherati giocavano a bridge, con bottiglie nel secchiello del ghiaccio accanto a sé. Le porte erano aperte; c'erano ospiti anche nell'atrio. Un crocchio intorno alla tavola rotonda, sulla quale c'era la zuppiera, stava guardando il consigliere che dava l'avvio a un giuoco di società. In piedi, disegnava a occhi chiusi, chino sulla tavola ma con la testa reclinata, affinché tutti vedessero che teneva chiusi gli occhi; disegnava una figura alla cieca, sul rovescio d'un biglietto di visita, con la matita... La sua manona, senza il soccorso degli occhi, tracciava il contorno di un porcellino visto di profilo... un po' alla buona, piú stilizzato che rispondente al vero, ma si capiva benissimo che, ad onta delle difficili condizioni in cui veniva eseguita, era la forma fondamentale d'un porcellino. Una prova di bravura che a lui riusciva: la fessura dell'occhio andò press'a poco dove doveva andare, un po' troppo verso il grifo, ma incirca al suo posto; così pure l'orecchia aguzza sulla testa e le gambette sotto la tonda pancetta; e, in continuazione della schiena altrettanto tonda, si arricciolava il codino. Compiuta l'opera si udí un "ah!" di stupore e, presi dall'ambizione, tutti vollero provarsi a imitare il maestro. Pochissimi però avrebbero saputo disegnare un porcellino a occhi aperti, figurarsi tenendoli chiusi! Quali aborti ne uscirono! Mancava ogni proporzione: l'occhietto andava a cadere fuori della testa, le gambette

dentro alla pancia che a sua volta era ben lungi dal chiudersi, e la codina si arrotolava da qualche parte, lontano, senza alcun nesso organico con l'impreciso corpo centrale, come un arabesco indipendente. Gli spettatori si sganasciavano dalle risa. Altri ne arrivarono. I giocatori alle tavole del bridge, accortisi, si alzarono con in mano le carte disposte a ventaglio e vennero a curiosare. I presenti tenevano d'occhio le palpebre di chi tentava la prova, affinché non spiasse, poiché c'era qualcuno che conscio della propria incapacità vi era facilmente indotto, e ridacchiavano e sbuffavano, mentre quello commetteva i suoi ciechi errori, finché vedendolo spalancare gli occhi e guardare il suo assurdo pasticcio ridevano a crepapelle. Una fallace fiducia in se stessi incitava tutti alla gara. Il biglietto, benche grande, fu presto pieno da una parte e dall'altra sicché le figure si sovrapponevano. Ma il consigliere estrasse il portafoglio e sacrificò un secondo biglietto sul quale l'avvocato Paravant, dopo matura riflessione, tentò di disegnare il porcellino in un sol tratto,... col risultato che il suo fiasco superò tutti i precedenti: il disegno fornito non somigliava neanche lontanamente a un porcellino né ad alcuna cosa al mondo. Grida, risate, scroscianti felicitazioni! Dalla sala da pranzo si portarono liste delle vivande: cosí, piú persone in una volta, uomini e donne, poterono disegnare, e ogni concorrente aveva i suoi sorveglianti e spettatori, fra i quali ciascuno aspirava alla matita che il precedente stava adoperando. C'erano tre matite, che offerte dagli spettatori, andavano a ruba. Il direttore, avviato il giuoco e visto che era in pieno sviluppo, era scomparso col suo assistente. Castorp, nella calca, stette a guardare, al di sopra della spalla di Joachim, uno dei disegnatori; gli teneva un gomito sulla spalla, si stringeva il mento con tutte le cinque dita di una mano e punta-va l'altra su un fianco, e parlava e rideva. Anche lui volle disegnare, chiese a gran voce e ottenne una matita, un cosino ormai brevissimo che poteva appena tenere tra il pollice e l'indice. Brontolando contro quel mozzicone, il viso cieco rivolto al soffitto, sacramentò e maledisse l'inservibile matita, mentre con mano veloce buttava un'orrenda scempiaggine sul cartoncino, sbagliando infine persino questo e passando a disegnare sulla tovaglia. Non vale! esclamò in mezzo alle meritate risa. Come si fa con un simile... All'inferno! e gettò il mozzicone incriminato nella zuppiera del ponce. Chi ha una matita come si deve? Chi me la presta? Devo rifare il disegno. Una matita, una matita! Chi ce l'ha? gridò a destra e a sinistra, l'avambraccio sinistro ancora posato sulla tavola, agitando la destra nell'aria. Nessuno gliela diede. Allora si volse ed entrò nel salotto continuando a chiedere,... andò difilato verso Clavdia Chauchat che, com'egli sapeva, vi stava non lontano dalla portiera e di lí aveva osservato sorridendo il movimento intorno alla tavola del ponce.

Alle sue spalle udí armoniose parole in italiano: Eh, ingegnere! Aspetti! Che cosa fa? Ingegnere, un po' di buon senso, via! Ma è matto questo ragazzo! . Questa voce però fu sopraffatta dalla sua, e si vide Settembrini abbandonare la compagnia, tenendo una mano sulla testa col braccio sollevato - gesto comune a casa sua, del quale non sarebbe facile concentrare il significato in una parola, - e accompagnando il gesto con un prolungato "Ehh...!". Castorp invece era nel cortile ammattonato, fissava da vicino gli occhi epicantici sopra gli zigomi sporgenti e diceva: Ce l'hai tu una matita? Era di un pallore cadaverico, pallido come quando era arrivato alla conferenza, sporco di sangue, dalla passeggiata solitaria. L'innervazione vascolare verso il viso agiva togliendo il calore e incavando la pelle del giovane volto, dove il naso si appuntiva e la zona sotto gli occhi si presentava plumbea come nei morti. Ma il simpatico gli faceva stamburare il cuore con un ritmo tale che non era piú il caso di discorrere d'una respirazione regolare, e il giovane era tutto percorso da brividi, manifestazioni delle glandole sebacee che gli si erigevano insieme ai fol licoli piliferi. Lei, in tricorno di carta, lo guardò quant'era lungo con un sorriso donde non appariva alcuna apprensione per quel suo aspetto devastato. Quel sesso non prova mai pietà né apprensione di fronte ai terrori della passione,... di un elemento cioè che gli è evidentemente assai piú familiare che all'uomo, il quale per sua natura non vi è punto versato e non vi è mai accolto senza ironia e gioia maligna. D'altro canto non saprebbe che farsene della pietà e dell'apprensione. Io? rispose a quel tu la malata dalle braccia scoperte ... Sí, forse. E in ogni caso aveva nel sorriso e nella voce un po' di quell'agitazione che prende quando, dopo una lunga, muta relazione, ci si sente rivolgere la parola per la prima volta... un'agitazione astuta che in quell'istante condensa, senza paure, tutto quanto è preceduto. Sei molto ambizioso... sei... in grande fervore continuò, canzonando, con una strana pronuncia esotica, specie della F e delle o chiuse, e con una voce un po' velata, gradevolmente rauca,... e frugò nella borsetta di pelle, vi guardò cercando e sotto un fazzoletto, che venne fuori per primo, trasse una matitina d'argento, sottile, fragile, un oggettino di minuteria, quasi inservibile a un uso serio. Il lapis di allora, il primo, era stato piú maneggevole e ammodo. Voilà esclamò tenendo l'oggettino per la punta sotto gli occhi di lui e facendolo dondolare leggermente. Siccome gliela dava e ad un tempo gliela negava, egli la prese senza che gli fosse consegnata, tenne cioè la mano all'altezza della matita, sfiorandola, le dita pronte a ghermire ma senza stringere, e dalle plumbee occhiaie avvicendò gli sguardi tra l'oggetto e il viso tartaro di Clavdia. Le sue labbra esangui erano aperte, e tali rimasero, egli non le usò per parlare quando disse: Vedi dunque, lo sapevo che ce l'avevi. Prenez garde, il est un peu fragile disse lei. C'est à vlsser, tu sais. E mentre le loro teste vi si chinavano, gli fece vedere l'usuale meccanismo della matita, dalla quale, girando la vite, usciva un cannello di grafite, sottile come un ago, probabilmente duro e senza rendimento. Stavano vicini e chinati l'uno verso l'altro. Siccome portava l'abito da sera, egli aveva il colletto rigido e vi poteva appoggiare il mento.

Piccola, ma tua disse, fronte contro fronte, rivolto alla matita, con le labbra immobili e quindi omettendo le labiali. Oh, sei anche spiritoso rispose lei con una risatina alzandosi e lasciando a lui la matita. (D'altra parte Dio sa come poteva essere spiritoso, se non aveva una goccia di sangue nel cervello.) Dunque va', corri, disegna, nota e fatti notare! Spiritosa anche lei, pareva lo cacciasse via. No. Tu non hai disegnato ancora. Bisogna che anche tu disegni disse lui omettendo la b di "bisogna" e fece un passo indietro come per tirarla con sé. Io? ripeté lei con uno stupore che non era suscitato tanto dalla sua richiesta quanto da qualcos'altro. Sorridendo con un certo imbarazzo rimase lí in piedi, ma poi lo seguí alcuni passi verso la tavola del ponce, attratta dal magnetico indietreggiare di lui. Se non che videro che là il divertimento era cessato, era agli ultimi guizzi. C'era ancora qualcuno che disegnava, ma senza spettatori. I biglietti erano pieni di balordaggini, tutti avevano dimostrato la loro incapacità, la tavola era quasi abbandonata, tanto piú che era sopravvenuta una controcorrente. Considerato che i medici se n'erano andati, la parola d'ordine fu improvvisamente: si balla. E già veniva tirata da parte la tavola. Si collocarono guardiani alle porte delle sale di scrittura e di musica, istruiti a fermare la danza con un segnale, qualora dovessero farsi vedere "il vecchio", Krokowski o la superiora. Un giovane slavo premette con espressione la tastiera del pianino di noce. Le prime coppie cominciarono a girare entro un irregolare circolo di sedie e seggioline, sulle quali erano seduti gli spettatori. Castorp si accomiatò con un gesto dalla tavola che si stava involando: "Vattene!" e col mento indicò alcune sedie nel salottino e l'angolo riservato, a destra della portiera. Non disse nulla, forse perché la musica era troppo rumorosa per lui. Collocò una sedia - un seggiolone con l'intelaiatura di legno e il piano di felpa - per la Chauchat nel punto che aveva prima indicato con la mimica e prese per sé una scricchiolante poltrona di vimini con i braccioli arrotolati, sulla quale si sedette, proteso verso di lei, i gomiti sui braccioli, la matita di lei tra le dita, i piedi sotto la poltrona. Lei a sua volta stava troppo affondata sul piano di felpa, con le ginocchia rialzate, ma ciò nonostante le accavallò dondolando il piede, la cui caviglia sopra l'orlo della scarpa nera verniciata era coperta dalla seta, pure nera, della calza. Davanti a loro erano sedute altre persone che si alzarono per andare a ballare lasciando quindi il posto a chi era stanco. Era un andare e venire. Hai messo un abito nuovo disse lui per poterla osservare, e si sentí rispondere: Nuovo? Conosci bene la mia guardaroba? Non ho forse ragione? Sí, certo. Me lo sono fatto fare recentemente, qui da Lukacek, a Dorf.

Lavora molto per le signore di quassú. Ti piace? Moltissimo rispose lui abbracciandola ancora con lo sguardo e abbassando poi gli occhi. Vuoi ballare? soggiunse. Tu vorresti? domandò lei per contro sorridendo e alzando le ciglia, ed egli rispose: Lo farei sè tu avessi voglia. Sei meno bravo di quanto pensassi disse lei e, vedendolo ridere con disprezzo, aggiunse: Tuo cugino se n'è già andato . Sí, è mio cugino confermò senza che ce ne fosse bisogno. Ho notato anch'io dianzi che non c'era. Sarà andato a coricarsi. C'est un jeune homme très étroit, très honneAte, très allemand. troit. HonneAte? ripeté lui. Capisco il francese meglio di quanto non lo parli. Vuoi dire che è un pedante. Pensi che noi tedeschi siamo pedanti... nous autres allemands? Nous causons de votre cousin. Mais c est vrai, voi siete un po' bourgeois. Vous aimez l'ordre mieux que la liberté, toute l'Europe le sait. Aimer... aimer... Qu'est-ce que c'est! Ca manque de définition, ce mot-là. L'uno ce l'ha, l'altro lo ama, comme nous disons proverbialement affermò Castorp. In quest'ultimo tempo continuò ho riflettuto talvolta sulla libertà. Cioè, ho sentito tante volte questa parola, e mi ha fatto pensare. Je te le dirai en francais, quel che ho pensato. Ce que toute l'Europe nomme la liberté est, peut-eAtre, une chose assez pédante et assez bourgeoise en comparaison de notre besoin d'ordre - c'est ,ca! Tiens! C'est amusant. C'est ton cousin à qui tu penses en disant des choses étranges comme ,ca? Non, c'est vraiment une bonne dme, un carattere semplice, non minacciato, tu sais. Mais il n'est pas bourgeois, il est militaire. Non minaCCiato? ripeté lei con sforzo... Tu veux dire: une nature tout à fait ferme, sure d elle-meAme? Mais il est sérieusement malade, ton pauvre cousin. Chi l'ha detto? Son cose che qui si sanno, l'un dell'altro. Te l'ha detto il consigliere Behrens? Peut-etre en me faisant voir ses tableaux. C est-à-dire: en faisant ton portrait? Pourquoi pas. Tv. I as trouvé réussi, mon portrait? Mais oui, extremement. Behrens a très exactement rendu ta peau, oh vraiment très fidèlement. J'aimerais beaucoup eAtre portraitiste, moi aussi, pour avoir l'occasion d'étudier ta peau comme lui. Parlez allemand, s'il vous plait! oh, parlo tedesco anche in francese. C'est une sorte d'étude artistique et médicale - en un mot: il s'agit de lettres humaines, tu comprends. E ora, dimmi, non vuoi danzare? Ma no, è puerile. En cachette des médecins. AussitoAt que Behrens reviendra, tout le monde va se précipiter sur les chaises. Ce sera fort ridicule. Tanto rispetto gli porti? A chi? A Behrens. . Mais va donc avec ton Behrens! Ed è troppo stretto qui per ballare. Et puis sur le tapis...

Stiamo invece a vedere le danze. Sí, stiamo a vedere approvò lui e guardò accanto a lei, col volto pallido, con gli occhi azzurri e assorti di suo nonno, il saltellio dei pazienti mascherati lí nel salotto e di là, nella sala di scrittura. La "suora muta" ballava con l'azzurro Enrico, e la signora Salomon, travestita da ballerino, in frak e panciotto bianco, con la camicia gonfia sul petto, i baffi dipinti e il monocolo, girava sui tacchetti delle scarpe nere che illogicamente sbucavano dai neri calzoni da uomo, col pierrot, le cui labbra sanguigne facevano spicco sul suo viso imbiancato, e i suoi occhi somigliavano a quelli d'un coniglio albino. Il greco in mantelletta agitava le gambe armoniose in maglia lilla intorno allo scollato Rasmussen dai lustrini scuri; l'avvocato in chimono, la signora Wurmbrandt e il giovane Ganser danzavano addirittura a tre, tenendosi stretti con le braccia; e la Stohr ballava con la scopa che si stringeva al seno, e ne accarezzava le setole come fossero i capelli ritti d'un cavaliere. Stiamo a vedere ripeté Castorp macchinalmente. Parlavano a voce bassa, accompagnati dalle note del pianoforte. Stiamo qui seduti e guardiamo come in sogno. Devi sapere che vederci qui seduti è un sogno per me... comme un reve singulièrement profond, car il faut dormir très profondément pour rever comme cela Je veux dire: c'est un reve bien connu, revé de tout temps, long, éternel, oui, etre assis près de toi comme à présent, voilà l'éternité. Pòète! disse lei. Bourgeois, humaniste et pòète, - voilà l'allemand au complet, comme il faut! Je crains que nous ne soyons pas du tout et nullement comme ilfaut rispose lui. Sous aucun égard. Nous sommes peut-etre des pupilli della vita, tout simplement. Joli moi. Dis-moi donc... Il n'aurait pas été fort difficile de rever ce reve-là plus tot. C'est un peu tard que monsieur se résout à adresser la parole à son humble servante. Pourquoi des paroles? disse lui. Pourquoi parler? Parler, discourir, c'est une chose bien républicaine, je le concède. Mais je doute que ce soit poétique au meAme degré. Un de nos pensionnaires, qui est un peu devenu mon ami, monsieur Settembrini... n vient de te lancer quelques paroles. Eh bien, c'est un grand parleur sans doute, il aime meAme beaucoup à réciter de heaux vers, - mais est-ce un pòète, cet homme-là? Je regrette sincèrement de n'avoir jamais eu le plaisir de faire la connaissance de ce chevalier. Je le crois bien. Ah! Tu le crois. Comment? C'était une phrase tout à fait indfférente, ce que j'ai dit là. Moi, tu le remarques bien, je ne parle guère le francais. Pourtant, avec toi je préfère cette langue à la mienne, car pour moi, parler francais, c est parler sans parler, en quelque manière, ... sans responsabilité, ou comme nous parlons en reAve. Tu comprends? A peu près. Ca suffit... Parler continuò Castorp, pauvre affaire! Dans l'éternité, on ne parle point. Dans l'éternité, tu sais, on fait comme en dessinant un petit cochon: on penche la teAte en arrière et on ferme les yeux. Pas mal, ,ca! Tu es chez toi dans l'éternité, sans aucun doute, tu la connais à fond.

Il faut avouer que tu es un petit reveur assez curieux. Et puis osservò Castorp, si je t'avais parlé plus tot il m'aurait fallu te dire "vous" ! Eh bien, est-ce que tu as l'intention de me tutoyer pour toujours? Mais oui. Je t'ai tutoyée de tout temps et je te tutoyerai éternellement. C'est un peu fort, par exemple. En tout cas tu n'auras pas trop longtemps l'occasion de me dire "tu". Je vais partir. Ci volle un po' di tempo perché la notizia gli giungesse alla coscienza. Poi, guardandosi intorno stravolto, si riscosse come chi è svegliato dal sonno. La loro conversazione si era svolta lentamente, perché Castorp parlava francese con fatica e titubanza. Il pianoforte che un tratto era ammutolito riprese a sonare, questa volta per opera del mannheimese che era venuto a dare il cambio al giovane slavo e aveva messo la musica sul leggio. La signorina Engelhart seduta accanto a lui gli voltava le pagine. Il numero dei danzanti si era ridotto. Parecchi ospiti dovevano aver scelto la posizione orizzontale. Davanti a loro non era seduto piú nessuno. Nella sala di lettura si giocava a carte. Come hai detto? domandò Castorp attonito... Parto rispose lei, sorridendo apparentemente meravigliata della sua costernazione. Impossibile disse lui. E' uno scherzo. Niente affatto. Dico proprio sul serio. Parto. Quando? Domani. Après dfner. Dentro di lui avvenne un grande crollo. Domandò: E dove vai? Molto lontano. Nel Daghestan? Tu n'es pas mal instruit. Peut-eAtre, pour le moment... Ma sei guarita? Quant à ca... non. Ma Behrens è del parere che per il momento qui non ho molto da guadagnare. C'est pourquoi je vais risquer un petit changement d'air. Dunque ritorni! Dipende. Si tratta anzitutto di stabilire quando. Quant à moi, tu sais, j'aime la liberté avant tout et notamment celle de choisir mon domicile. Tu ne comprends guère ce que c'est: etre obsédé d'indépendance. C'est de ma race, peut-etre. Et ton mari au Daghestan te l'accorde, ta liberté? C'est la maladie qui me la rend. Me voilà à cet endroit pour la troisième fois. J'ai passé un an ici, cette fois. Possible que je revienne. Mais alors tu seras bien loin depuis longtemps. Credi, Clavdia? Mon prénom aussi! Vraiment tu les prends bien au sérieux les coutumes du carnaval! Sai fino a qual punto sono malato? Oui - non - comme on sait ces chGses ici. Tu as une petite tache humide là dedans et un peu de f èvre, n'est-ce pas? Trente-sept et huit ou neuf l'après-midi disse Castorp.

E tU? Oh, mon cas, tu sais, c'est un peu plus compliqué... pas tout à fait simpk. n y a quelque chose dans cette branche de lettres humaines dite la médecine )> disse Castorp, qu'on appelle bouchement tuberculeux des vases de Iymphe. Ah! Tu as mouchardé, mon cher, on le voit bien. Et toi... Perdonami! E permetti che ora ti faccia una domanda, urgente, e in tedesco. Quel giorno in cui mi alzai da tavola per andare alla visita, sei mesi fa... Ti sei voltata a guardarmi, ricordi? Quelle question? Il y a six mois! Sapevi dove andavo? Certes, c'était tout à fait par hasard... Tu l'avevi saputo da Behrens? Toujours ce Behrens ! Oh, il a représenté ta peau d'une fa,con tellement exacte... D'ailleurs, c'est un veuf aux joues ardentes et qui possède un service à café très remarquable Je crois bien qu'il connaisse ton corps non seulement comn7e médecin, mais aussi comnte adepte d'une autre discipline de lettres humaines. Tu as décidémel7t raison de dire que tu parles en reAve, mon ami. Soit... Laisse-moi rever de nouveau après m'avoir réveillé si cruellement par cette cloche d'alarme de ton départ. Sept mois sous tes yeux... Et à présent, où en réalité j'ai fait ta connaissance, tu me parles de départ! Je te répète, que nous aurions pu causer plus toAt. Tu l'avresti desiderato? Moi? Tu ne m'échapperas pas, mon petit. n s'agit de tes intéreAts, à toi. Est-ce que tu étais trop timide pour t'approcher d'une £emme à qui tu parles en reve maintenant, ou est-ce qu il y avait quelqu un qui t en a empeAché? Je te l'ai dit. Je ne voulais pas te dire "vous". Farceur. Réponds donc,... ce monsieur beau parleur, cet italien-là qui a quitté la soirée, ... qu est-ce qu il t'a lancé tantoAt? Je n'en ai entendu absolument rien. Je me soucie très peu de ce monsieur, quand mes yeux te voient. Mais tu oublies... il n'aurait pas été si facile du tout de faire ta connaissance dans le monde. Il y avait encore mon cousin avec qui j'étais lié et qui incline très peu à s amuser ici: il ne pense à rien qu'à son retour dans les plaines, pour se faire soldat. Pauvre diable. n est, en effet, plus malade qu'il ne sait. Ton ami italien du reste ne va pas trop bien non plus n le dit lui-meAme. Mais mon cousin... Est-ce vrai? Tu m'effraies. Fort possible qu'il aille mourir, s'il essaye d'eAtre soldat dans les plaines. Qu'il va mourir. La mort. Terrible mot, n'est-ce pas? Mais c'est étrange, il ne m'impressionne pas tellement aujourd'hui, ce mot. C'était une facon de parler bien conventionnelle, lorsque je disais "tu m'effraies". L'idée de la mort ne m'effraie pas. Elle me laisse tranquille. Je n'ai pas pitié... ni de mon bon Joachim ni de moi-meAme, en entendant qu'il va peut-eAtre mourir. Si c'est vrai, son état ressemble beaucoup au mien et je ne le trouve pas particulièrement imposant. n est moribond, et moi, je suis amoureux, eh bien!...

Tu as parlé à mon cousin à l'atelier de photographie intime, dans l'antichambre, tu te souviens. Je me souviens un peu. Donc ce jour la Behrens a fait ton portrait transparent ! Mais oui. Mon dieu. Et l'as-tu sur toi? Non, je l'ai dans ma chambre. Ah, dans ta chambre. Quant au mien, je l'ai toujours dans mon portefeuille. Veux-tu que je te le fasse voir? Mille remerciements. Ma curiosité n'est pas invincibile. Ce sera un aspect très innocent. Moi? j ai vu ton portrait extérieur. J'aimerais beaucoup mieux voir ton portrait intérieur qui est enfermé dans ta chambre... Laisse-moi demander autre chose! Parfois un monsieur russe qui loge en ville vient te voir. Qui est-ce? Dans quel but vient-il, cet homme? Tu es joliment fort en espionnage, je l'avoue. Eh bien, je réponds. Oui, c'est un compatriote souffrant, un ami. J'ai fait sa connaissance à une autre station balnéaire, il y a quelques années dejà. Nos relations? Les voilà: nous prenons notre thé ensemble, nous fumons deux ou trois papiros, et nous bavardons, nous philosophons, nous parlons de l'homme, de Dieu, de la vie, de la morale, de mille choses. Voilà mon compte rendu. Es-tu satisfait? De la morale aussi! Et qu'est-ce que vous avez trouvé en fait de morale, par exemple? La morale? Cela t'intéresse? Eh bien, il nous semble, qu'ilfaudrait chercher la morale non dans la vertu, c'està-dire dans la raison, la discipline, les bonnes moeurs, l'honneAteté, ... mai plutoAt dans le contraire, je veux dire: dans le péché, en s'abandonnant au danger, à ce qui est nuisible, à ce qui nous consume. n nous semble qu'il est plus moral de se perdre et meAme de se laisser dépérir que de se conserver. Les grands moralistes n'étaient point de vertueux, mais des aventuriers dans le mal, des vicieux, des grands pécheurs qui rtous enseignent à nous incliner chrétiennentent devant la ntisère. Tout ,ca doit te déplaire beaucoup, n'est-ce pas? Egli taceva. Stava ancora seduto come da principio, i piedi incrociati sotto la poltrona scricchiolante, proteso verso la donna abbandonata sulla sedia col tricorno di carta in testa, la matita di lei fra le dita, e con gli occhi azzurri di Hans Lorenz Castorp guardava di sotto in su la stanza che si era vuotata. Gli ospiti si erano dispersi. Il pianoforte nell'angolo diagonale opposto mandava ancora qualche nota sommessa e smozzicata, sonata con una mano sola dal malato diMannheim, mentre la maestra seduta al suo fianco sfogliava un fascicolo di musica che teneva sulle ginocchia. Al cessare della conversazione tra Hans Castorp e Clavdia Chauchat il pianista smise di sonare e posò in grembo la mano con la quale aveva sfiorato i tasti; la Engelhart continuò a scorrere la musica. Le quattro persone residue dopo la baldoria carnevalesca stavano immobili. Il silenzio si protrasse per alcuni minuti. Sotto il suo peso le teste della coppia davanti al pianoforte si piegarono giú giú, quella del pianista sulla tastiera, quella della signorina sul fascicolo. Infine, contemporaneamente, come per tacita intesa, si al zarono tutti e due circospetti, e piano, in punta di piedi, evitando apposta di voltarsi a guardare l'altro angolo della stanza che dava ancora segno di vita,

con la testa fra le spalle, le braccia rigide lungo il corpo, scomparvero insieme passando dalla sala di lettura. Tout le monde se retire disse la signora Chauchat. C'étaient les derniers; il se fait tard. Eh bien, la feAte de carnaval est f nie. E alzò le braccia per togliersi il berretto di carta dai capelli rossicci, la cui treccia formava corona intorno alla testa. Vous connaissez les conséquences, monsieur. Ma Castorp a occhi chiusi fece con la testa un cenno negativo, senza cambiare posizione. E rispose: Jamais, Clavdia. Jamais je te dirai, "vous", jamais de la vie ni de la mort, se cosí si può dire... e si dovrebbe poter dire. Cette forme de s'adresser à une personne, qui est celle de l'Occident cultivé et de la civilisation humanitaire, me semble fort bourgeoise et pédante. Pourquoi, au fond, de la forme? La forme, c'est la pédanterie elle meme! Tout ce que vous avez fixé à l'égard de la morale, toi et ton compatriote souffrant,... tu veux sérieusement que ,ca me surprenne? Pour quel sot me prends-tu? Dis donc, qu'est-ce que tu penses de moi? C'est un sujet qui ne donne pas beaucoup à penser. Tu es un petit bonhomme convenable, de bonne famille, d'une tenue appétissante, disciple docile de ses précepteurs et qui retournera bientoAt dans les plaines, pour oublier complètement qu'il a jamais parlé en reve ici et pour aider à rendre son pays grand et puissant par son travail honneAte sur le chantier. Voilà ta photographie intime, faite sans appareil. Tu la trouves exacte, j'espère? Il y manque quelques détails que Behrens y a trouvéS. Ah, les médecins en trouvent toujours, ils s'y connaissent... Tu parles comme monsieur Settembrini. Et ma fièvre? D'où vient-elle? Allons donc, c'est un incident sans conséquence qui passera vite. Non, Clavdia, tu sais bien que ce que tu dis là, n'est pas vrai, et tu le dis sans conviction, j'en suis sdr. La f èvre de mon corps et le battement de mon coeur harassé et le frissonnement de mes membres, c'est le contraire d'un incident, car ce n'est rien d'autre... e il suo viso smorto con le labbra tremanti si chinò piú vicino a quello di lei, rien d'autre que mon amour pour toi, oui, cet amour qui m a saisi à l'instant, où mes yeux t'on vue, ou, plutoAt, que j'ai reconnu, quand je t'ai reconnue toi, ... et c'était lui, évidemment, qui m'a mené à cet endroit... Quelle folie ! Oh, l'amour n'est rien, s'il n'est pas de la folie, une chose insensée, défendue et une aventure dans le mal. Autrement c'est une banalité agréable, bonne pour en faire de petites chansons paisibles dans les plaines. Mais quant à ce que je t'ai reconnue et que j ai reconnu mon amour pour toi, ... oui, c'est vrai, je t'ai déjà connue, anciennement, toi et tes yeux merveilleusement obliques et ta bouche et ta voix, avec laquelle tu parles ... une fois déjà, lorsque j'étais collégien, je t'ai demandé ton crayon, pour faire enfin ta connaissance mondaine, parce que je t'aimais irraisonnablement, et c'est de là, sans doute c'est de mon ancien amour pour toi que ces marques me restent que Behrens a trouvées dans mon corps, et qui indiquent que jadis aussi j'étais malade... Batteva i denti. Mentre fantasticava aveva estratto un piede di sotto alla poltrona scricchiolante e spingendolo avanti toccava già il pavimento con l'altro ginocchio, di modo che era dunque inginocchiato accanto a lei, a capo chino, e fremeva tutto. Je t'aime balbettò, je t'ai aimée de tout temps, car tu es le Toi de ma vie, mon

reAve, mon sort, mon envie, mon éternel désir... Allons, allons ! disse lei. Si tes précepteurs te voyaient... Ma lui scosse la testa disperato, il viso rivolto al tappeto, e rispose: Je m'en f cherais, je me fiche de tous ces Carducci et de la République éloquente et du progrès humain dans le temps, car je t'aime ! Lei gli accarezzò dolcemente i capelli corti sulla nuca. Petit bourgeois! disse. Joli bourgeois à la petite tache humide. Est-ce vrai que tu m'aimes tant? E, infiammato dal contatto di lei, ora su entrambe le ginocchia, la testa reclinata, continuò a dire ad occhi chiusi: oh, l'amour, tu sais... Le corps, l'amour, la mort, ces trois ne font qu'un. Car le corps, c'est la maladie et la volupté, et c'est lui qui fait la mort, oui, ils sont charnels tous deux, l'amour et la mort, et voilà leur terreur et leur grande magie! Mais la mort, tu comprends, c'est d'une part une chose mal famée, impudente qui fait rougir de honte; et d'autre part c'est une puissance très eternelle et très majestueuse, beaucoup plus haute que la vie riante gagnant de la monnaie et farcissant sa panse,... beaucoup plus vénérable que les progrès qui bavarde par les temps.... parcequ'elle est l'histoire et la noblesse et la piété et l'éternel et le sacré qui nous fait tirer le chapeau et marcher sur la pointe des pieds... Or, de meme, le corps, lui aussi, et l'amour du corps, sont une affaire indécente et fdcheuse, et le corps rougit et palit à sa surface par frayeur et honte de lui-meme. IlIais aussi il est une grande gloire adorable, image miraculeuse de la vie organique, sainte merveille de la forme et de la beauté, et l'amour pour lui, pour le corps humain, c est de meAme un intéreAt extreAmement humanitaire et une puissance plus éducative que toute la pédagogie du monde!... Oh, enchantante beauté organique qui ne se compose ni de teinture à l huile ni de pierre, mais de matière vivante et corruptible, pleine de secret fébrile de la vie et de la pourriture! Regarde la symétrie merveilleuse de l'édifice humain, les épaules et les hanches et les mamelons f eurissants de part et d'autre sur la poitrine, et les coAtes arrangées par paires, et le nombril au milieu dans la mollesse du ventre, et le sexe obscur entre les cuisses! Regarde les omoplates se remuer sous la peau soyeuse du dos, et l'échine qui descend vers la luxuriance double et frafche des fesses, et les grandes branches des vases et des nerfs qui passent du tronc aux rameaux par les aisselles, et comme la structure des bras correspond à celle des jambes. Oh, les douces régions de la jointure intérieure du coude et du jarret avec leur abondance de délicatesses organiques sous leurs coussins de chair! Quelle feAte immense de les caresser ces endroits délicieux du corps humain! Fete à mourir sans plainte après! Oui, mon dieu, laisse-moi sentir l'odeur de la peau de ta rotule, sous laquelle l'ingénieuse capsule articulaire sécrète son huile glissante. Laisse-moi toucher dévotement de ma bouche l'Arteria femoralis qui bat au front de ta cuisse et qui se divise plus bas en les deux artères du tibia! Laisse-moi ressentir l'exhalation de tes pores et tater ton duvet, image humaine d'eau et d'albumine, destinée pour l'anatomie du tombeau, et laisse-moi périr, mes lèvres aux tiennes! Non aprí gli occhi quand'ebbe finito di parlare; restò com'era, la testa arrovesciata, le braccia tese davanti a sé con la matitina d'argento tra le dita, inginocchiato, tremebondo, vacillante. Lei disse: Tu es en effet un galant qui sait solliciter d'une manière profonde, à l'allemande. E gli mise in testa il berretto di carta.

Adieu, mon prince Carnaval! Vous aurez une mauvaise ligne de f èvre ce soir, je vous le prédis. Cosí dicendo si alzò scivolando dalla sedia, camminò quasi slittando sul tappeto fino alla porta, indugiò sulla soglia e voltasi a metà, con un braccio nudo alzato, la mano appoggiata allo stipite, mormorò al di sopra della spalla: a N'oubliez pas de me rendre mon crayon. E uscí. Capitolo sesto... Mutamenti. Che cosa è il tempo? Un mistero,... irreale e onnipotente. Una condizione del mondo fenomenico, un movimento unito e mescolato all'esistenza dei corpi nello spazio e al loro moto. Ma non ci sarebbe tempo se non ci fosse moto? Né moto se non ci fosse tempo? Interroga pure! E' il tempo una funzione dello spazio? O viceversa? O sono entrambi identici? Continua a domandare! Il tempo è attivo, è di natura verbale, produce. Che cosa produce? Il mutamento. Oggi non è ieri, qui non è là, perché frammezzo c'è il movimento. Ma siccome il movimento, sul quale si misura il tempo, è circolare, in sé conchiuso, questo è un moto e un mutamento che quasi ad ugual ragione si potrebbe definire quiete e ristagno; perché l'ieri si ripete continuamente nell'oggi, il là nel qui. Siccome poi nemmeno con gli sforzi piú disperati si riesce a raffigurarsi un tempo finito e uno spazio finito, si è deciso di "pensare" eterni e infiniti il tempo e lo spazio,... evidentemente opinando che ciò riesca, se non benissimo, almeno un po' meglio. Ma porre l'eterno e l'infinito non significa distruggere col calcolo logico tutto ciò che è limitato e finito, ridurlo relativamente a Zero? E' possibile una successione nell'eterno, una giustapposizione nell'infinito? Come si conciliano concetti quali distanza, moto, mutamento, o soltanto l'esistenza di corpi limitati nell'universo, con le ipotesi di ripiego dell'eterno e dell'infinito? Chiedilo pure! Hans Castorp formulava queste e simili domande nel suo cervello che fin dal suo arrivo lassú si era dimostrato accessibile a siffatte critiche e indiscrezioni, mentre un maligno, ma enorme diletto, scontato dopo di allora, lo aveva forse affinato in modo particolare e incoraggiato a recriminare. Egli lo chiedeva a se stesso, al buon Joachim e alla valle, coperta, da tempo immemorabile, d'un alto strato di neve, benché da nessuna di queste tre istanze potesse aspettarsi qualcosa che somigliasse a una risposta,... difficile dire da quale meno che dalle altre due. A se stesso faceva siffatte domande appunto perché non sapeva che cosa rispondere. Da Joachim era quasi impossibile ottenere che se ne occupasse, poiché, come Castorp aveva detto una sera in francese, non pensava ad altro che a fare il soldato in pianura, e con questa speranza che ora si avvicinava, ora svaniva beffarda lontano, combatteva una battaglia via via piú accanita che ultimamente era propenso a concludere con un atto di forza. Proprio cosí: il buono, paziente, retto Joachim, tutto orientato verso il servizio e la disciplina, era soggetto ad eccessi di ribellione e insorgeva contro la scala Gaffky, quel metodo d'indagine col quale laggiú nel

laboratorio, si appurava e indicava il grado fino al quale il paziente era infetto dai bacilli: il numero Gaffky, piú o meno elevato, spiegava se essi erano soltanto isolati o innumerevoli, in massa, nella sostanza analizzata; e quel numero era decisivo. Con precisione infallibile esso esprimeva la speranza di guarigione; con esso non era difficile determinare quanti mesi o anni uno dovesse soggiornare ancora lassú, dalla visitina di sei mesi fino,alla condanna "a vita" che, calcolata nel tempo, abbastanza spesso equivaleva a ben poco. Contro la scala Gaffky dunque si ribellava Joachim, rifiutava apertamente di credere nella sua autorità,... non del tutto apertamente, non proprio coi superiori, ma con suo cugino e persino a tavola. Sono stufo, non voglio piú farmi prendere in giro diceva forte e il sangue gli montava al viso abbronzato. Quindici giorni or sono avevo il n. 2 Gaffky, un'inezia, le migliori previsioni, ora ho il n. 9, popolato addirittura, non si parla piú di scendere al piano. Come diavolo si fa a sapere a che punto siamo? Non ne posso piú. Lassú alla Schatzalp c'è un tale, un contadino greco venuto dall'Arcadia, l'ha mandato un agente,... un caso disperato, galoppante, può spirare da un giorno all'altro, ma in vita sua non ha mai avuto bacilli nello sputo. Per contro, quel grasso capitano belga che fu dimesso guarito quando venni su io, aveva avuto il n. 10 Gaffky, era tutto un formicolio di bacilli, eppure non aveva che una piccolissima caverna. Non so che farmene del Gaffky ! Ora basta, me ne vado a casa, dovesse costarmi la vita! Cosí Joachim: e tutti erano dolorosamente colpiti vedendo in tanta agitazione quel giovane mite e posato. Alla minaccia di Joachim che avrebbe piantato ogni cosa e preso il treno per il piano, Castorp non poté esimersi dal rammentare certe osservazioni che aveva sentito fare da una terza persona in francese: ma tacque. Doveva forse proporre a suo cugino la propria pazienza come modello e mettersi sullo stesso piano della Stohr che invitò davvero Joachim a non assumere quel tono caparbio e sacrilego, ma a rassegnarsi, con cuore umile e a prendere ad esempio la fedeltà di lei, Karoline, che teneva duro lassú e con ostinazione rinunciava a fare la padrona nella sua casa a Cannstatt per riportare un giorno a suo marito la consorte perfettamente guarita? No, a questo punto Castorp non voleva arrivare, tanto piú che dopo l'ultimo di carnevale non aveva verso Joachim la coscienza tranquilla... La coscienza cioè gli diceva che Joachim nel fatto del quale non parlavano, del quale però egli era senza dubbio al corrente, doveva scorgere come un tradimento, una diserzione, un'infedeltà, e precisamente rispetto a un paio di occhi tondi e castani, a una mal motivata voglia di ridere e a un profumo d'arancio, cui era esposto cinque volte al giorno, ma non senza abbassare gli occhi sul piatto da persona severa e ben educata... Persino nella tacita riluttanza che Joachim dimostrava contro le sue speculazioni e vedute intorno al "tempo" Castorp reputava di avvertire un po' di quella morigeratezza che conteneva un rimprovero per la sua coscienza. In quanto poi alla valle, la valle invernale sepolta sotto la neve, alla quale Castorp dalla sua ottima sedia a sdraio rivolgeva le sue trascendenti interrogazioni, essa elevava nel tempo e nel silenzio le sue vette, guglie, pareti, nonché le selve bruno-verde-rossicce, avvolte nel tacito fluire del tempo terreno, ora

lucendo contro il profondo turchino del cielo, ora nascoste nella nebbia fumigante, ora scintillando, dure come il diamante, nella magia della notte di luna,... ora con le cime tinte di rosa dal sole calante, ma sempre vestite di neve, da sei mesi immemorabili, anche se trascorsi in un baleno, e tutti gli ospiti dichiaravano che non la potevano piú vedere, quella neve stucchevole, ne avevano avuto abbastanza già durante l'estate, e ora quelle masse nevose, mucchi di neve, cuscini di neve, pendii di neve, erano piú di quanto un uomo potesse sopportare, erano un attentato al cuore e allo spirito. E inforcavano occhiali colorati, verdi, gialli, rossi, certo anche per salvare gli occhi, ma piú ancora il cuore. Monti e valle sotto la neve già da sei mesi? Da sette! Mentre raccontiamo il tempo procede,... il tempo "nostro", quello che dedichiamo a questo racconto, ma anche quello trapassato, quello di Castorp, e dei suoi compagni di sfortuna lassú nella neve, ed esso produce mutamenti. Tutto era bene avviato a compiersi come Castorp, ritornando martedí grasso da Platz, aveva con rapido discorso anticipato, con grande stizza di Settembrini; non che il solstizio fosse immediatamente in vista, ma la Pasqua era già passata per la candida valle, l'aprile avanzava, si vedeva già spuntare la Pentecoste, tra poco doveva cominciare la primavera, lo scioglimento delle nevi,... non tutta la neve si sarebbe sciolta; sulle cime a mezzogiorno, nelle forre della catena del Rhatikon a tramontana ne rimaneva sempre, senza dire di quella che sarebbe caduta in tutti i mesi estivi, ma senza durare; il giro dell'anno però prometteva in breve novità decisive, poiché - dopo quella sera di carnevale, in cui Castorp si era fatto prestare una matita dalla signora Chauchat e poi gliela aveva anche restituita ricevendo in cambio, per suo desiderio, qualcos'altro, un ricordo che teneva in tasca - erano ormai trascorse sei settimane,... il doppio di quelle che in origine Castorp aveva deliberato di restare lassú. Sei settimane passarono infatti dalla sera in cui Castorp aveva conosciuto di persona Clavdia Chauchat e poi era ritornato nella propria camera molto piú tardi che il sollecito Joachim nella sua; sei settimane dal giorno successivo che aveva visto la partenza della Chauchat, partenza per il momento, partenza provvisoria per il Daghestan, laggiú a oriente oltre il Caucaso. Che fosse una partenza provvisoria, soltanto una partenza per il momento, e la Chauchat avesse intenzione di ritornare,... non si sapeva quando, che però un giorno desiderasse o forse anche dovesse ritornare: di ciò egli aveva avuto assicurazioni, dirette e orali, non già nel riferito dialogo in lingua straniera, ma in seguito, nel tempo rimasto da parte nostra senza parole, durante il quale abbiamo interrotto il flusso (legato al tempo) della nostra narrazione e lasciato che esso, il tempo puro, imperasse. In ogni caso il giovane aveva ricevuto quelle assicurazioni e confortanti promesse prima di ritornare al n. 34, poiché il giorno dopo non aveva piú scambiato una parola con la Chauchat, l'aveva appena vista, due volte, da lontano: alla colazione di mezzogiorno quando, in gonna di panno blu e giacca di lana bianca, sbattendo la porta, era andata ancora una volta a tavola col suo passo grazioso e strisciante, mentre a lui il cuore balzava in gola e soltanto la stretta sorveglianza della signorina Engelhart lo aveva trattenuto dal coprirsi il viso;... e poi alle 3 del pomeriggio, alla partenza, alla quale egli non aveva direttamente assistito, limitandosi invece a guardare da una finestra del corridoio che dava sulla rampa di accesso. La scena si era svolta come Castorp l'aveva già vista svolgersi alcune volte durante il suo soggiorno: la slitta o la carrozza si fermava sulla rampa, il conducente e il domestico vi legavano i bagagli, davanti

all'ingresso erano raccolti gli ospiti del sanatorio, amici di colui che, guarito o no, per vivere o per morire, se ne ritornava al piano, o soltanto desiderosi di marinare la cura a sdraio per provare l'emozione dell'avvenimento; arrivava un signore in abito da passeggio, addetto all'Amministrazione, talvolta persino i dottori, e poi veniva il partente: raggiante di solito, salutava benevolmente i curiosi che lo circondavano e non partivano, agitatissimo sul momento a causa dell'avventura... Questa volta era uscita la signora Chauchat, sorridente, un braccio carico di fiori, in un lungo, ruvido soprabito da viaggio, guarnito di pelliccia, con un gran cappello, accompagnata dal signor Bulighin, il suo concavo connazionale che viaggiava un tratto insieme con lei. Anche lei pareva agitata e lieta come era sempre il partente, non fosse altro per il mutamento di vita, prescindendo dal fatto che viaggiasse col consenso dei medici o interrompesse il soggiorno soltanto per tedio disperato, a proprio rischio e con la coscienza poco pulita. Lei aveva le guance arrossate, parlava di continuo, probabilmente in russo, mentre le avvolgevano una coperta di pelo intorno alle ginocchia... Non erano convenuti soltanto i compaesani e commensali della signora Chauchat, ma anche molti altri ospiti; con un gagliardo sorriso il dottor Krokowski aveva mostrato i denti gialli, altri fiori erano arrivati, la prozia aveva offerto, come diceva lei, "confettura", cioè marmellata russa, c'erano anche la maestra, l'ospite di Mannheim... questi un po' discosto, con lo sguardo triste, e i suoi occhi sofferenti, alzati a guardare l'edificio, avevano scorto Castorp alla finestra del corridoio, e cupi su lui si erano soffermati... Il consigliere Behrens non si era fatto vedere; evidentemente si era accomiatato dalla signora in altra privata occasione... Poi, tra le acclamazioni e i cenni di saluto degli astanti, i cavalli avevano puntato gli zoccoli, e anche gli occhi obliqui della Chauchat, mentre il moto della slitta in avanti la spingeva all'indietro contro lo schienale imbottito, avevano scorso di volo, sempre sorridendo, la facciata del Berghof e per una frazione di secondo si erano soffermati sul viso di Castorp... Il rimasto, era rientrato pallido nella sua camera, sul suo balcone, per vedere di lí ancora una volta la slitta che tra gli squilli della sonagliera scendeva per la strada di Dorf; si era poi abbandonato sulla sedia e aveva tratto dalla tasca interna della giacca il dono-ricordo, il pegno che questa volta non consisteva in scheggioline di legno rosso-bruno, ma in una sottile lastrina incorniciata, una lastra di vetro che bisognava tenere contro luce per vederci qualcosa,... il ritratto interno di Clavdia, che era senza volto, ma rivelava la tenera ossatura del suo busto, rivestita in un alone spettrale dalle morbide forme di carne, insieme con gli organi della cavità toracica... Quante volte l'aveva osservata e premuta sulle labbra nel tempo che da allora era trascorso producendo mutamenti! Esso aveva, per esempio, prodotto l'assuefazione a una vita lassú nella lontana assenza di Clavdia Chauchat, e piú velocemente di quanto non fosse lecito pensare: il tempo di lassú aveva questa particolare tendenza e, oltre a ciò, era organizzato in modo da produrre abitudini, sia pure soltanto l'abitudine a non abituarsi. Non ci si doveva aspettare, né avveniva il tintinnante strepito all'inizio dei cinque copiosissimi pasti; ora la signora Chauchat sbatteva le porte altrove, a un'enorme distanza,...

una manifestazione mescolata e congiunta con la sua esistenza, con la sua malattia, press'a poco come il tempo con i corpi nello spazio: e questo era forse la sua malattia, nient'altro... Ma se era invisibile-assente, era anche invisibile-presente alla mente di Castorp; era il genius loci che, in una brutta ora, in un'ora di dolci trasgressioni, alla quale non si adattava nessuna pacifica canzoncina del piano, egli aveva conosciuto e posseduto, del quale da nove mesi portava l'interiore parvenza nel cuore cosí affannosamente travagliato. In quell'ora le sue labbra tremanti avevano balbettato, in lingua straniera e nella propria, con parole un po' incoscienti, un po' soffocate, varie esorbitanze: proposte, profferte, folli progetti e proponimenti, cui giustamente era stata negata ogni approvazione,... per esempio, che avrebbe accompagnato il "genio" oltre il Caucaso, che gli sarebbe corso dietro, che l'avrebbe aspettato nel luogo dove il suo libero capriccio avesse fissato il prossimo domicilio per non staccarsene mai piú, e simili asserzioni irresponsabili. Ciò cke l'ingenuo giovane aveva riportato dall'ora della grande avventura era soltanto il pegno umbratile e l'eventualità, non lontana dal livello del probabile, che la Chauchat ritornasse lassú per un quarto soggiorno, tosto o tardi, secondo le circostanze della malattia che le procurava la libertà. Ma tosto o tardi,... Castorp (cosí era stato detto anche nel momento del commiato) sarebbe stato allora certamente "lontano da un pezzo"; e il significato spregevole della profezia sarebbe stato assai duro da sopportare se non si fosse potuto considerare che certe cose non si predicono affinché avvengano, ma affinché non avvengano, quasi per scaramanzia. Questo genere di profeti insulta l'avvenire dicendogli come dovrà essere affinché si vergogni di presentarsi realmente cosí. E se il "genio" nel corso della riferita conversazione e fuori di essa aveva definito Castorp un "joli bourgeois au petit endroit humide", che era come dire la traduzione del settembriniano"pupillo della vita"; restava da vedere quale componente di questo abbinamento si sarebbe dimostrata piú forte, se il bourgeois o l'altro... Inoltre, il "genio" non aveva considerato che egli stesso era partito e ritornato piú volte, e anche Castorp al momento buono poteva ritornare,... benché, è vero, si trattenesse ancora lassú unicamente per non aver bisogno di ritornare: questo era, come per molti altri, l'espresso significato di quel soggiorno. Ma un'ironica profezia di quella fine di carnevale si era avverata: Castorp aveva avuto un brutto attacco febbrile, un'improvvisa punta saliente, che egli aveva segnato nella curva con una certa solennità, e poi, dopo essere scesa leggermente, era proseguita come un altopiano, con lievi ondulazioni, sempre sopra il consueto livello. Era una temperatura eccessiva, i cui gradi e la cui insistenza, a sentire il consigliere, non erano proporzionati al reperto locale. E' piú intossicato, caro amico, di quanto sia lecito aspettarsi da lei! disse. Be', ricorreremo alle iniezioni. Le gioveranno. Fra tre, quattro mesi, per quanto dipende dal sottoscritto, sarà sano come un pesce. Cosí fu che Castorp dovesse trovarsi due volte la settimana, il mercoledí e il sabato, appena ritornato dalla passeggiata del mattino, laggiú nel laboratorio per l'iniezione.

I dottori somministravano entrambi questo rimedio, ora l'uno, ora l'altro, ma il consigliere lo faceva da virtuoso, con slancio, poiché nel fare la puntura iniettava contemporaneamente il liquido. Si curava però poco del punto in cui introduceva l'ago, sicché talvolta il dolore era infernale e il tessuto bruciava a lungo e rimaneva indurito. L'iniezione poi aggrediva tutto l'organismo, scoteva il sistema nervoso come una violenta prova sportiva, e ciò ne confermava l'intima potenza la quale si manifestava anche nell'immediato, ma transitorio, rialzo della temperatura: il consigliere lo aveva predetto, e cosí avveniva puntualmente, era normale, nulla da ridire contro il fenomeno regolarmente previsto. Quando arrivava il proprio turno, il procedimento era rapido; in un attimo il contravveleno era sotto la pelle, della gamba o del braccio. Ma qualche volta, essendo il consigliere di buon umore e non immalinconito dal tabacco, si svolgeva in occasione della puntura una breve conversazione che Castorp sapeva dirigere all'incirca nel modo seguente: Ripenso sempre con piacere a quando si venne a prendere il caffè in casa sua, signor consigliere, l'anno scorso, in autunno, occasionalmente. Proprio ieri, o forse un po' piú addietro, l'ho rammentato a mio cugino... Numero 7 Gaffky disse Behrens. Il reperto piú recente. Quel ragazzo non vuole, assolutamente non vuole disintossicarsi. E dire che non mi ha mai tormentato e scocciato come ora, dice che vuol andarsene a trascinare la sciabola, quel bambino. Mi viene a gridare la croce addosso per questi cinque trimestrucci, come fosse stato qui ad ammazzare saecula saeculorum. Via vuole andare, o cosí o cosà... Lo dice anche a lei? Lei dovrebbe appellarsi al suo buon senso, di sua iniziativa beninteso, ma seriamente! Quello va a finir male se ingoia prima del tempo la vostra simpatica nebbia, là in alto a destra. Uno spaccamontagne di quella risma non occorre che abbia molto fosforo in zucca, ma lei, che è piú posato, in borghese, colto e civile, lei dovrebbe mettergli la testa a posto prima che faccia scemenze! Lo faccio, consigliere, lo faccio rispose Castorp senza mollare le redini. Spesso, quando insorge e protesta, e credo che capirà la ragione. Ma gli esempi che abbiamo davanti agli occhi non sono sempre i migliori, qui sta il guaio. Assistiamo a partenze,... gente che scende al piano, di propria volontà, senza una vera autorizzazione, ma è sempre una festa, come se fossero partenze autentiche, e per caratteri deboli sono una seduzione. Ultimamente, per esempio,... già, chi è partito recentemente? Una signora, delLa tavola dei "russi ammodo", madame Chauchat. Per il Daghestan, è corsa voce. Be', il Daghestan, non ne conosco il clima, sarà meno sfavorevole che da noi, con tutta quell'acqua, ma piano è, come lo intendiamo noi, anche se è una regione montuosa, geograficamente parlando, io non me n'intendo.

Come si può pretendere di viverci, senza aver raggiunto la guarigione perfetta, dove mancano i concetti fondamentali, e nessuno è pratico del regolamento di qui e non sa come regolarsi con la sedia a sdraio e col termometro. D'altronde ha intenzione di ritornare, come mi ha detto all'occasione,... ma come siamo venuti a parlare di lei?... Già, allora abbiamo incontrato lei, consigliere, in giardino, ricorda, o anzi è stata lei a incontrare noi, perché eravamo seduti su una panca, ricordo ancora quale, gliela potrei indicare esattamente, e stavamo fumando, cioè fumavo io, poiché mio cugino, chi sa perché, non fuma. E anche lei fumava, e, ora mi viene in mente, ci offrimmo a vicenda le nostre specialità,... il suo "Brasile" mi piacque assai, ma con quel sigaro bisogna andar cauti come con un cavallo giovane, credo, altrimenti può capitare un malanno, come toccò a lei quella volta, dopo quei due sigari di importazione, quando lei coi polmoni affannati stava per levare il disturbo... siccome è finita bene, possiamo riderne. Del mio "Maria Mancini" ho ordinato di nuovo poco fa a Brema qualche centinaio, ci sono attaccato, è una mia simpatia sotto tutti gli aspetti. Certo, il dazio e il trasporto costituiscono un sensibile rincaro, e se lei, consigliere, mi aggiunge prossimamente un periodo notevole, può darsi che mi converta a un prodotto locale,... nelle vetrine se ne vedono di belli. Lei ci permise poi di vedere i suoi quadri, mi par oggi, e ne ho tratto un grande godimento,... rimasi addirittura perplesso vedendo con quale ardimento lei maneggia i colori a olio, io non ne avrei il coraggio. Già, vedemmo anche il ritratto della signora Chauchat, con la pelle dipinta in modo mirabile,... non esito a dire che ne fui entusiasta. Allora non conoscevo ancora il modello, o soltanto di vista, di nome. Ma poco prima della sua partenza, l'ho conosciuta anche di persona. Oh, senti questa! replicò il consigliere,... esattamente, se è lecito riportarci indietro, come aveva replicato quando Castorp, anteriormente alla prima visita, gli aveva comunicato che aveva anche un po' di febbre. E non disse altro. Proprio cosí confermò Castorp. Secondo l'esperienza non è affatto facile quassú fare conoscenze, ma tra la signora Chauchat e me è avvenuto e si è combinato all'ultima ora, cosí, conversando, ci siamo... Castorp aspirò l'aria tra i denti. Aveva ricevuto l'iniezione. Fff! fece, guardando indietro. Certo è un nervo importante quello che ha colpito ora. Eh, sí, mi fa un male del diavolo. Grazie, un po' di massaggio giova... Conversando ci siamo avvicinati. Ecco. Eh? domandò il consigliere, abbassando la testa, con l'espressione di chi aspetta un elogio e nella domanda comprende anche, per sua esperienza, la conferma della lode che attende. Penso che il mio francese sia stato un po' zoppo scantonò Castorp. Non è certo il mio forte. Ma al momento giusto le parole si trovano, e cosí ci siamo intesi abbastanza bene. Lo credo. Eh? ripeté il consigliere invitandolo a rispondere.

E per parte sua aggiunse: Benino, vero? . Abbottonando il colletto della camicia Castorp se ne stava a gambe larghe, coi gomiti alzati, e guardava il soffitto. In fondo, niente di nuovo continuò. Ai bagni avviene che due persone o due famiglie vivano settimane sotto lo stesso tetto, a distanza. Un bel giorno fanno conoscenza, si piacciono a vicenda, e nello stesso tempo salta fuori che una delle due parti è sulle mosse di partire. E' un rammarico che subentra spesso, immagino. E allora si vorrebbe almeno mantenere i contatti nella vita, ricevere notizie reciproche, cioè per posta. La signora Chauchat invece... Quella non vuole, vero? rise il consigliere, bonario. No, non ne ha voluto sapere. Non scrive nemmeno a lei, qualche volta, dai luoghi dove si trova? Ih, Dio guardi! esclamò Behrens. Non le passa neanche per la mente. Prima di tutto per pigrizia, e poi, come dovrebbe scrivere? Io non leggo il russo,... sí, qualche volta, in caso di estrema necessità, bestemmio qualche frase, ma non so leggere una parola. E neppure lei, vero? Be', il francese e anche il tedesco moderno quella gattina li miagola con molta grazia, ma scriverli... si troverebbe nel piú grave impaccio. L'ortografia, caro amico! Eh, che vuole? dobbiamo rassegnarci. Ogni tanto ritorna, di quando in quando. Questione di tecnica, di temperamento, come dicevamo. L'uno parte ogni tanto ed è sempre costretto a ritornare, l'altro rimane addirittura finché non ha piú la necessità di ritornare. Suo cugino, se parte adesso, glielo dica pure, non è da escludere che lei possa ancora assistere al suo solenne ritorno. Ma, consigliere, quanto crede che io... Che lei? Che lui! Che lui non resterà laggiú quanto è stato qui. Questo credo io schiettamente, e questo è il messaggio che le do per lui, se vuol avere la compiacenza di riferirglielo. Cosí press'a poco si svolgeva uno di quei colloqui, diretti con scaltrezza da Hans Castorp, anche se il risultato era nullo o ambiguo. Quanto cioè gli toccasse restare ancora per assistere al ritorno di uno che fosse partito anzitempo, era dubbio, e le notizie intorno alla scomparsa erano uguali a zero. Castorp non avrebbe saputo nulla di lei fin tanto che erano separati dal mistero del tempo e dello spazio; lei non avrebbe scritto e nemmeno lui avrebbe avuto occasione di farlo... Perché d'altronde, a rifletterci bene, doveva essere diverso? Non era stata una sua idea borghese, di pedante, che si dovessero scrivere, se a suo tempo aveva avuto l'impressione che non fosse necessario, e neanche desiderabile, che si parlassero? E con lei aveva forse parlato, secondo l'uso della civiltà occidentale, al suo fianco, la sera del martedí grasso, o non piuttosto chiacchierato in una lingua straniera, in sogno, in maniera poco civile? A che scopo dunque scrivere, su carta da lettera o cartoline illustrate come quelle che egli mandava qualche volta al piano, a casa sua, per riferire intorno agli alti e bassi delle

sue visite mediche? Non aveva ragione Clavdia di sentirsi esonerata dallo scrivere, grazie a quella libertà che le veniva dalla malattia? Parlare, scrivere,... una faccenda invero spiccatamente umanisticorepubblicana, un'attività da Brunetto Latini, quello che scrisse il libro dei vizi e delle virtú e insegnò ai fiorentini l'urbanità e l'eloquenza nonché l'arte di governare la loro repubblica secondo le norme della politica... A questo punto Castorp ripensò a Lodovico Settembrini e arrossí come era arrossito quando lo scrittore era entrato inatteso nella sua camera illuminandola all'improvviso. Anche a Settembrini poteva certo rivolgere le sue domande intorno agli enigmi sovrintelligibili, sia pure soltanto come sfida e querimonia, non già con la speranza che l'umanista, i cui studi erano rivolti ai lati terreni della vita, gli desse risposta. Ma dopo la riunione di carnevale e il movimentato abbandono della sala di musica da parte di Settembrini, era subentrata fra Castorp e l'italiano una freddezza che andava attribuita alla coscienza poco pulita dell'uno e alla profonda delusione pedagogica dell'altro, sicché cercarono di evitarsi e per settimane non si scambiarono piú una parola. Era Castorp ancora agli occhi di Settembrini un "pupillo della vita"? No, egli doveva ormai apparire spacciato agli occhi di colui che cercava la morale nella ragione e nella virtú... E Castorp s'irrigidí contro Settembrini, corrugava la fronte e arricciava il naso quando s'incontravano, mentre lo sguardo nero e lustro di Settembrini si posava su di lui con mite rimprovero. Eppure quell'atteggiamento caparbio si sciolse subito, non appena dopo settimane, come si è detto, Settembrini gli rivolse di nuovo la parola, sia pure soltanto di passaggio e sotto forma di allusioni mitologiche, comprensibili soltanto a un occidentale colto. Fu dopo pranzo, e s'incontrarono sulla soglia della porta vetrata che non sbatteva piú. Sorpassando il giovane e già avviato ad allontanarsi subito da lui, Settembrini disse: Be', ingegnere, era buona la melagrana? Castorp sorrise lieto e confuso. Cioè... Come dice, signor Settembrini? Melagrana? Non ce n'erano. Mai in vita mia... Cioè, sí, una volta ho bevuto succo di melagrana col seltz. Troppo dolciastro. L'italiano era già passato, volse la testa e formulò: Dei e mortali visitarono talvolta il regno delle ombre e trovarono la via del ritorno. Ma gli inferi sanno che chi assaggia la frutta del loro regno, rimane in loro balia. E proseguí, con i suoi eterni calzoni a quadretti chiari, lasciandosi alle spalle Castorp che doveva essere "trafitto" da un'allusione cosí remota, e in certo modo lo era davvero, benché, seccato e divertito dalla pretesa che lo fosse, borbottasse tra sé: Latini, Carducci, trappolini, trappolucci, vattene a quel paese ! Però era commosso e felice di quel primo approccio, poiché nonostante il trofeo, il macabro presente che teneva sul cuore, era attaccato a Settembrini, dava molto peso alla sua esistenza, e l'idea di essere nettamente respinto e abbandonato da lui per sempre sarebbe stata per il suo cuore piú grave e paurosa del sentimento di chi, ragazzo, non è piú preso in considerazione a scuola e gode i vantaggi della vergogna, come il signor Albin...

Non osava però rivolgere da parte sua la parola a quell'uomo, e questi lasciò trascorrere altre settimane prima di riavvicinarsi all alunno per il quale stava in pensiero. Ciò accadde quando, sulle onde del tempo spinte a riva con il loro ritmo perpetuo e monotono, approdò la Pasqua, festeggiata al Berghof come vi si festeggiavano puntualmente tutte le tappe e le cesure per evitare la non articolata uniformità. Alla prima colazione ognuno trovò accanto alle posate un mazzolino di viole, alla seconda tutti ricevettero un uovo colorato e a mezzogiorno le tavole erano festosamente ornate con coniglietti di zucchero e cioccolata. Ha mai fatto un viaggio per mare, tenente, o lei, ingegnere? domandò Settembrini quando, levate le mense, col solito stuzzicadenti, si avvicinò, nell'atrio, al tavolino dei due cugini... Come la maggior parte dei pazienti anch'essi accorciavano di un quarto d'ora il riposo principale della giornata per prendere un caffè col cognac. Questi coniglietti, queste uova colorate mi ricordano la vita su un transatlantico, con l'orizzonte deserto da settimane, nelle salse solitudini, in circostanze nelle quali l'agio raffinato fa dimenticare solo superficialmente la loro immensità, mentre nelle regioni piú fonde dell'anima la coscienza che se ne ha continua a rodere come un recondito terrore... Riconosco lo spirito con cui a bordo di quelle arche si fa un amoroso accenno alle feste di terraferma. E una commemorazione di persone fuori del mondo, un ricordo sentimentale in base al calendario... Oggi in continente sarebbe Pasqua, vero? In continente si festeggia oggi il genetliaco del re... e cosí facciamo anche noi alla meglio, anche noi siamo uomini... Non è cosí? I due cugini assentirono. In verità, cosí era: Castorp, commosso dall'allocuzione e spronato dalla coscienza non pulita, lodò l'osservazione con parole altisonanti, la disse spiritosa, eccellente, letteraria e secondò Settembrini a piú non posso: giusto, soltanto in superficie, per usare l'espressione plastica di Settembrini; gli agi del piroscafo sull'oceano fanno dimenticare le circostanze e il loro rischio, e, se gli era lecito aggiungere per parte sua, quei raffinati comodi sono persino indizio di una certa frivolezza, quasi una sfida, qualcosa di simile a quella che gli antichi chiamavano hybris (ebbe la civetteria di tirare in ballo perfino gli antichi), come dire "Il re di Babilonia sono io !", insomma una cosa sacrilega. D'altro canto invece, soggiunse, quel lusso a bordo involve (involve!) anche un notevole trionfo dello spirito e dell'onore umano,... portando quel lusso e quegli agi là fuori sulle spume saline e mantenendoli arditamente, l'uomo pone, per cosí dire, il piede sul collo agli elementi, alle potenze selvagge, e ciò involve la vittoria dell'umana civiltà sul caos, se gli si consentiva di usare questa frase... Settembrini lo ascoltò attento, i piedi incrociati e le braccia conserte, passandosi graziosamente lo stecchino sull'arco dei baffi. E' notevole disse. L'uomo non fa mai un'osservazione universale, un po' studiata, senza tradirsi del tutto, senza metterci inavvertitamente tutto il suo io e presentare in qualche modo simbolico il tema fondamentale e il primo problema della sua vita. Cosí è capitato ora a lei, ingegnere.

Le sue osservazioni sono invero scaturite dal fondo della sua personalità, e hanno anche espresso lo stato presente di codesta personalità in maniera poetica: è ancora lo stato dell'esperimento... Placet experiri! esclamò Castorp ridendo e approvando. Sicuro,... quando si tratti della rispettabile smania di saggiare il mondo e non di sciatteria. Lei ha parlato di hybris, ha usato questa parola. Ma la hybris della ragione contro le potenze delle tenebre è somma umanità, e se provoca la vendetta di dei invidiosi, facendo, per esempio, naufragare e colare a picco l'arca lussuosa, la fine è onorevole. Anche il gesto di Prometeo fu hybris, e i suoi patimenti sulla roccia scitica li consideriamo un santo martirio. Che dire invece di quell'altra hybris, del naufragio nell'illecito esperimento con le potenze dell'antiragione e dell ostilità al genere umano? E' ancora onorevole? Può dirsi onorata? Sí o no? Castorp rigirava il cucchiaino nella tazza benché non ci fosse piú nulla. Ingegnere, ingegnere disse l'italiano crollando la testa e fissandolo con gli occhi neri e pensosi, non teme la bufera infernale del secondo cerchio, che volge e percuote i peccatori carnali che la ragion sommettono al talento? Gran Dio, se mi figuro come svolazzerà menato di su, di giú dal dolore, per poco non cado come corpo morto cade... Risero, lieti di sentirlo scherzare e parlare in poesia. Ma Settembrini aggiunse: La sera di carnevale, con un bicchiere di vino, ingegnere, ricorda? Lei prese in certo qual modo commiato da me, sí, sí, era qualcosa di simile. Ebbene, oggi tocca a me. Signori, come mi vedete, sono sul punto di dirvi addio. Lascio questa casa. Tutti e due rimasero stupefatti. Non è possibile ! Lei scherza ! esclamò Castorp, come aveva già esclamato in altra occasione. Era allibito quasi come allora. Ma Settembrini ribatté: Niente affatto. E' come dico. D'altronde la notizia non la trova impreparato. Le dichiarai che nel momento in cui la mia speranza di poter ritornare entro un tempo ragionevole nel mondo del lavoro risultasse insostenibile, avrei levato le tende per sistemarmi in un domicilio fisso, qui nel luogo. Che devo dire? Il momento è arrivato. Non posso guarire, ormai è deciso. Posso vivere ancora, ma soltanto qui. La sentenza è definitiva, una condanna a vita... Con il suo solito buon umore Behrens me l'ha comunicata. E sia, ne traggo le conseguenze. Ho affittato un alloggio, e sto per trasportarvi i miei modesti averi terreni, i ferri del mio mestiere di letterato... Non è neanche lontano da qui, a Dorf, c'incontreremo ancora, certamente, non vi perderò di vista, ma come coinquilino ho l'onore di congedarmi .

Questa, la dichiarazione di Settembrini, la domenica di Pasqua. I cugini se ne erano mostrati straordinariamente commossi. Piú a lungo poi e ripetute volte gli avevano parlato di quella sua decisione: avevano chiesto come intendeva di continuare privatamente la cura, in che modo avrebbe ripreso e lavorato alla grande impresa dell'enciclopedia, cui si era sobbarcato; a quel panorama di tutti i capolavori letterari, visti sotto l'aspetto della sofferenza e della sua eliminazione; e infine quale sarebbe stato il suo futuro alloggio in casa di un "mercante di droghe", come egli lo aveva definito. Il droghiere, rispose, aveva affittato la parte superiore della casa a un sarto per signora, boemo, il quale a sua volta accoglieva subinquilini... Queste conversazioni appartenevano dunque al passato. Il tempo marciava, e aveva prodotto ormai parecchi mutamenti. Settembrini non abitava piú davvero nel Sanatorio Internazionale Berghof, ma da Lukacek, il sarto per signora... già da qualche settimana. La sua uscita non era stata una partenza in slitta, ma a piedi, con indosso un tabarro giallo, corto, con un po' di pelliccia sul collo e sulle maniche; e in compagnia di un uomo che con un carretto a mano trasportava il bagaglio letterario e terreno dello scrittore, lo si era visto allontanarsi agitando il bastone, dopo-aver dato sulla soglia un pizzicotto alla guancia di una delle cameriere... L'aprile, come si è detto, era già in gran parte, per tre quarti, nell'ombra del passato; era ancora inverno, nella camera c'erano al mattino 6 gradi scarsi, fuori 9 sotto zero, l'inchiostro, dimenticato sul balcone, gelava durante la notte diventando un pezzo di carbon fossile. Ma si sapeva che la primavera stava arrivando; di giorno, quando splendeva il sole, se ne avvertiva ogni tanto nell'aria un lieve vago sentore; il periodo dello scioglimento delle nevi era prossimo e da esso dipendevano i cambiamenti che avvenivano al Berghof, inarrestabili... Non li arrestava nemmeno l'autorità, la viva parola del consigliere che nelle camere e nella sala, a ogni visita, a ogni pasto combatteva il popolare pregiudizio contro lo scioglimento della neve. Aveva a che fare, chiedeva, con gente appassionata di sport invernali o con malati, con pazienti? Che bisogno avevano mai di neve, di neve gelata? Tempo sfavorevole, quello della scomparsa delle nevi? Anzi, piú favorevole che mai! Era dimostrato che in quel periodo c'erano in tutta la valle relativamente meno persone a letto che in qualsiasi altro periodo dell'anno! In qualunque parte del mondo le condizioni atmosferiche erano, per i malati di petto, peggiori di lí. Chi aveva un briciolo di discernimento, perseverava e sfruttava quelle condizioni, atte a temprare il fisico. Dopo, poteva sopportare qualunque botta, resistere a qualunque clima, premesso beninteso che avesse aspettato la guarigione perfetta... E cosí via. Ma aveva un bel discorrere, il consigliere... La prevenzione contro lo scioglimento della neve era radicata nei cervelli, e il luogo di cura si vuotò; poteva anche darsi che la vicinanza della primavera mettesse la gente in 598 THOMAS MANN agitazione e comunicasse ai sedentari la smania di mutar sede, fatto è che le partenze "arbitrarie" e "sbagliate" si moltiplicarono anche al Berghof fino a diventare un fenomeno serio.

La signora Salomon di Amsterdam, per esempio, nonostante il piacere che le procuravano le visite con l'occasione di mettere in mostra la piú fine biancheria ornata di merletti, partí in modo assolutamente arbitrario e sbagliato, senza esservi autorizzata, e non già perché stava meglio, ma perché stava sempre peggio. Il suo soggiorno lassú si perdeva nel tempo anteriore alla venuta di Castorp, era arrivata da piú di un anno, con una leggerissima affezione, per la quale le erano stati rifilati tre mesi. Dopo quattro doveva "guarire sicuramente" entro quattro settimane, ma dopo sei mesi non era affatto il caso di parlare di guarigione: doveva, le avevano detto, rimanere almeno altri quattro mesi. Cosí era andata avanti, e sí che quello non era un bagno penale né una miniera siberiana: la Salomon era rimasta e aveva fatto vedere sottovesti e biancheria finissima. Siccome però dopo l'ultima visita, nell'imminenza dello scioglimento della neve, le fu decretata un'aggiunta di cinque mesi, a causa di un sibilo in alto a sinistra e di palesi dissonanze sotto l'ascella sinistra, aveva perso la pazienza e con proteste e insulti contro Dorf e Platz, contro la famosa aria buona, contro l'internazionale Berghof e i dottori, se ne era ritornata a casa sua, ad Amsterdam, città piena d'acqua e di correnti d'aria. Era' saggezza? Behrens alzò le spalle e le braccia e lasciò ricadere queste ultime rumorosamente sulle gambe. In autunno, al piú tardi, disse, la Salomon sarebbe ritornata... ma per scmpre. Indovinava? Vedremo, dato che per parecchio tempo terreno saremo ancora legati a questo luogo di delizie. Il caso Salomon però non fu certo unico nel suo genere. Il tempo portò mutamenti,... come ha sempre fatto, ma piú adagio, con meno chiasso. Nella sala da pranzo c'erano lacune, lacune a tutte le sette tavole, alla tavola dei "russi ammodo" e a quella dei "russi incolti", alle tavole messe per diritto e a quelle per traverso. Non che se ne potesse desumere un'immagine fedele delle presenze; c'erano stati, come sempre, anche arrivi; le camere erano forse occupate, ma si trattava di ospiti che, essendo agli estremi, godevano una limitata libertà di movimenti. Nella sala da pranzo, ripetiamo, parecchi erano assenti in virtú della libertà di movimento che possedevano ancora; qualcuno però mancava in modo particolarmente profondo e vano, come ad esempio il dottor Blumenkohl che era addirittura deceduto. Il suo viso aveva assunto sempre piú l'espressione di chi abbia in bocca un sapore sgradevole, poi non si era piú alzato dal letto ed era morto, nessuno sapeva esattamente quando: si erano usati i soliti riguardi, la solita discrezione. Una lacuna. La signora Stohr, seduta accanto alla lacuna, ne aveva orrore. Perciò si spostò al fianco del giovane Ziemssen, sulla sedia di miss Robinson, che era stata dimessa guarita, di fronte alla maestra rimasta al suo posto, a sinistra di Castorp. Su quel lato della tavola era sola, i tre altri posti erano liberi: lo studente Rasmussen, fattosi di giorno in giorno piú fiacco e stupido, aveva 600 THOMAS MANN dovuto mettersi a letto e passava per

moribondo; la prozia con sua nipote e con la popputa Marusja era andata in viaggio: diciamo "andata in viaggio", come dicevano tutti, perché era deciso che sarebbe ritornata in breve, già in autunno... Perciò non si poteva dire che fosse una "partenza". Quanto era vicino il solstizio estivo, una volta passata la Pentecoste imminente! E, arrivato il giorno piú lungo, si scendeva poi velocemente verso l'inverno... Sicché si poteva dire che la prozia e Marusja erano quasi ritornate, ed era un bene perché la riderella Marusja non era affatto guarita e disintossicata; la maestra era al corrente di certe ulcere tubercolari che la giovane dagli occhi castani doveva avere al seno prosperoso e già piú volte erano state operate. Mentre la maestra ne parlava, Castorp aveva gettato un rapido sguardo a Joachim, il quale aveva chinato sul piatto il viso che gli si era macchiettato. La briosa prozia aveva offerto ai commensali, vale a dire ai due cugini, alla maestra e alla signora Stòhr, una cena d'addio al ristorante, un banchetto con caviale, sciampagna e liquori, durante il quale Joachim era stato molto taciturno, aveva detto appena qualche parola con voce quasi afona, sicché l'anziana, filantropica signora gli aveva fatto coraggio ed eliminando norme e costumanze sociali gli aveva persino dato del tu: Sciocchezzuole, figlio mio; non pigliartela, bevi, mangia e parla; tra poco saremo qui di nuovo! . Cosí gli aveva detto. E: Tutti vogliamo mangiare, bere, chiacchierare e non pensare a malinconie. Dio ci darà l'autunno in un battibaleno: guarda un po' se è il caso di crucciarti! . La mattina seguente aveva distribuito, per ricordo, scatole multicolori di confettura a quasi tutti i presenti nella sala da pranzo, e poi era andata un po' in viaggio con le due ragazze. E Joachim, che ne era di lui? Era, dopo quel giorno, liberato e sollevato o soffriva amaramente per quell'assenza quando adocchiava il lato della tavola vUoto? La sua insolita e rivoluzionaria impazienza, la sua minaccia di partire arbitrariamente, se si continuava a menarlo per il naso, dipendeva forse dalla partenza di Marusja? O il fatto che non partiva ancora, ma dava retta alla behrensiana esaltazione dello scioglimento delle nevi, risaliva a quell'altro fatto che la popputa Marusja non era partita sul serio, ma era andata soltanto un po' in viaggio e sarebbe ritornata tra cinque brevissime unità del tempo di lassú? Oh, probabilmente tutte queste cose insieme rispondevano al vero, tutte in egual misura; Castorp se lo figurava anche senza parlarne mai con Joachim. Se ne guardava bene, esattamente come Joachim evitava di fare il nome d'un'altra che era andata in viaggio. Ma intanto alla tavola di Settembrini, al posto dell'italiano... chi sedeva da qualche tempo, in compagnia di olandesi, il cui appetito era cosí formidabile che ciascuno di loro, al principio del quotidiano pranzo di cinque portate, prima della minestra, si faceva servire tre uova al tegame? Era Anton Karlovic Ferge, quello che aveva vissuto l'infernale avventura dello choc pleurico! Sicuro, il signor Ferge si era alzato; anche senza pneumotorace le sue condizioni erano migliorate al punto che passava la maggior parte della giornata vestito e in moto, e con quei suoi baffi bonariamente folti e il suo grosso pomo d'Adamo altrettanto bonario era presente ai pasti.

I cugini chiacchieravano con lui qualche volta nella sala e nell'atrio, e di quando in quando, se si dava il caso, si accompagnavano a lui nella passeggiata d'obbligo, poiché nutrivano una cordiale simpatia per quell'uomo rassegnato e schietto che dichiarava di non intendersi di cose sublimi e, dopo questa premessa, si dava a discorrere della fabbricazione di scarpe di gomma e di lontane regioni dell'impero russo, Samara, Georgia, mentre entro la nebbia movevano i passi nella fanghiglia di acqua e neve. Le vie infatti erano a mala pena transitabili, in piena dissoluzione, e le nebbie fumavano. Il consigliere asseriva, è vero, che non erano nebbie, bensí nuvole; ma, secondo Castorp, lo scambio dei vocaboli era un giuoco di bussolotti. La primavera stava combattendo un'ardita battaglia che, con cento ricadute nei rigori invernali, durò per mesi, fino a giugno. Già in marzo, se splendeva il sole, era quasi impossibile resistere al caldo sul balcone e sulla sedia a sdraio, ad onta degli abiti leggeri e del parasole, e c'erano signore che inauguravano addirittura l'estate e fin dalla prima colazione sfoggiavano abiti di mussolina. In un certo senso erano scusate dalla singolarità del clima che favoriva la confusione sconvolgendo la meteorologia delle stagioni; ma la loro impertinenza era anche sorretta dalla vista corta e dalla mancanza di fantasia, dalla stupidità di chi vede soltanto l'oggi e non è capace di pensare che le condizioni possono anche rovesciarsi, ma sopra tutto dalla smania del diversivo e da quell'impazienza che annulla il tempo: era marzo, dunque primavera, come dire estate, e si tiravano fuori i vestiti di mussolina per pavoneggiarsi prima che venisse l'autunno. Il quale venne davvero in certo qual modo. In aprile si ebbero giornate grigie, fredde, umide, le cui piogge insistenti si tramutarono in neve, in turbini di neve fresca. Le dita gelavano nella loggia, le due coperte di cammello entrarono di nuovo in azione, poco mancò che si dovesse ricorrere al sacco a pelo, l'Amministrazione si risolse ad accendere i termosifoni, e tutti si lagnarono che cosí erano frodati della primavera. Verso la fine del mese la neve era alta dappertutto; ma poi venne il Fohn, lo scirocco, previsto, presagito da ospiti esperti e sensibili: tanto la Stohr quanto l'eburnea Levi, nonché la vedova Hessenfeld lo sentirono unanimi ancora prima che sopra la vetta della granitica montagna a mezzogiorno apparisse la minima nuvoletta. La Hessenfeld ebbe da quel momento crisi di pianto, la Levi dovette mettersi a letto e la Stohr, scoperti ostinatamente i denti leporini, ripeteva a ogni ora il superstizioso timore di un imminente sbocco di sangue: si diceva infatti che il vento di scirocco lo stimola e provoca. Regnava un calore incredibile, il riscaldamento fu sospeso, di notte si lasciava aperta la porta del balcone e ciò nonostante c'erano la mattina undici gradi nella camera; la neve si sciolse a tutt'andare, si fece color ghiaccio, porosa, bucherellata, dov'era ammucchiata sprofondò, si rintanò, per cosí dire, sotto terra. Dappertutto uno stillare, un incrostarsi, un ruscellare, tra crolli e sgocciolii nel bosco; gli argini eretti dagli spalatori al margine delle strade scomparvero come i bianchi tappeti dei prati, anche se gli ammassi erano troppo COSpiCUi per scomparire subito.

Ci furono spettacoli meravigliosi, sorprese primaverili mai viste, fiabesche, per chi scendeva a valle: una distesa di prati e, nello sfondo, il cono dello Schwarzhorn, ancora tutto bianco di neve; a destra, vicino, il ghiacciaio di Scaletta, anch'esso ancora coperto di neve, e anche il terreno col pagliaio da qualche parte era sotto la neve, anche se la coltre era sottile e ragnata, interrotta qua e là da rilievi ruvidi e scuri, tutta bucata dall'erba secca. Il prato però presentava, come il viandante poteva notare, un'irregolare distribuzione della neve: in lontananza, lungo i pendii boscosi, era piú spessa, in primo piano invece, sotto gli occhi degli osservatori, l'erba stinta e inaridita dall'inverno era soltanto spruzzata, infiorata, macchiettata di neve... La osservarono piú da presso, vi si chinarono stupefatti: quella non era neve, erano fiori, fiori di neve, neve fiorita, piccoli calici senza gambo, bianchi e celestini, erano crochi, in verità, spuntati a milioni dal prato stillante, cosí fitti che si potevano benissimo prendere per neve, tant'è vero che piú in là, senza che se ne avvertisse il trapasso, si stendeva la neve autentica. Risero dell'abbaglio preso, risero di gioia davanti a quel miracolo, a quell'amabile, timido, imitativo adattamento della vita organica che osava riemergere. Ne col sero, osservarono e studiarono i teneri calici, se ne ornarono gli occhielli, li portarono a casa, li misero nei bicchieri che avevano in camera, poiché l'inorganica rigidità della valle era stata lunga, lunga e sia pure divertente. Se non che, la neve di fiori fu ricoperta da quella vera, e la stessa sorte toccò alle azzurrine soldanelle e alle primole gialle e rosate. Quanta fatica dovette sostenere la primavera per imporsi e sopraffare l'inverno di lassú! Dieci volte fu respinta, prima che potesse prendere piede,... respinta da nuove irruzioni dell'inverno, con venti gelidi, candide tormente e riprese del riscaldamento. Ai primi di maggio (poiché, parlando dei fiori di neve siamo già arrivati a maggio) era una vera tortura scrivere nella loggia, magari soltanto una cartolina da mandare al piano, tanto facevano male le dita in quella cruda umidità da novembre; e gli alberi frondiferi della zona (ce n'erano cinque e mezzo) erano spogli come nella pianura in gennaio. La pioggia durò giorni e giorni, scrosciò una intera settimana, e senza le confortevoli qualità del tipo di sedia a sdraio che usava lassú, sarebbe stato ben duro passare tante ore di riposo all'aperto nel fumigare delle nubi, col viso bagnato e immobile. Sotto sotto però quella era pioggia primaverile e piú durava, piú si dava a conoscere per tale. Fece scomparire quasi tutta la neve, il bianco non c'era piú, soltanto qua e là un po' di grigio sporco, e i prati cominciarono davvero a verdeggiare! Che dolcezza, che beneficio per gli occhi, il verde dei prati dopo l'interminabile bianco! E c'era anche un altro verde, di gran lunga piú tenero e soavemente delicato che il verde dell'erba novella: i giovani aghi a ciuffetto dei larici... Rare volte Castorp durante le passeggiate d'óbbligo, si asteneva dal passarvi una mano e dal farsene accarezzare le guance, tanto erano irresistibilmente delicati nella loro freschezza. Verrebbe voglia di darsi alla botanica disse al suo compagno, di dedicarsi a questa scienza, per il piacere che offre il risveglio della natura dopo un inverno come il nostro! Queste sono genziane, le vedi qui sul versante? E questa è una specie di violette gialle che non conosco.

Ma qui abbiamo ranuncoli, non diversi da quelli del piano, della famiglia delle ranuncolacee, ma doppi, a quel che vedo, una pianta particolarmente graziosa, ermafrodita per giunta, tu vedi qui un gran numero di stami e vari pistilli, un androceo e un gineceo, se ricordo bene. Sono sicuro che mi procurerò qualche librone di botanica per informarmi un po' meglio in questo campo di vita e di scienza. Guarda, come si colora il mondo! Piú bello ancora sarà il giugno osservò Joachim. La fiorita dei prati quassú è famosa. Ma non credo che starò ad aspettarla... L'hai avuta da Krokowski l'idea di studiare botanica? Krokowski. Che c'entrava quello? Già, vero, ricordava che recentemente il dottore, in una delle sue conferenze, si era portato sul territorio botanico. Sarebbe fuori di strada infatti chi credesse che i mutamenti prodotti dal tempo siano arrivati al punto da sopprimere le conferenze di Krokowski! Ogni quindici giorni le teneva, come sempre, in giacchetta, anche se non piú in sandali (li portava soltanto d'estate e quindi li doveva riadottare fra poco)... ogni secondo lunedí nella sala da pranzo, come quando Castorp, nei primi giorni, era arrivato in ritardo, sporco di sangue. L'analista aveva parlato per nove mesi di amore e malattia, mai a lungo, bensí a piccole dosi; in conversazioni di mezz'ora o tre quarti esponeva i suoi tesori di pensiero e di scienza, e tutti avevano l'impressione che cosí potesse continuare in eterno senza essere costretto a smettere. Era una specie di Mille e una Notte quindicinale, che di volta in volta seguiva una trama a piacere, adatta, come le fiabe di Sheherazade, a soddisfare un principe curioso e a trattenere da atti di violenza. Per la sua vastità senza limiti il tema di Krokowski faceva pensare all'impresa, cui aveva collaborato Settembrini, all'enciclopedia delle sofferenze; e chi voglia farsi un'idea delle capacità polimorfe del conferenziere pensi che poco prima aveva parlato persino di botanica, e piú precisamente di funghi... Aveva modificato anche un po'- l'argomento, ora parlava piuttosto di amore e morte, e ciò gli offriva il destro di fare considerazioni che recavano un'impronta ora delicatamente poetica, ora invece inesorabilmente scientifica. A questo proposito il dotto, con la sua cadenza orientale strascicata, e con la sua caratteristica erre pronunciata battendo una volta sola la lingua contro il palato, era passato alla botanica, cioè ai funghi, creature umbratili, esuberanti e fantastiche della vita organica, di natura carnosa, molto affini al regno animale - nei quali si trovano prodotti del metabolismo animale, albumina, glicogeno, cioè amido animale. E Krokowski aveva parlato di un fungo, famoso nell'antichità classica per la sua forma e per le virtú che gli erano attribuite,... uno spugnolo nel cui nome latino ricorre l'aggettivo impudicus e la sua forza ricorda l'amore, l'odore invece la morte. L'impudicus infatti effonde un caratteristico odore di cadavere, quando dal cappello a campana gli sgocciola il muco tenace, verdastro, che lo copre ed è il diffusore delle spore. E fino a oggi gli ignoranti lo considerano un afrodisiaco.

Be', l'argomento era stato un po' pesante per le signore, secondo l'opinione del pubblico ministero Paravant il quale, moralmente sorretto dalla propaganda del consigliere, era sopravvissuto allo scioglimento della neve. E anche la signora Stohr, che teneva duro, risoluta, e rintuzzava qualunque tentazione di partenze arbitrarie, aveva detto a tavola che quel giorno il dottor Krokowski, col suo fungo classico, era stato "impúdico". Cosí si era espressa quella disgraziata, deturpando la sua malattia con incredibili strafalcioni. Ma lo stupore di Castorp era dovuto all'allusione che Joachim aveva fatta nominando Krokowski e la sua botanica; tra loro infatti non parlavano mai dell'analista, come non menzionavano Clavdia Chauchat o Marusja,... non ne facevano cenno, preferivano passare sotto silenzio lui e la sua attività. Se non che ora Joachim aveva nominato l'assistente, e l'aveva fatto in tono crucciato, come del resto anche l'osservazione che non aveva intenzione di aspettare la fiorita dei prati era stata pronunciata di malumore. Pareva che Joachim a poco a poco stesse per perdere l'equilibrio; quando parlava, la sua voce tremava irritata, la sua dolcezza d'animo e la sua calma non erano piú quelle di prima. Sentiva la mancanza del profumo d'arancio? O era la beffa del numero Gaffky a spingerlo alla disperazione? Non riusciva a decidere se aspettare lí l'autunno o ricorrere a una partenza arbitraria? In realtà c'era un'altra cosa che metteva nella voce di Joachim quel tremito irritato, un motivo che l'aveva indotto a menzionare la recente lezione di botanica in tono quasi beffardo. Di quest'altra cosa Castorp non sapeva niente o, meglio, non sapeva che Joachim la sapesse, perché in quanto a lui, transfuga e pupillo della vita e della pedagogia, la sapeva fin troppo bene. Per farla breve, Joachim aveva scoperto certi altarini di suo cugino, l'aveva colto, non visto, in flagrante tradimento simile a quello che aveva commesso il martedí grasso;... in una infedeltà, rincarata dal fatto indubitabile che Castorp se ne rendeva colpevole di continuo. Nel ritmo eternamente monotono del passare del tempo, nella fissa e piacevole suddivisione della giornata normale, sempre la stessa, sempre identica, sempre uguale a se medesima fino a escludere che la si potesse distinguere dalle precedenti, nella sua perpetua fissità che rendeva difficile comprendere come potesse produrre mutamenti,... nell'inviolabile ordine quotidiano dunque s'inseriva, come tutti ricorderanno, la ronda del dottor Krokowski fra le tre e mezzo e le quattro del pomeriggio, attraverso tutte le camere, ossia tutti i balconi, da una sedia a sdraio all'altra. Quante volte si era rinnovata al Berghof la giornata normale, da quando Castorp, nella sua posizione orizzontale, si era seccato perché l'assistente gli girava al largo e non lo prendeva in considerazione! Da un pezzo l'ospite di allora era diventato un camerata: Krokowski nelle visite di controllo lo chiamava persino cosí, e se l'appellativo militare, del quale egli pronunciava la erre in maniera esotica battendo un'unica volta la lingua contro la radice dei denti, gli stava malissimo, secondo il giudizio che Castorp ne aveva dato parlando con Joachim, si adattava però abbastanza al suo tipo robusto, schiettamente virile, invitante a una serena fiducia, che d'altro canto era in certo modo smentita dal suo rannuvolato pallore e presentava pur sempre un che di sospetto. Be', camerata, come stiamo? come andiamo? diceva Krokowski venendo dalla barbarica coppia di russi e mettendosi a capo del giaciglio di Castorp; e questi, interpellato in tono cosí festevole, le mani giunte sul

petto, sorrideva ogni giorno, cortese e urtato da quella brutta allocuzione, e guardava i denti gialli del dottore che apparivano sotto i baffi. Riposato bene? continuava spesso Krokowski. Curva discendente? No? saliente oggi? Be', non ha importanza, nell'alta stagione si aggiusta. Arrivederci. E con questa parola, che sonava malissimo perché la pronunciava come "addivedetci", passava oltre, da Joachim... Era una ronda, tanto per dare un'occhiata, niente di piú. Qualche volta però il dottore si tratteneva piú a lungo, sempre a spalle larghe, con la stessa risata virile, discorrendo col camerata del piú e del meno, del tempo che faceva, di partènze e arrivi, delle condizioni di spirito del paziente, del suo umore buono o cattivo, eventualmente anche della sua situazione personale, del luogo donde veniva, delle speranze che aveva, finché diceva "addivedetci" e proseguiva il giro; e Castorp, le mani - tanto per cambiare - intrecciate sotto la testa, gli rispondeva, sorridendo a sua volta,... certo con una precisa sensazione di disgusto, ma rispondeva. Discorrevano a voce bassa; e benché il tramezzo di vetro non dividesse interamente le logge, Joachim non afferrava la conversazione né faceva il ben che minimo tentativo di afferrarla. Sentiva persino suo cugino alzarsi dalla sedia e andare in camera insieme col dottore, probabilmente per mostrargli la cartella della febbre; e là il colloquio continuava per un po', a giudicare dal ritardo con cui l'assistente giungeva da Joachim per il passaggio interno. Di che cosa discorrevano i camerati? Joachim non chiedeva; ma se qualcuno tra noi non seguisse il suo esempio e volesse essere informato, bisognerebbe anzitutto, stando sulle generali, far notare quanta materia e quanti motivi di scambio intellettuale esistano tra uomini e camerati, le cui concezioni basilari presentino un'impronta idealistica, e dei quali l'uno in base alla sua formazione culturale sia arrivato a concepire la materia come peccato originale dello spirito, come maligna escrescenza di stimoli, mentre l'altro, in quanto medico, è avvezzo a far valere il carattere secondario della malattia organica. Quante cose, pensiamo, si potevano discutere e dibattere intorno alla materia quale indecente degenerazione della non-materia, intorno alla vita quale impudicizia della materia, intorno alla malattia quale forma oscena della vita ! Con riferimento a conferenze in corso si poteva discorrere dell'amore come potenza patogena, della natura trascendente del contrassegno, di punti "vecchi" e "recenti", di veleni solubili e filtri amorosi, della radioscopia dell'inconscio, dei benefici della psicoanalisi, della rimetamorfosi del sintomo... e che sappiamo noi, che esponiamo soltanto proposte e ipotesi, per chi chiedesse di che cosa mai stessero discorrendo il dottor Krokowski e il giovane Hans Castorp! D'altro canto non discorrevano piú, erano cose passate, cosí era andata soltanto un tratto, alcune settimane; negli ultimi tempi il dottore si tratteneva di nuovo presso questo paziente non piú che presso gli altri: "Be', camerata?" e "Addivedetci", a questo si limitava, come un tempo, la sua visita. In compenso però Joachim aveva fatto un'altra scoperta, quella che considerava un tradimento da parte di Castorp, e l'aveva fatta del tútto involontariamente, senza (gli si può credere) essere andato, nella sua ingenuità militare, a fare la spia. Era accaduto semplicemente che un mercoledí, dopo il primo periodo della cura a sdraio, venisse chiamato a presentarsi nel seminterrato, perché il bagnino lo doveva pesare... e in quell'occasione vide.

Scese la scala, la scala pulita e ricoperta di linoleum, dalla quale si vedeva la porta dell'ambulatorio, ai cui lati erano i gabinetti di radioscopia, a sinistra quello organico, a destra, girato l'angolo, quello psichico, un gradino piú in basso, col biglietto di visita del dottor Krokowski attaccato alla porta. A metà della scala però Joakim si fermò, perché in quel momento Castorp usciva dall'ambulatorio dove era stato per l'iniezione. Questi chiuse con ambo le mani la porta dalla quale era uscito in fretta e, senza guardarsi intorno, si volse a quella che recava il biglietto fissato con le puntine, e lievemente chino la raggiunse con un paio di passi silenziosi. Bussò e abbassando la testa tenne l'orecchia vicino al dito che bussava. Al baritonale "avanti!" del dottore Joachim vide suo cugino scomparire nella penombra della tana analitica di Krokowski.

Un altro ancora. Giorni lunghi, i piú lunghi, sia oggettivamente, sia con riguardo al numero delle loro ore di sole: l'estensione astronomica infatti non poteva nuocere alla loro bellezza, né considerati ciascuno a sé, né visti nella loro monotona fuga. L'equinozio di primavera era passato da quasi tre mesi e si era al solstizio d'estate. Ma l'anno naturale seguiva lassú il calendario con ritmo sostenuto: soltanto ora, soltanto in quei giorni era definitivamente primavera ancora priva della pesantezza estiva, balsamica, leggera nell'aria rarefatta, col cielo azzurro, argenteo e luminoso, e con la infantile e variopinta fioritura dei prati. Sui pendii Castorp ritrovò quegli stessi fiori dei quali Joachim gli aveva messo in camera, per dargli il benvenuto, alcuni ultimi esemplari: achillee e campanule,... segno per lui che l'anno chiudeva il suo circolo. Ma quanta vita organica non era spuntata ora dalla nuova erba smeraldina dei versanti e dei prati distesi, in forma di stelle e calici e campane, o in fogge irregolari, empiendo di asciutti aromi l'aria solatia! Licnidi e selvatiche viole del pensiero in quantità, pratoline, margherite, primole in giallo e rosso, molto piú grandi e piú belle di quelle che Castorp credeva di aver veduto al piano, seppur vi aveva prestato attenzione; inoltre, le oscillanti soldanelle con le campanine cigliute, azzurre, purpuree e rosate, specialità della zona. Egli coglieva esemplari di tutta quella grazia, ne portava a casa mazzi, con intenzioni serie, non tanto per adornarne la camera, quanto per severi studi scientifici, come si era appunto proposto. Si procurò alcuni ferri del mestiere, un manuale di botanica generale, una vanghetta maneggevole per scavare le piante, un erbario, una buona lente; e con ciò il giovane lavorava nella sua loggia,... di nuovo in abito estivo, poiché aveva indossato uno di quei vestiti che aveva portato allora con sé: indizio anche questo dello scadere di un anno.

Fiori freschi occhieggiavano in diversi bicchieri sul piano dei mobili nella camera interna, sul tavolinetto reggilampada a fianco dell'eccellente sedia a sdraio. Fiori, mezzo appassiti, languenti, ma ancora pieni di linfa, si trovavano sciolti sul parapetto del balcone, sparsi sul pavimento della loggia, mentre altri, ben distesi tra fogli di carta assorbente che ne beveva l'umidità, erano sotto un carico di sassi, affinché Castorp potesse poi con striscioline di carta gommata fissarli, secchi e appiattiti, nel suo album. Coricato, con le ginocchia sollevate, mentre il dorso del manuale aperto formava quasi un comignolo sul suo petto, teneva la grossa lente d'ingrandimento tra i suoi schietti occhi azzurri e un fiore, dal quale aveva tolto col temperino una parte della corolla per poter studiare meglio l'ovario; il fiore cosí ingrandito prendeva l'aspetto di una bizzarra massa carnosa. Le antere in cima ai filamenti versavano il polline giallo, dall'ovario si levava il pistillo con lo stimma, e tagliandolo per il lungo si poteva osservare il canalino attraverso il quale i granelli e sacchi pollinici vengono trasportati da una secrezione zuccherina fino ai carpelli. Castorp contava, osservava, confrontava; esaminava la struttura e la posizione dei sepali e dei petali, nonché degli organi sessuali maschili e femminili, controllava la concordanza tra ciò che vedeva e le illustrazioni schematiche e naturali, stabiliva soddisfatto l'esattezza scientifica nella struttura di piante a lui note e con l'aiuto di Linneo passò a determinare quelle che non avrebbe saputo determinare, secondo divisioni, classi, sottoclassi, ordini, famiglie e specie. Siccome disponeva di molto tempo riuscí a fare alquanti progressi nello studio sistematico della botanica in base alla morfologia comparata. Nell'erbario, sotto la pianta essiccata, scriveva con precisione calligrafica il nome latino che la scienza umanistica le assegna con galanteria, vi aggiungeva le qualità caratteristiche e mostrava tutto al buon Joachim che se ne stupiva. La sera osservava le stelle. Aveva incominciato a interessarsi dell'anno in sé conchiuso... lui che in questo modo aveva assistito a una ventina di giri del Sole e non se n'era mai curato. E se noi stessi abbiamo istintivamente usato parole come "equinozio di primavera", l'abbiamo fatto secondo i suoi orizzonti e con riguardo alla sua vita di allora. Di questo genere erano i termini che da poco si dilettava di ostentare, facendo sbalordire suo cugino con nozioni acquisite anche in questo campo. Ora il Sole sta per entrare nel segno del Cancro. Cosí era capace di cominciare durante una passeggiata. Sai che cosa significa? Questo è il primo segno estivo dello Zodiaco, capisci? Ora, passando dal Leone e dalla Vergine si va verso l'autunno, fino al punto equinoziale, poco prima della fine di settembre, quando il Sole è di nuovo sull equatore celeste, come ultimamente in marzo, quando esso entrava in Ariete. Non me ne sono accorto brontolò Joachim. Ma che vai discorrendo con tanta abilità? Ariete? Zodiaco? Sicuro, lo Zodiaco. Gli antichissimi segni celesti... Scorpione, Sagittario, Capricorno, Acquario e cosí via, possibile che non destino interesse? Sono dodici, almeno questo saprai, tre per ogni stagione, gli ascendenti e i discendenti, il giro delle costellazioni nelle

quali passa il Sole: secondo me, un fenomeno grandioso ! Pensa, li hanno trovati in un tempio egizio, raffigurati sul soffitto,... un tempio di Afrodite, per giunta, non lontano da Tebe. Erano già noti ai Caldei,... i Caldei, capisci? Antico popolo di maghi, arabo-semitico, dottissimo in astrologia e divinazione. Quelli studiarono anche la fascia celeste percorsa dai pianeti e la suddivisero in dodici segni di costellazioni, la-dodecatemoria, accettata fino a oggi. E' un fatto stupendo. E' l'umanità! Ora dici umanità anche tu, come Settembrini. Sí, come lui, oppure un po' diverso. Bisogna prenderla come è, ma è certo un fenomeno grandioso, Penso con molta simpatia ai Caldei, quando sto coricato a guardare quei pianeti che essi già conoscevano, poiché, per quanto fossero intelligenti, non li conoscevano tutti. Ma quelli che non conoscevano, non li posso vedere nemmeno io, Urano è stato scoperto recentemente col telescopio, centoventi anni fa. Recentemente? Dico recentemente, se permetti, in confronto dei tremila anni che sono passati da allora. Quando sto a osservare i pianeti, anche i tremila anni diventano un "recentemente", e penso con intimità ai Caldei che li hanno visti e studiati e capiti, e questa è l'umanità. E sia. In testa hai però idee grandiose. Tu dici grandioso, e io dico intimo... si può dire cosí o cosà. Fatto è però che quando il Sole entra nella costellazione della Libra, fra circa tre mesi, il giorno sarà accorciato al punto che il giorno e la notte saranno uguali, e poi, tu lo sai, continueranno ancora ad accorciarsi fin verso Natale. Considera però, se non ti dispiace, che mentre il Sole passa nei segni invernali del Capricorno, dell'Acquario e dei Pesci, il giorno riprende ad allungarsi. Poi infatti ritorna l'equinozio di primavera, per la tremillesima volta dopo i Caldei, e i giorni aumentano ancora fino a quando ci ritroviamo nel solstizio estivo. E' ovvio. Nossignore. E' una burla! D'inverno le giornate si allungano, e quando arriva la piú lunga, il 21 giugno, l'inizio dell'estate, ecco che si ridiscende, di nuovo si accorciano, e si va incontro all'inverno. Tu dici che è ovvio, ma se prescindiamo dal fatto che è ovvio, ci sono momenti nei quali ti prende l'angoscia, e convulsamente si vorrebbe aggrapparsi a qualche cosa. Si direbbe che un mattacchione abbia combinato le cose in maniera di far incominciare, a rigore, la primavera al principio dell'estate, e al principio dell'estate l'autunno... L'uomo è menato per il naso, fatto girare in circolo con la previsione di qualcosa che è di nuovo una svolta... una svolta nel cerchio. Il quale poi è tutto formato di svolte senza dimensione, la curva non è misurabile, la direzione non ha durata, e l'eternità non è come dire: avanti, sempre diritto ! bensí: in tondo, in tondo ! Oh, smetti! La festa di San Giovanni! esclamò Castorp.

La festa del solstizio d'estate! Fuochi sui monti e giritondi intorno alla fiamma lingueggiante, tenendosi per mano! Io non li ho mai visti, ma sento che cosí fa la gente spontanea, cosí festeggia la prima notte estiva, che è l'inizio dell'autunno, l'ora meridiana e il vertice dell'anno, donde si va in discesa... Danzano e girano e mandano gridi di gioia. Di che gioiscono nella loro naturalezza e spontaneità? Riesci a comprenderli? Perché tanta gioia frenetica? Perché ora si scende verso il buio, o forse perché finora si era in salita e adesso è venuta la svolta, la svolta momentanea, la notte di mezza estate, il punto culminante con la malinconia nella smodata allegrezza? Dico le cose come sono, con le parole che mi vengono alle labbra. Danzano in giubilo queste candide creature intorno alla fiamma, per malinconica allegrezza e pèr allegra malinconia, lo fanno per disperazione positiva, se vuoi dire cosí, per onorare la burla del cerchio e l'eternità senza durevole direzione, nella quale tutto ritorna. Non voglio dire cosí, niente affatto mormorò Joachim non richiamarti a me, per favore. Vai ben lontano, quando riposi, con le tue elucubrazioni. Non nego che tu ti occupi di cose piú utili studiando la grammatica russa. Tra un po' parlerai correntemente codesta lingua. E, sí, sarà un grande vantaggio per te, se scoppia la guerra, che Dio non voglia! Non voglia? Parli proprio da borghese. La guerra è necessaria. Senza guerre il mondo marcirebbe subito, ha detto Moltke. Sí, mi pare che abbia questa tendenza. E fin qui posso darti ragione disse Castorp e stava per ritornare ai Caldei che pure avevano fatto la guerra e conquistato Babilonia, benché fossero semiti e perciò quasi ebrei,... allorché entrambi simultaneamente si avvidero che due persone, a due passi davanti a loro, volgevano la testa a guardarli, richiamati dal loro discorso, disturbati nella propria conversazione. Erano nella via principale, tra la Casa di cura e l'Hotel Belvedere, in discesa verso Davos-Dorf La valle era vestita a festa, a colori delicati, chiari e allegri. L'aria era deliziosa. Una sinfonia lieta di profumi emanati dai fiori di prato empiva l'atmosfera pura, asciutta, schiarita dal sole. Riconobbero Lodovico Settembrini al fianco di un forestiero, ma parve che egli a sua volta non li riconoscesse o non desiderasse un incontro, poiché distolse rapidamente lo sguardo e gesticolando si immerse nella conversazione col suo compagno, cercando persino di allungare il passo. Ma quando i cugini, alla sua destra, salutarono sorridendo con un inchino, egli si mostrò sorpreso e con esagerato piacere: Oh perbacco! Caspiterina! ma di nuovo esitando tentò di farli passare avanti; essi però non compresero, ossia non se ne accorsero, perché a loro la mossa non poteva parere ragionevole. Sinceramente lieti, invece, d'incontrarlo dopo tanto tempo, si fermarono accanto a lui e gli strinsero la mano, chiedendo come stava e guardando, in riguardosa attesa, il suo compagno. Cosí lo costrinsero a fare ciò che evidentemente avrebbe preferito non fare, mentre a loro sembrava la cosa piú naturale e prevedibile: a presentarli cioè allo sconosciuto.

Camminando e quasi senza fermarsi li presentò dunque con gesti cortesi e frasi allegre, facendo sí che si stringessero la mano davanti a lui. Si venne a sapere che il forestiero, il quale poteva avere la stessa età di Settembrini, era un suo coinquilino, in subaffitto presso Lukacek, il sarto per signora, e, se i giovani avevano capito bene, si chiamava Naphta. Era un omino scarno, raso e di una bruttezza spiccata, addirittura corrosiva, tanto che i cugini ne rimasero sbalorditi. In lui tUtto era affilato: il naso aquilino che dominava il viso, le labbra strette, le spesse lenti degli occhiali dall'armatura leggera che portava sugli occhi grigiochiaro, e persino il silenzio che osservava, donde si poteva arguire che il suo discorso doveva essere acuto e logico. Era regolarmente a capo scoperto e in giacca, e vestiva con garbo: il suo abito di flanella turchina a righe bianche era di buon taglio, moderatamente alla moda, come notò subito l'occhiata indagatrice dei due giovani uomini di mondo, la cui persona fu oggetto di un'occhiata simile, ma piú rapida e penetrante, da parte del piccolo Naphta. Se Settembrini non avesse saputo portare con tanta grazia e dignità la sua rattina sfilacciata e i calzoni quadrettati, la sua figura avrebbe certo scapitato al confronto con la distinta compagnia. Non ci scapitava invece perché i calzoni erano stirati di fresco sicche a prima vista si potevano quasi prendere per nuovi: opera senza dubbio, pensarono di sfuggita i due giovani, del padrone di casa. Se però il brutto Naphta con la bontà e mondanità del vestito si accostava piú ai cugini che al suo coinquilino, non solo l'età piú avanzata lo metteva al livello di quest'ultimo contro i due giovani, ma decisamente anche un'altra cosa che nel modo piú comodo si poteva far risalire al colore del viso delle due coppie, in quanto gli uni erano bruni e abbronzati, gli altri invece pallidi; nel corso dell'inverno il viso di Joachim si era ancora scurito e quello di Castorp ardeva roseo sotto la corona dei capelli biondi, mentre l'irradiazione non aveva ancora intaccato il pallore meridionale di Settembrini che faceva nobilmente spiccare i suoi baffi neri, e il suo compagno, pur essendo biondo (i suoi capelli, per precisione, erano biondocenere, metallici, incolori, ed egli li portava lisci, tirati all'indietro, dalla fronte sfuggente alla nuca), presentava quella opaca bianchezza della pelle che hanno le razze brune. Due tra i quattro portavano il bastone da passeggio, Castorp e Settembrini; infatti Joachim non lo usava per ragioni militari, e Naphta subito dopo la presentazione incrociò di nuovo le mani dietro la schiena; mani piccole e delicate, com'erano graziosi anche i suoi piedi, in rapporto alla persona. Nessuno notò che pareva raffreddato e tossiva in una certa maniera astenica e cagionevole. Settembrini superò subito e con garbo quel momento di sorpresa o di contrarietà che aveva avuto scorgendo i due giovani. Si mostrò di ottimo umore e presentò i tre con parole scherzose: a Naphta, per esempio, diede il titolo di princeps scholasticorum; l'allegrezza, disse, "teneva corte splendida nella sala del suo petto", secondo le parole dell'Aretino; tutto merito della primavera, alla quale faceva i suoi elogi. I signori sapevano che contro quel mondo lassú aveva parecchio da ridire, e già varie volte si era sfogato a dirne male. Viva invece la primavera dell'alta montagna! Provvisoriamente lo conciliava con tutti gli orrori di quella regione.

Non era conturbante e irritante come la primavera del piano. Senza ribollii profondi, senza umidi vapori, senza nebbie opprimenti! Aria limpida, invece, secca, serena, tutta grazia acerba, secondo il cuor suo. Spettacolo superbo! Camminavano in fila irregolare, tutti e quattro possibilmente affiancati, ma nell'incontro con altri passanti Settembrini che formava l'ala destra doveva scendere sulla carreggiata, o la fronte si spezzava per qualche istante quando l'uno o l'altro rimaneva indietro o rientrava, fosse Naphta a sinistra, o Castorp che stava tra l'umanista e il cugino Joachim. Naphta faceva brevi risate con la voce in sordina, velata dal raffreddore, che rammentava il suono d'un piatto incrinato percosso da una nocca. Indicando con la testa l'italiano che aveva al fianco disse strascicando le parole: Sentite il volterriano, il razionalista! Loda la natura perché nemmeno nella piú fertile occasione ci confonde con mistici vapori, e conserva invece la secchezza classica. Come si dice umidità in latino? Humor esclamò Settembrini al di sopra della spalla sinistra; e l'humor del nostro professore nel considerare la natura consiste nel particolare che, come Santa Caterina da Siena, quando vede le primole rosse pensa alle piaghe di Cristo. Naphta rispose: Sarebbe un fatto spiritoso piuttosto che umoristico. Ma sarebbe sempre un'immissione di spirito nella natura, che ne ha bisogno. La natura disse Settembrini abbassando la voce e non piú al di sopra della spalla, ma quasi giú da essa, non ha punto bisogno del suo spirito. E' spirito lei stessa. Non si annoia col suo monismo? Ah, lei riconosce dunque che, spezzando il mondo in due princípi ostili, scomponendolo in Dio e natura lo fa per smania di divertimento! E' interessante che lei chiami smania di divertimento ciò che intendo quando dico passione e spirito. Pensare che lei, pur usando parole cosí grosse per necessità cosí frivole, mi dà talvolta dell'oratore! Lei insiste nel dire che spirito significa frivolezza. Ma esso non ha nessuna colpa se è dualistico per sua natura. Il dualismo, l'antitesi è il principio movente, appassionato, dialettico, spiritoso. Vedere il mondo scisso in due princípi avversi: ecco lo spirito. Ogni monismo è noioso. Solet Aristoteles quaerere pugnam. Aristotele? Aristotele ha trasposto negli individui la realtà delle idee universali. Che è panteismo. Errore. Se lei dà agli individui un carattere sostanziale, se toglie l'essenza delle cose dall'universale e la pensa nel fenomeno singolo, come fecero gli aristotelici Tomaso e Bonaventura, lei stacca il mondo da ogni unione con l'idea suprema, la pone fuori di Dio e Dio diventa trascendente. Questo, signor mio, è medioevo classico. Classico medioevo: accoppiamento di parole deliZiOSO ! Domando scusa, ma io riconosco valido il concetto di classico a tempo e luogo, cioè dovunque un'idea tocchi il proprio vertice. L'antichità non sempre è stata classica. Vedo che lei nutre un'antipatia contro la... libertà delle categorie, contro l'assoluto.

Lei non vuole neanche lo spirito assoluto. Vuole che lo spirito sia il progresso democratico. Spero che saremo d'accordo nella convinzione che lo spirito, per assoluto che sia, non potrà mai essere il sostenitore della reazione. E' però sempre il sostenitore della libertà! Però! Libertà è la legge dell'amore del prossimo, non nichilismo e malvagità. Della quale lei ha evidentemente paura. Settembrini alzò un braccio sopra la testa e la scaramuccia cessò. Joachim fissava stupefatto ora l'uno ora l'altro, mentre Castorp con le sopracciglia sollevate guardava per terra. Naphta aveva parlato in tono secco e apodittico, benché fosse stato lui a propugnare la libertà piú ampia. Specialmente il modo di controbattere con l'esclamazione "errore" !, seguita da una smorfia, era sgradevole. Settembrini gli aveva tenuto testa con maggiore serenità e le sue parole avevano un calore simpatico, specie quando aveva invitato alla concordia in certi princípi fondamentali. Ora, mentre Naphta taceva, prese a spiegare ai cugini i precedenti dell'uomo a loro sconosciuto, venendo cosí incontro al bisogno di chiarimenti che supponeva avessero dopo il suo battibecco con Naphta. Questi lasciò fare senza occuparsene. Era professore di lingue classiche nei corsi superiori del Fridericianum, spiegò Settembrini, mettendo pomposamente in rilievo, alla maniera italiana, la posizione della persona che presentava. La sua sorte era uguale alla propria: anche lui, spinto lassú cinque anni prima dalle sue condizioni di salute, si era dovuto convincere della necessità di rimanerci a lungo e, abbandonato il sanatorio, aveva preso stanza in privato presso Lukacek, il sarto da signora. Il locale istituto scolastico superiore si era saviamente assicurato l'ottimo latinista, allievo di un ordine religioso (disse senza precisare), acquistando un docente del quale poteva vantarsi... in breve: Settembrini inalzò non poco il brutto Naphta, benché poco prima fosse venuto con lui a una specie di contesa astratta, e quel conflitto a parole dovesse continuare immediatamente. Settembrini infatti passò a dare a Naphta informazioni sui cugini, donde risultò che doveva avergliene parlato altre volte. Questo dunque era il giovane ingegnere delle tre settimane, nel quale il consigliere Behrens aveva scoperto una zona molle, e quello la speranza dell'esercito prussiano, il tenente Ziemssen. E parlò della sentimentale ribellione diJoachim, dei suoi progetti di viaggio, aggiungendo che senza dubbio si faceva torto all'ingegnere pensando che non avesse la medesima impazienza di ritornare al suo lavoro. Naphta torse il naso. E disse: I signori possiedono un tutore eloquente. Mi guardo bene dal mettere in dubbio che la sua interpretazione dei loro pensieri e desideri sia esatta. Lavoro, lavoro... ecco, ora dirà che sono un nemico dell'umanità, un inlmícus humanae naturae, se ho l'ardire di evocare i tempi nei quali questa sua fanfara non avrebbe certo sortito il consueto effetto, i tempi cioè nei quali il contrario del suo ideale godeva una stima incomparabilmente maggiore.

Bernardo di Clairvaux, ad esempio, insegnò una graduatoria della perfezione ben diversa da quella che il signor Lodovico non ha neanche sognata. Volete sapere quale? Lo stadio piú basso sta nel "mulino", il secondo nel "campo", il terzo e piú lodevole (non stia a sentire, Settembrini) nel "letto". Il mulino è il simbolo della vita mondana... e l'immagine non è scelta male. Il campo è l'anima dell'uomo mondano sulla quale agisce il predicatore e maestro spirituale. Questo stato ha già una maggiore dignità. Sul letto invece... Basta! Lo sappiamo! esclamò Settembrini. Adesso, signori, vi esporrà lo scopo e l'uso del sofà! Non sapevo, Settembrini, che fosse cosí pudico. Quando la si vede fare l'occhiolino alle ragazze... Dov'è la spregiudicatezza pagana? Il letto dunque è il luogo di convivenza di chi ama con chi è amato, e, come simbolo, la contemplativa segregazione dal mondo e dalle creature per la convivenza con Dio. Puh! Andate, andate! protestò l'italiano quasi piangendo. Gli altri risero. Ma Settembrini continuò dignitoso: Oh, via, io sono europeo; sono occidentale. La sua graduatoria è puro e semplice Oriente. Gli orientali rifuggono dall attività. Lao-Tse insegna che il far niente è piú giovevole di qualunque cosa fra cielo e terra. Quando tutti gli uomini avranno smesso di fare, ci saranno sulla terra la calma perfetta e la felicità. Questa è la sua convivenza. Oh, guarda un po'. E il misticismo occidentale? E il quietismo, che tra i suoi può annoverare Fénelon, e insegna che ogni azione è errata perché pretendere d'agire significa offendere Iddio, il solo che voglia agire. Cito le proposizioni di Molinos. Si direbbe che la possibilità spirituale di trovare la salvezza nella quiete sia universal mente diffusa tra gli uomini. A questo punto intervenne Castorp. Con il coraggio dell'ingenuità si inserí nella conversazione e guardando il vuoto cominciò: Contemplazione, segregazione. C'è del vero, se ne può parlare. Infatti noi viviamo alquanto segregati quassú, bisogna dire. A millecinquecento metri di altezza stiamo sulla sedia a sdraio, notevolmente comoda, guardando dall'alto il mondo e le creature e ci facciamo le nostre riflessioni. Se ci penso e se devo dire il vero, il letto, voglio dire la sedia a sdràio, in dieci mesi mi è stata piú utile e mi ha fatto pensare piú che il mulino laggiú al piano in tutti gli anni passati, non lo posso negare. Settembrini lo guardò tristemente con gli occhi neri e lucidi. Ingegnere sospirò, ingegnere! E preso Castorp per un braccio lo tenne un po' indietro, quasi volesse parlargli a quattr'occhi dietro le spalle degli altri. Quante volte non le ho detto che bisognerebbe sapere che cosa si è e pensare come si conviene! All'occidentale spetta la ragione, ad onta di tutte le proposizioni, l'analisi, l'azione e il progresso,... non le molli piume del monaco! Naphta aveva udito e disse guardando indietro: Del monaco! Ai monaci

dobbiamo la civiltà del territorio europeo! A loro si deve se la Germania, la Francia e l'Italia non sono coperte di foreste selvagge e di paludi primordiali, ma ci donano grano, frutta, vino! I monaci, signor mio, hanno lavorato e come!... Embè? Intendiamoci: il lavoro del religioso non era fine a se stesso, cioè un modo di stordirsi, né intendeva di favorire il mondo o di ottenere vantaggi materiali. Era un puro esercizio ascetico, una parte della disciplina penitenziale, una via di salvezza. Poneva un riparo alle tentazioni della carne, serviva a mortificare la sensualità. Non aveva quindi - mi si permetta di asserirlo - alcun carattere sociale. Era il piú puro egoismo religioso. Le sono molto grato della spiegazione e sono molto lieto di vedere la virtú del lavoro imporsi anche contro il volere dell'uomo. Certo, anche contro le sue intenzioni. Qui avvertiamo nientemeno che la differenza tra l'utile e l'umano. Vedo con dispetto che lei mira di nuovo a spezzare il mondo in due. Mi dispiace d'essermi attirato il suo sdegno, ma le cose bisogna scinderle e ordinarle, e ripulire l'idea del l'homo Deí da elementi impuri. Voi italiani avete inventato le operazioni di cambio e le banche, e Dio vi perdoni. Ma gli inglesi hanno inventato la dottrina economica della società, e il genio umano non glielo perdonerà mai. Oh, il genio dell'umanità era vivo anche nei grandi economisti di quelle isole!... Voleva dire qualcosa, ingegnere? Castorp lo negò, ma ciò nonostante disse, mentre tanto Settembrini quanto Naphta lo ascoltavano con una certa attenzione: Per conseguenza, signor Naphta, lei dovrebbe compiacersi della professione di mio cugino, e approvare la sua impazienza di esercitarla... Io sono borghese da capo a piedi, e mio cugino spesso me ne fa un rimprovero. Non ho neanche fatto il servizio militare e sono espressamente un figlio della pace, talvolta ho pensato persino che avrei potuto benissimo farmi prete,... lo chieda a mio cugino, varie volte ho affermato qualcosa di simile. Ma prescindendo dalle mie inclinazioni personali - e forse, a rigore, non avrei nemmeno bisogno di prescinderne del tutto - ho molta comprensione e nutro profonda simpatia per la vita militare. E' una faccenda maledettamente seria, "ascetica", se vogliamo - poco fa lei ha avuto la bontà di usare questa parola in qualche modo - il militare deve sempre tener conto che può avere a che fare con la morte;... come fa infine anche il sacerdote che non si occupa d'altro. Perciò il soldato ha la bienséance e l'ordine gerarchico e l'obbedienza e, se posso dire cosí, gli onori spagnoli, ed è indifferente che uno porti il rigido colletto dell'uniforme o una gorgiera inamidata, l'effetto è sempre quello, sempre "ascetismo" è, come lei ha detto bene poc'anzi... Non so se riesco a chiarire il mio pensiero... Ma certo, certo disse Naphta lanciando un'occhiata a Settembrini che faceva girare il bastone e osservava il cielo. Perciò sono del parere osservò Castorp che, da quel che sento, l'inclinazione di mio cugino Ziemssen dovrebbe riuscirle simpatica. E qui non penso a "trono e altare" o simili combinazioni, con le quali certe persone, persone schiettamente amanti dell'ordine, giustificano talvolta l'appartenenza a una comunità. Penso invece che il lavoro del soldato, cioè il servizio - in questo caso si parla di servizio - non è fatto assolutamente per conseguire vantaggi materiali e non ha alcun rapporto con la "dottrina economica della

società", da lei menzionata, e perciò gli inglesi hanno pochi soldati, alcuni in India e alcuni in patria per le parate... E' inutile che lei continui, ingegnere lo interruppe Settembrini. L'esistenza del soldato - lo dico senza voler offendere il nostro ufficiale - è spiritualmente indiscutibile, perché è soltanto formale, in sé e per sé priva di contenuto; il tipo fondamentale del soldato è il lanzichenecco, che si faceva assoldare per una o per un'altra causa,... ci fu insomma il soldato della controriforma spagnola, il soldato degli eserciti rivoluzionari, il soldato napoleonico, quello di Garibaldi, c'è il prussiano. Permettetemi di parlare del soldato quando saprò "per che cosa" si batte ! Ma che si batta soggiunse Naphta è pur sempre una particolarità tangibile, dobbiamo riconoscere. Può darsi che ciò non sia sufficiente a rendere l'esistenza del sol dato "spiritualmente discutibile" secondo il suo concetto, ma certo la pone in un campo che è precluso alla comprensione da parte della borghese affermazione della vita. Quella che lei ama definire affermazione borghese della vita obiettò Settembrini con la punta delle labbra, mentre gli angoli della bocca sotto l'arco dei baffi si stendevano in larghezza e il collo, in senso obliquo e a scosse, si allungava uscendo stranamente, quasi a vite, dal colletto si troverà sempre pronta a propugnare le idee della ragione e della moralità e il loro legittimo influsso su giovani anime ancora mcerte. Seguí un silenzio. I giovani guardavano perplessi davanti a sé. Dopo alcuni passi Settembrini, riportati il collo e il capo alla posizione naturale, riprese: Non vi dovete stupire, questo signore e io litighiamo spesso, ma sempre in buona amicizia e in base a parecchi punti d'intesa. Osservazione utile e benefica, cavalleresca e umana da parte di Lodovico Settembrini. Ma Joachim che purtroppo era guidato da buone intenzioni e candidamente desiderava continuare la conversazione, intervenne - come premuto e costretto in qualche modo e quasi contro la sua volontà: Si parlava, per caso, della guerra, mio cugino e io, quando camminavamo dietro a loro. Me ne sono accorto replicò Naphta. Afferrai la parola e mi voltai. Discutevate di politica? della situazione mondiale? No, no rise Castorp. Come vuole che lo facessimo? Per lui, mio cugino, data la sua professione, sarebbe addirittura sconveniente occuparsi di politica, e io vi rinuncio volentieri, non ne capisco niente. Dacché sono qui non ho mai preso in mano un giornale... Settembrini, come già altra volta, dichiarò che era un fatto riprovevole. E tosto si rivelò ottimamente informato delle relazioni internazionali e ne diede un giudizio favorevole perché erano avviate in maniera vantaggiosa per la civiltà. In Europa l'atmosfera generale era, disse, tutta pensieri di pace e progetti di disarmo. L'idea democratica stava progredendo. Affermò di possedere informazioni confidenziali intorno ai Giovani turchi i quali stavano appunto terminando i loro preparativi di un'impresa rivoluzionaria. La Turchia stato nazionale e costituzionale: quale trionfo dell'umanità! La liberalizzazione dell'Islam! canzonò Naphta. Magnifico. Il fanatismo illuminato: benissimo. Che poi riguarda lei aggiunse rivolgendosi a Joachim. Se cade Abdul Hamid, il suo influsso sulla Turchia va in fumo, e l'Inghilterra assumerà il protettorato...

Prendete pure sul serio le aderenze e le informazioni del nostro Settembrini disse ai cugini, e furono parole piuttosto impertinenti poiché pareva li considerasse propensi a non prenderlo sul serio. Di cose nazionali-rivoluzionarie è un intenditore. Il suo paese è in buoni rapporti col Comitato balcanico inglese. Ma che ne sarà, Lodovico, degli accordi di Reval, se i suoi turchi progressisti avranno fortuna? Edoardo VII non potrà piú concedere ai russi l'apertura dei Dardanelli, e se l'Austria ciò nonostante si risolvesse a una politica attiva nei Balcani... Vada là con le sue profezie catastrofiche! protestò Settembrini. Nicola è amante della pace. Si devono a lui le conferenze dell'Aia, che restano fatti morali di prim'ordine. Eh, già, dopo la sua piccola disavventura in Oriente la Russia ha dovuto prendersi un po' di riposo! Vergogna, signor mio! Lei non dovrebbe deridere l'aspirazione dell'umanità al suo perfezionamento sociale. Il popolo che avversa siffatti sforzi si esporrà indubbiamente al bando morale. A che servirebbe la politica se non a offrire reciproche occasioni di compromettersi moralmente? Lei è favorevole al pangermanesimo? Naphta si strinse nelle spalle che non erano del tutto pari. Oltre a tutta l'altra bruttezza era anche un po' sbilenco. Gli ripugnava rispondere. Settembrini giudicò: In ogni caso lei parla da cinico. Nei magnanimi sforzi che la democrazia fa per imporsi sul piano internazionale non vuol vedere altro che astuzia politica... Pretende forse che vi scorga dell'idealismo o magari religiosità? Si tratta degli ultimi, gracili moti di quel resto di istinto di conservazione del quale dispone ancora un sistema mondiale condannato. La catastrofe dovrebbe e deve avvenire, verrà ad ogni modo e da tutte le parti. Prenda la politica britannica: il bisogno dell'Inghilterra di assicurarsi gli spalti indiani è legittimo. Ma le conseguenze, Edoardo sa benissimo, come lei e me, che i potentati di Pietroburgo devono porre un rimedio al guasto mancese e hanno bisogno, come del pane quotidiano, di stornare la rivoluzione. Ciò nonostante dirige (probabilmente lo deve fare!) l'espansionismo russo verso l'Europa, desta assopite rivalità fra Pietroburgo e Vienna... Oh, Vienna! Questo ostacolo politico le dà da pensare, immagino, perché nel fradicio impero, del quale è la capitale, lei scorge la mummia del Sacro Romano Impero di nazione tedesca! E lei mi sembra russofilo per umanistica simpatia verso il cesaro-papismo. La democrazia, signor mio, può sperare persino dal Cremlino piú che dalla Hofburg, ed è vergogna per il paese di Lutero e Gutenberg... Oltre a ciò è forse una stupidaggine. Ma anche questa stupidaggine è uno strumento della fatalità... Via, non mi parli di fatalità! Basta che l'umana ragione "voglia" essere piú forte della fatalità, e lo "è" ! Volere, si vuole sempre soltanto il destino. L'Europa capitalistica vuole il suo. Si crede nell'avvento della guerra quando non la si aborre abbastanza. Il suo orrore è, secondo la logica, incongruente fin tanto che non prende le mosse dallo stato stesso. Lo stato nazionale è il principio dell'al di qua, che lei vorrebbe attribuire al demonio. Renda però libere e uguali le nazioni, protegga le piccole e deboli dall'oppressione, instauri la giustizia, fissi confini nazionali... Lo so, il confine del Brennero.

La liquidazione dell'Austria. Mi piacerebbe sapere come la vuol ottenere senza guerra ! Anch'io vorrei proprio sapere quando mai ho condannato la guerra nazionale... Ma, mi pare di aver sentito... Ecco, di questo devo dare atto al signor Settembrini intervenne Castorp nella discussione che aveva seguito camminando e girando di volta in volta la testa verso gli interlocutori. Mio cugino e io abbiamo già avuto il privilegio di discorrere con lui di questi e simili argomenti, voglio dire naturalmente che lo stavamo ad ascoltare, mentre esponeva e chiariva le sue opinioni. Posso pertanto confermare, e anche mio cugino ricorderà certamente, che piú di una volta il signor Settembrini ci parlò con grande entusiasmo del principio del moto e della ribellione e del miglioramento del mondo, che non è proprio, direi, un principio pacifico, e ci disse che questo principio dovrà affrontare ancora grandi difficoltà prima di vincere e di instaurare la felice repubblica universale. Queste le sue parole, anche se beninteso erano espresse con rigore piú plastico, da scrittore, questo va da sé. Ma quel che so con precisione e ricordo alla lettera, perché da borghese pretto e schietto ne rimasi un po' colpito, fu la sua frase: che quel giorno verrà, se non con piedi di colomba, con ali d'aquila (ricordo che le ali d'aquila mi fecero impressione), e bisognerà sconfiggere Vienna se si vuol dare l'avvio alla felicità. Dunque non si può dire che il signor Settembrini abbia condannato la guerra in genere. Dico bene, signor Settembrini? Press'a poco rispose l'italiano brevemente guardando dall'altra parte e bilanciando il bastone. Male disse Naphta con un brusco sorriso. Il suo stesso allievo la dichiara colpevole di tendenze bellicose. Assument pennas ut aquilae... Persino Voltaire fu favorevole alla guerra per la civiltà e consigliò a Federico II la guerra contro i turchi. Che invece strinse un'alleanza con loro, eh, eh, eh. Che dire poi della repubblica universale? Rinuncio a informarmi dove vada a finire il principio del moto e della ribellione una volta che siano instaurate la felicità e l'unione. In quel momento la ribellione sarebbe un delitto... Lei sa benissimo, e anche questi giovani lo sanno, che si tratta di un progresso umano immaginato senza limite. Ma ogni moto è circolare osservò Castorp. Nello spazio e nel tempo: ce lo insegnano la legge della conservazione della materia e quella della periodicità. Mio cugino e io ne parlavamo dianzi. Dato il moto chiuso senza direzione costante, come si fa a parlare di progresso? La sera, quando sto coricato a osservare lo Zodiaco, intendo la metà visibile? e penso ai saggi popoli antichi... Ingegnere, lei non dovrebbe stillarsi il cervello e sognare lo interruppe Settembrini, ma affidarsi risoluto agli istinti dei suoi anni e della sua razza che la devono spingere ad essere attivo. Anche la sua conoscenza delle scienze naturali la deve legare all'idea del progresso. Lei vede la vita evolversi ed elevarsi in epoche smisurate dall'infusorio all'uomo, e non può dubitare che all'uomo si affaccino ancora infinite possibilità di perfezionamento. Ma se proprio vuol impuntarsi sulla matematica, guidi il suo moto circolare da perfezione a perfezione e si ristori con la dottrina del nostro Settecento, che l'uomo in origine era buono, felice, perfetto, e soltanto gli

errori sociali lo hanno sfigurato e corrotto, e mediante la critica esercitata sull'edificio sociale dovrà ridiventare, ridiventerà buono, felice, perfetto... Il signor Settembrini intervenne Naphta dimentica di aggiungere che l'idillio rousseauiano è un peggioramento razionaleggiante della dottrina cristiana intorno alle condizioni dell'uomo primitivo senza stato e senza peccato, alla sua originaria e diretta discendenza da Dio alla quale dovrebbe ritornare. Ora, la ricostruzione dello stato di Dio dopo la scomparsa di tutte le forme terrene sta dove terra e cielo, il sensibile e il soprassensibile si toccano; la salvezza è trascendente, e in quanto alla sua repubblica universale capitalistica, caro dottore, è molto strano sentirla discorrere di "istinto". Istintivo e nazionale sono concetti che vanno d'accordo, e Dio stesso ha dato agli uomini l'istinto naturale che ha indotto i popoli a scindersi in stati diversi. La guerra... La guerra esclamò Settembrini, persino la guerra, signor mio, ha dovuto servire il progresso, come lei mi concederà se ripensa a certi avvenimenti della sua epoca preferita, voglio dire alle crociate! Quelle guerre di civiltà hanno favorito felicissimamente le relazioni economiche e politico-commerciali dei popoli, e unito l'umanità occidentale sotto l'insegna di un'idea. Lei è molto tollerante con l'idea. Tanto piú vorrei cortesemente rettificare le sue osservazioni, poiché le crociate oltre ad animare i traffici hanno portato tutt'altro che a un livellamento internazionale, anzi, al contrario, hanno insegnato ai popoli a distinguersi tra loro e favorito energicamente il formarsi dell'idea dello stato nazionale. Esatto, finché consideriamo il rapporto tra i popoli e il clero. Sí, allora cominciò a consolidarsi il sentimento politico dell'onore nazionale contro l'arroganza gerarchica... E quella che lei chiama arroganza gerarchica non è che l'idea dell'unione umana sotto l'insegna dello spirito! Conosciamo questo spirito, grazie tante. E' evidente che la sua mania nazionale ha in odio il cosmopolitismo della Chiesa, negatore del mondo. Mi piacerebbe sapere come vuol conciliare con tutto ciò l'esecrazione della guerra. Il culto anticheggiante dello stato deve fare di lei il paladino della concezione positiva del diritto, e come tale... Siamo arrivati al diritto? Nel diritto delle genti, signor mio, è vivo il pensiero del diritto naturale e dell'universale ragione umana... Bah, il suo diritto delle genti non è altro che un peggioramento rousseauiano dell'ius divinum, il quale non ha niente a che vedere né con la natura né con la ragione, ma si fonda sulla rivelazione... Non facciamo questione di nomi, professore! Chiami tranquillamente ius divinum quello che io stimo come diritto di natura e delle genti. Conta soprattutto che al di sopra dei positivi diritti degli stati nazionali stia un diritto generale, di validità superiore, il quale offra la possibilità di dirimere le controversie d'interessi mediante tribunali arbitrali. Oh, gli arbitrati! Quando sento questa parola... Una giurisdizione arbitrale borghese che dirime questioni di vita, accerta il volere di Dio e determina la storia! Be', questi sarebbero i piedi di colomba. E le ali d'aquila? La civiltà borghese... Ah, la civiltà borghese non sa cosa vuole. Pretendono a gran voce che si combatta la diminuzione delle nascite, esigono che si riduca il costo dell'allevamento dei bambini e della preparazione professionale. E intanto si soffoca nella calca, e tutte le professioni sono talmente sovraffollate che la lotta per la gavetta supera gli orrori di tutte le guerre passate.

Posti gratuiti e città-giardino ! Invigorimento della razza! Ma c'è bisogno di rinvigorire se l'incivilimento e il progresso richiedono che non si facciano piú guerre? La guerra sarebbe un rimedio contro tutto e per tutto. Per l'invigorimento e persino contro la denatalità. Lei scherza. Questo non è piú parlare sul serio. La nostra conversazione si disgrega, e proprio al momento giusto. Siamo arrivati disse Settembrini indicando col bastone ai due cugini la casetta, al cui cancello si erano fermati. Sorgeva presso l'entrata in Dorf, sulla strada, dalla quale la separava un breve giardinetto, ed era modesta. Una vite selvatica saliva da radici scoperte intorno agli stipiti della porta di casa e stendeva un braccio curvo, aderente al muro, verso una finestra del pianterreno, la vetrina di una botteguccia. Il pianterreno, spiegò Settembrini, era occupato dal droghiere, l'abitazione di Naphta era al primo piano nella sartoria e lui stesso alloggiava sotto il tetto, dove aveva uno studio molto tranquillo. Con sorprendente e spiccata gentilezza Naphta espresse la speranza che a quello seguissero altri incontri. Vengano a trovarci disse. Vorrei dire: vengano a trovarmi, se il dottor Settembrini non avesse il diritto di precedenza alla loro amicizia. Vengano quando vogliono, quando sentiranno il desiderio d'un breve colloquio. Io apprezzo lo scambio d'idee coi giovani, e forse non sono del tutto privo di tradizione pedagogica... Se il nostro Maestro dei Trentatré e indicò Settembrini vuol riservare ogni disposizione e vocazione pedagogica all'umanesimo borghese, lo si deve contraddire. A presto, dunque! Settembrini affacciò difficoltà. Ce n'erano, disse, perché i giorni di permanenza del tenente erano contati, e l'ingegnere voleva certo intensificare l'assiduità nella cura per poterlo seguire scendendo al piano appena possibile. I giovani diedero ragione a tutti e due, prima all'uno, poi all'altro. Avevano accettato con inchini l'invito di Naphta e dopo un istante riconoscevano con la testa e le spalle che gli scrupoli di Settembrini erano giustificati. Cosí la cosa restò indecisa. Come lo ha chiamato? domandò Joachim, mentre salivano la svolta verso il Berghof.. Mi pare di aver inteso Maestro dei Trentatré rispose Castorp, e ora ci stavo pensando. Sarà una loro facezia, uno dei nomi curiosi che usano tra loro. Settembrini chiamò Naphta princeps scholasticorum,... buono anche questo. Gli scolastici erano, mi pare, i dotti del medioevo, filosofi dogmatici, diciamo. Del medioevo si è parlato infatti piú volte... e m'è venuto in mente che fin dal primo giorno Settembrini osservò come quassú regni un certo spirito medievale: se ne parlò a proposito di Adriatica von Mylendonk, a causa del nome. - E lui che impressione ti ha fatto? Il piccolo? Non buona. Ha detto alcune cose che mi sono piaciute. I tribunali arbitrali sono naturalmente impostura e ipocrisia. Ma lui non mi è piaciuto, e uno può dire un mucchio di cose belle, a me però non giovano se è un individuo ambiguo.

Ambiguo è, non lo puoi negare. Già quella faccenda del "luogo di convivenza" mi è sembrata decisamente sospetta. E poi, guardalo bene, ha un naso da vero ebreo! Cosí esili sono sempre soltanto i semiti. Hai davvero intenzione di andarlo a trovare? S'intende che l'andremo a trovare! dichiarò Castorp. La figura esile... Dici cosí soltanto perché sei militare. Ma anche i caldei avevano il naso cosí, eppure erano straordinariamente in gamba, e non solo nelle scienze occulte. Naphta deve bazzicare anche lui nelle scienze occulte, m'interessa non poco. Non posso dire di averlo capito già oggi, ma incontrandolo spesso, credo che lo capiremo, e non escludo che in questa occasione si possa imparare anche qualcosa. ' Va là, quassú non fai che imparare sempre piú, con la tua biologia e la botanica e i tuoi insostenibili punti di svolta. Fin dal primo giorno ti sei anche messo ad almanaccare sul tempo. E dire che siamo qui per acquistare in salute, non già in erudizione, ... per guarire ed essere sani del tutto, affinché ci lascino in libertà e possano dimetterci guariti e mandarci al piano ! Sui monti sta la libertà! cantò Castorp con leggerezza. Dimmi anzitutto che cosa è la libertà proseguí parlando. Naphta e Settembrini ne hanno disputato dianzi senza arrivare a un accordo. "Libertà è la legge dell'amore del prossimo" afferma Settembrini, e ciò fa pensare al suo antenato, il carbonaro. Ma per quanto il carbonaro fosse valoroso, per quanto sia valoroso il nostro Settembrini... Cambiò umore però quando si venne a parlare del coraggio personale. ...credo che abbia paura di parecchie cose delle quali il piccolo Naphta non ha paura, capisci? e che la sua libertà e il suo valore siano affettazione anzichenò. Credi che avrebbe abbastanza coraggio de se perdre ou meme de se taisser dépérir? Perché ti metti a parlare francese Cosí... sai, qui l'atmosfera è internazionale. Non so chi se ne dovrebbe compiacere, se Settembrini a causa della repubblica borghese o Naphta con il suo cosmopolitismo gerarchico. Come vedi, sono stato bene attento, ma non ci vedo chiaro, anzi, al contrario, il frutto dei loro discorsi è per me una gran confusione. Finisce sempre cosí. A discorrere e aver opinioni vedrai che non si ricava altro che confusione. Te l'ho detto: non importa che uno abbia determinate opinioni, importa soltanto che sia una persona per bene. Meglio di tutto è non aver alcuna opinione, ma fare il proprio servizio. Già, lo puoi dire tu che sei un lanzichenecco e fai una vita meramente formale. Il caso mio è diverso, io sono civile e in certo qual modo responsabile. E questa confusione mi irrita, come quando vedo che l'uno predica la repubblica internazionale e per principio è contrario alla guerra, ma d'altro canto è patriota al punto da volere a tutti i costi il confine al Brennero e a tal fine vuol fare una guerra di civilizzazione,... e l'altro considera lo stato opera diabolica e scioglie un inno all'unione universale che è all'orizzonte, ma dopo un istante difende i diritti dell'istinto naturale e si fa beffe delle conferenze per la pace.

Ci dobbiamo andare assolutamente, per capirne qualcosa. Tu dici, è vero, che siamo qui per guarire, non per erudirci. Ma le due cose, mio caro, si devono poter conciliare, e se non lo credi, vuol dire che dividi il mondo in due, la qual cosa, se permetti, è sempre un grave errore.

Dello stato di Dio e della mala redenzione. Nella sua loggia Hans Castorp stava classificando una pianta che, mentre l'estate astronomica era cominciata e le giornate si accorciavano, cresceva abbondante in vari posti: l'aquilegia, una ranumcolacea, che cresce a cespo, col gambo lungo, fiori azzurri e color viola, o anche rossobruni, e foglie erbacee di notevole superficie. La pianta cresceva qua e là, ma particolarmente folta nel quieto recesso dove egli l'aveva vista la prima volta poco meno di un anno prima: nella remota gola silvestre, tra lo scrosciare del rio montano, col ponticello e la panca dove era terminata allora la sua libera, inconsulta e nociva passeggiata, e dove ritornava di quando in quando. Non era molto lontano, bastava non fare il giro che aveva fatto allora. Salendo, dal traguardo degli slittini a Dorf, un poco per il pendio, si poteva, senza deviazioni inutili, senza arie d'opera e soste di spossatezza, raggiungere in venti minuti quel punto pittoresco sulla via del bosco, i cui ponti di legno scavalcavano la pista dei bob proveniente dalla Schatzalp; e quando Joachim era costretto a casa da obblighi d'ufficio - visite, fotografie degli organi interni, esame del sangue, iniezioni o pesate Castorp, se il tempo era sereno, vi si recava dopo la seconda colazione, talvolta già dopo la prima, e approfittava anche delle ore fra il tè e la cena per visitare quel luogo preferito, sedersi sulla panca dove gli era venuta un giorno quella copiosa epistassi, ascoltare con la testa piegata su una spalla il fragore del torrente e osservare intorno a sé il limitato paesaggio e il tappeto di aquilege azzurre che erano di nuovo in fiore. Vi andava soltanto per questo? No. Si sedeva là per stare solo, per ricordare, per riandare impressioni e avventure di tanti mesi e riflettere su tutte. Ce n'erano molte e diverse,... non facili da ordinare, poiché gli apparivano variamente concatenate e confluenti l'una nell'altra, di modo che era difficile separare le tangibili dalle pensate o soltanto sognate e immaginate. Soltanto bizzarre erano tutte, a tal segno che, quando ci pensava, il suo cuore, mobile com'era stato e rimasto fin dal primo giorno vissuto lassú, s'impennava e martellava. O per spaventare cosí bizzarramente il suo nobile cuore bastava la razionale considerazione che l'aquilegia, lí dove un giorno, in uno stato di diminuita vitalità, gli era apparso Pribislav Hippe in carne e ossa, non fioriva ancora, ma tornava già a fiorire, e tra pochissimo le "tre settimane" sarebbero diventate un anno tondo tondo? D'altro canto non gli venne piú sangue dal naso su quella panca presso il torrente; cosa passata.

La sua acclimazione, cheJoachim gli aveva descritto subito come difficile e tale era stata davvero, era ormai avanzata e dopo undici mesi doveva considerarsi compiuta, né erano da prevedere altri progressi in questo senso. Il suo chimismo gastrico si era adattato e regolato, i "Maria Mancini" avevano un buon sapore, i nervi delle mucose asciutte riassaporavano da un pezzo il profumo di quel prodotto conveniente che egli, come al solito, quando la provvista stava per esaurirsi, ordinava a Brema con un certo amoroso attaccamento, benché nelle vetrine del luogo di cura internazionale si trovasse esposta e raccomandata merce assai invitante. Non era "Maria" una specie di collegamento tra lui, rapito, e la pianura, la vecchia patria? Non manteneva e conservava siffatti rapporti piú efficacemente che, ad esempio, le cartoline postali mandate da lui di quando in quando laggiú agli Zii? tanto piú che il distacco tra l'una e l'altra era aumentato a misura che, accogliendo i concetti locali, egli si era venuto appropriando un piú largo maneggio del tempo. Per lo piú erano cartoline illustrate, perché piú simpatiche, con belle vedute della valle sotto la neve oppure in abito estivo, le quali offrivano allo scritto appena lo spazio necessario per trasmettere le piú recenti notificazioni mediche, per comunicare cioè, poniamo, che all'esame sia acustico, sia ottico si era notato un evidente miglioramento, ma egli non era ancora disintossicato, e la lieve alterazione ancora persistente dipendeva dalle piccole zone che purtroppo c'erano ancora, ma sarebbero certo scomparse senza lasciar traccia, purché avesse pazienza, per non trovarsi poi costretto a ritornare. Poteva star sicuro che da lui non si pretendevano né si aspettavano componimenti letterari piú ampi; l'ambiente al quale si rivolgeva non era umanistico-oratorio; e le risposte che riceveva erano altrettanto poco espansive. Di solito accompagnavano gli invii del denaro che gli spettava, gli interessi dell'eredità paterna che in moneta locale rappresentavano un cospicuo vantaggio, sicché non li aveva mai esauriti all'arrivo di un nuovo versamento; e consistevano in alcune righe di scrittura a macchina, firmate da James Tienappel, con saluti e auguri di guarigione da parte del prozio e qualche volta anche di Peter il navigatore. Recentemente il consigliere (cosí scriveva Castorp a casa) aveva sospeso le iniezioni: non facevano bene al paziente, gli causavano mal di capo, inappetenza, diminuzione di peso e stanchezza, avevano elevato la "temperatura", ma senza poi eliminarla. Continuava a bruciare, arido calore soggettivo, la sua rosea faccia, avvertendo che per questo rampollo della bassa pianura e della sua umida e gaia meteorologia l'acclimazione, tutto sommato, consisteva nell'assuefazione a non assuefarsi,... come d'altronde accadeva allo stesso Radamanto le cui guance erano sempre paonazze. Taluni non si avvezzano mai aveva dettoJoachim, e questo pareva fosse il caso di Hans Castorp. Cosí non aveva voluto scomparire neanche quel tremito del collo che aveva preso a molestarlo poco dopo il suo arrivo lassú: gli si manifestava infallantemente nelle passeggiate, nella conversazione, persino lí, in mezzo all'azzurra fiorita, nel recesso delle sue riflessioni sul complesso delle sue avventure, di modo che il dignitoso sostegno del mento, adottato dalla buon'anima di Hans Lorenz Castorp, gli era divenuto una quasi stabile consuetudine,... e ogni volta gli rammentava di sottomano l'alto colletto del vecchio, la

forma interinale della gorgiera d'onore, l'oro sbiadito della rotonda bacinella battesimale, il pio bis-bis e altre simili parentele, e a sua volta lo spingeva a riandare il corso della sua vita. Pribislav Hippe non gli apparve piú in persona come undici mesi prima. La sua acclimazione era compiuta, visioni non ne aveva piú, non giaceva immobilizzato sulla panca, con l'io vagante in un presente lontano: tutte cose superate. Quando affiorava questo ricordo, manteneva la sua precisione e vivacità entro limiti sani e morali; e a questo proposito Castorp estraeva talvolta dalla tasca della giacca il vitreo regalo che vi conservava, entro una busta foderata, nel portafoglio: una tavoletta che tenuta parallela al suolo sembrava nera, specchiante, non trasparente, sollevata invece contro la luce del cielo si illuminava e rivelava cose umanistiche: l'immagine diafana del corpo umano, l'impalcatura delle costole, la figura del cuore, l'arco del diaframma e il mantice dei polmoni, nonché l'ossatura delle clavicole e dell'omero, il tutto circondato dal fumoso involucro della carne, che nella settimana di carnevale Castorp aveva irragionevolmente gustato. C'è forse da stupirsi se il suo mobile cuore s'impennava e precipitava, quando osservando il dono continuava a riandare e considerare "tutto", appoggiato al rustico schienale della panca, le braccia conserte, la testa piegata su una spalla, tra lo scrosciare del torrente, di fronte ai fiori azzurri dell'aquilegia? L'eccelsa forma della vita organica, la figura umana, gli si affacciò alla mente come in quella notte di gelo e di stelle, quando si era dedicato a studi eruditi, e l'evocazione di essi suscitò nel giovane Castorp parecchie domande e distinzioni, che il buon Joachim non poteva certo considerarsi obbligato a considerare, delle quali però lui in quanto borghese aveva cominciato a sentirsi responsabile, benché anche lui laggiú in pianura non le avesse mai (e forse neanche in avvenire le avrebbe mai) scorte, ma lí sí, in alta montagna, donde, dal contemplativo isolamento di cinquemila piedi d'altezza, vedeva il mondo laggiú e le creature e faceva le opportune riflessioni,... probabilmente anche in grazia di un miglioramento fisico, dovuto a veleni solubili, il quale gli bruciava e seccava il viso. A proposito di questa evocazione pensò a Settembrini, al pedagogo sonatore d'organetto, il cui padre era venuto al mondo nell'Ellade, e il cui amore per l'eccelsa forma era, secondo le sue spie,azioni, politica, ribellione ed eloquenza, in quanto consacrava la picca del cittadino sull'altare dell'umanità; pensò anche al camerata Krokowski e agli studi che da qualche tempo seguiva con lui nella stanza oscurata, rifletté sulla doppia natura dell'analisi e si domandò fino a qual punto essa favorisse l'azione e il progresso, fin dove fosse affine alla tomba e alla sua malfamata anatomia. Rievocò le immagini dei due nonni, l'uno accanto e contro l'altro, il ribelle e il ligio, che vestivano di nero per ragioni diverse, e ponderò la loro dignità; meditò e cercò di chiarire accoppiamenti come forma e libertà, spirito e corpo, onore e infamia, tempo ed eternità,... e provò una breve, ma violenta vertigine al pensiero che l'aquilegia era fiorita di nuovo e l'anno si stava conchiudendo. Usava una strana parola per indicare quell'attività di responsabile pensamento nel luogo pittoresco del suo ritiro: la chiamava con infantile espressione "regnare", come un suo gradito divertimento, benché fosse accompagnato da paure, vertigini e ogni sorta di tumulti cardiaci e gli facesse scottare maggiormente il viso.

Ma non gli sembrava affatto sconveniente che lo sforzo collegato con questa attività lo costringesse a reggersi il mento; infatti questo contegno concordava benissimo con la dignità che il "regnare" gli conferiva di fronte all'eccelsa forma che aveva in mente. Homo Dei: cosí il brutto Naphta aveva chiamato l'eccelsa forma, quando l'aveva difesa contro la dottrina sociale inglese. C'è da meravigliarsi se Castorp, a causa della sua responsabilità borghese e a vantaggio del "regno" si reputò in obbligo di andare con Joachim a trovare il piccolino? Settembrini lo vedeva di malocchio,... Castorp era abbastanza scaltro e sensibile da accorgersene. Già il primo incontro era spiaciuto all'umanista, si era visto che aveva cercato d'impedirlo e di preservare pedagogicamente i giovani, ma soprattutto lui (cosí pensava l'astuto pupillo) dal fare la conoscenza di Naphta, nonostante che lui stesso fosse in relazione e disputasse con lui. Cosí sono gli educatori. Concedono a se stessi le cose interessanti dicendosi "all'altezza" di esse; ai giovani invece le vietano, e pretendono che essi non se ne sentano "all'altezza". Fortuna che il sonatore d'organetto non avesse sul serio il diritto di vietare alcunché al giovane Castorp e non ne facesse nemmeno il tentativo. Bastava che negasse la propria sensibilità e adducesse il pretesto della sua ingenuità, e nulla impediva al pupillo di accogliere gentilmente l'invito del piccolo Naphta,... come realmente fece, seguito per amore o per forza da Joachim, pochi giorni dopo il primo incontro, una domenica nel pomeriggio dopo il principale periodo di cura. C'erano pochi minuti di strada per scendere dal Berghof alla casetta dalla porta incoronata di tralci. Entrarono, lasciarono a destra l'ingresso della drogheria e salirono la scala bruna e stretta che li portò davanti a un uscio, accanto al cui campanello non c'era che la targa col nome di Lukacek, il sarto per signora. La persona che venne ad aprire era un adolescente in una specie di livrea, una giacca a righe e i gambali, un servitorello rapato e con le guance rosse. Gli chiesero del professor Naphta e, siccome erano sforniti di biglietti, gli ficcarono in testa i loro nomi, ed egli andò ad annunciarli al "signor Naphta" (senza altri titoli). La porta dirimpetto all'ingresso era aperta e permetteva di guardare nella sartoria, dove, ad onta del giorno festivo, Lukacek era seduto su una tavola a gambe accavallate e stava cucendo. Era pallido e calvo; di sotto il naso enorme e cascante i baffi neri gli ricadevano amari ai due lati della bocca. Buon giorno! augurò Castorp. Salutiamo rispose il sarto con inflessione dialettale, benché il dialetto del luogo non fosse intonato né al suo nome né all'aspetto e sonasse un po' falso e stravagante. Sempre al lavoro? )> aggiunse Castorp annuendo... Eppure è domenica! Lavoro urgente ribatté il sarto continuando a cucire. Sarà qualcosa di fino suppose il giovane, da consegnare subito per un ritrovo o simili, vero? Il sarto non rispose alla domanda, strappò il filo coi denti, ne infilò un'altra gugliata, e con ritardo accennò di sí.

Le riesce bene? domandò ancora Castorp. Vi attacca le maniche? Maniche, sí. E' per una vecchia rispose Lukacek con uno spiccato accento boemo. Il ritorno del servitorello interruppe la conversazione che si svolgeva attraverso il vano della porta. Il signor Naphta pregava di accomodarsi, riferí e aprí ai due giovani un uscio due o tre passi piú avanti a destra, sollevando poi anche una pesante portiera. Naphta, in scarpe col fiocco, ricevette gli ospiti in piedi sul tappeto verde-musco. I cugini rimasero sorpresi, persino abbagliati dal lusso dello studio con due finestre, che li aveva accolti; la povertà della casetta, della scala, del misero corridoio non faceva supporre neanche lontanamente una cosa simile e, per contrasto, conferiva all'eleganza dell'arredamento un che di fiabesco che per se stesso forse non aveva, né avrebbe avuto agli occhi di Hans Castorp e Joachim Ziemssen. Ad ogni modo era fine, anzi splendido, e tale che nonostante la scrivania e le librerie non rispondeva, a rigore, al tipo della stanza da scapolo. C'era troppa seta, seta color vino, color porpora, i panneggi che nascondevano le brutte porte, erano di seta, e cosí le balze alle finestre e le fodere dei mobili da salotto raggruppati su uno dei lati brevi, di fronte alla seconda porta, contro un arazzo che copriva quasi tutta la parete. Erano seggiole barocche, con cuscinetti sui braccioli, intorno a un tavolino rotondo, guarnito di metallo, dietro al quale stava un divano del medesimo stile, con cuscini di felpa. Le librerie occupavano le pareti a fianco delle due porte. Come la scrivania o, meglio, lo scrittoio con la convessa ribalta avvolgibile, collocato tra le due finestre, erano di mogano, con portine di cristallo, ricoperte internamente di seta verde. Ma nell'angolo a sinistra del gruppo di sedie si vedeva un'opera d'arte, una grande scultura di legno dipinto, sopra un piedestallo rivestito di rosso: qualcosa di pauroso, una Pietà, ingenua e impressionante fino ad essere grottesca: la Madonna con la cuffia, le sopracciglia contratte, la bocca torta e aperta in un gemito, in grembo la salma del Redentore, figura primitiva, di proporzioni sbagliate, con i caratteri anatomici messi crudamente in rilievo, ma da un inesperto, la testa penzolante irta di spine, la faccia e le membra macchiate di rivi di sangue, grossi grappoli di sangue coagulato sotto la ferita del costato e i segni dei chiodi sulle mani e sui piedi. Ora, l'insigne lavoro conferiva certo un tono particolare alla serica stanza. Anche la tappezzeria, visibile sopra la libreria e alla parete delle finestre, era evidentemente un contributo del pigionale: il verde delle fasce orizzontali era quello stesso del morbido tappeto, steso sopra il rosso pavimento. Soltanto al basso soffitto non si era potuto rimediare: era nudo e screpolato. Ne pendeva però un piccolo lampadario veneziano. Le finestre erano velate da cortine color crema che scendevano fino a terra. Eccoci qua per un colloquio! esclamò Castorp, i cui occhi si fissarono sul religioso orrore nell'angolo piú che sull'inquilino della stanza sorprendente, il quale riconobbe che i cugini avevano mantenuto la parola. Con gesti cordiali della piccola destra li invitò a occupare le sedie di seta, ma Castorp andò difilato e affascinato verso il gruppo ligneo e, le mani puntate sui fianchi, si fermò a guardare con la testa piegata su una spalla.

Che cos'ha qui? chiese sottovoce. E' paurosamente bello. Si è mai visto un dolore simile? Lavoro antico, Vero? Secolo decimoquarto rispose Naphta. Probabilmente di scuola renana. Le fa impressione? Enorme confermò Castorp. Penso che non possa mancare di far impressione su chi l'osserva. Non avrei immaginato che una cosa potesse essere ad un tempo cosí brutta (mi scusi) e cosí bella. I prodotti di un mondo dell'anima e dell'espressione sentenziò Naphta sono sempre brutti per la loro bellezza e belli per la loro bruttezza, questa è la norma. Si tratta della bellezza spirituale, non di quella della carne che è assolutamente stupida. D'altronde è anche astratta soggiunse. La bellezza del corpo è astratta. Realtà possiede soltanto quella interiore, quella dell'espressione religiosa. Della sua esatta distinzione le sono grato disse Castorp. Decimoquarto? ripeté per rendersene conto. Milletrecento e rotti? Sarebbe il vero e proprio medioevo, vi ritrovo, per cosí dire, l'idea che del medioevo mi sono fatta in questi ultimi tempi. Devo dire che non ne sapevo niente, sono infatti, per quel che posso valere, un rappresentante del progresso tecnico. Ma quassú l'idea del medioevo mi si è affacciata in vari modi. Allora non esisteva ancora"si sa, la dottrina economica della società. Mi può dire il nome dello scultore? Naphta si strinse nelle spalle. Che importa? disse. Non dovremmo cercarlo, dato che non lo si cercò neanche allora, quando l'opera fu eseguita. Essa non ha per autore chi sa quale determinato tal dei tali, è opera anonima e comune. Siamo d'altronde in un medioevo molto avanzato, nel gotico, signum mortificationis. Qui non c'è piú traccia di quel riguardo, di quel velame, col quale ancora il periodo romanico credeva di dover rappresentare il Crocefisso, non c'è la corona regale, non c'è il maestoso trionfo sul mondo e sul martirio. Qui abbiamo la radicale enunciazione della sofferenza e della debolezza della carne. Soltanto il gusto gotico è, a rigore, ascetico e pessimista. Lei forse non conosce lo scritto di Innocenzo III, De miseria humanae conditionis,... un'opera letteraria estremamente spiritosa. Risale alla fine del secolo dodicesimo, ma soltanto quest'arte ne offre il commento. Signor Naphta disse Castorp dopo un sospiro, per me ogni sua parola è interessante. "Signum mortificationis" ha detto? Me lo ricorderò. Prima ha parlato di anonimo e comune, anche questo, mi pare, merita riflessione. La sua ipotesi che io non conosca lo scritto del papa (suppongo che Innocenzo III sia stato un papa) è giusta, purtroppo. Uno scritto ascetico e spiritoso: ho capito bene? Devo confessare di non aver mai immaginato che le due cose possano accoppiarsi, ma a pensarci bene, mi rendo conto naturalmente che un trattato sulla miseria umana possa dar modo di fare dello spirito, a spese della carne.

E' uno scritto che si può acquistare? Facendo appello al mio latino potrei forse leggerlo. Io ce l'ho rispose Naphta indicando con la testa una delle librerie. E' a sua disposizione. Ma non ci vogliamo sedere? Lei vede la Pietà anche dal divano. Ed ecco che arriva la nostra modesta merenda... Il servitorello recava il tè e un bel cestino guarnito d'argento con un dolce a piramide tàgliato a fette. Ma dietro a lui, dalla porta aperta, chi entrava con passo leggero e con un fine sorriso esclamando: Perbacco! Accidenti! ? Era Settembrini, che abitava al piano di sopra e veniva per far compagnia ai signori. Dal suo abbaino, disse, aveva visto arrivare i cugini e aveva buttato giú in fretta ancora una pagina dell'enciclopedia, alla quale stava giusto lavorando, e a sua volta era sceso a chiedere ospitalità. La sua venuta era piú che naturale. A ciò lo autorizzava la sua vecchia familiarità con gli inquilini del Berghof, e poi i suoi rapporti con Naphta, nonostante profondi dissensi, erano certo molto stretti,... tanto è vero che l'anfitrione lo salutò in breve e senza sorpresa come uno di casa. Ciò non tolse che Castorp riportasse dalla sua venuta una duplice impressione. Anzitutto sentí che Settembrini era intervenuto per non lasciar soli lui e Joachim, o piú precisamente lui, col brutto piccolo Naphta e stabilire quindi con la sua presenza un contrappeso pedagogico; in secondo luogo era chiaro che non aveva niente in contrario, anzi approfittava ben volentieri del l'occasione di scambiare per un po' il suo sottotetto con la elegante e serica stanza di Naphta e di prendere un tè signorilmente apparecchiato: prima di servirsi si fregò le mani giallognole, coperte di peli neri sul dorso dalla parte del mignolo, e mangiò con evidente piacere, espresso anche con parole di elogio, di quel dolce, le cui fette curve e sottili erano attraversate da strisce di cioccolata. La conversazione si aggirò ancora intorno alla Pietà, perché Castorp continuava a guardarla e a parlarne, rivolgendosi a Settembrini e cercando, per cosí dire, di metterlo in contatto critico con l'opera d'arte,... mentre la ripugnanza dell'umanista contro quell'ornamento della stanza appariva ben chiara dalla faccia con la quale si era voltato a guardarlo: si era infatti seduto volgendo le spalle a quell'angolo. Troppo riguardoso per dire tutto quanto pensava, si limitò a criticare errori nelle proporzioni e nelle forme fisiche del gruppo, difetti nella riproduzione del vero, i quali erano ben lontani dal commuoverlo, poiché non erano frutto di una primitiva incapacità, ma della cattiva volontà, di un principio fondamentalmente ostile;... e ottenne la maligna approvazione di Naphta: certo, non era il caso di pensare a mancanza di abilità tecnica, si trattava di una consapevole emancipazione dello spirito dalla natura, la cui spregevolezza era religiosamente denunciata mediante il rifiuto di ogni umiltà davanti ad essa. Ma quando Settembrini dichiarò che chi trascura la natura e lo studio di essa è in errore e, contro l'assurda negazione delle forme predicata dal medioevo e dalle epoche intese a imitarlo, si diede ad esal tare con parole sonore il retaggio greco-romano, il classicismo, la forma, la bellezza, la ragione e la serena contemplazione della natura, le sole cose chiamate a favorire la causa dell'uomo, Castorp interloquí e domandò che cosa a tal proposito si potesse dire di Plotino il quale, come sappiamo, si vergognava del proprio corpo, e di Voltaire, il quale in nome della ragione aveva protestato contro lo scandaloso terremoto di Lisbona.

Assurdo? Anche questo era assurdo, ma, tutto ben considerato, si poteva benissimo, secondo lui, vedere nell'assurdo l'aspetto spiritualmente onorevole; e l'assurdo atteggiamento dell'arte gotica ostile alla natura era in fin dei conti al trettanto onorevole quanto il contegno di Plotino e di Voltaire, perché esprimeva la stessa emancipazione dal fato e dal fatto, lo stesso non servile orgoglio che si rifiuta di abdicare davanti alla potenza stupida, ossia alla natura... Naphta scoppiò in una risata che fece pensare al noto piatto e terminò con colpi di tosse. Settembrini disse con sussiego: Facendo cosí lo spiritoso lei nuoce al nostro ospite, non si mostra grato di questo dolce delizioso. Ma lei è portato alla gratitudine? Premetto che, secondo me, la gratitudine consiste nel far buon uso di doni ricevuti... E vedendo che Castorp si vergognava, aggiunse con garbo: Ingegnere, lei è noto per essere un burlone. Il suo modo di prendere amichevolmente in giro il bene, non mi fa certo dubitare che lei lo ami. Come lei sa, beninteso, dobbiamo considerare onorevole soltanto quella ribellione dello spirito alla natura che ha di mira la dignità e la bellezza dell'uomo, non già quella che, sia pure non mirando direttamente a degradarlo e umiliarlo, finisce per ottenere questi risultati. Lei sa inoltre quali orrori disumani, quale feroce intolleranza abbia distinto l'epoca alla quale appartiene l'opera d'arte qui alle mie spalle. Mi basta richiamare la sua memoria allo spaventevole tipo dei giudici inquisitori, alla sanguinosa figura di un Corrado di Marburg e al suo infame fanatismo religioso contro tutto quanto si opponesse al dominio del soprannaturale. Lei non è certo propenso a considerare la spada e il rogo come strumenti dell'amore per il prossimo... Al cui servizio, per contro obiettò Naphta, lavorò la macchina con la quale la Convenzione purgò il mondo dai cattivi cittadini. Tutte le pene ecclesiastiche, anche il rogo, anche la scomunica, furono inflitte per salvare l'anima dalla dannazione eterna; la qual cosa non si può dire della smania di sterminio dei giacobini. Mi permetto di osservare che ogni giustizia penale e cruenta, la quale non derivi dalla fede in un aldilà, è assurdità bestiale. E per quanto riguarda la degradazione dell'uomo, la sua storia coincide esattamente con quella dello spirito borghese. Il Rinascimento, l'illuminismo e la scienza naturale ed economica dell'Ottocento non hanno lasciato nulla, assolutamente nulla che in qualche modo sembrasse idoneo a promuovere questa degradazione, a cominciare dalla nuova astronomia che del centro dell'universo, del l'angusto teatro in cui Dio e il diavolo lottano per il possesso della creatura da entrambi ardentemente agognata, fece un piccolo pianeta insignificante, ponendo fine, per il momento, alla grandiosa posizione cosmica dell'uomo, sulla quale d'altronde era fondata l'astrologia. Per il momento? La faccia di Settembrini, il quale formulava l'insidiosa domanda, aveva un po' l'espressione dell'inquisitore di fronte all'eretico, in attesa che questi si impigliasse in una confessione ineluttabilmente condannabile. Certo.

Per qualche centinaio d'anni confermò Naphta freddamente. Una riabilitazione della scolastica, se tutto non inganna, è in vista anche in questo senso, anzi è in pieno sviluppo. Copernico sarà sconfitto da Tolomeo. La tesi eliocentrica incontra a poco a poco un'opposizione intellettuale le cui iniziative porteranno probabilmente alla meta. Sul piano filosofico la scienza si vedrà costretta a restituire alla Terra tutti gli onori che il dogma ecclesiastico le voleva conservare. Come? Come? Opposizione intellettuale? Costretta sul piano filosofico? Porterà alla meta? Che razza di volontarismo è il SUO? E la ricerca senza presupposti? La conoscenza pura? La verità, signor mio, che è cosí strettamente legata alla libertà, e i cui martiri, dei quali lei vuol fare altrettanti diffamatori della Terra, mentre tornano a perpetuo onore di questo astro? Settembrini aveva un suo modo potente di fare domande. Seduto e col busto eretto faceva piombare dall'alto le sue oneste parole sul piccolo Naptha, alzando infine la voce talmente da far intendere quanto fosse sicuro che la risposta dell'avversario non poteva essere altro che un umiliato silenzio. Mentre parlava, aveva tenuto fra le dita un pezzo di dolce, ma ora lo rimise nel piatto, perché dopo quelle domande non aveva voglia di metterlo in bocca. Naphta ribatté con sgradevole calma: Caro amico, una conoscenza pura non esiste. La legittimità della dottrina della scienza ecclesiastica, che possiamo riassumere con le parole di Agostino "Credo per conoscere", è assolutamente incontestabile. L'organo della conoscenza è la fede, l'intelletto è secondario. La sua scienza senza presupposti è un mito. C'è sempre regolarmente una fede, una visione del mondo, un'idea, insomma una volontà, e compito della ragione è di discuterla, di dimostrarla. Sempre e in ogni caso si sfocia nel quod erat demonstrandum. Lo stesso concetto di dimostrazione contiene, sul piano psicologico, un cospicuo elemento volontaristico. I grandi scolastici dei secoli XII e XIII avevano l'unanime convinzione che non può essere vero in filosofia ciò che è falso per la teologia. Lasciamo da parte, se vuole, la teologia, ma un umanesimo che non riconosce come nella scienza naturale non possa essere vero ciò che è falso per la filosofia, non è umanesimo. Il ragionamento del Sant'Uffizio contro Galileo stabilí che le sue tesi erano filosoficamente assurde. Non esiste ragionamento piú stringente. Eh, eh, gli argomenti del nostro povero grande Galilei si sono dimostrati piú validi! Andiamo, professore, parliamo seriamente! Risponda, davanti a questi giovani cosí attenti, alla mia domanda. "Crede lei in una verità, una verità oggettiva, scientifica, la cui conquista è legge suprema, e le cui vittorie sull'autorità costituiscono la gloriosa storia dello spirito umano?!". Castorp e Joachim volsero la testa da Settembrini a Naphta, il primo piú rapidamente del secondo. Naphta rispose: Una vittoria cosí non può darsi, perché l'autorità è l'uomo, il suo interesse, la sua dignità, la sua salvezza, e tra essa e la verità non può darsi conflitto. Coincidono. La verità sarebbe quindi... Vero è ciò che giova all'uomo.

Esso riassume la natura, in tutta la natura egli solo è creato e la natura è creata soltanto per lui. Egli è la misura delle cose e la sua salvezza il criterio della verità. Una conoscenza teorica, che non abbia alcuna relazione pratica con l'idea della salvezza umana, è cosí poco interessante che è necessario negarle ogni valore di verità e non ammetterla. I secoli cristiani erano tutti del parere che la scienza naturale è umanamente irrilevante. Lattanzio, cui il grande Costantino affidò l'istruzione di suo figlio, domandò addirittura quale beatitudine gli venisse dal sapere dove nasce il Nilo o dal sapere il vaniloquio dei fisici a proposito del cielo. Provi a dargli una risposta! Se tra tutte le filosofie si preferí la platonica, lo si fece perché essa non mira a conoscere la natura, ma a conoscere Dio. Le posso assicurare che l'umanità sta per ritornare a questa veduta e per comprendere che compito della vera scienza non è di inseguire funeste conoscenze, bensí di eliminare per principio ciò che è nocivo o magari sol tanto idealmente insignificante e, insomma, dar prova di istinto, misura, selezione. E' puerile pensare che la Chiesa abbia difeso le tenebre contro la luce. Ha fatto benissimo a dichiarare reato l'aspirazione "senza presupposti" a conoscere le cose, l'aspirazione cioè che rifiuta ogni riguardo allo spirito, alla conquista della salvezza; e chi ha guidato e guiderà l'uomo sempre piú addentro nelle tenebre è invece la scienza naturale "senza presupposti", afilosofica. Lei predica un pragmatismo replicò Settembrini, che basta trasferire sul piano politico per vedere quanto sia nefasto. Buono, vero e giusto è ciò che giova allo stato. La sua salvezza, la sua dignità, la sua potenza sono criterio della moralità. Bene! Ciò apre le porte ad ogni delitto, e l'umana verità, la giustizia individuale, la democrazia... chi sa dove vanno a finire... Vorrei proporre un po' di logica disse Naphta. O hanno ragione Tolomeo e la scolastica, e il mondo è finito nel tempo e nello spazio: in questo caso la divinità è trascendente, l'antitesi tra Dio e il mondo rimane, e anche l'uomo è un essere dualistico: il problema dell'anima consiste nel contrasto tra il sensibile e il soprassensibile, e gli aspetti sociali sono, a distanza, di second'ordine. Soltanto questo individualismo è per me accettabile e conseguente. Oppure i suoi astronomi rinascimentali hanno trovato il vero, e il cosmo è infinito. In questo caso non c'è mondo soprassensibile, non c'è dualismo; l'aldilà è compreso nell'aldiquà, l'antitesi tra Dio e natura cade; e siccome anche la personalità umana non è piú un campo di battaglia tra i due principi avversi, bensí armoniosa, bensí unitaria, il conflitto interiore dell'uomo si limita a quello tra gli interessi del singolo e della totalità, e il fine dello stato diventa, come è paganamente giusto, la legge morale. O l'uno- o l'al tro. Protesto! esclamò Settembrini tendendo il braccio con la tazza del tè contro il padrone di casa. Protesto contro l'imputazione che lo stato moderno sia la diabolica schiavitú dell'individuo! Protesto, per la terza volta, contro la vessatoria alternativa di prussianesimo e reazione gotica, davanti alla quale ci vuole porre! La democrazia non è che un individualistico correttivo di ogni assolutismo statale. Verità e giustizia sono preziosi gioielli della moralità individuale, e in caso di conflitto con l'interesse dello stato possono assumere persino l'aspetto di potenze antistatali, mentre in effetti mirano al bene superiore, e diciamo pure ultraterreno, dello stato.

Il Rinascimento origine dell'idolatria dello stato! Quale pseudologica! Le conquiste (voglio dire frutti di lotte e battaglie) del Rinascimento e dell'illuminismo si chiamano personalità, diritto dell'uomo, libertà! Gli ascoltatori respirarono, poiché durante la grande replica di Settembrini avevano trattenuto il fiato. Anzi, Castorp non poté fare a meno di battere, sia pure con ritegno, un colpo sull'orlo del tavolino. Magnifico! disse fra i denti, e anche Joakhim si mostrò molto soddisfatto nonostante l'attacco al prussianesimo. Ma poi entrambi si rivolsero all'interlocutore respinto, Castorp con tanto zelo da appoggiare il gomito sul tavolino e il mento sulla mano, press'a poco come quando disegnavano il porcellino, per guardare Naphta da presso. Questi se ne stava quieto e serio, con le scarne mani in grembo. Poi disse: Avevo cercato di mettere un po' di logica nella nostra conversazione e lei mi risponde con esaltazioni. Sapevo abbastanza bene che il Rinascimento ha messo al mondo quello che chiamano liberalismo, individualismo, borghesia umanistica; ma i suoi "frutti di lotte e battaglie" mi lasciano freddo, poiché l'età battagliera, eroica, dei suoi ideali è tramontata da un pezzo, questi ideali sono morti, o sono oggi almeno ridotti all'ultimo respiro, e i piedi di coloro che faranno loro la festa sono già sulla soglia. Lei, se non erro, pretende di essere rivoluzionario. Ma se crede che il risultato di future rivoluzioni sarà... la libertà, s'inganna. In cinquecento anni il principio della libertà si è compiuto ed è superato. Una pedagogia che oggi si considera ancora figlia dell'illuminismo e scorge i suoi mezzi educativi nella critica, nella liberazione e cura dell'io, nell'eliminazione di forme di vita assolute,... una siffatta pedagogia potrà ancora riportare vittorie retoriche del momento, ma la sua arretratezza è, per chi se n'intende, al di là di ogni dubbio. Tutte le società veramente educatrici hanno sempre saputo che cosa occorra realmente in qualsiasi pedagogia: il comando assoluto, il ferreo impegno, la disciplina, il sacrificio, la negazione dell'io, la violazione della personalità. Credere infine che la gioventú si compiaccia della libertà, significa fraintenderla freddamente. Il suo piú vivo piacere è l'obbedienza. Joachim si drizzò, Castorp arrossí, Settembrini, agitato, si torceva i bei baffi. No continuò Naphta. Non la liberazione, né lo sviluppo dell'io sono il segreto e il comandamento dell'ora. Essa ha bisogno, essa esige, essa saprà procurarsi... sapete che cosa? Il terrore. Pronunciò quest'ultima parola senza muoversi, con voce piú bassa del resto; soltanto gli occhiali mandarono un breve lampo. Gli ascoltatori, tutti e tre, ebbero un sussulto, anche Settembrini, il quale però si riebbe subito e sorrise. Ed è lecito chiedere domandò chi o che cosa (lei vede che faccio soltanto una domanda, non so nemmeno io come), chi o che cosa, secondo lei, sarebbe l'esponente di codesto (non vorrei ripetere la parola), di codesto terrore? Naphta stava quieto, attento e lampeggiante. Poi disse: Ai suoi ordini.

Non credo di errare presupponendo che ci troviamo d'accordo nell'ammettere una primitiva condizione ideale dell'umanità, una condizione senza stato e senza violenza, tutta compresa della fede in Dio, in cui non esistevano né il dominio né la servitú, né leggi né castighi, né ingiustizia o unione carnale, né differenza di classe o lavoro o proprietà, ma unicamente uguaglianza, fraternità, perfezione morale. Benissimo. D'accordo dichiarò Settembrini. Approvo tutto tranne il punto dell'unione carnale che evidentemente dev'esserci stata in tutti i tempi, dato che l'uomo è un evolutissimo vertebrato e proprio come gli altri esseri... Come crede. Noto che di massima siamo d'accordo circa la paradisiaca condizione iniziale direttamente discesa da Dio e priva di tribunali, la quale andò perduta col peccato originale. Credo che possiamo percorrere a fianco ancora un altro pezzo di strada, facendo cioè risalire lo stato a un contratto sociale che tenga conto del peccato e sia stipulato come baluardo contro l'ingiustizia, e scorgendovi l'origine del potere padronale. Benissimo! esclamò Settembrini. Contratto sociale ...come dire illuminismo, come dire Rousseau. Non avrei mai immaginato... Scusi. A questo punto le nostre vie divergono. Dal fatto che in origine tutto il dominio e il potere erano presso il popolo e questo trasferí il suo diritto alla legislazione e tutto il suo potere allo stato, al sovrano, la sua scuola deduce anzitutto il diritto rivoluzionario del popolo di fronte alla regalità. Noi invece... Noi? pensò Castorp proteso... Chi noi? Dopo devo chiedere a Settembrini a chi alluda con questo "noi". Noi proseguí Naphta, forse non meno rivoluzionari di lei, ne abbiamo sempre dedotto in primo luogo la preminenza della Chiesa sullo stato secolare. Se infatti lo stato non portasse scritto in fronte che non è divino, basterebbe riferirsi al fatto storico che esso ha origine dalla volontà del popolo, non già, come la Chiesa, da creazione divina, per dimostrare che, se non proprio una istituzione della malvagità, fu in ogni caso fondato dal bisogno e dalla iniqua insufficienza. Lo stato, signor mio... So come la pensa intorno allo stato nazionale! "Sopra tutto stanno l'amor di patria e l'illimitata brama di gloria." Questo è Virgilio. Lei lo corregge con un po' di individualismo liberale, e ha la democrazia; ma il suo fondamentale rapporto con lo stato ne rimane intatto. Che la sua anima sia il denaro, a lei evidentemente non importa. O lo vuole contestare? L'antichità era capitalista perché credeva nello stato. Il medioevo cristiano ha scorto con chiarezza l'immanente capitalismo dello stato laico. "Il denaro sarà l'imperatore": ecco una profezia del secolo XI. Vuol negare che ciò si sia avverato alla lettera e in tal modo l'indiavolamento della vita sia diventato un fatto compiuto? Caro amico, lei ha la parola. Sono impaziente di conoscere il grande ignoto, l'esponente del terrore. Curiosità temeraria nell'avvocato di una classe sociale che è l'esponente di quella libertà che ha portato il mondo alla rovina. All'occorrenza posso rinunciare alla sua replica, perché conosco l'ideologia politica della borghesia.

La sua meta è l'impero democratico, l'autopotenziamento dello stato nazionale verso l'universale, lo stato universale. L'imperatore di questo impero? Lo conosciamo. La sua utopia è mostruosa, eppure... a questo punto quasi c'incontriamo di nuovo. Infatti la sua repubblica universale capitalistica ha un che di trascendente, lo stato universale è effettivamente la trascendenza dello stato secolare, e noi siamo d'accordo nel credere che a una perfetta condizione iniziale dell'umanità debba corrispondere, sul lontano orizzonte, una perfetta condizione finale. Fin dai giorni di Gregorio Magno, il fondatore dello stato di Dio, la Chiesa si è assunta il compito di ricondurre l'uomo sotto il governo di Dio. La rivendicazione del dominio papale non fu proclamata per se stessa; il vicariato dittatoriale del papa fu invece il mezzo e la via per arrivare alla redenzione, la forma di transizione dello stato pagano al regno dei cieli. A questi discenti lei ha parlato di azioni cruente della Chiesa, del la sua intolleranza punitiva,... osservazioni fuori di posto, devo dire, perché lo zelo per la causa di Dio non può certo essere pacifista, e fu Gregorio a dire le grandi parole: "Maledetto colui che trattiene la spada dal sangue!". Il potere è cattivo, lo sappiamo. Ma se vogliamo che venga il regno, il dualismo di bene e male, di aldilà e aldiquà, di spirito e potere, deve annullarsi temporaneamente in un principio che unisca ascesi e dominio. Ecco quella che io chiamo la necessità del terrore. L'esponente ! L'esponente ! Lei me lo chiede? Possibile che al suo manchesterismo sia sfuggita l'esistenza di una teoria sociale che rappresenta l'umano superamento dell'economia, con princípi e mete identici a quelli del cristiano stato di Dio? I padri della Chiesa hanno chiamato dannose le parole mio e "tuo", e dichiarato che la proprietà privata è un'usurpazione e un furto. Hanno condannato il possesso di beni, perché secondo il divino diritto naturale la terra è comune a tutti gli uomini e perciò produce i suoi frutti per il comune uso di tutti. Insegnarono che soltanto l'avidità, conseguenza del peccato originale, propugna il diritto al possesso e ha creato la proprietà particolare. Furono abbastanza umani, antiscambisti, da considerare in genere l'attività economica un pericolo per la salvezza dell'anima, cioè per lo spirito di umanità. Odiavano il denaro e gli affari e chiamarono la ricchezza capitalistica il combustibile del fuoco infernale. Disprezzarono cordialmente la fondamentale legge economica per cui il prezzo risulta dal rapporto fra offerta e domanda, e condannarono l'utilizzazione della congiuntura come cinico sfruttamento delle strettezze del prossimo. Secondo loro esiste uno sfruttamento ancora piú delittuoso: quello del tempo, la mala consuetudine di farsi pagare per il solo scorrere del tempo un premio, cioè l'interesse, e di abusare in tal modo del tempo, istituzione universale e divina, a vantaggio dell'uno e a danno dell'altro. Benissimo! esclamò Castorp servendosi, nell'entusiasmo, dell'espressione usata da Settembrini per approvare. Il tempo... istituzione universale e divina...

Mol to importante ! . .. Certo confermò Naphta. Quegli spiriti umani ebbero a schifo l'idea di un automatico aumento del denaro, compresero tutte le speculazioni e il giuoco degli interessi nel concetto di usura e dichiararono che ogni ricco è un ladro o l'erede di un ladro. Andarono anche piú in là. Considerarono, come Tomaso d'Aquino, attività vergognosa qualsiasi commercio, il puro affare commerciale, compra o vendita con riscossione di un utile, ma senza lavorazione, senza miglioramento del bene economico. Non erano disposti a stimare gran che il lavoro per se stesso, dato che non è un soggetto etico né religioso, ma si effettua al servizio della vita e dell'economia, vollero che condizione del vantaggio economico e misura della rispettabilità fosse l'attività produttiva. Onorevoli erano per loro l'agricoltore, l'operaio, non il commerciante, non l'industriale. Volevano infatti che la produzione si regolasse sul bisogno, e detestavano la produzione in massa. Ebbene, tutte queste massime e misure economiche risorgono oggi, dopo secoli di sepoltura, nel moderno movimento del comunismo. La concordanza è perfetta fin nell'esigenza di dominio che il lavoro internazionale proclama contro il mondo internazionale del commercio e della speculazione, il proletariato mondiale, che oggi contrappone l'umanità e i criteri dello stato di Dio alla corruzione borghese-capitalistica. La dittatura del proletariato, questo postulato politico-economico del nostro tempo, non significa il dominio per se stesso e per l'eternità, bensí una temporanea sospensione dell'antitesi di spirito e potere nel segno della croce, significa il superamento del mondo mediante il dominio mondiale, significa la transizione, la trascendenza, significa il regno. Il proletariato ha ripreso l'opera di Gregorio, con la stessa passione religiosa, e come lui non potrà non macchiarsi le mani di sangue. Compito suo è il terrore per la salvezza del mondo e per la riconquista della redenzione finale, della fede in Dio senza stato e senza classi. Questo fu l'acuto discorso di Naphta. La piccola assemblea tacque. I giovani guardarono Settembrini. Toccava a lui prendere posizione. Disse pertanto: Stupefacente. Confesso che sono rimasto scosso. Non me l'aspettavo. Roma locuta. E come,... come ha parlato! Davanti ai nostri occhi ha eseguito un ieratico salto mortale, ... e se dovesse essere una contradictio in adiecto, egli l'ha "temporaneamente sospesa". Eh sí, ripeto, è stupefacente. Crede, professore, che si possano immaginare obiezioni,... obiezioni sul solo piano della logica? Lei si è sforzato dianzi a renderci comprensibile un individualismo cristiano, fondato sulla dualità di Dio e mondo, e a dimostrarci la sua preminenza rispetto a ogni moralità su base politica.

Dopo pochi minuti spinge il socialismo fino alla dittatura e al terrore. Come si conciliano le due cose? Le antitesi rispose Naphta si possono anche conciliare. Inconciliabile, assurda è soltanto la mezza misura, la mediocrità. Il suo individualismo (mi sono già permesso di farglielo notare) è una mezza misura, una concessione. Esso corregge la sua pagana moralità statale con un po' di cristianesimo, un po' di "diritto dell'individuo", un po' di cosí detta libertà, ecco tutto. Un individualismo, per contro, che prenda le mosse dall'importanza cosmica, astrologica, delle singole anime, un individualismo non sociale, ma religioso, che viva la vita umana non come contrasto fra l'io e la società, ma come antitesi tra l'io e Dio, tra carne e spirito,... un siffatto individualismo vero e proprio s'accorda molto bene con la piú impegnata comunanza... Anonimo è e comune intervenne Castorp. Settembrini lo guardò sorpreso. Taccia lei, ingegnere! ordinò con una severità che andava attribuita al suo nervosismo, alla sua tensione. Si erudisca, ma non dia del suo!... E' una risposta disse poi rivolgendosi di nuovo a Naphta. Mi conforta poco, ma una risposta è. Esaminiamo un po' le conseguenze... Con l'industria, il comunismo cristiano nega la tecnica, la macchina, il progresso. Con quello che lei chiama mondo del commercio, col denaro e con gli affari che l'antichità stimava assai piú dell'agricoltura e dei mestieri, nega la libertà. E' chiaro infatti e salta agli occhi che in questo modo, come nel medioevo, tutte le condizioni pubbliche e private, risultano legate al suolo, anche (non che mi sia facile pronunciare questa parola), anche la personalità. Se soltanto il suolo può nutrire, esso è l'unico a conferire libertà. Operai e contadini, per quanto siano considerati rispettabili,... se non possiedono terreno, sono servi di colui che ne ha. Infatti, fino al tardo medioevo la grande massa persino nelle città era formata da servi. Nel corso della nostra conversazione, lei ha accennato qua e là alla dignità umana. Lei propugna invece una morale economica cui si collegano la schiavitú e la mancanza di dignità della personalità umana. Della dignità e della mancanza di essa replicò Naphta si potrebbe discorrere a lungo. Per il momento sarei soddisfatto se questo discorso le desse modo di scorgere nella libertà non tanto un bel gesto, quanto un problema. Lei sostiene che la morale economica cristiana nella sua bellezza e umanità crea uomini non liberi. Io sostengo invece che la causa della libertà, la causa delle città, come potremmo dire in maniera piú concreta,... che questa causa, per quanto sia sommamente morale, è storicamente legata alla piú disumana degenerazione della morale economica, a tutti gli orrori del moderno mondo dei commercianti e speculatori, al satanico dispotismo del denaro, dell'affare. Devo insistere sul fatto che lei non si ritira dietro dubbi e antinomie, ma professa chiaramente e senza equivoco la piú nera reazione! Il primo passo verso la vera libertà e umanità sarebbe quello di abbandonare la tremebonda paura del concetto di "reazione". Be', basta cosí dichiarò Settembrini con voce leggermente tremula respingendo il piatto e la

tazza, che ormai erano vuoti, e alzandosi dal serico divano. Basta per oggi, basta, mi pare, per una giornata. La ringraziamo, professore, del saporoso trattamento, della spiritualissima conversazione. I miei amici del Berghof sono chiamati dalla cura, e prima che se ne vadano desidero mostrare loro la mia cella qui sopra. Andiamo, signori! Addio, padre! Ora aveva chiamato Naphta addirittura "padre"! Castorp lo notò alzando le sopracciglia. Lasciarono che Settembrini organizzasse il congedo; egli dispose dei cugini e non prese neanche in considerazione l'eventualità che Naphta volesse seguirli. I giovani si accomiatarono a loro volta ringraziando, e furono invitati a ritornare. Uscirono insieme con l'italiano, non prima che Castorp ricevesse in prestito il De miseria humanae conditionis, un mencio volumetto cartonato. Quando passarono davanti alla porta aperta dell'acido Lukacek, per imboccare la scala (quasi una scala a pioli) del piano di sopra, egli era ancora seduto sulla tavola e intento a confezionare l'abito con maniche per l'anziana signora. A guardar bene, non era un vero "piano di sopra": era il solaio, con le nude capriate coperte di scandole, e vi regnava l'estiva atmosfera del granaio e del legno scaldato dal sole. Vi erano però ricavate due camerette e queste abitava il capitalista repubblicano, queste servivano al letterato collaboratore della Sociologia delle sofferenze da studio e camera da letto. Le mostrò allegramente ai suoi giovani amici, disse che l'appartamentino era ritirato e intimo, suggerendo cosí le parole giuste delle quali potevano servirsi per farne gli elogi: ed essi lo fecero, unanimi. Era graziosissimo, lodarono entrambi, ritirato e intimo, come diceva lui. Diedero un'occhiata alla cameretta dove, nell'angolo della mansarda, davanti al lettino stretto e corto, c'era un tappetino composito, si volsero di nuovo allo studio che era arredato altrettanto poveramente, ma presentava un certo ordine pompOSO e persino freddo. Quattro sedie pesanti, antiquate, col sedile di paglia, erano disposte in simmetria ai lati delle porte, e anche il divano era addossato alla parete di modo che, la tavola rotonda col tappeto verde, sulla quale per ornamento o per ristoro e in ogni caso prosaicamente c'era una bottiglia d'acqua col bicchiere infilato sul collo, occupava isolato il centro della stanza. Libri rilegati e in brossura, si appoggiavano l'uno all'altro, obliqui, su una mensola fissata alla parete; accanto alla finestrella aperta era collocato su gambe esili e alte un leggero scrittoio, davanti al quale c'era uno spesso quadratino di feltro, appena sufficiente per starci in piedi. Castorp ci si mise un momento per prova,... al posto di lavoro dove Settembrini, la mente rivolta ai dolori umani, si dava alla letteratura con finalità enciclopediche,... e appoggiati i gomiti sul piano inclinato giudicò che anche quello era un posto ritirato e intimo. Cosí, opinò, doveva essersi trovato a suo tempo il padre di Lodovico a Padova, col naso fine e lungo sopra lo scrittoio... e apprese che stava precisamente davanti allo scrittoio da lavoro del defunto scienziato, anzi, le sedie impagliate, la tavola e persino la bottiglia dell'acqua erano state roba sua; non basta: le sedie

avevano appartenuto addirittura al nonno carbonaro e a Milano avevano ornato le pareti del suo studio d'avvocato. Tutto ciò fece impressione. Agli occhi dei due giovani le sedie assunsero quasi un aspetto di sobillazione politica, e Joachim che si era seduto ignaro su una di esse accavallando le gambe si alzò, la guardò con diffidenza e non ci si risedette. Castorp invece, in piedi davanti allo scrittoio di Settembrini il vecchio, pensò alla figura che vi faceva il figlio mescolando in un impasto letterario la politica del nonno con l'umanesimo del padre. Poi uscirono tutti e tre: lo scrittore si era offerto di accompagnare i due cugini fino a casa. Tacquero per un tratto, ma il loro silenzio era dominato da Naphta, e Castorp era disposto ad aspettare: era sicuro che Settembrini si sarebbe messo a parlare del suo coinquilino e appunto per questo era uscito con loro. Non s'ingannava. Dopo un sospiro, simile a una rincorsa, l'italiano cominciò: Signori... vorrei mettervi in guardia. E siccome fece seguire una pausa, Castorp domandò naturalmente fingendosi stupito: Da che cosa? . Poteva almeno chiedere: "Da chi?", ma non volle alludere a persone per dimostrare tutta la sua innocenza, mentre persino Joachim aveva capito l'antifona. Dalla persona che ci ha ospitati poc'anzi rispose Settembrini, dall'uomo che vi ho presentato contro il mio desiderio e le mie intenzioni. E' mio dovere segnalare almeno alla vostra giovinezza i pericoli spirituali che correte praticandolo, e di pregarvi di mantenere i contatti con lui entro saggi limiti. Nella forma è un logico, nella sostanza invece è un intrigante. Eh, sí, osservò Castorp, non poteva dire di trovarsi proprio a suo agio con Naphta, e un po strani gli parevano davvero i suoi discorsi; o non pretendeva, se aveva ben capito, che il sole girasse intorno alla terra? D'altro canto come potevano loro due immaginare che fosse sconsigliabile coltivare rapporti socievoli con un amico SUO? L'aveva detto lui stesso che avevano conosciuto Naphta per il suo tramite, con lui lo avevano incontrato, con lui andava a passeggio, da lui scendeva liberamente a prendere il tè; non erano prove che...? Certo, ingegnere, certo. La voce di Settembrini era dolce, rassegnata, ma un po' tremula. Questo mi si può obiettare, e lei me lo obietta. Bene, me ne prendo volentieri la responsabilità. Vivo con quel signore sotto il medesimo tetto, gli incontri sono inevitabili, una parola tira l'altra, si avviano rapporti. Il signor Naphta è un uomo d'ingegno... cosa rara. E' di carattere espansivo... anch'io lo sono. Mi condanni chi vuole, ma io approfitto dell'occasione per incrociare la lama delle idee con un avversario che è pur sempre mio pari. Non ho nessuno a portata... Sí, è vero, vado da lui, egli viene da me, andiamo anche a spasso insieme. Disputiamo.

Litighiamo a sangue, quasi ogni giorno, ma confesso che l'opposizione e l'ostilità del suo pensiero sono per me piú che mai stimolo a incontrarlo. Io ho bisogno del l'attrito. Un modo di pensare non è vivo se non ha occasione di combattere e... il mio è ben saldo. Potrebbero dire lo stesso del loro... lei, tenente, o anche lei, ingegnere? Loro sono disarmati di fronte all'inganno intellettuale, sono esposti al pericolo di riportare danni allo spirito e all'anima da quella sofisticheria tra fanatica e malvagia. Già, già, assentí Castorp, suo cugino e lui erano creature piú o meno in pericolo. Certo, la solita questione di pupilli della vita. Ma per contro poteva citare il motto del Petrarca, Settembrini sapeva quale, e in ogni caso metteva pur conto di ascoltare le osservazioni di Naphta: siamo giusti, quello che aveva detto a proposito del tempo comunista, dal cui trascorrere a nessuno sarebbe lecito trarre un interesse, era eccellente, e poi gli era piaciuto sentir discorrere di pedagogia, cose che senza Naphta non avrebbe forse mai udite... Settembrini strinse le labbra, sicché Castorp si affrettò a soggiungere che per parte sua si asteneva beninteso dal prendere posizione o partito, gli era soltanto parso utile ascoltare le affermazioni di Naphta intorno alle voglie dei giovani. Ma mi spieghi adesso, per favore, una cosa! continuò. Ora questo signor Naphta... dico "questo signore" per indicare che non intendo affatto di sostenerlo, anzi, al contrario, mi mantengo molto riservato... E fa benissimo! commentò Settembrini con gratitudine. Ha detto, dunque, un sacco di cose contro il denaro, l'anima dello stato, dice, e contro la proprietà, perché sarebbe un furto, insomma, contro la ricchezza capitalistica che, se ho capito bene, sarebbe il combustibile del fuoco infernale... cosí ha detto press'a poco, elogiando in tutti i modi il divieto medievale degli interessi. E intanto lui... Scusi, ma dev'essere... Quando si entra in casa sua si rimane sbalorditi... Tutta quella seta... Eh già sorrise Settembrini, è di un gusto caratteristico. ... quei bei mobili antichi ricordò ancora Castorp, la Pietà del secolo XIV... il lampadario veneziano... il servitorello in livrea... e torta con la cioccolata a volontà... Deve pur essere personalmente... Personalmente rispose Settembrini il signor Naphta è cosí poco capitalista come lo sono io. Ma? domandò Castorp. Nella sua risposta, signor Settembrini, manca il "ma". Ecco, quelli là non fanno mancare il necessario a chi è dei loro. Chi "quelli là"? Quei padri. Padri? Che padri? Ma, ingegnere, intendo i gesuiti! Seguí una pausa. I cugini rimasero sconcertati. Castorp esclamò: Corpo d'un accidente, alla malora... quello è un gesUita? Lei ha indovinato disse Settembrini gentilmente. Ecco, non avrei mai... Come può venire in mente una cosa simile? Per questo dunque lo ha chiamato padre? E' stata una piccola esagerazione, per cortesia spiegò' Settembrini. Il signor Naphta non è un "padre".

Colpa della malattia che per il momento non gli ha permesso di arrivarci. Ma ha fatto il noviziato e i primi voti. Il male lo costrinse a interrompere gli studi di teologia. Ha prestato poi ancora alcuni anni di servizio come prefetto in un istituto dell'Ordine, cioè come istitutore, precettore, governatore dei giovani allievi. Ciò rispondeva alle sue tendenze pedagogiche. E qui può continuare ad assecondarle in quanto insegna latino al Fridericianum. E' qui da cinque anni. E ora appare incerto se e quando potrà lasciare questo luogo. Ma fa parte dell'Ordine e, anche se i suoi legami fossero meno stretti, non gli si lascerebbe mancare nulla. Le ho già detto che personal mente è povero, cioè non possiede nulla. Come vuole la regola, s'intende. Ma l'Ordine dispone di ricchezze immense e, come ha visto, provvede per i suoi. Acci... denti! mormorò Castorp. E io non sapevo, non pensavo che queste cose esistessero ancora sul serio. Un gesuita. Caspita! Ma mi dica una cosa: se è cosí ben fornito e provvisto... perché mai abita in... Signor Settembrini, non voglio certo dir male del suo alloggio. Lei ha un appartamentino delizioso da Lukacek, cosí piacevolmente ritirato e anche molto intimo. Ma dico, se Naphta nuota nel grasso, per dirla cosí alla buona, perché non si prende un altro appartamento, piú spazioso, con un bell'ingresso e stanze grandi, in una casa signorile? Ha un'aria di congiura e di bizzarria, là in quel buco, con tutta quella seta... Settembrini alzò le spalle. Devono esserci ragioni di tatto e di gusto rispose a guidarlo. Suppongo che accontenti la sua coscienza anticapitalistica abitando le stanze d'un povero e si rifaccia col modo di abitarvi. Anche la discrezione vi avrà la sua parte. Non si va a spiattellare in pubblico l'aiuto che il diavolo fornisce dalla porta di dietro. Si mette avanti una facciata poco appariscente e, dietro, si appaga il serico gusto del prete... Straordinario! esclamò Castorp. Del tutto nuovo per me, confesso, addirittura sconvolgente. Sí, signor Settembrini, le siamo veramente grati di averci fatto conoscere questo signore. Vuol credere che andremo ancora parecchie volte a trovarlo? Ormai è deciso. Questi contatti allargano l'orizzonte in modo insperato e consentono di osservare un mondo del quale non avevo la minima idea. Un autentico gesuita! E quando dico autentico do a me stesso lo spunto per esprimere ciò che mi passa per la mente, e che non posso fare a meno di osservare. Domando io: è autentico e a pOStO? So benissimo, lei pensa che non è certo a posto uno che il diavolo rifornisce dalla porta di dietro. Ma il mio pensiero si riassume in questa domanda: è a posto "in quanto gesuita"? A questo sto pensando. Ha detto cose (lei sa a quali alludo) intorno al comunismo moderno e alla passione religiosa del proletariato che non potrà non macchiarsi le mani di sangue... cose, insomma, che non voglio

commentare, ma penso che suo nonno con la sua picca borghese fu al confronto un vero agnellino, perdoni l'espressione. Sta bene cosí? Ha il consenso dei suoi superiori? E' conciliabile con la dottrina romana che, per quanto ne so, l'Ordine cerca di diffondere in tutto il mondo? Non è un gesto, come si dice, eretico, irregolare, scorretto? Queste sono riflessioni mie su Naphta, e mi piacerebbe sentire come la pensa lei. Settembrini sorrise. Semplicissimo. Naphta, è vero, è in primo luogo gesuita, intero e autentico. Ma in secondo luogo è un uomo di spirito, altrimenti non cercherei la sua compagnia, e come tale va alla ricerca di nuove combinazioni, di nuovi adattamenti, contatti, variazioni attuali. Le sue teorie, lei ha visto, hanno sorpreso anche me. Fino a quel punto non mi si era mai rivelato. Ho approfittato del l'incitamento offertogli evidentemente dalla loro presenza per stimolarlo a pronunciare in un certo senso la sua ultima parola. Che è stata abbastanza comica, abbastanza atroce... Sí, sí, ma perché non è diventato padre? L'età ce l'avrebbe. Ripeto, è stata la sua malattia a impedirglielo per ora. Bene, ma non crede che, se anzitutto è gesuita e in secondo luogo uomo di spirito, con combinazioni eccetera,... che questa seconda parte è in relazione con la malattia? Non capisco. Che cosa vuol dire? Ecco, signor Settembrini, voglio dire soltanto: ha una piccola zona umida, e questa gli impedisce di diventare padre. Ma anche le sue combinazioni l'avrebbero probabilmente ostacolato, e quindi, diciamo, le combinazioni e la sua zona umida vanno unite. Anche lui, a modo suo, è un pupillo della vita, un joli jésuite con una petite tache humide. Erano arrivati al sanatorio. Prima di separarsi restarono ancora un po' sullo spiazzo davanti all'edificio, formando un gruppetto, mentre alcuni pazienti, sfaccendati sotto il portone, li stavano a guardare. Settembrini disse: Ripeto, miei giovani amici, vi voglio mettere in guardia. Non vi posso impedire di coltivare questa relazione ormai fatta, se la curiosità ve lo impone. Ma armate di diffidenza il cuore e la mente, non rinunciate mai alla resistenza critica. Vi definirò quest'uomo con una sola parola: è un voluttuoso. I cugini torsero il viso. Poi Castorp domandò: Un... come ha detto? Ma, scusi, non è un frate? Per quanto io sappia, si devono fare determinati voti, e oltre a ciò è cosí gracile, cosí mingherlino... Lei è fuori di strada, ingegnere ribatté Settembrini. Che sia mingherlino non c'entra, e in quanto ai voti, ci sono anche riserve. Ma io parlavo in senso piú lato e spirituale, per il quale dovrei presupporre che lei abbia comprensione. Forse ricorda ancora il giorno in cui venni a trovarla in camera sua - è passato tanto tempo, tanto da far paura -, lei stava terminando il periodo di riposo a letto dopo essere stato accolto... Come no? Lei venne sul crepuscolo e accese la luce, ricordo come fosse ora... Bene.

Quel giorno si stette a chiacchierare e, come avviene spesso, grazie a Dio, si parlò di cose elevate. Parlammo, se non erro, della morte e della vita, della dignità della morte in quanto condizione e accessorio del la vita, e della smorfia che il suo aspetto assume quando lo spirito esecrabilmente la isola come principio! Signori soggiunse Settembrini andando quasi addosso ai giovani, puntando contro di loro il pollice e il medio della sinistra, divaricati a forcella, come per fondere insieme l'attenzione di entrambi, e alzando l'indice ammonitore della destra... ficcatevi bene in mente che lo spirito è sovrano, la sua volontà è libera, esso determina il mondo morale. Se isola dualisticamente la morte, essa, in seguito a questa volontà spirituale, diventa realtà e di fatto, actu, voi mi capite, diventa un potere proprio, opposto alla vita, avverso, diventa la grande seduttrice, il suo regno è quello della voluttà. Voi mi chiederete: perché della voluttà? Rispondo: perché scioglie e redime, perché è la redenzione, ma non la redenzione dal male, bensí la mala redenzione. Essa scioglie il costume e la moralità, redime dalla disciplina e dal controllo di sé, dà via libera alla voluttà. Se vi prego di guardarvi dall'uomo che a malincuore vi ho fatto conoscere, se vi invito a cingere il cuore con tre fasce di critica nel trattare e discorrere con lui, lo faccio perché tutti i suoi pensieri sono di natura voluttuosa, perché stanno sotto l'egida della morte,... di un potere sommamente sregolato, come le dissi allora, ingegnere (ricordo bene la mia espressione, conservo sempre nella memoria frasi buone e calzanti che ho avuto occasione di pronunciare),... di un potere diretto contro la morale e il progresso, contro il lavoro e la vita, dal cui alito mefitico l'educatore ha il precipuo compito di proteggere l'anima dei giovani. Non si poteva parlare meglio di Settembrini, né in modo piú chiaro e tondo. Castorp e Ziemssen lo ringraziarono vivamente di ciò che avevano ascoltato, salutarono e infilarono il portone del Berghof, mentre Settembrini, un piano sopra la serica cella di Naphta, ritornava al suo scrittoio di umanista. Fu la prima visita dei cugini a Naphta, quella che qui abbiamo delineato nel suo svolgimento. Ne seguirono due o tre altre, una persino senza Settembrini; e anche quelle fornirono al giovane Castorp materia di meditazione, quando - fissando con l'occhio della mente l'eccelsa figura, chiamata homo Dei si ritirava nel suo eremo fiorito d'azzurro e vi "regnava".

Uno scoppio d'ira. E anche un altro fatto increscioso. Venne cosí l'agosto e, tra i suoi primi giorni, era felicemente scivolato via l'anniversario dell'arrivo del nostro eroe. Meno male che era passato: il giovane Castorp l'aveva visto avvicinarsi con un certo disagio. Cosí avveniva di solito. Il giorno dell'arrivo non era ben visto, i pazienti che si trovavano lassú da un anno o piú anni non lo ricordavano, e mentre non si trascurava nessun pretesto per organizzare feste e far tintinnare i calici, e si

festeggiavano i grandi e comuni accenti nel ritmo e nelle pulsazioni dell'anno, moltiplicati possibilmente da numerosi accenti personali e irregolari, e compleanni, visite generali, imminenti partenze (arbitrarie o autorizzate) e occasioni simili, con banchetti e scoppiare di tappi al ristorante,... questo anniversario invece passava sotto silenzio, lo si lasciava scivolar via, lo si dimenticava anche davvero e si poteva aver fiducia che anche gli altri non lo ricordassero con precisione. Si teneva molto, sí, alla divisione del tempo, si osservavano il calendario, i turni, i ritorni esteriori; ma il tempo che per ciascuno si collegava con lo spazio di lassú, il tempo personale e individuale lo misuravano e contavano soltanto i principianti e quelli che erano lí da poco; chi aveva messo radici elogiava a questo proposito, con noncuranza, l'immenso e l'eterno, il giorno che era sempre il medesimo, e ognuno aveva il garbo di presupporre negli altri il proprio desiderio. Dire a uno: "Oggi compiono i tre anni che lei è qui" sarebbe stato un atto indecente e brutale: tanto è vero che non accadeva mai. Persino la signora Stohr, per quanto fosse maleducata, era da questo lato precisa e civile, e non si sarebbe mai resa colpevole di una simile mancanza. Il suo male, lo stato febbrile del suo corpo era accompagnato da un'immensa ignoranza, certo, tanto che poco prima, a tavola, aveva accennato all"'affettazione" dei suoi apici e, quando si era parlato di fatti storici, aveva dichiarato che le date erano il suo forte, il suo "anello di Policrate", provocando una certa perplessità nei commensali. Che invece nel mese di febbraio rammentasse al giovane Ziemssen la ricorrenza del suo arrivo era da escludere, anche se probabilmente ci aveva pensato. Il suo sciagurato cervello era probabilmente inzeppato di date e cose simili, e a lei non dispiaceva fare i conti addosso al prossimo; ma l'usanza la teneva in freno. Cosí avvenne il giorno di Castorp. A tavola lei aveva bensí tentato di strizzargli l'occhio con aria d'intesa, ma incontrando il viso di lui vuoto e freddo aveva fatto subito marcia indietro. Anche Joachim aveva taciuto, pur ricordando bene la data in cui era andato a prendere il visitatore alla stazione di Dorf. Se non che Joachim, che per natura era poco loquace - neanche lontanamente come Castorp che lo era diventato almeno lassú, per non dire di certi umanisti e sofisti di loro conoscenza... - negli ultimi tempi Joachim si era fatto particolarmente taciturno, dalle sue labbra uscivano soltanto monosillabi, ma si vedeva che i pensieri lo assillavano. Si capiva che la stazione di Dorf suscitava in lui ben altre idee che quella di andare a prendere qualcuno all'arrivo... Era in attivo scambio epistolare con la pianura. Decisioni maturavano nella sua mente. I preparativi che faceva erano giunti quasi al termine. Il luglio era stato caldo e sereno.

Ma allo spuntare del mese successivo il tempo si era messo al brutto, con un grigiore umido, pioggia mista a neve, vere nevicate, e cosí si andò avanti, con intercalate singole splendide giornate estive, oltre la fine del mese, fino in settembre. Da principio le camere erano ancora calde dal precedente periodo estivo; avevano una temperatura di dieci gradi che era considerata confortevole. Ma ben presto si fece sempre piú freddo, e si era lieti della neve che copriva la vallata, perché la sua vista (questa soltanto, la sola bassa temperatura non era sufficiente) indusse l'Amministrazione ad accendere i caloriferi, prima soltanto nella sala da pranzo, poi anche nelle camere, e quando fatto il suo bravo servizio a sdraio e diviluppatosi dalle due coperte, rientrava dalla loggia, Castorp palpava con le mani umide e rigide i tubi animati, il cui arido soffio aumentava però il bruciore delle sue guance. Era l'inverno. I sensi non riuscivano a sottrarsi a questa impressione, e si udiva qualcuno lagnarsi di essere stato "defraudato dell'estate", benché, con l'appoggio di circostanze naturali e artificiali, in seguito a un consumo di tempo, interiormente ed esteriormente prodigo, egli si fosse defraudato da sé. La ragione asseriva che dovevano venire ancora belle giornate autunnali; sarebbero venute persino in serie e con cosí calda magnificenza che chiamandole estive non si sarebbe fatto loro un elogio eccessivo, premesso che si dimenticasse l'orbita diurna del sole ormai piú appiattita e la sua precoce scomparsa. Ma l'effetto sull'animo, suscitato dalla vista del paesaggio invernale, era piú forte di quei confortanti ragionamenti. Qualcuno dietro la porta del balcone chiusa stava a guardare nauseato la tormenta scatenata... Cosí Joachim che con voce soffocata esclamò: Siamo dunque da capo? Castorp, dietro a lui nella camera, rispose: Sarebbe un po' presto, non può essere definitivo, benché abbia un aspetto maledettamente definitivo. Se l'inverno è fatto di tenebra, neve, gelo e tubi riscaldati, abbiamo di nuovo l'inverno, non c'è che dire. E se si considera che usciamo dall'inverno e le nevi si sono appena sciolte (in ogni caso a noi "sembra", vero), che un momento fa sia stata primavera), ci possono essere momenti in cui uno si sente male, ammetto. E' in pericolo l'umano piacere di vivere... Mi spiego: voglio dire che normalmente il mondo è sistemato in maniera da rispondere ai bisogni dell'uomo e da favorire il piacere di vivere, bisogna riconoscere. Non mi arrischio ad affermare che l'ordine naturale, come dire ad esempio la grandezza della Terra, il tempo che impiega per rotare intorno a se stessa e intorno al Sole, la vicenda delle ore del giorno e delle stagioni, il ritmo cosmico, se vuoi... sia misurato secondo le nostre necessità,... sarebbe insolenza e ingenuità, sarebbe teleologia, come dicono i filosofi. Ma il fatto è che la nostra necessità e i generali eventi della natura vanno, grazie a Dio, d'accordo (grazie a Dio, ho detto, perché c'è realmente motivo di ringraziare Iddio), e quando laggiú al piano arriva l'estate o viene l'inverno, l'estate e l'inverno precedenti sono passati da tanto tempo che l'estate e l'inverno ci riappaiono nuovi e perfetti, e questa è l'origine del piacere di vivere.

Qui sopra invece quest'ordine e quest'accordo sono turbati, anzitutto perché qui non ci sono stagioni vere e proprie, come un giorno tu stesso hai notato, ma soltanto giorni estivi e giorni invernali pele-mele, e oltre a ciò quello che passa qui non è tempo, di maniera che il nuovo inverno, quando arriva, non è punto nuovo, ma è ancora il vecchio: cosí si spiega il malumore col quale ora guardi attraverso i vetri. Grazie disse Joachim. E ora che l'hai spiegato, sarai, penso, cosí soddisfatto da essere anche contento del fatto stesso, benchè sia... No! Basta! esclamò. E' una porcheria. Tutto insieme è un'enorme, schifosa porcheria, e se tu per la tua parte... io... e uscí dalla camera a gran passi, chiuse rabbiosamente la porta alle sue spalle, e, se non era illusione, i suoi occhi belli e miti erano pieni di lacrime. L'altro rimase lí perplesso. Non aveva preso molto sul serio le decisioni di suo cugino, fin tanto che egli le aveva enunciate a gran voce. Ma ora, mentre gli si leggeva in viso lo sforzo del pensiero, ed egli si comportava come un momento prima, Castorp allibí, perché si rese conto che quel militare era capace di passare ai fatti,... si sbigottí fino a impallidire, per entrambi, per sé e per lui. Fort possible qu'il aille mourir, pensò, e siccome questa era certo una nozione di terza mano; vi si aggiunse anche la pena di un vecchio, mai dileguato sospetto, nonché la seguente considerazione: possibile che mi lasci solo quassú,... me che pur sono salito soltanto per venire a trovarlo! e con l'immediata continuazione: sarebbe una follia spaventosa,... follia talmente spaventosa che mi sento gelare in viso, e sento il cuore pulsare irregolarmente, perché, se resto quassú solo (e solo resto, se lui parte; che io vada con lui è nettamente escluso), ecco che rimango (e qui il cuore mi si ferma addirittura) per sempre, in perpetuo, perché da solo non troverei mai e poi mai la via del ritorno al piano... Questo il pauroso ragionamento di Castorp. Quello stesso pomeriggio doveva dargli la certezza degli eventi: Joachim parlò chiaro, il dado fu tratto, si arrivò di botto alla risoluzione. Dopo il tè scesero nel chiaro scantinato per la visita mensile. Erano i primi di settembre. Entrando nell'aria secca dell'ambulatorio trovarono il dottor Krokowski alla solita scrivania, mentre il consigliere, molto paonazzo in viso, stava appoggiato alla parete con le braccia conserte, in una mano lo stetoscopio, col quale si batteva la spalla. E sbadigliava guardando il soffitto. Pranzato bene, ragazzi? domandò con voce fiacca mostrandosi anche in seguito di umore svogliato, malinconico, annoiato. Probabilmente aveva fumato. C'erano però anche fastidi obiettivi, dei quali i cugini avevano già avuto sentore: una ragazza, certa Ammy Nolting, che, entrata la prima volta nell'autunno di due anni prima e dimessa per guarita, dopo nove mesi, in agosto, era ritornata subito prima della fine di settembre, perché a casa "non si era sentita bene", e in febbraio era stata dimessa un'altra volta, perché senza rumori sospetti, e restituita alla pianura, ma dalla metà di luglio occupava di nuovo il suo posto alla tavola della Iltis,... questa Ammy era stata sorpresa in

camera sua, all'una di notte, in compagnia di un paziente di nome Polypraxios, quello stesso greco che la sera di carnevale aveva dato giustamente nell'occhio per la bel lezza delle gambe, un giovane chimico, il cui padre possedeva una fabbrica di colori al Pireo; e la scoperta era dovuta a un'amica rosa dalla gelosia, la quale era arrivata alla camera di Ammy percorrendo lo stesso itinerario di Polypraxios, cioè la via dei balconi, e, straziata dal furore e dal dolore di ciò che aveva visto, s'era messa a gridare, mettendo tutti in moto e combinando un pandemonio. Behrens aveva dovuto espellere tutti e tre, l'ateniese, la Nolting e la sua amica che accecata dalla passione aveva badato cosí poco al proprio onore, e proprio ora aveva terminato di discutere l'increscioso incidente col suo aiuto il quale aveva avuto in cura privata sia la Ammy, sia la traditrice. E anche durante la visita dei cugini continuò a parlarne in tono melanconico e rassegnato; era infatti un artista dell'auscultazione cosí fatto e finito da poter contemporaneamente ascoltare i visceri di un malato, e parlare d'altro e dettare le sue osservazioni all assistente. Eh sí, gentlemen, quella maledetta libido! disse. Voi ci trovate anche il vostro divertimento, beati voi! - Vescicolare. - Ma un direttore ne ha piene le tasche, me lo potete- smorzato - me lo potete credere. Colpa mia se la tisi s'accompagna a una particolare concupiscenza? - Un po' di stridore. - Non sono stato io a disporre cosí, ed ecco che, appena volti l'occhio, ti trovi a essere il tenutario di un... - corto qui sotto l'ascella sinistra. Abbiamo le analisi, abbiamo le confessioni... già, buon appetito! Quanto piú la tisica brigata confessa, tanto piú diventa lasciva. - Qui c'è un miglioramento, il rantolo è scomparso. - Ii raccomando la matematica. Lo studio della matematica è il migliore rimedio contro la cupidità. Il procuratore Paravant, che era sempre in tentazione, vi si è buttato a corpo perduto, e ora studia la quadratura del circolo e si sente molto sollevato. Ma la gente è per lo piú troppo stupida e troppo pigra, che Dio liberi! Vescicolare. - Ecco, so benissimo che qui i giovani non hanno proprio difflcoltà a corrompersi e a finir male, e in altri tempi cercavo di intervenire contro le dissolutezze. Se non che mi è capitato che un fratello o un fidanzato venisse a chiedermi in faccia: E a lei che gliene importa? Da quel giorno non sono altro che medico. - Soffio debole in alto a destra. Avendo finito di visitare Joachim infilò lo stetoscopio nella tasca del camice e con la grossa mano sinistra si fregò gli occhi, come faceva quando si afflosciava e immalinconiva. Un po' macchinalmente, intercalando qual che sbadiglio di malumore, recitò la sentenza: Be', Ziemssen, sempre avanti e coraggio! Non siamo ancora al punto richiesto dai trattati di fisiologia, c'è ancora qualche intoppo, e anche col Gaffky bisognerà mettersi pienamente in regola, dopo l'ultima volta è salito di un punto..., siamo al sei questa volta, ma non per questo occorrerà strapparsi i capelli. Quando è venuto, stava peggio, se vuole glielo metto nero sul bianco. Aggiungendo ancora cinque, sei mesetti... Scusi, consigliere... cominciò Joachim.

A torso nudo, il petto in fuori, i tacchi uniti, stava sull'attenti, e aveva il viso tutto macchie come quando Castorp, in una certa occasione, aveva avuto modo la prima volta di notare che nel cugino abbronzato quello era il modo di impallidire. Se rimane sotto la naia continuò Behrens scaval cando l'interruzione ancora mezzo annetto, può chiamarsi fuori, partire alla conquista di Costantinopoli, assumere il comando supremo delle forze armate... Chi sa, nel suo malumore, quante scempiaggini avrebbe infilato ancora, se il contegno imperturbabile di Joachim, la sua palese intenzione di parlare, e di parlare risolutamente, non gli avesse fatto perdere il filo. Scusi, consigliere disse Joachim, desidero comunicarle con tutto il rispetto che sono deciso a mettermi in viaggio. Come? Vuol fare il viaggiatore? Credevo che, a suo tempo, una volta guarito, volesse fare il soldato. Ecco, devo partire subito, tra otto giorni. Ma, dica un po', ho capito bene? Lei rinuncia alla battaglia e intende tagliare la corda? Lo sa che questa si chiama diserzione? No, consigliere, non la penso cosí. Io devo raggiungere il reggimento. Benché le dica che tra sei mesi la potrò certamente dimettere, che invece prima di sei non la potrò dimettere? Il portamento di Joachim si fece sempre piú ufficiale. Egli ritirò il ventre e disse in breve, con voce sforzata: Sono qui da un anno e mezzo. Non posso aspettare ancora. Da principio, consigliere, lei mi disse: un trimestre. Poi la mia cura fu sempre prolungata di tre e di sei mesi, e ancora non sono guarito. Colpa mia? No, signore. Ma io non posso aspettare. Se non voglio perdere del tutto il collegamento, non posso aspettare quassú la perfetta guarigione. Ora devo scendere al piano. Mi occorre anche il tempo per l'equipaggiamento e altri preparativi. Lei si è inteso con la famiglia? Mia madre è d'accordo. Tutto è già stabilito. Il primo ottobre entro come aspirante ufficiale nel 76 reggimento. A qualunque rischio? domandò Behrens guardandolo con gli occhi soffusi di sangue... Signorsí, consigliere rispose Joachim con le labbra tremanti. Allora sta bene, Ziemssen. Il consigliere cambiò faccia e mollò in tutti i sensi. Sta bene, Ziemssen. Riposo ! Parta con Dio. Come vedo, lei sa quello che vuole, si assume la responsabilità, ed è giusto: è affar suo, non mio, dal momento che si prende ogni responsabilità. Chi fa da sé fa per tre. Lei viaggia senza garanzia, io non rispondo di nulla. Ma non vuol dire, tutto può andare a buon fine. Si sta all'aria aperta con la sua professione. Può darsi benissimo che le faccia bene, che lei riesca a cavarne i piedi. Signorsí, consigliere. Be', e lei, giovanotto del mondo borghese? Filerà anche lei, penso, no? Ora toccava a Castorp rispondere.

Era pallido come un anno prima, alla visita che aveva causato la sua accettazione, nello stesso posto di allora, e di nuovo gli si vedevano chiaramente le pulsazioni del cuore contro le costole. Disse: Vorrei lasciare la decisione a lei, consigliere. A me? Bene! Lo prese per un braccio, percosse, auscultò. Senza dettare. E si spicciò alla svelta. Quand'ebbe finito sentenziò: Lei può partire. Castorp balbettò: Che sarebbe... Come mai? Sono sano? Sí, è sano. Il punto quassú a sinistra non conta nulla. L'alterazione non dipende da questo. Da che cosa provenga non lo saprei dire. Sono del parere che non abbia nessuna importanza. Per conto mio può mettersi in viaggio. Ma... consigliere... Forse in questo momento non lo dice sul serio? Eh? Non sul serio? Perché? Cosa crede? Che cosa pensa di me, vorrei sapere? Per chi mi prende? Per un tenutario di...?! Era uno scoppio d'ira. Il viso paonazzo di Behrens si era fatto quasi violaceo per il vampante afflusso di sangue, la piega unilaterale del labbro aveva preso maggiore rilievo, scoprendo i primi molari superiori, ed egli abbassò la testa come un toro, con gli occhi gonfi e lacrimosi. Come si permette? tempestò. In primo luogo non sono un padrone ! Qui sono un funzionario ! Sono medico. Soltanto medico, capisce? Non faccio il mezzano, io ! Non sono un signor Amoroso di Via Toledo nella bella Napoli, ha capito? Ho il compito di servire l'umanità sofferente. E se per caso vi siete fatti un altro concetto della mia persona, potete andare a farvi friggere tutti e due, alla malora o all'inferno, a vostra libera scelta! Buon viaggio! E a gran passi uscí dalla porta che dava nell'anticamera del gabinetto radiologico, e la sbatté con forza alle sue spalle. I cugini guardarono perplessi il dottor Krokowski che però era immerso e sepolto fra le sue scartoffie. Si vestirono in fretta e furia e quando furono sulla scala Castorp disse: Spaventevole. L'hai mai visto cosí? No, cosí mai. Queste sono le sfuriate dei superiori. Non c'è che subirle con un contegno ineccepibile. Si vede che era irritato dalla faccenda di Polypraxios e della Nolting. Ma hai notato proseguí Joachim, e si capiva come la gioia di aver combattuto la sua battaglia gli montasse dentro e lo opprimesse, hai notato come si è arreso, come ha capitolato, quando ha visto che facevo sul serio? Energia ci vuole, non lasciarsi mettere con le spalle al muro. Ora avrei, come dire, il permesso (l'ha detto lui, che probabilmente riuscirò a cavarne i piedi), e tra una settimana partiamo,... cioè tra venti giorni sarò al reggimento , cosí si corresse lasciando da parte Castorp e limitando l'affermazione, tremante di gioia, alla propria persona. Castorp tacque.

Non disse nulla del "permesso" di Joachim, né del suo, del quale pur ci sarebbe stato qualcosa da dire. Si preparò per la cura a sdraio, si mise in bocca il termometro, si avvolse nelle due coperte di cammello, con gesti brevi e sicuri, secondo quella sacra pratica della quale laggiú al piano non si aveva un'idea, e giacque, cilindro regolare e senza pieghe, sulla sua eccellente sedia a sdraio nella fredda umidità del pomeriggio di primo autunno. Le nubi di pioggia erano basse, la bandiera convenzionale era stata ritirata, tracce di neve erano rimaste sui rami bagnati dell'abete bianco. Dalla veranda inferiore, donde a suo tempo gli era giunta alle orecchie la voce del signor Albin, arrivava un parlottío, mentre, essendo di servizio, sentiva che il viso e le dita gli si irrigidivano a causa del freddo e dell'umidità. C'era avvezzo e provava un senso di gratitudine verso quel tenore di vita, che ormai considerava l'unico possibile, per la prerogativa di poter stare lí isolato a ripensare ai fatti suoi. Dunque, era deciso: Joachim sarebbe partito. Radamanto lo aveva dimesso,... non rite, non guarito, ma pur sempre dimesso con mezzo consenso, in base e in considerazione della sua fermezza. Sarebbe sceso con la ferrovia a scartamento ridotto fino laggiú a Landquart, a Romanshorn, poi avrebbe attraversato il lago ampio e profondo, sopra il quale, nella famosa poesia, cavalca il cavaliere, e tutta la Germania fino a casa. Là sarebbe vissuto, in pianura, tra persone che non avevano un'idea di come si debba vivere, che non conoscevano l'uso del termometro, l'arte di avvolgersi nelle coperte, di infilarsi nel sacco a pelo, la triplice passeggiata e... difficile dire, difficile elencare tutte le cose che non si sapevano laggiú, ma il pensiero che Joachim, dopo aver passato lassú piú di un anno e mezzo, dovesse stare tra gli ignoranti: questo pensiero che toccava soltanto Joachim e solo da lontano e in via di prova lui stesso, Hans Castorp, lo sconcertò al punto che chiuse gli occhi e fece il gesto di respingere qualcosa. Impossibile, impossibile mormorò. Ma siccome era impossibile, doveva dunque continuare a vivere lassú solo e senzaJoachim? Sí. Fino a quando? Finché Behrens lo dimettesse guarito, e sul serio, non come quel giorno. Se non che in primo luogo quel momento era definibile soltanto col gesto che Joachim aveva fatto una volta, allungando un braccio nell'aria a indicare l'imprevedibile; e in secondo luogo: l'impossibile diventava intanto maggiormente possibile? Se mai, al contrario. D'altro canto doveva ammettere lealmente che ora, finché l'impossibile non era forse ancora tanto impossibile quanto sarebbe stato in avvenire, l'arbitraria partenza di Joachim porgeva una mano, un aiuto, una guida sulla via del ritorno al piano, che lui per conto suo non avrebbe mai ritrovata. La pedagogia umanistica, se avesse avuto sentore di tale occasione, come lo avrebbe incoraggiato ad afferrare quella mano e ad affidarsi a quel la guida ! Ma Settembrini era soltanto un rappresentante... di cose e poteri che metteva conto di ascoltare, ma non in modo esclusivo; e anche Joachim era nelle stesse condizioni. Era un militare, d'accordo. E partiva... quasi nel momento in cui la popputa Marusja doveva ritornare (era noto che tornava il primo d'ottobre), mentre lui, il borghese Hans Castorp, reputava che la partenza, particolarmente e per dirla in

breve, fosse impossibile perché doveva pur aspettare Clavdia Chauchat, del cui ritorno non si aveva ancora nessuna notizia. "Non la penso cosí" aveva detto Joachim quando Radamanto aveva parlato di diserzione: la qual cosa, detta sul conto diJoachim, era una sciocchezza di Behrens, un'insulsaggine, frutto del suo malumore. Ma per lui, borghese, la faccenda aveva un aspetto diverso. Per lui (certo e senza alcun dubbio! per estrarre dalla sua sensazione questo pensiero risolutivo, si era coricato apposta in quella fredda umidità), per lui sí, sarebbe stata diserzione approfittare del momento e intraprendere un arbitrario o semiarbitrario viaggio in pianura; abbandono di larghe responsabilità che laggiú gli erano imposte dall'eccelsa figura, detta homo Dei; tradimento contro gravi e accaloranti doveri di "regno" che, a rigore, trascendevano le sue forze naturali, ma lo rendevano bizzarramente felice, mentre li adempiva e lí nella loggia e tra l'azzurra fioritura del suo recesso. Si strappò di bocca il termometro, con violenza, come aveva fatto un'altra sola volta: dopo averlo usato il primo giorno non appena la superiora gli aveva venduto il grazioso strumento, e lo guardò con la stessa curiosità di allora. Mercurio era salito vigorosamente, segnava trentasette e otto, quasi nove. Castorp buttò via le coperte, balzò in piedi, attraversò di corsa la camera fino alla porta del corridoio e tornò indietro. Rimessosi in posizione orizzontale chiamò sottovoce Joachim e gli domandò quanto aveva. Non mi misuro piú rispose il cugino. Io ho una notevole alterezza comunicò Castorp imitando gli sfarfalloni della signora Stohr, dopo di che l'altro, dietro al tramezzo di vetro, non disse piú nulla. Né disse altro piú tardi, quel giorno o i successivi, non s'informò delle intenzioni o risoluzioni di suo cugino, le quali, dato il termine breve, dovevano manifestarsi da sé con azioni od omissioni, e cosí fecero, cioè con queste ultime. Pareva che avesse abbracciato la teoria del quietismo, secondo il quale l'azione è un'offesa a Dio che vuol agire da solo. Ad ogni modo l'attività di Castorp si era limitata in quei giorni a una visita a Behrens, a un colloquio, del quale Joachim era al corrente e del quale poteva calcolare a menadito lo svolgimento e i risultati. Suo cugino aveva dichiarato che ai precedenti ripetuti inviti del consigliere, quando gli raccomandava di raggiungere la guarigione perfetta, affinché non fosse costretto a ritornare mai piú, desiderava attribuire maggior importanza che al precipitato sfogo di un minuto di malumore; aveva 37 e 8, non poteva reputarsi dimesso regolarmente, e se le recenti parole del consigliere non significavano un'espulsione (alla quale egli proprio non credeva di aver dato motivo), ora, dopo matura riflessione e in consapevole opposizione a Joachim Ziemssen, aveva deliberato di rimanere ancora finché fosse disintossicato. Dopo di che il consigliere aveva letteralmente risposto: Bene, d'accordo e Non se n'abbia a male! soggiungendo che questo si chiamava parlare da persona assennata; egli aveva capito subito che Castorp aveva migliori attitudini a fare il malato di quante non ne avesse quello sventato e ammazzasette. E cosí via.

Cosí dunque, secondo i calcoli approssimativamente esatti di Joachim, si era svolto il colloquio; perciò egli non disse nulla e in silenzio si limitò a prendere nota che Castorp non faceva alcun preparativo per la partenza. D'altro canto il buon Joachim aveva fin troppo da fare per sé ! Non poteva davvero pensare alla sorte e alla permanenza di suo cugino. Aveva il cuore in tumulto... e lo si può immaginare. Poteva anche essere un bene, se non si misurava piú e se lo strumento (diceva lui) gli era caduto andando in pezzi: le misurazioni potevano dare risultati sbagliati,... terribilmente agitato com'era, ora acceso e scuro, ora pallido dalla gioia e dall'impazienza. Non riusciva piú a star coricato; tutto il giorno (Castorp lo udiva) andava in su e in giú per la camera a tutte le ore, tutte le quattro volte quando al Berghof dominava la posizione orizzontale. Un anno e mezzo! E ora scendeva al piano, a casa, e davvero al reggimento, sia pure con solo mezzo permesso! Non era un inezia, sotto nessun aspetto, Castorp condivideva l'orgasmo dell'irrequieto cugino. Diciotto mesi, il completo giro di un anno e in aggiunta la metà d'un giro, ormai immedesimato nell'ordinamento inserito in quel binario, in quell'inviolabile ritmo di vita che aveva seguito per sette volte settanta giorni in tutte le stagioni,... e ora il ritorno a casa in terra diventata estranea, fra gli ignoranti! A quali difficoltà di acclimazione andava incontro? C'era da stupirsi se l'eccitazione di Joachim non era fatta sol tanto di gioia? se anche l'ansietà e il doloroso distacco da radicate consuetudini lo facevano passeggiare inquieto per la Camera?... Senza dire di Marusja. Il sopravvento però l'aveva la gioia. Il cuore e le labbra del buon Joachim traboccavano; egli parlava di sé senza accennare all'avvenire di suo cugino. Diceva che tutto gli sarebbe apparso nuovo e rinfrescato, la vita. lui stesso, il tempo,... ogni giorno, ogni ora. Tempi seri e regolati lo attendevano, anni importanti per la sua giovinezza. Parlava di sua madre, la zia di Castorp, la quale aveva gli occhi neri e miti come Joachim, e in tutti quei mesi di montagna egli non l'aveva veduta perché, impegnata come lui di mese in mese, di semestre in semestre, non si era mai potuta risolvere a venir a trovare suo figlio. Parlava con sorridente entusiasmo del giuramento di fedeltà alla bandiera che avrebbe prestato di lí a poco: lo si prestava con rito solenne, davanti alla bandiera, ad essa, allo stendardo. Davvero? domandò Castorp. Proprio all'asta? a quel pezzo di panno? Certo, e in artiglieria al cannone, simbolicamente. Costumanze fantastiche, osservò il borghese, fanatico-sentimentali, per cosí dire: e Joachim approvò, orgoglioso e beato. Era assorbito dai preparativi; andò a saldare l'ultimo conto all'Amministrazione, cominciò, vari giorni prima del termine fissato, a far le valigie. Ripose la roba estiva e invernale, incaricò un inserviente di imballare il sacco a pelo e le coperte di cammello in un telone; gli potevano eventualmente servire alle manovre.

Cominciò a congedarsi. Andò a far visite di commiato a Naphta e a Settembrini... da solo, perché suo cugino non lo accompagnò né gli chiese che cosa avesse detto Settembrini a proposito dell'imminente partenza dell'uno e dell'imminente non-partenza dell'altro: che si fosse pronunciato con un "guarda, guarda" o un "già, già" o con entrambi o con un "poveretto", gli doveva essere indifferente. Venne poi la vigilia della partenza, e Joachim sbrigò tutto per l'ultima volta, i pasti, la cura a sdraio, le passeggiate e si accomiatò dai dottori, dalla superiora. Venne la mattina: Joachim si presentò con gli occhi arsi e le mani fredde, perché non aveva dormito tutta la notte, non mandò giú neanche un boccone e quando la nana venne ad annunciargli che il bagaglio era caricato, si alzò di scatto per salutare i commensali. Al momento dell'addio la Stohr versò lacrime, le facili lacrime senza sale della gente incolta, e poco dopo, alle spalle di Joachim, scotendo la testa e girando di qua e di là la mano aperta, mostrò alla maestra il viso agro per esprimere volgarmente i suoi dubbi circa la salute di Joachim e la sua autorizzazione a partire. Castorp lo notò, mentre in piedi stava vuotando la tazza per seguire subito suo cugino. C'erano ancora le mance da distribuire, e da rispondere nel vestibolo al saluto ufficiale d'un incaricato dell'Amministrazione. Come al solito alcuni pazienti si erano raccolti per assistere alla partenza: la signora Iltis, la Levi color avorio, l'epilettico Popov con la sua fidanzata. Tutti agitarono i fazzoletti, mentre la carrozza, con la ruota posteriore frenata, infilava con strepito la discesa. Joachim aveva ricevuto un omaggio di rose. Aveva il cappello in testa, Castorp no. Era una splendida mattina, la prima mattina di sole dopo un lungo grigiore. Lo Schiahorn, le Torri Verdi, la cima del Monte di Dorf si stagliavano come immutabili segnacoli sull'azzurro e Joachim li guardava. Era quasi peccato, osservò Castorp, che il tempo si fosse messo al bello proprio per la partenza; era una cattiveria, perché una brutta impressione finale allevia ogni separazione. Al che Joachim: non c'era niente, disse, da alleviare, e quello era un ottimo tempo per esercitazioni, laggiú gli poteva far comodo. A questo aggiunsero ben poco. Certo, stando cosí le cose per ciascuno e fra loro, non c'era niente da dire. E poi avevano davanti a sé lo zoppo, in serpa, a fianco del cocchiere. Seduti in alto, sballottati sui duri cuscini della piccola vettura, si erano lasciati alle spalle il torrente, lo stretto binario, percorsero la strada tracciata irregolarmente, parallela alla ferrovia, e si fermarono sullo spiazzo sassoso davanti alla stazione di Dorf, che non era molto piú di una tettoia. Castorp riconobbe ogni cosa con sgomento. Dopo il suo arrivo, al primo crepuscolo di tredici mesi prima, non aveva riveduto la stazione. Ma qui sono arrivato disse, benché fosse superfluo, e Joachim rispose soltanto: Già, proprio qui e pagò il vetturino. Lo zoppo affaccendato provvide a tutto, al biglietto, al bagaglio.

I cugini stettero insieme sul marciapiede, davanti al treno in miniatura, presso il piccolo scompartimento coi cuscini grigi, sui quali Joachim aveva occupato un posto col soprabito, il rotolo della coperta da viaggio e le rose. Be', va dunque a fare il tuo fantastico giuramento! disse Castorp, e Joachim: Sarà fatto. Che altro? Si affidarono a vicenda l'incarico di portar saluti, a quelli di laggiú, a quelli di lassú. Poi Castorp si mise a tracciare segni col bastone sull'asfalto. Quando squillò l'invito a montare in carrozza, si riscosse, guardò Joachim e questi guardò lui. Si strinsero la mano; Castorp abbozzò un vago sorriso; gli occhi dell'altro erano seri e tristemente penetranti. Hans ! disse... Gran Dio ! Era mai avvenuto al mondo un fatto cosí increscioso? Ora chiamava Hans Castorp per nome! Non col solo "tu", secondo la loro consuetudine di tutta la vita, ma, ad onta dei modi bruschi e in maniera penosamente eccessiva, col prenome ! Hans disse stringendo con profonda angoscia la mano al cugino il quale non poté fare a meno di osservare che, commosso com'era, senza aver dormito, con addosso l'inquietudine del viaggio, il collo gli tremava (come a lui stesso quando "regnava") ... Hans disse con fervore, vieni presto anche tu! Poi saltò sul predellino. Lo sportello fu sbattuto, un fischio, le carrozze si urtarono, la piccola locomotiva si mosse, il treno scivolò via. Il viaggiatore salutò dal finestrino col cappello, il rimasto con la mano. Col cuore sconvolto stette lí ancora a lungo, solo. Poi rifece lentamente la strada che Joachim a suo tempo gli aveva fatto percorrere.

Attacco respinto. La ruota girò. Le lancette progredirono. Il pandicuculo e l'aquilegia erano sfioriti, cosí pure il garofano selvatico. Le stelle turchine della genzianella, il colchico pal lido e velenoso riapparvero in mezzo all'erba umida, e sulle foreste si stese un velo rossastro. L'equinozio d'autunno era passato, Ognissanti in vista e, per i piú esperti consumatori di tempo, forse anche l'inizio dell'avvento, il giorno piú breve e le feste di Natale. Ma seguí ancora una serie di belle giornate ottobrine,... giornate del tipo di quella in cui i cugini erano andati a vedere i quadri a olio di Behrens. Dopo la partenza di Joachim, Castorp non aveva piú il suo posto alla tavola della Stohr, a quella che il dottor Blumenkohl aveva abbandonato morendo e dove Marusja aveva soffocato l'immotivata allegria nel fazzoletto profumato d'arancio. Vi sedevano ora ospiti nuovi, del tutto sconosciuti.

Al nostro amico invece, inoltratosi ormai di due mesi e mezzo nel suo secondo anno,l'Amministrazione aveva assegnato un altro posto, a una tavola vicina, collocata di sbieco davanti alla precedente, verso la porta sinistra della veranda, tra la sua tavola di prima e quella dei "russi ammodo", alla tavola, insomma, di Settembrini. Proprio cosí: Castorp si sedeva ora al posto lasciato dall'umanista, e di nuovo a capotavola, di fronte al posto dei dottolri che a ognuna delle sette tavole rimaneva libero per ospitare il direttore o il suo assistente. Là, a sinistra del seggio dottorale, si rannicchiava su alcuni guanciali il gobbo fotografo dilettante messicano, la cui faccia in seguito all'isolamento linguistico sembrava quella d'un sordo; al suo fianco stava la non piú giovane signorina transilvana che, come aveva già lamentato il signor Settembrini, pretendeva che tutti quanti s'interessassero a suo cognato, del quale nessuno sapeva né desiderava saper nulla. Tenendo di traverso sulla nuca un bastoncino col manico d'argento cesellato, che portava con sé anche nelle passeggiate d'obbligo, compariva a date ore del giorno al parapetto della sua loggia per slargare con profondi respiri igienici il petto liscio come un piatto di portata. Dirimpetto a lei era un boemo che chiamavano il signor Wenzel, perché nessuno era capace di pronunciare il suo cognome. Settembrini si era provato qualche volta a spiccicare l'arruffata sequenza di consonanti che formavano quel cognome... non certo con sforzi sinceri, ma soltanto per saggiare allegramente su quel complicato garbuglio di suoni la signorile impotenza della sua latinità. Benché obeso come un tasso e di una voracità stupefacente persino tra le persone di lassú, il ceco assicurava da quattro anni che doveva morire. Di sera, in società, strimpellava talvolta i canti del suo paese su un mandolino ornato di nastri, e parlava della sua piantagione di barbabietole da zucchero, dove lavoravano soltanto belle ragazze. PiU vicino a Castorp seguivano ai due cati della tavola il signor e la signora Magnus, i coniugi birrai di Halle. La coppia era circonfusa da un'atmosfera malinconica, perché entrambi perdevano vitali prodotti del ricambio, lui zucchero, lei albumina. Lo stato d'animo, specie della pallida signora, sembrava privo di qualsiasi raggio di speranza; emanava una vuotaggine simile a un soffio sotterraneo e, piú spiccatamente della ignorante Stohr, rappresentava quella fusione di malattia e stupidità della quale Castorp, redarguito per ciò da Settembrini, si era scandalizzato. Lui, Magnus, era piú sveglio e loquace, anche se soltanto in quel modo che a suo tempo aveva provocato l'impazienza letteraria di Settembrini. Era anche facile alla collera e spesso si scontrava col signor Wenzel per motivi politici o altro. Lo indispettivano le aspirazioni nazionali del boemo, che oltre a ciò era contrario all'uso dell'alcool e dava giudizi morali negativi sull'attività commerciale del fabbricante di birra, mentre questi col sangue alla testa difendeva l'inattaccabilità sanitaria della bevanda, alla quale i suoi interessi erano cosí strettamente congiunti.

In quelle occasioni Settembrini col suo umorismo trovava un accomodamento; Castorp invece, al suo posto, era poco abile e non poteva pretendere sufficiente autorità da sostituirlo. Era in rapporti piú amichevoli con due soli commensali: l'uno era A.K. Ferge di Pietroburgo, il suo vicino di sinistra, il paziente bonario che, di sotto il cespuglio dei baffi rossobruni, veniva discorrendo della produzione di scarpe di gomma e di regioni lontane, come il circolo polare e il perpetuo inverno del Capo Nord; con lui Castorp faceva,persino talvolta la passeggiata d'obbligo. L'altro che, ogni qualvolta si presentava l'occasione, si aggregava a loro due, e stava all'altro capo della tavola dirimpetto al gobbo messicano, era il mannheimese, quello dai capelli radi e dai denti guasti, di nome Wehsal, Ferdinand Wehsal, commerciante di professione, i cui sguardi avevano seguito sempre con torbido desiderio la graziosa persona della Chauchat; ora, dopo il carnevale, cercava di stringere amicizia con Castorp. Lo faceva con umiltà e tenacia, con una devozione canina che all'interessato faceva un'impressione odiosa e raccapricciante, perché egli ne capiva il senso complicato, e come uomo cercava di scansarla. Con lo sguardo calmo, poiché sapeva che bastava contraesse leggermente le sopracciglia per umiliare e spaventare il malcapitato, tollerava la servilità di Wehsal che non si lasciava sfuggire occasione di inchinarglisi e lisciarlo; tollerava perfino che qualche volta nelle passeggiate gli portasse il soprabito (lo portava sul braccio con una certa devozione), tollerava infine la sua triste conversazione. Wehsal s'intestava a far domande, come ad esempio: se fosse ragionevole e opportuno dichiarare il proprio amore a una donna che si ama, che però non ne vuol sapere: dichiarazione amorosa senza speranza: che cosa ne pensavano loro? Per parte sua ne aveva un altissimo concetto, era del parere che ne derivasse un'infinita felicità. Infatti, mentre provoca disgusto e contiene una profonda umiliazione, l'atto della dichiarazione rappresenta d'altro canto un momento di completa vicinanza amorosa alla persona desiderata, la coinvolge nella confidenza, nell'aura della propria passione, e se anche con ciò tutto è finito, l'irrevocabile perdita non è pagata troppo con la disperata voluttà dell'istante; la confessione è violenza, e quanto piú è forte l'opposizione e la ripugnanza, tanto maggiore il godimento... A questo punto il viso di Castorp oscuratosi respinse Wehsal, ma ciò avvenne con riguardo alla presenza dell'ottimo Ferge, il quale, come asseriva spesso, era ben lontano da tutti gli argomenti superiori e difficili, piú che per un rigido giudizio morale da parte del nostro eroe. Infatti, come siamo sempre ugualmente lontani dal volerlo presentare migliore o peggiore di quanto non fosse, diremo che, una sera a quattr'occhi avendolo il povero Wehsal scongiurato con scialbe parole di confidargli, per amor di Dio, i particolari delle esperienze fatte, dopo la socievole riunione, nella tarda sera di carnevale, Castorp lo accontentò con calma e bontà, senza che (il lettore ce lo crederà) quella scena pacata avesse un tono di bassa leggerezza. Tuttavia abbiamo motivo di escluderne lui e noi e ci limitiamo ad aggiungere che, dopo, Wehsal portò il soprabito del cortese Castorp con raddoppiata devozione. Questa la descrizione dei nuovi commensali di Hans Castorp.

Il posto alla sua destra era libero, fu occupato soltanto di passaggio, alcuni giorni, da un ospite, come era stato lui a suo tempo, da un parente in visita, venuto dalla pianura, messaggero, si potrebbe dire, di laggiú... per farla breve, dallo zio di Hans, James Tienappel. Era un fatto singolare che un rappresentante, un messo della sua città si trovasse a un tratto seduto accanto a lui, recando ancora fresca nel tessuto inglese del vestito l'atmosfera della vita d'un tempo, di un mondo sommerso. Ma era inevitabile. Già da un pezzo Castorp aveva tenuto conto di quell'avanzata della pianura e previsto persino esattamente la persona che ora in realtà si presentava incaricata della ricognizione,... per quanto la previsione non fosse difficile: Peter il navigatore era quasi da escludere e in quanto al prozio Tienappel si sapeva che nemmeno gli argani l'avrebbero trascinato in queste regioni, dalla cui pressione atmosferica aveva tutto da temere. Non poteva essere che James ad assumersi l'incarico familiare di venire a informarsi del figliol prodigo; già da un po' era atteso. Ma quando Joachim era ritornato solo e nella cerchia dei parenti aveva recato notizie sulla situazione, il momento dell'attacco fu maturo e piú che maturo, sicché Castorp non rimase per nulla sbalordito allorché, solo quindici giorni dopo la partenza di Joachim, il portiere gli consegnò un telegramma che, aperto con un netto presentimento, rivelò l'imminente arrivo di James Tienappel: questi aveva commissioni in Svizzera e s'era deciso ad approfittare dell'occasione per fare una visita a Hans, lassú in montagna; sarebbe arrivato tra due giorni. "Bene" pensò Castorp, e "d'accordo." Mentalmente aggiunse persino qualcosa come "Prego! Padronissimo". E col pensiero gli andò incontro: "Se tu sapessi! '. Accolse insomma la notizia con molta calma, la trasmise a Behrens e all'Amministrazione, fece preparare una camera (quella di Joachim era ancora disponibile) e il secondo giorno, all'ora del suo proprio arrivo, cioè verso le otto di sera (era già buio), col medesimo duro veicolo col quale aveva accompagnato Joachim partente, scese alla stazione di Dorf a ricevere il messaggero della pianura che veniva a vedere se tutto era in ordine. Rosso come il cinabro, senza cappello, in giacchetta, si trovò, all'arrivo del trenino, sul margine del marciapiede e, messosi sotto il finestrino del congiunto, lo invitò a scendere perché era arrivato. Il console Tienappel (era viceconsole e sgravava egregiamente il vecchio anche in questa carica onorifica), infreddolito e avvolto nel soprabito invernale, perché la sera d'ottobre era realmente assai fredda mancava poco che si potesse discorrere di gelo cristallino, anzi verso la mattina sarebbe gelato certamente - uscí dallo scompartimento con gradita sorpresa, la espresse con le forme un po' contegnose e molto civili del gentiluomo tedesco nordoccidentale, salutò il nipote insistendo nell'esprimere la sua soddisfazione per averlo trovato cosí florido, vide che lo zoppo lo sollevava da ogni fastidio per il bagaglio e, uscito dalla stazione, occupò con Castorp l'alto e duro sedile della carrozzella.

Partirono sotto un bel cielo stellato e Castorp, reclinando la testa e puntando l'indice, illustrò allo ziocugino le regioni celesti, delimitò col gesto e con la parola alcune fulgide costellazioni e citò per nome qualche pianeta,... mentre l'altro, badando alla persona che aveva accanto piú che al cosmo, si domandava se fosse possibile o non sembrasse addirittura pazzesco parlare, lí sul momento, proprio delle stelle invece che di argomenti piú vicini. Da quando possedeva quelle nozioni cosí sicure? chiese a Castorp, il quale rispose che le aveva acquisite, sdraiato la sera sul balcone, in primavera, estate, autunno e inverno. - Come? Di notte si coricava sul balcone? - Certo. E il console avrebbe fatto altrettanto. Non gli sarebbe rimasto altro. Sicuro, s'intende disse Tienappel compiacente e un po' intimorito. Il suo fratello adottivo parlava con calma monotona. Senza cappello, senza soprabito era seduto accanto a lui nella frescura quasi gelata della sera. Di', non hai freddo? domandò James il quale sotto il panno grosso un dito tremava, mentre le parole gli uscivano frettolose e a un tempo paralizzate, perché i suoi denti manifestavano la tendenza a battere gli uni contro gli altri. Noi non abbiamo freddo rispose Castorp, breve e tranquillo. Il console non si stancava di guardarlo di profilo. Castorp non chiese notizie né dei parenti né dei conoscenti. I saluti di laggiú, recati da James, anche quelli di Joachim che era già al reggimento, raggiante di gioia e di orgoglio, li accolse ringraziando pacatamente, senza soffermarsi sulle condizioni di casa sua. Turbato da qualcosa di indefinibile che non capiva se provenisse dal nipote o forse da lui stesso, dallo stato di salute dopo il viaggio, James si guardava in giro senza distinguere i particolari del paesaggio d'alta montagna, e dopo aver respirato profondamente dichiarò che l'aria era meravigliosa. Certo, rispose l'altro, non per nulla era cosí celebre, possedeva qualità egrege. Benché accelerasse la combustione generale, il corpo acquistava albumina. Poteva guarire, aggiunse, malattie che tutti hanno dentro di sé latenti, ma in un primo tempo le alimentava con energia e mediante una generale spinta organica le portava, per cosí dire, a una festosa eruzione. Scusa, come? Festosa? Certo. E' non aveva mai notato che lo scoppio di una malattia ha un che di festoso, è una specie di divertimento del fisico? Sicuro, s'intende s'affrettò a dire lo zio, con la mascella tremante, e a comunicare che intendeva trattenersi otto giorni, cioè una settimana, dunque sette giorni, forse anche so]tanto sei. E siccome - rifletteva - aveva visto che, grazie a un soggiorno di cura prolungatosi al di là di ogni previsione, l'aspetto di Hans era eccellente e irrobustito, suppose che questi sarebbe senz'altro ritornato a casa insieme con lui. Eh, non precipitiamo le cose disse Castorp: lo zio parlava come la gente di laggiú; era opportuno che stesse un po' a guardarsi in giro e ad acclimarsi, poi avrebbe certo cambiato parere. Importante era guarire perfettamente, decisiva era la guarigione perfetta e recentemente Behrens gli aveva rifilato ancora sei mesi. A questo punto lo zio lo chiamò "giovanotto" e gli domandò se era matto.

Come? ormai aveva fatto cinque trimestri di vacanza, e si parlava di altri sei mesi? In nome di Dio, non si poteva disporre di tanto tempo! Castorp, guardando tranquillamente le stelle, fece una risatìna. Oh, il tempo! Proprio in merito al tempo, al tempo umano, James doveva rivedere anzitutto i vieti concetti, prima di poter dire la sua "quassú tra noi". Infatti, l'indomani stesso, per il bene di Hans, avrebbe parlato seriamente col consigliere, promise Tienappel. Fallo! lo esortò Castorp. Ti piacerà. E' un tipo interessante, energico e, a un tempo, malinconico. Poi indicò i lumi del sanatorio Schatzalp e accennò alle salme che si facevano scendere per la pista dei bob. I due signori cenarono insieme nel ristorante del Berghof dopo che Hans ebbe accompagnato l'ospite nella camera di Joachim dandogli modo di rinfrescarsi un po'. Con H2CO, disse, era stata disinfettata la camera, radicalmente, come se non si fosse trattato di una partenza arbitraria, ma di una ben diversa, non di un exodus, ma di un exitus. E come lo zio ne chiese il significato, Castorp rispose: Gergo. Modi di dire. Joachim è disertato... presentandosi al comando: anche questo succede. Ma ora spicciati, se vuoi trovare ancora cibi caldi! . Si sedettero dunque, l'uno di fronte all'altro, nel dolce tepore del ristorante, a una delle tavole sopraelevate. La nana li serví agile e svelta, e James ordinò una bottiglia di Borgogna che venne in tavola adagiata in un cestello. Toccarono i bicchieri e si lasciarono cosí penetrare dal dolce calore del vino. Il giovane parlò della vita che si faceva lassú nell'avvicendarsi delle stagioni, di singole apparizioni nella sala da pranzo, del pneumotorace, di cui spiegò la natura ricorrendo al caso del buon Ferge, dilungandosi sull'atrocità dello choc pleurico, ricordando anche i tre colori degli svenimenti che Ferge sosteneva di aver notati, l'allucinazione dell'olfatto che aveva avuto la sua parte nello choc e la risata nel momento in cui Ferge stava spegnendosi. Questi fece le spese della conversazione. James mangiò e bevve abbondantemente com'era sua consuetudine e oltre a ciò con un appetito aguzzato dal viaggio e dal cambiamento d'aria. Ciò nonostante si interrompeva ogni tanto e stava lí, con la bocca piena di cibo che dimenticava di masticare, il coltello e la forchetta ad angolo ottuso sopra il piatto, a osservare immobile suo nipote, forse senza saperlo e senza che questi mostrasse di accorgersene. Le vene alle tempie del console, coperte di radi capelli biondi, apparivano gonfie. Non trattarono argomenti di famiglia, né personali, né cittadini, né di affari, non parlarono della ditta Tunder & Wilms, cantiere navale, fabbrica di macchine e produzione di caldaie, che ancora aspettava l'arrivo del giovane praticante; ma naturalmente non era questa la sua unica occupazione, sicché veniva fatto di chiedere se in realtà aspettasse ancora.

Tienappel aveva bensí toccato questi argomenti durante il tragitto in carrozza e dopo, ma erano caduti nel vuoto spenti e morti,... rimbalzati dalla tranquilla, decisa e spontanea indifferenza, da una specie di immunità intoccabile che rammentava la sua insensibilità al freddo della sera autunnale e al suo "Noi non abbiamo freddo", e forse era la causa per cui suo zio lo guardava ogni tanto con insistenza. Il discorso si aggirò anche intorno alla superiora, ai medici, alle conferenze del dottor Krokowski - per caso James, se rimaneva otto giorni, avrebbe assistito a una di esse. Chi diceva a Castorp che suo zio aveva voglia di ascoltare la conferenza? Nessuno. Egli lo presuppose, lo considerò un accordo preso con tanta calma e sicurezza che a quello già l'idea di non parteciparvi dovette apparire sotto una luce anormale, sicché cercò di prevenire con un frettoloso Sicuro, s'intende il sospetto che per un momento avesse potuto concepire un gesto impossibile. Questa era la forza, la cui vaga, ma imperiosa sensazione spingeva inconsciamente Tienappel a osservare il nipote,... a bocca aperta, ora, perché le vie respiratorie del naso gli si erano chiuse, benché non gli constasse di essere costipato. Ascoltava il parente che discorreva del male, argomento interessante per tutti lassú, e della sua disposizione a prenderlo; del caso suo, di Hans, modesto, ma di lunga durata; dell'irritazione che i bacilli producono nelle cellule delle ramificazioni dei bronchi e nelle vescichette polmonari; della formazione dei tubercoli e dei solubili veleni inebrianti; della composizione delle cellule e del processo di caseificazione, nel quale bisogna poi vedere se attraverso la calcificazione e la cicatrizzazione del tessuto connettivo si arriva a un salutare arresto o se con l'allargarsi dei focolari di ammollimento le cavità si estendono fino a distruggere l'organo. Lo sentí parlare della forma paurosamente accelerata, galoppante, di questo processo, che già in qualche mese, persino in settimane porta all'exitus; parlare di pneumotomie, arte nella quale il consigliere era maestro, di resezioni polmonari come quella che doveva effettuarsi l'indomani o prossimamente nel caso di una malata grave, appena arrivata, una scozzese già bellissima, colpita da gangraena pulmonum al punto da essere invasa da una peste verde-nerastra e da dover fare tutto il giorno inalazioni di acido fenico per non perdere la ragione dallo schifo di se stessa; ed ecco che d'improvviso, senza che lui stesso se l'aspettasse e con sua grande vergogna, il console esplose, scoppiò a ridere sbuffando, si ravvide subito e si dominò, tossí e cercò in tutti i modi di mascherare l'atto inconsulto,... notando però per sua tranquillità (motivo a sua volta di nuova inquietudine) che Castorp non si curò dell'incidente, il quale non gli poteva essere sfuggito, ma vi passò sopra invece con una noncuranza che non era riguardo, tatto, cortesia, ma mera indifferenza, intangibilità, sopportazione addirittura inquietante, come se egli avesse ormai disimparato a sentirsi colpito da simili eventi. Ma fosse il desiderio di coprire successivamente la sua esplosione di allegria con un velo di buon senso o fosse qualche altro motivo, il console sbrigliò a un tratto un discorso da circolo maschile e, con le vene del capo gonfie, si mise a parlare di una cosí detta "chansonnette", una canzonettista scatenata che in quei giorni faceva un gran chiasso a St. Pauli e con la sua vivacità affascinante (egli la descrisse al nipote) teneva col fiato sospeso tutto l'ambiente maschile della natia repubblica.

Mentre raccontava, la sua lingua era un po' incerta, ma non era il caso che se ne facesse un cruccio, perché l'impassibile tolleranza del suo commensale si estendeva evidentemente anche a questo fenomeno. Se non che, l'eccessiva stanchezza che gli veniva dal viaggio divenne a poco a poco cosí palese che già verso le dieci e mezzo egli propose di levare le tende e non fu affatto lieto di dover ancora incontrare nel vestibolo il piú volte menzionato dottor Krokowski che, seduto davanti alla porta di un salotto, stava leggendo il giomale. Dopo che suo nipote lo ebbe presentato, non seppe rispondere alle parole virili e cordiali del dottore nient'altro, si può dire, che Sicuro, s'intende , e fu ben contento quando Hans, con l'avvertimento che l'indomani mattina alle 8 sarebbe venuto a prenderlo per la colazione, si fu ritirato per la via del balcone dalla camera disinfettata di Joachim nella propria, e con la consueta sigaretta della sera poté stendersi nel letto del transfuga. Mancò un pelo che provocasse un incendio poiché due volte fu sul punto di addormentarsi con la spagnoletta accesa fra le labbra. James Tienappel che Hans chiamava a volta a volta "zio James ' o soltanto "James era un uomo sulla quarantina, con le gambe lunghe, portava abiti di stoffa inglese e biancheria candida, aveva i capelli un po' radi, d'un giallo canarino, gli occhi azzurri ravvicinati, baffetti color paglia, scorciati, rasi per metà, e mani curatissime. Marito e padre da alcuni anni, senza che per questo avesse dovuto lasciare la spaziosa villa del vecchio console sul Harvestehuder Weg; sposato con una appartenente alla sua cerchia sociale, altrettanto fine e civile quanto lui, dall'ugual modo di parlare sommesso, veloce e cortesemente arguto, era in casa un uomo d'affari molto energico, accorto e, nonostante l'eleganza, freddamente obiettivo, ma in paesi di costumi diversi, durante i viaggi, per esempio nel mezzogiorno, assumeva una certa precipitosa affabilità, una gentile e premurosa disposizione alla rinuncia, la quale non manifestava affatto una mancanza di sicurezza della propria civiltà, anzi al contrario, la coscienza dell'equilibrio di essa, insieme col desiderio di correggere la sua limitazione aristocratica e di non far notare il suo stupore nemmeno in mezzo a forme di vita che gli sembrassero incredibili. Naturalmente, certo, s'intende s'affrettava a dire, affmché nessuno pensasse che era, sí, una persona fine, ma limitata. Pur essendo venuto con una particolare e determinata missione, con l'incarico cioè e l'intenzione di osservare sul serio se tutto era in ordine, di "svincolare", come diceva tra sé, il giovane parente moroso e di riportarlo a casa, si rendeva perfettamente conto che operava su territorio estraneo,... in preda fin dal primo istante al vivo presentimento di essere stato accolto come ospite in un mondo e in un complesso di costumi che per equilibrio e sicurezza di sé non solo non erano da meno dei suoi, ma li superava persino, di modo che la sua energia di uomo d'affari si trovò subito in disaccordo con la sua buona educazione, e in disaccordo profondo, poiché la sicurezza di sé nell'atmosfera locale si rivelò davvero soverchiante. Proprio questo aveva previsto Castorp quando al telegramma del console aveva reagito tra sé con un pacato "Padronissimo !", ma non si deve credere che volesse sfruttare la forza morale dell'ambiente ai danni dello zio. No, sotto questo aspetto era da troppo tempo parte di quell'ambiente, e non fu lui a servirsene contro l'aggressore, bensí viceversa, di maniera che tutto si svolse con obiettiva semplicità, dal momento in cui il

console aveva ricevuto dalla persona del nipote una vaga impressione e un primo presentimento della vanità della sua impresa sino alla fine e alla conclusione che Castorp non poté fare a meno di accompagnare con un malinconico sorriso. La prima mattina, dopo la colazione, durante la quale il residente presentò l'ospite alla cerchia dei commensali, Tienappel apprese dal consigliere Behrens, il quale, lungo e colorito, seguito dal pallido e nero assistente, arrivò remigando nella sala per farvi un rapido giro con la mattutina domanda Dormito bene? ,... apprese, diciamo, non solo che aveva avuto una luminosa idea balorda venendo a fare un po' di compagnia al solitario nipote, ma che aveva fatto bene anche per la sua propria persona, perché era evidentemente anemico all'ultimo stadio. Anemico, lui, Tienappel? E come! soggiunse Behrens abbassandogli con l'indice una delle palpebre. Gravemente! disse, e il signor zio avrebbe agito da furbone se per qualche settimana si stendeva quant'era lungo, comodamente, sul balcone e, in genere, seguiva l'esempio del nipote; nelle sue condizioni non poteva fare nulla di piú illuminato che vivere un po' come nel caso di una leggera tuberculosis pulmonum, che d'altronde non c'è chi non l'abbia. Sicuro, s'intende! disse subito il console e stette un po' a guardare a bocca aperta e con premurosa cortesia il medico dal collo grosso che si allontanava remando, mentre il nipote gli stava vicino calmo e impassibile. Poi uscirono per la passeggiata, che era la cosa più opportuna, fino alla panca presso il ruscello, e al ritorno James Tienappel passò la sua prima ora sulla pol trona a sdraio; istruito da Hans che in aggiunta allo scial le da viaggio gli prestò una delle sue coperte di cammello (dato il bel tempo autunnale una per lui era piú che sufficiente) e gli apprese, mossa per mossa, la tradizionale arte di invilupparsi,... anzi, dopo aver arrotolato e lisciato il console come una mummia, disfece tutto per fargli ripetere da solo, salvo l'aiuto di qualche ritocco, l'immutabile procedimento, e gli insegnò a fissare sulla poltrona l'ombrellino di tela e a regolarlo in modo da ripararsi dal sole. Il console faceva lo spiritoso. Lo spirito della pianura era ancora vigoroso in lui, sicché egli si faceva beffe di ciò che apprendeva, come già si era fatto beffe dell'austera passeggiata dopo colazione. Ma quando notò il sorriso quieto e privo di comprensione col quale Hans accoglieva le sue facezie e nel quale si rispecchiava tutta l'equilibrata sicurezza di sé vigente nelle consuetudini di lassú, ebbe paura, vide in pericolo la sua energia di uomo d'affari e deliberò senz'altro di promuovere il decisivo colloquio col consigliere per la questione del nipote immediatamente, al piú presto, quello stesso pomeriggio, fin tanto che poteva disporre dello spirito suo, delle forze che aveva recate dal basso; sentiva infatti che queste si dileguavano, che lo spirito locale si alleava con la sua buona educazione formando contro di esse una pericolosa lega nemica. Sentiva inoltre che il direttore gli aveva fatto la quanto mai superflua raccomandazione di adeguarsi, a causa dell'anemia, alle usanze dei malati: era, a quanto sembrava, un avvertimento ovvio, senza altre possibilità, e da principio una persona ben educata non era in grado di distinguere fino a qual punto ciò sembrasse soltanto, in virtú della calma e dell'imperturbabile sicurezza di sé dimostrata da Hans, e fin dove invece, in via assoluta, nient'altro fosse realmente possibile e pensabile.

Nulla poteva essere piú lampante del fatto che dopo la prima tappa della cura a sdraio venisse l'abbondante seconda colazione, seguita in modo convincente dalla discesa a Platz,... dopo di che Castorp riavviluppò suo zio. Lo avviluppò, è la parola giusta. E, al pari di se stesso, lo tenne coricato al sole d'autunno su una sedia la cui comodità era innegabile, anzi encomiabilissima, finché il rombo del gong, chiamò a un pasto meridiano nella cerchia dei pazienti, che risultò di prim'ordine, eccellente e cosí copioso da far capire che il susseguente obbligo generale di coricarsi non era soltanto una consuetudine esteriore, ma qualcosa di piú, un'interna necessità, ed era osservato per convinzione personale. Cosí si continuò fino alla lauta cena e al ritrovo serale nel salotto dei lepidi strumenti ottici: contro un regolamento giornaliero che s'imponeva con cosí ovvia semplicità non ci sarebbe stato proprio nulla da ridire, se le facoltà critiche del console non fossero state depresse da una sensazione che egli non voleva addirittura definire malessere, che però si componeva di un molesto insieme di stanchezza e agitazione voleva addirittura definire malessere, che però si compocon un alternarsi di calore e brividi di freddo. Per ottenere l'ansiosamente desiderato colloquio col consigliere Behrens si era percorsa la via gerarchica: Castorp aveva fatto la proposta al bagnino e questo l'aveva trasmessa alla superiora che in questa occasione Tienappel conobbe in tutta la sua stranezza, poiché comparve sul suo balcone e con curiose consuetudini mise a dura prova la buona educazione del pover'uomo avviluppato in forma di cilindro. Si sentí dire "egregio figlio mio" e pregare di attendere, per favore, qualche giorno, il consigliere era impegnato, operazioni, visite generali, l'umanità sofferente aveva la precedenza secondo i principi cristiani, e siccome asseriva di essere sano, doveva intanto abituarsi a non essere il numero uno, ma a stare indietro e a pazientare. Era invece un altro paio di maniche se desiderava di essere visitato,... e lei, Adriatica, non se ne sarebbe affatto stupita; lo invitò a guardarla ben bene negli occhi, sí, i suoi occhi erano un po' torbidi e sfiaccolanti, e a vederlo lí cosí disteso, si sarebbe detto, tutto sommato, che non era del tutto a posto, non regolare, ecco. Proponeva dunque una visita medica o un colloquio privato? Quest'ultimo, s'intende, un colloquio personale! assicurò il giacente. Allora doveva aspettare finché gli fosse data risposta: rare volte il consigliere aveva tempo per conversazioni private. Tutto si svolse, insomma, diversamente da come James aveva immaginato, e il colloquio con la superiora aveva vibrato una potente botta al suo equilibrio. Troppo civile per dire sgarbatamente al nipote (il cui accordo con le manifestazioni di lassú appariva chiaramente dalla sua imperturbabile tranquillità) che quella donna gli pareva ripugnante, arrischiò la cauta osservazione che la superiora doveva essere una dama alquanto originale: Castorp col naso all'aria come per riflettere, lo ammise in parte e replicò domandando a sua volta se la Mylendonk gli aveva venduto un termometro. No. A me! E' questo il suo compito? ribatté lo zio...

Ma il peggio era e lo si capiva dalla faccia del nipote, che non si sarebbe meravigliato neanche se il fatto fosse realmente accaduto. "Noi non abbiamo freddo" stava scritto su quella faccia. Il console invece si sentiva gelare, sempre gelare nonostante la testa gli scottasse, e pensò che, se la superiora gli avesse davvero offerto un termometro, egli lo avrebbe respinto, ma in fondo non avrebbe agito bene, perché non era da persona civile usarne uno altrui, per esempio quello di suo nipote. Cosí passarono alcuni giorni, quattro o cinque. La vita del messaggero filava su rotaie,... su quelle che avevano posato davanti a lui, e che potesse filare fuori di esse sembrava un'eventualità impensabile. Il console fece le sue esperienze, riportò le sue impressioni... Non lo vogliamo seguire passo per passo. Un giorno nella camera di Hans prese in mano una lastrina di vetro nero che tra ninnoli personali, disposti dall'inquilino a ornare la sua pulita dimora, stava sul canterano, sorretta da un minuscolo cavalletto intagliato, e vista contro luce risultò essere una negativa fotografica. Che roba è questa? domandò lo zio esaminandola... Domanda giustificata: il ritratto era privo della testa, si vedeva lo scheletro d'un torace entro un nebuloso rivestimento di carne; a quanto si capiva, un torso femminile. Codesta? Un ricordo rispose Castorp. Lo zio disse: Scusa! , ripose l'immagine sul cavalletto e si allontanò rapidamente. Questo, per dare un esempio delle sue esperienze e impressioni in quei quattro o cinque giorni. Assistette anche a una conferenza del dottor Krokowski, perché non era pensabile che si potesse evitarla. E in quanto alla desiderata conversazione con Behrens, la ottenne il sesto giorno. Fu mandato a chiamare e dopo colazione scese nel sotterraneo, risoluto a parlare seriamente di suo nipote e del tempo che consumava. Quando risalí domandò con voce un po' fioca: S'è mai sentita una cosa simile? Ma era evidente che Hans aveva già sentito una cosa simile, e nemmeno ora avrebbe avuto freddo; perciò troncò il discorso e, alla domanda poco interessata del nipote, rispose soltanto: Oh, niente, niente , ma da quel momento adottò una nuova consuetudine: di guardare cioè di sbieco un punto qualsiasi in alto, con le sopracciglia aggrottate e sporgendo le labbra, di voltare poi la testa di scatto e di dirigere quello stesso sguardo in direzione opposta. Si era svolto anche il colloquio con Behrens in modo diverso da quello che aveva immaginato. Si era finito col parlare non solo di Hans Castorp, ma anche di lui, James Tienappel, in maniera da togliere al colloquio il tono di conversazione privata. Dal suo contegno lo si poteva dedurre. Il console era di ottimo umore, chiacchierava volentieri, rideva senza motivo e dava colpetti nel fianco al nipote esclamando: Eh, vecchio mio! . E ogni tanto lanciava quello sguardo, prima di qua, poi di là. I suoi occhi però seguivano itinerari piú definiti, sia a tavola, sia alle passeggiate di servizio e alle riunioni serali. Sulle prime il console non aveva prestato particolare attenzione a una certa signora Redisch, moglie di un industriale polacco, che sedeva alla tavola della signora Salomon, temporaneamente assente, e allo scolaro

vorace, quello con gli occhi rotondi; e di fatti era una paziente della veranda comune come tante altre, una bruna traccagnotta e grossa, non piú giovanissima, già un po brizzolata, ma con un grazioso doppio mento e vivaci occhi castani. Neanche da pensare che per civiltà potesse misurarsi con la consorte del console Tienappel laggiú in pianura. Ma la domenica sera, dopo cena, nel vestibolo, il console, attirato dallo scollato abito nero con lustrini che quella portava, aveva fatto la scoperta che la signora Redisch possedeva dei seni d'un bianco opaco, seni femminili molto compressi, la cui partizione era messa alquanto in mostra, e quella scoperta aveva scombussolato ed entusiasmato l'uomo fine e maturo fino in fondo all'anima, come se avesse un'importanza del tutto nuova, impensata e inaudita. Cercò e ottenne di essere presentato alla signora, s'intrattenne a lungo con lei, prima in piedi, poi seduto, e andò a dormire cantando. Il giorno seguente la Redisch non portava piú l'abito coi lustrini, ma era tutta coperta: il console però sapeva quel che sapeva, e rimase fedele alle sue impressioni. Fece tutto il possibile per incontrarla alle passeggiate e accompagnarla discorrendo, rivolgendosi a lei e chinandosi con particolare grazia e deferenza, a tavola bevve alla sua salute, e lei ricambiò facendo lampeggiare nel sorriso le capsule d'oro che rivestivano alcuni suoi denti, e parlando con suo nipote egli la definí addirittura "donna divina",... dopo di che si rimise a cantare. Hans accolse tutto ciò con tranquilla tolleranza, come se non potesse essere altrimenti. Ma ciò non accrebbe l'autorità del parente piú anziano, né s'accordava con la missione del console. Al pasto, durante il quale salutò la signora Redisch alzando il bicchiere, e non una ma due volte, al pesce in guazzetto e poi al gelato, il consigliere Behrens partecipava seduto alla tavola di Castorp e del suo ospite: si sedeva, sappiamo, a turno a una delle sette tavole e sempre gli era riservato il posto a capotavola. Giunte le grosse mani davanti al piatto, stava con la barbetta arricciata tra Wehsal e il gobbo messicano, al quale parlava spagnolo - sapeva tutte le lingue, anche il turco e l'ungherese -, e vide con quegli occhi azzurri, lacrimosi, arrossati, il console Tienappel che col bicchiere di Bordeaux salutava la Redisch. In seguito, durante il pasto, tenne un breve discorso, spintovi da James che attraverso la tavola quant'era lunga gli chiese a bruciapelo come avviene la putrefazione dell'uomo. Siccome aveva studiato i fenomeni del corpo, il corpo era espressamente il suo campo, egli era, per cosí dire, una specie di suo sovrano, poteva pertanto spiegare in che modo si svolga il dissolvimento del corpo! Prima di tutto le scoppia la pancia rispose Behrens puntando i gomiti sulla tavola, chino sulle mani intrecciate. Lei è disteso sui suoi trucioli e sulla segatura, e i gas, capisce, la gonfiano, la gonfiano enormemente, come i monelli fanno con le rane quando le empiono di aria, ...infine diventa un vero pallone, e allora la pelle dell'addome non resiste alla pressione e scoppia, trac! Lei si alleggerisce notevolmente, fa come Giuda Iscariota quando cadde dal ramo: si svuota. Ecco, cosí diventa, si può dire, di nuovo adatto alla vita di società. Se ottenesse una licenza, potrebbe andare a trovare i suoi superstiti senza urtare nessuno. Passeggiando all'aria fresca uno torna a essere garbato e presentabile come i cittadini di Palermo allineati nei corridoi sotterranei dei cappuccini a Porta Nuova.

Stanno là allineati e rinsecchiti e godono la stima di tutti. Liberarsi dai gas: ecco quello che conta. S'intende disse il console. Le sono molto grato. E l'indomani mattina era scomparso. Via se n'era andato, partito col primissimo trenino, verso la pianura,... beninteso non senza aver regolato le sue pendenze: cosa piú che ovvia. Aveva saldato il conto, versato l'onorario di una visita, preparato, senza neanche dire una parola al nipote, le due valigie - l'aveva fatto probabilmente la sera o verso il mattino quando tutti dormivano - e quando, all'ora della prima colazione, Castorp entrò nella camera dello zio, la trovò sgombra. Rimase là con le mani sui fianchi e disse: Guarda un po' . A quel punto si formò sulla sua faccia il sorriso malinconico. Già aggiunse e annuí. Quello aveva tagliato la corda, a precipizio, in tutta fretta e in silenzio, quasi approfittando della decisione di un istante e temendo di lasciarsela scappare, aveva ficcato la sua roba nelle valigie e se l'era data a gambe: solo, non in due, non dopo aver assolto la sua onorevole missione, ma arcicontento di svignarsela sia pur solo, lui, il galantuomo disertore, verso il vessillo della pianura, lo zio James. Be', buon viaggio ! Castorp non fece capire a nessuno di non aver saputo nulla dell'imminente partenza dello zio venuto a trovarlo, men che meno allo zoppo che aveva accompagnato il console alla stazione. Dal Lago di Costanza gli giunse una cartolina: James gli comunicava di aver ricevuto un telegramma che lo richiamava immediatamente al piano. E non aveva voluto disturbare il nipote (cortese bugia). "E buona permanenza!" Era ironia? In tal caso era una ironia fittizia, secondo Castorp, perché lo zio non aveva certo avuto voglia di scherzare quando si era affrettato a partire, ma si era accorto, in cuor suo e con la fantasia si era accorto e spaventato all'idea che, ritornando al piano dopo otto giorni di soggiorno lassú, per parecchio tempo gli doveva sembrare sbagliato, innaturale, illecito non fare la passeggiata d'obbligo dopo la prima colazione e non distendersi, ritualmente avvolto nelle coperte, in posizione orizzontale all'aria aperta, ma andare invece in ufficio. E questa paurosa osservazione era stata causa immediata della sua fuga. Cosí si conchiuse il tentativo della pianura di recuperare il fuoruscito Hans Castorp. Il giovane non si nascose che il completo fallimento, da lui previsto, aveva una importanza decisiva per i suoi rapporti con la gente di laggiú. Significava per loro la rinuncia definitiva, accompagnata da una scrollata di spalle, per lui la completa libertà che non gli faceva piú tremare il cuore. Operationes spirituales. Leo Naphta era oriundo di un borgo presso il confine tra la Galizia e la Volinia. Suo padre, del quale parlava con rispetto, evidentemente nella convinzione di essersi a poco a poco allontanato abbastanza dal suo mondo primitivo per poterne dare un giudizio con benevolenza, vi aveva fatto lo sciochèt, il macellatore... professione che era ben diversa da quella del macellaio cristiano, semplice operaio e commerciante. Non cosí il padre di Leo: questi era un funzionario, e precisamente nell'ambito sacerdotale.

Esaminato dal rabbino circa la sua abilità, da lui autorizzato a uccidere bestie da macello secondo la legge di Mosè, conformemente ai precetti del Talmud, Elia Naphta, i cui occhi azzurri, a sentire il figlio, emanavano una luce stellare ed erano pregni di una pacata spiritualità, aveva nella sua persona un tono sacerdotale, una solennità che faceva pensare come nei tempi antichi l'uccisione degli animali da macello fosse realmente una prerogativa dei sacerdoti. Se aveva potuto assistere alle scene in cui suo padre, nel cortile, con l'aiuto di un servo robusto - un giovane ebreo di forme atletiche, vicino al quale l'esile Elia con la sua barba bionda appariva ancor piú mingherlino e delicato - esercitava il suo ufficio rituale e vibrando il coltellaccio, lo sciachot, contro la bestia legata e imbavagliata, ma non stordita, la colpiva con un taglio profondo nella regione delle vertebre del collo, mentre il servo raccoglieva il sangue, erompente e fumante, in ciotole subito piene, Leo, o "Laib", come lo chiamavano nella sua infanzia, aveva accolto siffatti spettacoli con quegli sguardi infantili che attraverso il fatto concreto penetrano nell'essenziale e dovevano essere particolarmente connaturali al figlio di Elia dagli occhi stellanti. Sapeva che i macellai cristiani, prima di uccidere le loro bestie, erano tenuti a stordirle con un colpo di clava o di scure, e con questo precetto si volevano evitare il maltrattamento degli animali e la crudeltà; mentre suo padre, benché tanto piú mite e dotto di quei villani, e per giunta dotato di occhi stellanti come nessuno di loro, agiva secondo la legge inferendo all'animale ancora in sé il colpo mortale e lasciandolo dissanguarsi finché crollava. Da ragazzo "Laib" sentiva che il metodo di quei grossolani gojim era dettato da una bonarietà fiacca e profana, la quale non rispettava l'elemento' sacro quanto lo rispettava il solenne e spietato rito paterno, e l'idea della religiosità gli pareva legata a quella della crudeltà esattamente come nella sua fantasia la vista e l'odore del sangue sgorgante si univa al concetto di sacro e spirituale. Capiva molto bene, infatti, che suo padre non aveva scelto quel cruento mestiere per il gusto brutale che ci potevano trovare robusti giovanotti cristiani o magari il proprio servo ebreo, bensí per inclinazione spirituale e, data la sua fragilità fisica, in conformità ai suoi occhi stel lanti. Elia Naphta era davvero portato a meditare e almanaccare, e non solo a studiare la Thorà, ma anche a criticare la Scrittura, i cui versetti discuteva col rabbino, arrivando non di rado a liti e diverbi. Nella regione, e non soltanto tra i correligionari, era considerato uomo eccezionale, che sapeva piú di altri, in parte sul piano religioso, ma d'altronde anche in un modo che poteva parere sospetto e in ogni caso era fuori dell'ordinario. Aveva un che di settario, di irregolare, quasi fosse un confidente di Dio, Un BaalScem o Zaddik, ossia taumaturgo, tanto piú che una volta aveva guarito una donna da un'eruzione maligna, un'altra volta un bambino dalle convulsioni, mediante sangue e versetti. Ma proprio questo nimbo di religiosità in certo senso ardita, nella quale l'odor di sangue del suo ufficio aveva la sua parte, fu la sua rovina. In una sommossa popolare, nella furia di un panico, provocato dall'oscura morte di due bambini cristiani, Elia era morto di una morte spaventosa: l'avevano trovato crocefisso e inchiodato alla porta della sua casa in fiamme, dopo di che sua moglie, benché tisica e costretta a letto, era fuggita dal paese insieme coi figli, il ragazzo "Laib" e quattro fratelli, tutti con le braccia levate al cielo tra urli e lamenti.

Non del tutto priva di mezzi e grazie alla previdenza di Elia, la famiglia cosí colpita si era stabilita in una cittadina del Vorarlberg, dove la signora Naphta aveva trovato lavoro in una filanda di cotone, e a quel lavoro accudiva fin dove e fin tanto che le forze glielo consentivano, mentre i ragazzi piú grandicelli frequentavano la scuola elementare. Ma, se i contributi intellettuali offerti da quella scuola poterono soddisfare la capacità e i bisogni dei fratelli di Leo, non erano neanche lontanamente sufficienti per lui, il maggiore. Dalla madre aveva ereditato il germe del mal di petto, dal padre invece, oltre alla gracilità delle membra, un'intelligenza straordinaria, doti intellettuali che assai presto si fusero con istinti di alterigia, di superiori ambizioni, di tormentosa aspirazione a forme d'esistenza piú elevate, e lo incitarono a ol trepassare con tutta la sua tenacia gli orizzonti della propria origine. Oltre alla scuola il quattordicenne e quindicenne aveva perfezionato, impaziente e senza regola, la sua mente con libri che aveva saputo procurarsi, e apportato ulteriori alimenti al suo cervello. Pensava ed esprimeva pensieri che inducevano quella malandata di sua madre a ritirare la testa fra le spalle e a sollevare le mani consunte. Col carattere e con le sue risposte nelle ore di religione attirò l'attenzióne del rabbino distrettuale, uomo dotto e pio, che cominciò a impartirgli lezioni private appagando il suo istinto formale con l'insegnamento del l'ebraico e delle lingue classiche, le sue tendenze logiche con l'avviamento alla matematica. Il buon uomo però ne fu ricompensato molto male; sempre piú si avvide di aver nutrito una serpe in seno. Come a suo tempo tra Elia Naphta e il suo rabbino, cosí avvenne qui: non andavano d'accordo, tra maestro e alunno scoppiarono attriti religiosi e filosofici sempre piú aspri, e l'onesto esegeta della Scrittura ebbe a soffrirne le pene dell'inferno per la protervia intellettuale, la scettica pedanteria, lo spirito di contraddizione, la tagliente dialettica del giovane Leo. Non basta: la cavillosità di quest'ultimo e la sua irrequietezza avevano finito con l'assumere un'impronta rivoluzionaria: l'incontro col figlio di un deputato socialista e con questo stesso eroe delle masse lo incamminò per sentieri politici, imprimendo alla sua smania logica un indirizzo di critica sociale: teneva discorsi che al buon talmudista, cui stava a cuore la propria lealtà, facevano rizzare i capelli e diedero infine il tracollo all'intesa tra insegnante e allievo. Insomma, si era arrivati al punto che Naphta fu ripudiato dal maestro ed espulso per sempre dal suo studio, e proprio in un periodo di cui sua madre, Rachele Naphta, stava morendo. Ma allora, subito dopo il decesso della mamma, Leo era venuto a contatto col padre Unterpertinger. Il sedicenne se ne stava solo soletto su una panchina nel parco del cosí detto "Margaretenkopf', un'altura a occidente della cittadina, sulla riva dell'Ill donde si godeva un vasto e ameno panorama della valle del Reno; se ne stava là seduto, assorto in tristi e amare considerazioni della sua sorte e del suo avvenire, allorché un membro del corpo insegnante d'un collegio di gesuiti, noto col nome di "Stella Mattutina", venne a sedersi al suo fianco, depose il cappello sulla panca, accavalciò le gambe sotto la veste di prete secolare e dopo aver letto un po' il breviario attaccò una conversazione che divenne molto vivace e per il destino di Leo doveva riuscire decisiva.

Il gesuita, uomo navigato, colto e cortese, appassionato pedagogo, conoscitore e pescatore d'uomini, aguzzò le orecchie alle prime risposte che il misero giovinetto ebreo diede con ironica chiarezza alle sue domande. Vi notò un'arguta e angosciata spiritualità e andando avanti scoprí un sapere, una maligna eleganza di pensiero che il cencioso aspetto del giovane rendeva ancora piú sorprendente. Parlarono di marx, del quale Leo aveva letto Il capitale in una edizione popolare, poi passarono a Hegel del quale e intorno al quale aveva pure letto abbastanza da poter dire qualche parola personale. Fosse la sua tendenza al paradosso o l'intenzione di mostrarsi cortese, fatto è che chiamò Hegel un "pensatore cattolico"; e alla sorridente domanda del padre, come lo si potesse giustificare, dato che Hegel, filosofo di stato in Prussia, doveva pur considerarsi anzitutto ed essenzialmente protestante, rispose che proprio la definizione di "filosofo di stato" veniva a confermare l'esattezza della sua asserzione intorno alla cattolicità di Hegel, in senso religioso, anche se naturalmente non ecclesiastico e dogmatico. Poiché (Naphta amava questa congiunzione d'un amore particolare, sulle sue labbra essa acquistava un che di trionfante, di inesorabile, e quando egli la poteva inserire, i suoi occhi dietro le lenti mandavano lampi), poiché il concetto di politica "è", disse, psicologicamente connesso Con quello di cattolicità, essi formano una categoria che abbraccia tutto quanto è obiettivo, attivo, operoso, realizzabile, volto all'esterno. Di fronte sta il territorio pietista, protestante, derivato dal misticismo. Nel gesuitismo, soggiunse, appare evidente la natura politico-pedagogica del cattolicesimo; l'Ordine ha sempre considerato di sua pertinenza e la politica e l'educazione. Citò inoltre Goethe, il quale, radicato nel pietismo e certamente protestante, ebbe un cospicuo lato cattolico, in virtú del suo oggettivismo e della sua dottrina attivista: oltre a tutto aveva fatto l'apologia della confessione auricolare e in quanto educatore fu quasi un gesuita. Naphta poteva aver esposto queste idee o perché ci credeva o perché gli parevano spiritose o per lisciare l'ascoltatore, da povero diavolo che non può fare a meno di adulare e di calcolare che cosa gli possa giovare, che cosa nuocere; certo è che il padre si era curato meno della loro verità che della complessiva intelligenza dalla quale provenivano; la conversazione si allargò, il gesuita venne a conoscere le condizioni personali di Leo, e l'incontro era terminato con l'invito di Unterpertinger ad andarlo a trovare nel collegio. Cosí Naphta aveva potuto mettere piede sul terreno della "Stella Mattutina, la cui atmosfera, molto esigentesotto l'aspetto scientifico e sociale, aveva acceso da un pezzo la sua fantasia e il suo desiderio; piú ancora: quella svolta gli aveva donato un nuovo maestro e protettore assai piú ben disposto del precedente a stimare e incoraggiare la sua personalità, un maestro la cui bontà, fredda per natura, si fondava sull'esperienza del mondo, e nella cui cerchia Leo agognava di entrare. Come numerosi ebrei intelligenti, Naphta era per istinto un rivoluzionario e aristocratico; socialista... e a un tempo ossesso dal sogno di partecipare a forme di vita nobili e superbe, esclusive e legittime. La prima manifestazione strappatagli dalla presenza d'un teologo, fu, benché frutto di un'analisi puramente comparativa, una dichiarazione d'amore verso la Chiesa romana che gli appariva come potenza ad un tempo nobile e spirituale, cioè antimateriale, antireale e antimondana, quindi rivoluzionaria.

Era un omaggio sincero, derivante dal suo carattere; poiché - come spiegò lui stesso - il giudaismo in virtú della sua tendenza al l'oggettività terrena, del suo socialismo, della sua spiritualità politica, è molto piú vicino all'atmosfera cattolica, le è molto piú affine di quanto non sia il protestantesimo con la sua smania di approfondimento e col suo soggettivismo mistico... come, del resto, la conversione d'un ebreo alla Chiesa di Roma è un procedimento religiosamente piú disinvolto che quella di un protestante. In dissidio col pastore della sua originaria comunità religiosa, orfano e abbandonato, per giunta bramoso di aria piú pura, di forme di vita, alle quali le sue doti gli davano diritto, Naphta, che da un pezzo aveva raggiunto l'età del discernimento, era pronto alla conversione con tanta impazienza che il suo "scopritore" si vide dispensato dalla fatica di conquistare quell'anima o, meglio, quella testa eccezionale al mondo della fede. Già prima di ricevere il battesimo, Leo, per interessamento del padre, aveva trovato alla "Stella" alloggio provvisorio, assistenza materiale e spirituale. Vi si era trasferito affidando i fratelli minori - con la massima tranquillità di spirito, con l'insensibilità dell'intellettuale aristocratico alla carità pubblica e a quel destino che spettava alla loro minore intelligenza. La proprietà terriera dell'istituto era assai vasta, come anche gli edifici che potevano accogliere circa quattrocento alunni. Il complesso abbracciava boschi e pascoli, mezza dozzina di campi da giuoco, case coloniche, stalle per centinaia di mucche. L'istituto era collegio, podere modello, accademia sportiva, scuola di dotti e tempio delle Muse, poiché vi si eseguivano sempre musiche e recite teatrali. Vi si faceva vita signorilmente claustrale. Con la sua disciplina ed eleganza, la sua calma serenità, la sua spiritualità e accuratezza, la precisione della svariata suddivisione della giornata, lusingava i piú profondi istinti di Leo. Il quale era arcibeato. Prendeva i pasti squisiti in un vasto refettorio dove, come anche nei corridoi dell'istituto, regnava l'obbligo del silenzio, mentre nel mezzo, su un'alta cattedra, un giovane prefetto intratteneva i commensali con letture. Nelle ore d'istruzione dimostrava uno zelo ardente e nei pomeriggi, nonostante la debolezza dei polmoni, faceva di tutto per non sfigurare nei giuochi e negli esercizi sportivi. La devozione con la quale ascoltava ogni mattina la messa e alla domenica la funzione solenne, non poteva che far piacere ai padri istruttori. Né era loro di minore gradimento il suo contegno in società. Nel pomeriggio dei giorni festivi, dopo i dolci e il vino, indossata la divisa grigia e verde, col colletto rigido, le bande ai calzoni e il cheppí, andava in fila a fare la passeggiata. Provava un'esultante gratitudine per il riguardo con cui erano trattati la sua origine, il suo cristianesimo recente e in genere le sue condizioni personali. Nessuno sapeva che il suo era un posto gratuito. Il regolamento distraeva l'attenzione dei compagni dal fatto che era senza famiglia, senza patria.

Generalmente era vietato ricevere pacchi di viveri e leccornie: se ciò nonostante ne arrivavano, venivano distribuiti e anche Leo aveva la sua parte. Il cosmopolitismo dell'istituto impediva che le sue impronte razziali dessero nell'occhio. C'erano altri giovani stranieri, sudamericani di origine portoghese, che avevano un aspetto piú ebraico del suo, sicché questo concetto era eliminato. Il principe etiope, che era stato accolto contemporaneamente con Naphta, era addirittura un tipo di moro lanoso, ma molto distinto. Nella classe di retorica, Leo manifestò il desiderio di studiare teologia per entrare un giorno, quando ne fosse reputato degno, nell'Ordine stesso. La conseguenza fu che dal Secondo convitto, dove le spese e il tenore di vita erano piú modeste, passò al Primo. A tavola era ora servito dai domestici e la sua cameretta era contigua da una parte a quella di un conte slesiano von Harbuval e Chamaré, dall'altra a quella di un marchese Rangoni-Santacroce di Modena. Compí gli studi egregiamente e, fedele alla risoluzione, lasciò la vita di alunno del collegio per cominciare il noviziato nella vicina Tisis, una vita di servizi e umiltà, di tacita subordinazione e allenamento religioso, che gli procurava gioie spirituali sulle orme di precedenti concezioni fanatiche. Intanto però la sua salute si andava guastando, non tanto direttamente a causa del rigore di quella vita di candidato, dove non mancavano occasioni di ristoro fisico, quanto piuttosto dall'interno. Le pratiche pedagogiche delle quali era oggetto, sagge e cavillose com'erano, venivano incontro alle sue attitudini intellettuali e le provocavano. Durante gli esercizi spirituali, ai quali dedicava le sue giornate e anche parte delle notti, durante tutti quegli esami di coscienza, quelle considerazioni, osservazioni e indagini, si irretiva, con accanimento malignamente querulo, in mille difficoltà, contraddizioni e controversie. Era la disperazione (anche se a un tempo la grande speranza) del suo direttore spirituale, che da quel furore dialettico e da quella mancanza di semplicità si vedeva tutti i giorni messo con le spalle al muro. Ad haec quid tu? domandava facendo scintillare gli occhiali... E al padre messo alle strette non rimaneva altro che esortarlo alla preghiera per trovare la pace dell'anima: ut in aliquem gradum quietis in anima perveniat . Ma questa "quiete" una volta raggiunta, consisteva in una completa mortificazione della vita propria, in un ridursi a mero strumento, in una pace da cimitero, i cui inquietanti segni esteriori il fratello Naphta poteva scorgere in parecchie fisionomie, dallo sguardo vuoto, che aveva intorno a sé; ed egli non l'avrebbe mai ottenuta se non mediante la rovina del corpo. Se queste lagnanze e rimostranze non recavano alcun nocumento alla stima che godeva, lo si doveva all'alto livello intellettuale dei suoi superiori. Lo stesso padre provinciale lo volle vedere dopo i due anni di noviziato, s'intrattenne con lui, gradí che fosse accolto nell'Ordine; e il giovane scolastico che aveva ricevuto i quattro ordini minori, l'ostiariato, l'accolitato, il lettorato e l'esorcistato, che aveva fatto i voti "semplici" e apparteneva ormai definitivamente alla Societas, partí per il collegio di Falkenburg in Olanda dove iniziò gli studi di teologia.

Aveva allora vent'anni, e tre anni dopo, a causa del clima pernicioso e degli sforzi mentali, il suo male ereditario aveva fatto tali progressi da impedirgli di rimanere là a rischio della vita. Uno sbocco di sangue mise in allarme i suoi superiori i quali, dopo che egli stette per settimane tra la vita e la morte, lo rimandarono, guarito alla bell'e meglio, al punto di partenza. Nel medesimo istituto dove era stato alunno fu impiegato come prefetto, sorvegliante degli allievi e maestro di humaniora e filosofia. Era, d'altronde, un intervallo prescritto, salvo che normalmente dopo pochi anni di servizio si ritornava nel collegio per riprendere e conchiudere il settennio di teologia. Ma ciò fu negato al fratello Naphta. Era sempre malaticcio; il medico e i superiori giudicarono che per il momento era opportuno trattenerlo lí, all'aria buona insieme con gli alunni e in occupazioni agresti. Ricevette bensí il primo ordine maggiore, acquistò il diritto di cantare l'epistola nella solenne funzione della domenica,... diritto che di fatto non esercitò, prima di tutto perché non aveva punto orecchio, e poi perché la voce fessa a causa del male lo rendeva poco adatto al canto. Non giunse però oltre il suddiaconato, né al diaconato e meno ancora al sacerdozio; e siccome le emorragie si ripeterono e la febbre non si decideva a sparire, si era trasferito lassú, a spese dell'Ordine, per un lungo periodo di cura, la quale si trascinava ed era entrata nel sesto anno... Ormai piú che cura, era diventata a poco a poco una categorica condizione di vita, nell'aria rarefatta della montagna, mascherata da una modesta attività di insegnante di latino al ginnasio degli ammalati... Castorp apprese queste cose insieme con altre e piú particolareggiate da Naphta stesso, conversando quando andava a trovarlo nella serica cella, solo o in compagnia dei commensali Ferge e Wehsal, che egli vi aveva introdotti; o quando lo incontrava durante una passeggiata e rientrava con lui a Dorf; le apprese occasionalmente, a pezzi e bocconi o sotto forma di racconti continuati, e gli parvero degnissime di nota non solo per sé, ma incoraggiò anche Ferge e Wehsal a considerarle tali, ed essi lo fecero: certo, quello avvertendo che tutti i concetti superiori gli erano inaccessibili (poiché soltanto l'esperienza dello choc pleurico lo aveva inalzato al di sopra del piú modesto livello umano), il secondo invece compiacendosi visibilmente della fortunata carriera d'un diseredato, la quale però, affinché il passo non fosse piú lungo della gamba, si stava inceppando e arenando nel comune malanno fisico.o Castorp per parte sua deplorava quell'arresto e pensava con orgoglio e apprensione all'ambizioso Joachim che con uno sforzo eroico aveva lacerato il tenace tessuto verbale di Radamanto ed era disertato al servizio della sua bandiera, alla cui asta (immaginava Castorp) era aggrappato sollevando tre dita della destra per il giuramento di fedeltà. Anche Naphta aveva giurato fedeltà a una bandiera, anche lui si era messo al suo servizio, come diceva quando spiegava a Castorp la natura del suo Ordine; ma con le sue deviazioni e combinazioni le era evidentemente meno fedele di quanto Joachim non fosse alla sua,... mentre Castorp, ascoltando l'ex o futuro gesuita, si sentiva, quale borghese e figlio della pace, confortato nella sua opinione che ciascuno dei due avrebbe dovuto compiacersi della professione e condizione dell'altro e considerarle molto affini alle proprie.

Erano infatti condizioni militari, le une come le altre, sotto tutti i riguardi: sia sotto quello dell"'ascesi", sia quello della gerarchia, della disciplina e dell'onore spagnolo. Quest'ultimo particolarmente aveva una parte cospicua nell'Ordine di Naphta, che d'altronde veniva dalla Spagna, il cui regolamento degli esercizi spirituali - al quale fa riscontro quello promulgato dal prussiano Federico per la sua fanteria - era steso primamente in lingua iberica, e perciò Naphta discorrendo e istruendo, inframmezzava spesso parole spagnole. Parlava ad esempio delle dos banderas, intorno alle quali gli eserciti si radunavano per la grande campagna: l'infernale e il religioso, questo nella regione di Gerusalemme sotto il comando di Cristo, il capitan general di tutti i buoni, l'altro,nella piana di Babilonia dove era caudillo, ossia capitano, Lucifero. Non era stato l'istituto "Stella Mattutina' una vera e propria scuola di allievi ufficiali, i cui alunni, suddivisi in "divisioni", erano tenuti, sul loro onore, a una bienséance militare-religiosa,... una combinazione, se cosí si può dire, di "colletto rigido" e "gorgiera spagnola"? L'idea dell'onore e della distinzione, che faceva tanto spicco nella carriera di Joachim, come emergeva, pensò Castorp, anche nel campo in cui Naphta, a causa della malattia, non era riuscito purtroppo a portarsi molto avanti! A sentir lui, l'Ordine era rappresentato soltanto da ufficiali ambiziosi, animati dall'unico desiderio di distinguersi nel servizio. (Insignes esse, si dice in latino.) In base alla dottrina e al regolamento del fondatore e primo generale, lo spagnolo Loyola, fanno di piú, fanno un servizio piú splendido di tutti coloro che agiscono sol tanto col loro buon senso. Essi compiono invece la loro opera ex supererogatione, oltre il dovuto, in quanto non solo oppongono schietta resistenza all'insorgere della carne (rebellioni carnis), la qual cosa non è nulla piú che il compito di qualunque persona mediocremente sana, ma in quanto agiscono combattendo le inclinazioni della sensualità, dell'egoismo, dell'amore profano, anche dove sono comunemente lecite. Agire combattendo contro il nemico, agere contra, cioè attaccare, è qualcosa di piú, è piú onorevole che soltanto difendersi, resistere. "Fiaccare e rompere il nemico!" dice l'ordine di servizio, e il suo autore, lo spagnolo Loyola, era ancora della medesima idea del capitan general di Joachim, del prussiano Federico con la sua norma di guerra: "Angriff! Angriff! "(Attaccare, attaccare!)."Tirare giú le brache al nemico!" "Attaquez donc toujours!" Ma il mondo di Naphta e quello di Joachim avevano soprattutto in comune il loro rapporto col sangue e l'assioma che non bisogna astenersi dal versarlo: in questo punto erano perfettamente d'accordo come mondi, ordini, professioni. Il figlio della pace ascoltava con vivo interessamento quando Naphta parlava di certi battaglieri monaci medievali i quali, ascetici fino all'esaurimento, ma gonfi di religiosa smania di potere, non vollero risparmiare il sangue per l'avvento dello stato divino, del l'universale dominio del soprannaturale; e di bellicosi templari che stimavano piú meritorio morire contro gli infedeli che nel letto, e non consideravano delitto, ma somma gloria essere uccisi o uccidere per amore di Cristo. Meno male che Settembrini non era presente a siffatti discorsi ! Altrimenti avrebbe dato il solito disturbo di sonare l'organetto e fatto lo zampognaro della pace,... nonostante la guerra santa della nazione e della civiltà contro Vienna, alla quale non abdicava, mentre Naphta proprio per questa passione lo copriva di scherno e di disprezzo.

Almeno fin tanto che l'italiano era acceso da questi sentimenti, gli opponeva il cosmopolitismo cristiano, chiamava patria ogni paese, ma d'altra parte nessun paese singolo, e ripeteva con piglio mordace le parole d'un generale dell'Ordine, di nome Nickel, il quale aveva asserito che l'amore di patria è "una peste e la piú sicura morte della carità cristiana". Naphta, s'intende, chiamava peste l'amor di patria per via dell'ascesi: quante cose non comprendeva infatti in questa parola, quante cose non erano, a suo avviso, contrarie all'ascesi e al regno di Dio! Non lo era soltanto l'attaccamento alla famiglia e al paese, ma anche quello alla salute e alla vita: questo rimproverava all umanista quando faceva lo zampognaro della pace e della felicità; di amore carnale, di amore per la comodità del corpo, commodorum corporis, lo incolpava rissoso e gli diceva sul muso che dare il sia pure minimo peso alla vita e alla salute non era che arciborghese irreligiosità. Questo fu il grande colloquio sulla salute e la malattia che si sviluppò un giorno, già sotto Natale, da questi dissensi, durante una passeggiata sulla neve a Platz e ritorno; e tutti vi presero parte, Settembrini, Naphta, Castorp, Ferge e Wehsal, tutti un po' febbricitanti, e anche eccitati e storditi dal camminare e parlare al freddo di quelle altezze, inclini a tremare, tutti senza eccezione, sia che fossero piú loquaci, come Naphta e Settembrini, o si limitassero ad ascoltare e ad accompagnare la disputa con brevi obiezioni, ma tutti cosí vivamente appassionati che ogni tanto si fermavano assorti, formavano un gruppo gesticolante e infervorato e sbarravano il passaggio, senza curarsi della gente che per procedere doveva girare intorno a loro, ma anche si fermava a sua volta, tendeva l'orecchio e con stupore ascoltava il loro divagante dibattito. Ora la disputa aveva preso le mosse da Karen Karstedt, la povera Karen che con i polpastrelli piagati era morta da poco. Castorp non sapeva nulla del suo improvviso peggioramento né del suo decesso; altrimenti da buon amico sarebbe andato sollecito alle esequie, ...considerando la sua confessata predilezione per i funerali in genere. Ma la consueta discrezione locale aveva voluto che egli apprendesse in ritardo il trapasso di Karen e lei fosse entrata in posizione definitivamente orizzontale nel giardino del putto divino col berretto di neve messo per traverso. Requiem aeternam... Egli dedicò alcune frasi amichevoli alla memoria di lei, la qual cosa indusse Settembrini a dire là sua, deridendo la caritatevole attività di Hans, le sue visite a Leila Gerngross, al commerciante Rotbein, alla stragonfia Zimmermann, al borioso figlio di "Tousles-deux" e alla torturata Natalie von Mallinckrodt, e a discorrere dei fiori costosi dei quali l'ingegnere aveva fatto omaggio a tutta quella misera e ridicola gentaglia. Castorp ribatté che i destinatari delle sue attenzioni, tranne per il momento la signora von Mallinckrodt e il ragazzo Teddy, erano morti per davvero, dopo di che Settembrini domandò se ciò li rendeva piú rispettabili. Eppure esiste, replicò Castorp, quello che si potrebbe chiamare il rispetto cristiano della miseria. E prima che Settembrini lo potesse rimbeccare, Naphta si mise a discorrere di certi pii eccessi d'amore attivo che si erano visti nel medioevo, stupefacenti casi di fanatismo e di estasi nella cura dei malati: figlie

di re che avevano baciato le ferite puzzolenti di lebbrosi, si erano fatte contagiare apposta dalla lebbra chiamando poi le ulcere cosí acquisite le loro rose, avevano bevuto l'acqua dopo avervi lavato piaghe purulente e dichiarato di non aver mai bevuto nulla di cosí buono. Settembrini fece l'atto di vomitare. Si sentiva, disse, rivoltare lo stomaco non tanto per lo schifo materiale di quelle scene e idee, quanto per la mostruosa pazzia che si manifestava in quelle concezioni di attivo amore del prossimo. E, rizzatosi sulla persona, ritornò alla sua serena dignità e parlò di forme moderne e piú progredite della previdenza umanitaria, della vittoriosa repressione delle epidemie contrapponendo a quegli orrori l'igiene, le riforme sociali e le gesta della scienza medica. Tutte cose borghesemente onorevoli, rispose Naphta, che però ben poco avrebbero giovato ai secoli dianzi citati, né da una parte né dall'altra: né ai miseri e infermi, né ai sani e felici che li avevano beneficati non tanto per pietà, quanto per salvare la propria anima. Poiché un'efficace riforma sociale avrebbe tolto a questi il piú importante mezzo di giustificazione, a quelli la loro condizione di santità. Perciò entrambe le parti avevano interesse a maturare lo stato di povertà e malattia, concezione possibile fin quando è possibile sostenere il criterio puramente religioso. Sudicio criterio, obiettò Settembrini, e concezione tal mente sciocca che egli aveva troppa stima di sé per confutarla. L'idea, infatti, delle "condizioni di santità" e di quello che l'ingegnere, non di suo, aveva chiamato "il rispetto cristiano della miseria" non è che impostura, frutto di un'illusione, di un'immedesimazione errata, di un granchio psicologico. La pietà che il sano dimostra all'infermo elevandola fino al rispetto perché non riesce a figurarsi come potrebbe, all'occasione, sopportare siffatti dolori,... questa pietà è enormemente esagerata, non è dovuta al malato ed è pertanto il risultato di un equivoco del pensiero e della fantasia in quanto il sano attribuisce al malato il proprio modo di sentire e immagina che il malato sia, per cosí dire, un sano il quale debba sopportare i tormenti di un infermo: cosa del tutto errata. Il malato è un malato, ha la natura e la modificata maniera di sentire dei malati; la malattia assesta il suo uomo in modo che possa trovarsi d'accordo con lui; esistono menomazioni sensorie, prostrazioni, narcosi benefiche, misure di adattamento e di sollievo intellettuale e morale prese dalla natura, che il sano dimentica ingenuamente di prendere in considerazione. Il migliore esempio era offerto da quella banda di malati di petto lassú con la loro leggerezza, la loro stupidità e trascuraggine, la loro poca volontà di guarire. In breve, quando il sano pietoso e rispettoso s'ammala a sua volta e non è piú sano, s'accorgerà che la malattia è una condizione a sé, ma non certo una condizione onorifica, e capirà di averla presa troppo sul serio. A questo punto Anton Karlovic Ferge protestò e prese a difendere lo choc pleurico da denigrazioni e giudizi sprezzanti. Che? come? preso troppo sul serio il suo choc pleurico? Grazie tante! No, no.

Il suo grosso pomo d'Adamo e i baffi bonari andavano su e giú, ed egli non permetteva che si tenesse a vile quella sua sofferenza. Era uomo semplice, agente di assicurazioni, i concetti superiori gli erano inaccessibili,... quella conversazione sorpassava già e di molto il suo orizzonte. Ma se il signor Settembrini, per esempio, intendeva comprendere in ciò che aveva detto anche lo choc pleurico,... quell'infernale prurito col puzzo di zolfo e gli svenimenti di tre colori, allora, ecco, non lo permetteva, e grazie tante! Non vi si erano viste menomazioni di sorta né narcosi benefiche, né abbagli della fantasia, bensí la piú grande e madornale canagliata sotto il sole, e chi non l'aveva provata come lui, quella porcheria, non poteva nemmeno farsene... Ma sí, ma sí! lo interruppe Settembrini. Il collasso del signor Ferge diventava sempre piú grandioso quanto piú tempo passava da quando l'aveva sofferto, e a poco a poco gli cingeva il capo come un'aureola. Lui, Settembrini, aveva poca stima dei malati che pretendono di essere ammirati. Lui stesso era ammalato, e non leggermente; ma, senza ostentazione, era piuttosto incline a vergognarsene. D'altro canto il suo discorso era impersonale, filosofico, e le sue osservazioni intorno alle differenze tra la natura del sano e quella del malato, e tra i loro modi di sentire, erano fondate, bastava pensare alle malattie mentali, alle allucinazioni per esempio. Se quella sera, al crepuscolo, uno dei presenti, poniamo l'ingegnere o il signor Wehsal, avesse visto in un angolo della camera il padre defunto che stesse guardandolo e parlando, egli di fronte a questo fatto mostruoso ne avrebbe riportato un'impressione sconvolgente e sconcertante che gli farebbe dubitare dei propri sensi, del proprio senno e lo indurrebbe a sgomberare e a correre da un neurologo per farsi curare. O forse no? Il bello però è che ciò non poteva toccare ai presenti perché erano sani di mente. Se invece gli capitasse, non sarebbero sani, bensí malati e non reagirebbero come un sano, ossia con lo spavento e con la fuga, ma accetterebbero la visione come cosa regolare e si metterebbero a conversare col fantasma, come fanno appunto gli allucinati; ora, supporre che per costoro l'allucinazione sia un sano terrore, è precisamente l'errore di fantasia nel quale incappa chi non è malato. Settembrini parlò del padre nell'angolo in maniera molto plastica e buffa. Tutti risero, anche Ferge, quantunque offeso dal disprezzo per la sua infernale avventura. L'umanista intanto approfittò del buon umore per continuare a commentare e a difendere la non rispettabilità degli allucinati e di tutti i pazzi in genere: individui, disse, che illecitamente lasciano passare molte cose e spesso avrebbero modo di ovviare alla loro pazzia, come egli stesso aveva potuto vedere, visitando i manicomi. Quando infatti si presenta sulla soglia il medico o un forestiero, l'allucinato smette di fare smorfie, di parlare, di agitarsi, si comporta decentemente fin tanto che si sa osservato e riprende poi le sue stravaganze. Infatti la pazzia è, senza dubbio, in molti casi una rinuncia al controllo di sé, di modo che serve da rifugio a chi è percosso da grandi dolori, e rappresenta una misura di protezione del debole contro colpi di sventura eccessivamente gravi che costui a mente limpida non si sente di sostenere.

Certo, tutti lo potrebbero dire, e lui, Settembrini, col solo sguardo, aveva già portato alla ragione parecchi pazzi, almeno provvisoriamente, opponendo alle loro ubbie un atteggiamento di incrollabile ragionevolezza... Naphta rise beffardo, mentre Castorp assicurava che prestava pienamente fede alle parole del signor Settembrini. Se si figurava, disse, il suo sorriso di sotto ai baffi, e l'occhiata d'inflessibile ragionevolezza con la quale aveva fissato il demente, capiva benissimo che quel povero diavolo aveva dovuto dominarsi e mostrarsi di mente limpida anche se naturalmente la comparsa del signor Settembrini gli sarà sembrata un disturbo poco gradito... Se non che, anche Naphta aveva frequentato manicomi e ricordò una sua visita a un "reparto agitati" dove gli si erano offerti quadri e scene sui quali, Dio buono, lo sguardo ragionevole e il disciplinato influsso del signor Settembrini avrebbe fatto assai poca presa: scene dantesche, grottesche visioni di dolore e raccapriccio, pazzi nudi accovacciati nel bagno permanente, in tutte le pose dell'angoscia, dello stupore, dello spavento, dove alcuni gridavano dal dolore, altri con le braccia levate e la bocca spalancata emettevano risa nelle quali erano mescolati tutti gli ingredienti dell'inferno... Vedo disse Ferge e scusandosi rammentò la sua risata, quella che gli era sfuggita quando era all'ultimo respiro. Insomma, l'incrollabile pedagogia di Settembrini avrebbe potuto far fagotto di fronte alle scene del "reparto agitati", alle quali il brivido del rispetto religioso sarebbe stato una reazione certo piú umana dell'altezzoso e razionale moraleggiamento che il nostro luminosissimo cavaliere d'Oriente e vicarius Salomonis si compiaceva di contrapporre alla pazzia. Castorp non aveva tempo di riflettere sui titoli che Naphta affibbiava ora a Settembrini, e lí per lí si prefisse di esaminarli a fondo alla prima occasione. Per il momento il discorso avviato assorbiva tutta la sua attenzione; Naphta infatti stava discutendo con molto acume le tendenze generali che spingevano l'umanista a rendere, per principio, tutti gli onori alla salute, e a svilire e abbassare la malattia: presa di posizione, però, che manifestava una considerevole e quasi encomiabile abnegazione, perché Settembrini stesso era malato. Ma il suo atteggiamento che, per essere straordinariamente dignitoso non per questo era meno errato, era la risultanza di un rispetto e di una devozione per il corpo che si potevano giustificare soltanto nel caso che il corpo fosse ancora nelle condizioni largitegli da Dio all'atto della creazione, anziché in quelle dell'avvilimento, in statu degradationis. Creato, infatti, immortale, si è corrotto, è diventato ripugnante in seguito al peggioramento della sua natura a causa del peccato originale, è mortale e marcescibile, e non va considerato se non come reclusione punitiva e carcere dell'anima, capace soltanto di suscitare un sentimento di vergogna e di confusione, pudoris et confusionis sensum, per citare le parole di Sant'Ignazio. Sentimento, esclamò Castorp, che notoriamente fu espresso anche dall'umanista Plotino. Se non che Settembrini, alzando di scatto il braccio e portando la mano al di sopra della testa, lo invitò a non confondere i punti di vista e a mantenersi ricettivo.

Intanto Naphta faceva risalire il rispetto che il medioevo cristiano ebbe per la miseria del corpo al consenso religioso che esso tributava allo strazio della carne. Le piaghe del corpo, infatti, non solo ne mettevano in evidenza il decadimento, ma rispondevano anche all'attossicata corruzione dell'anima in modo da offrire una soddisfazione edificante e religiosa,... mentre il corpo florido è un fenomeno ingannevole, tale da offendere la coscienza, e bene benissimo si faceva a rinnegarlo umiliandosi profondamente davanti all'infermità. Quis me liberabit de corpore mortis huius? Chi mi libererà dal corpo di questa morte? Ecco la voce dello spirito che sarà in eterno la voce della vera umanità. No - secondo l'opinione esposta vivacemente da Settembrini, - questa è una voce notturna, la voce di un mondo che non era ancora illuminato dal sole della ragione e dello spirito di umanità. Benché personalmente intossicato nel fisico egli aveva conservato lo spirito abbastanza sano e libero da pestiferi influssi per affrontare bellamente nella causa del corpo il pretesco Naphta e ridersene dell'anima. Arrivò persino al punto di dichiarare che il corpo umano è il vero tempio di Dio, dopo di che Naphta asserí che questo tessuto non è che il sipario tra noi e l'eternità, con la conseguenza che Settembrini a sua volta gli proibí definitivamente l'uso della parola "umanità"... e cosí via. Con i lineamenti irrigiditi dal freddo, a capo scoperto, ora calpestando con le soprascarpe di gomma la crosta di neve sgrigliolante e cosparsa di cenere, che sopralzava il marciapiede, ora arando coi piedi la massa di neve tenera che copriva la carreggiata - Settembrini in una giacca invernale che egli sapeva portare con eleganza, nonostante che il collo di castoro, spelato in qualche punto come i risvolti delle maniche, sembrasse, per cosí dire, rognoso; Naphta in un cappotto nero lungo fino ai piedi e accollato, che era soltanto foderato di pelliccia invisibile all'esterno - disputavano intorno a questi princípi con passione e accanimento, e spesso accadeva che non si rivolgessero l'uno all'altro, bensí a Castorp, e chi aveva la parola gli esponesse il suo argomento indicando l'avversario soltanto con la testa o col pollice. In mezzo fra loro, voltando la testa di qua o di là, egli approvava ora l'uno, ora l'altro, oppure fermandosi col busto obliquamente piegato all'indietro e gesticolando con la mano nel guanto di capra ovattato, proponeva qualche pensiero proprio, di nessun momento beninteso, mentre Ferge e Wehsal giravano intorno, o precedendoli o seguendoli o mettendosi su un'unica riga, finché la circolazione la spezzava. A causa delle loro interruzioni la disputa si spostò su argomenti concreti, trattò in rapida successione e con sempre piú vivo interessamento tutti i problemi della cremazione, delle punizioni corporali, della tortura e della pena di morte. Era stato Ferdinand Wehsal a mettere in discussione la pena corporale, e la proposta era degna di lui, come parve a Castorp. Non fu una sorpresa per nessuno se Settembrini, alzando la voce e invocando la dignità umana, si pronunciò contro questo metodo ignobile, tanto nel campo pedagogico quanto, e piú ancora, in quello del diritto,... mentre, pure senza sorprendere, è vero, ma con una certa tetra insolenza, Naphta li sbalordí dichiarandosi favorevole alle bastonate. Secondo lui era assurdo vaniloquio parlare in questo caso di dignità umana, perché la nostra vera dignità sta nello spirito, non nella carne, e siccome l'anima umana è fin troppo incline a succhiare tutte le gioie della vita dal corpo, i dolori che s'infliggono a quest'ultimo sono un mezzo pienamente raccomandabile

per amareggiarle il piacere dei sensi e ricacciarla, diremo cosí, dalla carne nello spirito, affinché questo riprenda la sua sovranità. Considerare la pena del bastone come un mezzo particolarmente vergognoso è un'idea alquanto sciocca. Santa Elisabetta fu flagellata a sangue dal suo confessore Corrado di Marburg, sicché la sua anima, come dice la leggenda, fu rapita fino al terzo cielo, e lei stessa trattò a colpi di verga una povera vecchia troppo tarda ad andare a confessarsi. Si aveva davvero l'ardire di chiamare barbare e disumane le flagellazioni volontarie degli appartenenti a certi ordini, a certe sette, e, in genere, di persone d'indole profonda, per rafforzare in sé il principio spirituale? Che la legale abolizione delle bastonate nei paesi, i quali si danno arie di nobiltà, sia un reale progresso, è un'opinione tanto piú comica quanto piú incrollabile. Senza dubbio, osservò Castorp, bisognava ammettere che nell'antitesi di corpo e spirito il corpo incarna il principìo maligno, diabolico... (il corpo che incarna, ah, ah), in quanto il corpo è naturalmente natura (naturalmente natura, bellina anche questa!) e in quanto la natura, contrapposta allo spirito, alla ragione, è malvagia, d'una malvagità mistica, e cosí ci si poteva arrischiare a dire in base alla propria cultura e alle nozioni acquisite. Fissato questo criterio, era puramente logico trattare il corpo in conseguenza, imponendogli sistemi disciplinari che di nuovo poteva arrischiarsi a chiamare misticamente malvagi. Chi sa, se allora, quando la debolezza fisica gli aveva impedito di recarsi al congresso progressista di Barcellona, il signor Settembrini avesse avuto al fianco una Santa Elisabetta... Tutti risero e, come l'umanista stava per montare in collera, Castorp parlò subito delle botte che anche lui aveva prese a suo tempo: nelle classi inferiori del suo ginnasio usava ancora qualche volta quel castigo, si adoperava lo scudiscio, e benché gli insegnanti, per riguardi sociali, non avessero messo le mani addosso a lui, era stato picchiato una volta da un compagno piú robusto, un pezzo di ragazzone, con un frustino flessibile, sulle gambe e sui polpacci coperti dalle sole calze. Gli aveva fatto un male diabolico, infame, indimenticabile, addirittura mistico ed egli, tra i singhiozzi vergognosamente convulsi, aveva versato un fiume di lacrime per la rabbia e per il disonorevole dolore. Aveva anche letto che nei penitenziari i peggiori assassini, sottoposti alla pena del bastone, frignano come bambini. Mentre Settembrini si copriva il viso con ambo le mani, infilate in guanti di pelle logora, Naphta, con freddezza diplomatica, domandò come si dovessero mai domare i delinquenti riottosi se non a busse e legnate, che in un penitenziario non sono certo una stonatura; un penitenziario "umano" sarebbe una mezza misura, un compromesso, e il signor Settembrini, benché bel parlatore, di bellezza non capiva niente. In quanto a pedagogia poi, il concetto di dignità umana professato da coloro che ne vorrebbero escludere le pene corporali, si basa, a sentir Naphta, sull'individualismo liberale dell'epoca umanitaria borghese, su un illuminato assolutismo dell'io che sta per estinguersi e cedere il posto a nuove idee sociali, meno fiacche, miranti a legare e piegare, a costringere e imporre obbedienza, procedendo naturalmente con santa crudeltà, per cui si tornerà a guardare con altri occhi anche il castigo inflitto al corpo. Si vuole dunque l'obbedienza cieca, l'obbedienza supina! esclamò Settembrini con scherno.

E poiché Naphta buttò là l'idea che, avendo Dio imposto al nostro corpo, per castigo del peccato commesso, l'orribile onta della putrefazione, non è dopotutto un delitto di lesa maestà rifilare al medesimo corpo un fracco di bastonate,... si venne subito a parlare della cremazione dei cadaveri. Settembrini ne tessé gli elogi. A quell'onta, disse lieto, si può rimediare. Per ragioni di opportunità e anche sotto la spinta di motivi ideali l'umanità era sul punto di rimediarvi. E dichiarò che anche lui partecipava ai preparativi di un congresso internazionale della cremazione, che si doveva svolgere probabilmente in Svezia. Era in progetto l'esposizione di un crematorio modello, costruito secondo tutte le esperienze fatte finora, nonché una galleria di urne, e si potevano prendere incoraggiamenti e proposte di vasta portata. Quale vieto e reazionario sistema, la sepoltura... di fronte alle condizioni dell'evo moderno! L'estendersi delle città! Lo spostamento alla periferia dei cosí detti camposanti che portano via tanto spazio! Il prezzo dei terreni! La volgarità della tumulazione a causa dell'inevitabile uso dei moderni mezzi di locomozione! Di tutto ciò Settembrini seppe dare notizie giuste e precise. Prese in giro la figura del vedovo affranto che tutti i giorni va in pellegrinaggio sulla tomba della cara defunta per intrattenersi con lei, lí sul posto; l'ingenuo sognatore deve anzitutto disporre di una strana abbondanza di tempo, il piú prezioso bene della vita, ma l'intenso movimento del moderno cimitero maggiore penserà certo a guastargli l'atavica romanticheria. La distruzione del cadavere mediante le fiamme: quale idea pulita, igienica e dignitosa, persino eroica, a paragone dell'usanza di lasciare che si dissolva miseramente da sé e venga assimilato da esseri inferiori! Nel nuovo procedimento trova il suo tornaconto anche il sentimento, l'umano bisogno di durare nel tempo. Il fuoco consuma sol tanto le parti del corpo alterabili, soggette già in vita al metabolismo; quelle che invece meno partecipano a queSto flusso e, quasi senza mutamenti, accompagnano l'uomo attraverso gli anni adulti sono ad un tempo le piú resistenti al fuoco, formano la cenere e con essa i sopravvissuti raccolgono la parte che nel defunto era imperitura. Molto bello commentò Naphta. Oh, molto, molto grazioso. La parte imperitura dell'uomo, la cenere! Ah, s'intende, Naphta intendeva di arrestare l'umanità alla sua posizione irrazionale di fronte ai fatti biologici, sosteneva il piano religioso primitivo, sul quale la morte era uno spauracchio, circonfuso di brividi cosí misteriosi da vietare di rivolgere al fenomeno lo sguardo della limpida ragione. Quale barbarie! L'orrore della morte proviene da epoche di infima civiltà, nelle quali la morte violenta era di norma, e la mostruosità che realmente presenta tale morte si è collegata, a lungo andare, per il sentimento dell'uomo, col pensiero della morte. Ma grazie allo sviluppo delle norme igieniche e al consolidarsi della sicurezza personale diventò norma la morte naturale, e l'idea dell'eterno riposo dopo l'opportuno esaurimento delle proprie forze non parve minimamente spaventosa al lavoratore moderno, ma anzi normale e desiderabile.

No, la morte non è né uno spauracchio né un mistero, è un fenomeno univoco, razionale, fisiologicamente necessario e gradito, e soffermarsi a contemplarla piú del dovuto sarebbe come derubare la vita. Perciò si era progettato di costruire accanto a quel crematorio modello e alla relativa galleria delle urne, cioè la "galleria della morte", una galleria della vita nella quale l'architettura, la pitturà, la scultura, la musica e la poesia si sarebbero unite per guidare la mente dei sopravvissuti dall'esperienza della morte, dal torpido lutto e dall'inerte lamento verso i beni della vita... Al piú presto! disse Naphta beffardo. Affinché essi non spingano, per carità, la devozione alla morte fino all'eccesso, non vadano assolutamente troppo oltre col rispetto di un fatto cosí semplice, senza il quale però non ci sarebbero né architettura né pittura né scultura né musica né poesia. Egli diserta abbracciando la barídiera osservò Castorp trasognato. Dal fatto che le sue parole, ingegnere, sono incomprensibili gli rispose Settembrini, trapela il sospetto che siano riprovevoli. L'esperienza della morte deve essere infine l'esperienza della vita, altrimenti non è che un fantasma. Si potranno adottare simboli osceni nella "galleria della vita" come su certi sarcofaghi antichi? domandò Castorp seriamente. In ogni caso i sensi avranno di che pascersi, confermò Naphta. Un gusto classico vi metterà in mostra il corpo, nel marmo e con colori a olio, questo corpo peccaminoso che viene sottratto alla putrefazione, e non c'è da stupirsi, dato che a furia di tenerezza non lo si vuol piú nemmeno castigare. Qui Wehsal intervenne con l'argomento della tortura, ed era degno di lui. L'inquisizione... che ne pensavano i signori? Lui, Ferdinand, nei suoi viaggi di affari aveva sempre approfittato dell'occasione per visitare, in antiche sedi di civiltà, quei posti segreti nei quali si era praticato quel sistema di esplorazione della coscienza: cosí aveva visto la stanza delle torture a Norimberga, a Ratisbona, vi si era trattenuto per desiderio di istruirsi. Vero è che là avevano trattato molto sgarbatamente il corpo per amore dell'anima, in vari modi ingegnosi. E non si erano nemmeno udite le grida; ti cacciavano in bocca la famosa pera, che non era proprio una leccornia... e poi regnava il silenzio in tutto quel lavorio... Che porcheria! mormorò Settembrini. Ferge, senza voler dir male della pera e del silenzioso lavorio, affermò che nemmeno allora si era inventato nulla di piú infame del palpamento della pleura. Ma lo si era fatto per guarirlo! L'anima ostinata e la lesa giustizia giustificavano anch'esse una passeggera crudeltà. In secondo luogo la tortura era il risultato di un progresso razionale. Naphta doveva aver perso il lume della ragione. No, che non l'aveva perso. Settembrini, essendo un letterato, non aveva momentaneamente una chiara visione del procedimento giuridico medievale. Di fatto si era svolto un processo di razionalizzazione progressiva; a poco a poco cioè, in base a considerazioni razionali, Dio era stato escluso dall'amministrazione della giustizia.

Il giudizio di Dio fu soppresso perché la gente s'era accorta che il piú forte riusciva vittorioso anche quando aveva torto. Questa osservazione era stata fatta da persone del tipo di Settembrini, da critici e scettici i quali ottennero che l'ingenua procedura antica fosse sostituita dal processo inquisitorio, il quale non si affidava piú all'intervento di Dio a pro della verità, ma mirava a strappare all'imputato la confessione della verità. Niente condanna senza confessione... Basta anche oggi ascoltare la voce del popolo: l'istinto vi è radicato profondamente, la catena delle prove può essere serrata fin che si vuole, mancando la confessione la condanna è considerata illegittima. Ma come ottenerla? come arrivare alla verità oltre i meri indizi, oltre il mero sospetto? come scrutare il cuore, il cervello di colui che la tiene nascosta? Ecco: se lo spirito non era docile, non rimaneva altro che rivolgersi al corpo, al quale si possono mettere le mani addosso. La tortura, quale mezzo per ottenere l'indispensabile confessione, era imposta dalla ragione. E chi aveva preteso e introdotto la procedura per la confessione era il signor Settembrini, e quindi era lui l'inventore della tortura. L'umanista pregò i signori di non credergli: erano, disse, facezie diaboliche. Se gli insegnamenti del signor Naphta avessero avuto un fondo reale, se il raziocinio fosse stato davvero l'inventore dell'atrocità, ne risultava soltanto la prova di quanto gli fossero sempre necessari il sostegno e l'istruzione, di quanto poco gli adoratori dell'istinto naturale avessero motivo di temere che un giorno la vita su questa terra diventi ragionevole ! Se non che, il preopinante aveva certamente preso un abbaglio. Quegli orrori giuridici non potevano essere imputati alla ragione, non fosse altro perché la loro prima origine era da attribuirsi alla fede nell'inferno. Basta guardarsi intorno nei musei e nelle camere di tortura: l'uso di tanaglie e carrucole e torchi e fuoco era il frutto evidente di una fantasia ingenua e accecata, del desiderio di imitare religiosamente ciò che è nell'aldilà, nei luoghi delle pene perpetue. Oltre a ciò si cercava forse di essere d'aiuto al malfattore. Si pensava che la sua povera anima lottasse per la smania di confessare e soltanto la carne, principio del male, si opponesse alla sua buona volontà; perciò si credeva di rendergli addirittura un servizio spezzandogli la carne con le torture. Folle pregiudizio ascetico... Lo avevano forse anche i romani? romani? Macché ! Eppure anche loro adottarono la tortura nei processi. Imbarazzo logico... Castorp cercò di superarlo e, d'autorità, come fosse affar suo dirigere la conversazione, mise in discussione il problema della pena di morte. La tortura è abolita, benché i giudici istruttori seguano ancora una loro tattica per fiaccare la resistenza dell imputato. La pena di morte invece pare immortale, indispensabile. I popoli piú civili la mantengono. Con le deportazioni i francesi hanno fatto pessime esperienze.

Sicché non si sa davvero che altro fare di certi esseri somiglianti all'uomo, se non spiccare loro la testa dal busto. Quelli non sono esseri somiglianti all'uomo, gli spiegò Settembrini; sono uomini come lui stesso e l'ingegnere,... salvo che hanno poca volontà e sono vittime di una società deficiente. E raccontò come un delinquente, piú volte omicida, del tipo che i pubblici ministeri nelle loro requisitorie sogliono definire "bruti" e "belve in sembiante umano", avesse coperto di poesie le pareti della súa cella. E non erano neanche brutti, quei versi,... ben migliori di quelli che erano stati scritti all'occasione da qualche pubblico ministero. Ciò non faceva che mostrare l'arte sotto una luce singolare, replicò Naphta; per il resto non diceva nulla. Castorp si aspettava che Naphta si pronunciasse in favore dell'esecuzione capitale. Naphta, argomentava, era bensí rivoluzionario come Settembrini, ma lo era in senso conservatore, un rivoluzionario della conservazione. Il mondo, sorrise Settembrini sicuro di sé, di fronte alla rivoluzione della reazione antiumana passerà all'ordine del giorno. Il signor Naphta preferiva sospettare dell'arte anziché riconoscere che essa rende uomo anche la creatura piú abietta. Impossibile conquistare con siffatti fantasmi la gioventú bramosa di luce. Recentemente si era costituita una lega internazionale, col fine di abolire per legge la pena di morte in tutti i paesi civili. Settembrini aveva l'onore di appartenervi. Il luogo del primo congresso era ancora da stabilire, ma l'umanità poteva star sicura che gli oratori prescelti erano ben forniti di argomenti! Ed egli li citò, questi argomenti, tra altri quello di un sempre possibile errore giudiziario, della condanna di un innocente, e quello della non mai trascurabile speranza di ravvedimento; citò persino le parole "mia è la vendetta", dichiarò che lo stato quando abbia a cuore il perfezionamento e non la violenza, non deve ricambiare male con male, e ripudiò il concetto di "castigo", dopo aver combattuto, sul terreno d'un determinismo scientifico, quello di "colpa". Dopo di ciò la "gioventú bramosa di luce" dovette assistere alla scena in GUi Naphta torse il collo a quegli argomenti, l'uno dopo l'altro. Derise la ripugnanza del sangue e il rispetto della vita da parte del filantropo, asserí che questo rispetto per la vita individuale appare soltanto nelle piú volgari epoche borghesi, che però, in circostanze passabilmente entusiastiche, non appena si manifesti un'idea, sia pure una sola, che trascenda quella della "sicurezza", qualcosa dunque di ultrapersonale, di superindividuale - che è l'unica condizione degna dell'uomo e quindi, in un senso superiore, la normale -, la vita dell'individuo sarà non solo sacrificata senza complimenti al pensiero superiore, ma anche messa senza esitazione allo sbaraglio volontariamente, dall'individuo stesso. La filantropia del suo antagonista, disse, mirava a spogliare la vita di tutte le punte piú serie e gravi, tendeva a castrare la vita, anche col determinismo della sua cosí detta scienza.

La verità è invece che questo determinismo non solo non abolisce il concetto di colpa, ma ne accresce persino la gravità e l'orrore. Mica male, la risposta. Pretendeva forse che la sciagurata vittima della società si sentisse seriamente colpevole e si avviasse per convinzione verso il patibolo? Perché no? Il delinquente è compenetrato della sua colpa come di se stesso. Egli è come è, non può e non vuole essere diverso, e questa è precisamente la colpa. Il signor Naphta spostava colpa e merito dal piano empirico su quello metafisico. Certo che l'azione è determinata, nell'azione non c'è libertà, ma nell'essere sí. L'uomo è come ha voluto essere e come fino alla sua estinzione non cessera di voler essere; ha avuto piacere di uccidere e non paga quindi un prezzo troppo alto dando la vita. Muoia, dunque, e sconti la sua piú intima voglia! La voglia piú intima? La piú intima. Tutti strinsero le labbra. Castorp tossicchiò. Wehsal torse la mascella. Ferge sospirò. Settembrini osservò con garbo: Come si vede, c'è un modo di generalizzare che conferisce all'argomento una tinta personale. Lei avrebbe voglia di uccidere? Questo non la riguarda. Ma se l'avessi fatto, riderei in faccia a una ignoranza umanitaria che fino alla mia morte naturale volesse impinzarmi di lenticchie. E' assurdo che l'assassino sopravviva all'assassinato. A quattr'occhi, senza testimoni, come due esseri fanno soltanto in un'altra affine occasione, l'uno passivo, l'altro attivo, hanno avuto in comune un segreto che li lega per sempre. Devono stare uniti. Settembrini confessò freddamente di non aver alcuna sensibilità per quel misticismo della morte e dell'omicidio, e di non sentirne nemmeno il bisogno. Non aveva nulla da dire contro il talento religioso del signor Naphta,... indubbiamente superiore al proprio, ma faceva notare la sua mancanza d'invidia. Un invincibile bisogno di pulizia lo teneva lontano dal campo in cui quel rispetto della miseria, del quale aveva parlato dianzi la gioventú intesa a fare esperimenti, regnava evidentemente non solo in riguardo al corpo, ma anche all'anima; un campo insomma nel quale virtú, raziocinio e salute non contano nulla, mentre il vizio e la malattia sono Dio sa quanto in auge. Naphta confermò che effettivamente la virtú e la salute non sono condizioni religiose. E' già molto, disse, se ci si convince che la religione non ha niente a che vedere con la ragione e la moralità. Poiché, soggiunse, non ha niente a che vedere con la vita. La vita poggia su fondamenti e condizioni che in parte riguardano la conoscenza, in parte il territorio etico. I primi si chiamano tempo, spazio, causalità, i secondi moralità e ragione.

Tutte queste cose sono non solo estranee e indifferenti alla religione, ma persino ostili e contrapposte; esse infatti costituiscono la vita, la cosí detta salute: vale a dire l'arcifilisteismo e la straborghesia, di cui il mondo religioso è l'antitesi assoluta, assolutamente geniale. D'altro canto lui, Naphta, non intendeva di negare del tutto, al campo della vita, la possibilità del genio. Esiste un senso borghese della vita la cui monumentale probità è incontestabile, una maestà filistea che si può reputare rispettabile, sempre che si consideri che, con la sua dignità a gambe larghe, le mani dietro la schiena e il petto in fuori, rappresenta la irreligiosità personificata. Castorp alzò l'indice, come a scuola. Non voleva, disse, urtare né una parte né l'altra, ma lí si parlava evidentemente di progresso, dèl progresso umano, cioè, in certo qual modo, di politica, della repubblica eloquente e della civiltà dell'Occidente colto, e perciò era del parere che la differenza o, se proprio il signor Naphta voleva, l'antitesi di vita e religione risalisse a quella di tempo ed eternità. Progresso non può esserci che nel tempo; non c'è nell'eternità, come non ci sono la politica e l'eloquenza. Là si posa, diciamo, la testa in grembo a Dio e si chiudono gli occhi: che sarebbe, esposta un po' confusamente, la differenza tra religione e morale. L'ingenuità delle sue espressioni, disse Settembrini, era meno grave che il timore di urtare e la tendenza a fare concessioni al diavolo. Be', a proposito del diavolo avevano già discorso tempo prima, il signor Settembrini e lui. "O Satana, o ribellione!" A quale diavolo, chiese, aveva fatto concessioni? A quello della ribellione, del lavoro, della critica o al l'altro? C'era da temere per la propria vita: un diavolo a destra, uno a sinistra, come, in nome del diavolo, poteva uscirne sano e salvo? In questo modo, rispose Naphta, la situazione - come la vedeva il signor Settembrini - non era presentata bene. Il particolare decisivo della sua visione del mondo era che di Dio e del diavolo faceva due persone o principi diversi e, seguendo rigorosamente il modello medievale, interponeva tra loro, come oggetto in contestazione, "la vita' . In realtà invece sono, in pieno accordo, contrapposti alla vita, al senso borghese della vita, all'etica, alla ragione, alla virtú.. in quanto principio religioso che essi rappresentano in comune. Che guazzabuglio stomachevole! esclamò Settembrini. Bene e male, santità e misfatto, tutto mescolato insieme. Senza giudizio! senza volontà! senza capacità di rifiutare ciò che va rifiutato! Ma sapeva il signor Naphta "che cosa" negava, mentre alla presenza della gioventú confondeva Dio e il diavolo e, in nome di questa dualità, negava il principio etico? ! Negava il valore ,... negava, raccapricciante a dirsi, qualsiasi valutazione. Bene: non esiste dunque né il bene né il male, ma soltanto il tutto moralmente disordinato. Non esiste l'individuo con la sua dignità critica, ma soltanto la comunità che tutto inghiotte e pareggia, il mistico affondare di essa! L'individuo... Buona, questa: il signor Settembrini si considerava ora un individualista! Ma per esserlo occorre conoscere la differenza tra morale e felicità, mentre questo non era punto il caso dell illuminato monista.

Dove la vita è stupidamente considerata fine a se stessa e non si va neanche in cerca di un significato e d'un fine che la trascenda, s'incontra un'etica della specie e della società, una morale da vertebrati, non già un individualismo,... che si trova soltanto e unicamente nell'ambito della religione e della mistica, nel cosí detto "tutto moralmente disordinato". Che cos'era e che voleva la morale del signor Settembrini? Era legata alla vita, dunque nient'altro che utile, dunque priva di eroismo al punto da far pietà. Serviva a far diventare vecchi e felici, ricchi e sani, finito lí. Per lui questo filisteismo della ragione e del lavoro era etica. In quanto a lui, Naphta, egli si prendeva la libertà di definirla logoro senso borghese della vita. Settembrini chiese un po' di moderazione, benché la sua stessa voce fosse eccitata quando dichiarò insopportabile che il signor Naphta parlasse continuamente del "senso borghese della vita" in un tono, Dio sa perché, aristocratico e sprezzante, come se il contrario - e si sa bene che cosa sia il contrario della vita - fosse chi sa quanto piú nobile! Altre frasi fatte e parole d'ordine! Ora erano arrivati alla nobiltà, al problema dell'aristocrazia. Castorp, eccessivamente accaldato e sfinito dal freddo e dai problemi, dubbioso nel giudicare se il proprio modo di esprimersi fosse comprensibile o troppo ardito a causa della febbre, confessò con le labbra paralizzate che la morte se l'era sempre figurata con una inamidata gorgiera spagnola o, in ogni caso, per cosí dire, in bassa uniforme, col colletto alto, la vita invece con un comune collettino moderno... Ma lui stesso sbigottí a quelle parole cosí poco adatte a una conversazione socievole, pronunciate in uno stato di ebbrezza trasognata, e assicurò che non questo aveva voluto dire. Chiedeva invece se non esistevano davvero certe persone che non si riesce a immaginare morte, per il fatto che sono particolarmente volgari. Vale a dire sembrano talmente adatte alla vita da dare l'impressione che non possano morire mai, che non siano degne della santità della morte. Settembrini sperava, obiettò, di non ingannarsi supponendo che Castorp avesse parlato cosí soltanto per farsi confutare. Il giovane lo avrebbe trovato sempre pronto a dargli una mano nel respingere col pensiero siffatti attacchi. "Adatto alla vita" aveva detto? E usava la parola in un significato volgare e sprezzante? Doveva dire invece "degno di vita"... e avrebbe visto i concetti allinearsi in buon ordine. "Degno di vita": ecco, in virtú della piú facile e legittima associazione, sorgere il concetto di "degno d'amore", tanto legato e affine al primo da potersi affermare che soltanto ciò che è degno di vivere è anche veramente degno di essere amato. L'uno e l'altro messi insieme costituiscono la nobiltà. Castorp, tutto orecchi, ne rimase affascinato. E disse che il signor Settembrini, con questa plastica teoria, lo aveva conquistato del tutto. Si dica infatti quel che si vuole - e c'è senza dubbio qualcosa da dire, come, per esempio, che la malattia è una piú alta condizione di vita, e ha quindi un che di festoso -, certo è che la malattia è un potenziamento del corpo, rinvia, per cosí dire, l'uomo interamente al suo corpo ed è pertanto nociva alla dignità umana fino al punto di distruggerla, poiché degrada l'uomo a mero corpo. Perciò, concluse, la malattia è disumana.

La malattia è quanto mai umana, ribatté subito Naphta, poiché essere uomo significa esser malato. Vero è che l'uomo è essenzialmente malato, il fatto di essere malato lo rende uomo, e chi lo volesse sanare e indurlo a fare la pace con la natura, a "ritornare alla natura (mentre non è mai stato naturale), tutti quei rigeneratori, mangiatori di vegetali crudi, naturisti, nudisti, eccetera che si danno arie di profeti, questi Rousseau dunque, non aspirano che a disumanizzarlo, ad abbrutirlo... Umanità? nobiltà? Ciò che distingue l'uomo - questo essere massimamente staccato dalla natura, il quale sa di esserle massimamente antitetico - da tutto il resto della vita organica, è lo spirito. Nello spirito dunque, nella malattia consiste la dignità dell'uomo, consiste la sua nobiltà; in poche parole, egli è tanto piú uomo quanto piú è malato, e il genio della malattia è piú umano di quello della salute. E' strano che chi si atteggia a filantropo chiuda gli occhi davanti a questi fondamentali assiomi dello spirito di umanità. Il signor Settembrini non faceva che parlare di progresso. Come se il progresso, in quanto esiste alcunché di simile, non fosse dovuto soltanto alla malattia, vale a dire: al genio,... il quale non è altro che, appunto, malattia ! Come se i sani in tutti i tempi non vivessero delle conquiste della malattia ! Si sono visti uomini contrarre, volutamente e consapevoli, malattie e follia per conquistare a vantaggio degli uomini conoscenze che dessero la salute mediante la pazzia, e il cui possesso e godimento, dopo quell'eroico sacrificio, non dipende piú dal morbo e dalla demenza. Questa è la vera morte sulla croce... "Vedo" pensò Castorp, "scorretto gesuita che sei, con tutte le tue combinazioni e la tua esegesi della morte sulla croce! Si capisce perché non sei diventato uno dei padri, joli jésuite à la petite tache humide! E ora ruggisci tu, leone!" Si rivolse mentalmente a Settembrini. E questi ruggí dichiarando che tutte le affermazioni di Naphta erano polvere negli occhi, arzigogoli, sofisticaggini per confondere il mondo. Lo dica gridò al suo antagonista con la sua responsabilità di educatore, lo dica schiettamente alla gioventú in cerca di cultura che Dio... è malattia! Sarà proprio il modo di avviarla allo spirito, di portarla a credere nello spirito! Dichiari d'altro canto che la malattia e la morte sono nobili, la salute e la vita invece volgari: è il metodo piú sicuro per indurre l'alunno a servire l'umanità. Davvero, è criminoso! E come un cavaliere difese la nobiltà della salute e della vita, quella nobiltà che è conferita dalla natura e non ha bisogno di trepidare per lo spirito. "La forma!" diceva lui, mentre Naphta obiettava enfatico: "Il logos!". Ma chi del logos non ne voleva sapere diceva: "La ragione !" mentre l'uomo del logos patrocinava "la passione!". Non ci si vedeva chiaro. L'uno diceva: "L'oggetto!", l'altro: "L'io!"; infine si era parlato di "arte" da un lato, di "critica" dal l'altro e in ogni caso sempre di "natura" e "spirito" e si era discusso quale fosse il piú nobile, si era prospettato il "problema aristocratico". Ma sempre senza ordine e chiarificazione neanche duplice e militante, poiché la disputa era non solo un conflitto, ma un soqquadro, e i contendenti non solo si contraddicevano tra loro a vicenda, ma erano anche in contraddizione con se stessi.

Quante volte non aveva Settembrini brindato alla "critica", mentre ora asseriva che il contrario, quella che doveva essere l"'arte", rappresentava il principio nobile; e mentre Naphta piú di una volta aveva preso le difese dell"'istinto naturale" contro Settembrini - il quale definiva la natura un "potère stupido", un mero fatto e fato, di fronte al quale la ragione e l'orgoglio umano non devono abdicare -, ora fiancheggiava lo spirito e la malattia, l'unico luogo in cui si riscontrino nobiltà e umanità, mentre Settembrini, immemore di ogni emancipazione, sosteneva la natura e la nobiltà della salute. Né meno confusa era la questione dell"'oggetto" e dell"'io", qui anzi la confusione (sempre la stessa, però) era piú che mai aggrovigliata e letteralmente tale che nessuno capiva piú chi fosse per la religione, e chi per la libertà. Naphta proibí severamente a Settembrini di dirsi "individualista", perché negava l'antitesi di Dio e natura, intendeva che il problema dell'uomo, il conflitto interiore della personalità, fosse unicamente quello degli interessi individuali e della comunità, e pertanto, propugnava una morale borghese legata alla vita la quale considerasse la vita come fine a se stessa, mirasse, lungi da ogni eroismo, all'utile e scorgesse la legge morale nel fine dello stato,... mentre invece lui, Naphta, ben sapendo che il problema interiore dell'uomo poggia sul contrasto fra il sensibile e il soprassensibile, rappresentava il vero, mistico individualismo ed era veramente l'uomo della libertà e del soggetto. Ma se lo era, continuò a riflettere Castorp, come si spiegava "l'anonimo e la comunanza", per citare subito, a mo' d'esempio, almeno una contraddizione? E come, le notevoli osservazioni che nel colloquio con padre Unterpertinger aveva fatto intorno alla "cattolicità" di Hegel, il filosofo di stato, intorno all'ultimo legame tra i concetti di "politico" e "cattolico" e intorno alla categoria dei fatti oggettivi formata da entrambi? Politica e educazione non erano sempre stati la particolare palestra dell'Ordine di Naphta,? E quale educazione? Settembrini era certo un pedagogo zelante, d'uno zelo che arrivava fino a dar fastidio; ma in quanto a oggettività ascetica, spregiatrice dell"'io", i suoi principi non potevano certo misurarsi con quelli di Naphta. Comando assoluto! Legame ferreo ! Violentamento ! Obbedienza ! Terrore ! Tutte cose onorevoli, che però tenevano poco conto della dignità critica dell'individuo. Era il regolamento militare del prussiano Federico e dell'ispanico Loyola, credente e marziale fino all'ultimo sangue; restava da vedere come mai Naphta arrivasse all'assolutismo cruento, visto che, per sua confessione, non credeva affatto in una conoscenza pura, in un'indagine senza presupposti, nella verità, insomma, nella verità oggettiva, scientifica, la cui ricerca era per Lodovico Settembrini legge suprema di ogni morale umana. Questi era giusto e rigoroso, mentre Naphta era fiacco e sciatto, nel far risalire la verità al l'uomo e dichiarare che è vero ciò che gli giova. Non era persino senso borghese della vita e filisteismo utilitario quel far dipendere la verità dall'interesse dell'uomo? A rigore, quella non era oggettività ferrea, conteneva piú libertà e soggetto di quanto Leo Naphta non volesse ammettere... anche se era "politica" come l'istruttiva sentenza di Settembrini che "la libertà è la legge dell'amore del prossimo". Questo voleva dire chiaramente legare la libertà, come Naphta legava la verità e cioè all'uomo.

Era certo un atto piú giusto che libero, e questo era a sua volta una differenza che in tali definizioni rischiava di andare perduta. Oh, quel Settembrini! Non per nulla era un letterato, anzi nipote di un uomo politico e figlio di un umanista. Badava nobilmente alla critica e alla bella emancipazione e rivolgeva, canterellando, la parola alle ragazze per la strada, mentre l'acuto piccolo Naphta era vincolato dai voti. Eppure questi era quasi un dissoluto da tanto che faceva il libero pensatore, mentre quello, se vogliamo, era un San Luigi. Dello "spirito assoluto" Settembrini aveva paura e a tutti i costi voleva legare lo spirito al progresso democratico, atterrito dal libertinaggio religioso del militarismo di Naphta, che metteva nello stesso pentolone Dio e il diavolo, la santità e il delitto, il genio e la malattia, e non ammetteva alcuna valutazione, alcun giudizio razionale, alcuna volontà. In fondo chi era libero, chi religioso; che cosa costituiva il vero stato dell'uomo? L'affondare nella comunità che tutto inghiotte e pareggia, e ad un tempo è dissoluto e ascetico, oppure il "soggetto critico", dove le fanfaronate e la rigorosa virtú borghese si venivano reciprocamente tra i piedi? Ahimè, i principi e gli aspetti si stavano continuamente tra i piedi, di contraddizioni interne non c'era penuria, e la responsabilità di un non-militare si trovava in una cosí straordinaria difficoltà non solo di scegliere tra due contrari, ma sia pure di tenerli separati e puliti come due pezzi anatomici, che veniva la tentazione di buttarsi a capofitto nel "tutto moral mente disordinato" di Naphta. Era la grande confusione, quell'incrociarsi, quell'intrecciarsi di tutto, e Castorp credette d'intuire che i litiganti sarebbero stati meno accaniti se, nella disputa, non avessero avuto l'anima oppressa dal peso di quella Gonfusione. Cosí erano saliti tutt'insieme al Berghof, poi i tre che vi abitavano avevano riaccompagnato gli esterni fino alla porta della loro casetta, dove stettero ancora a lungo nella neve, Naphta e Settembrini continuando a disputare... a scopo pedagogico (Castorp lo sapeva) per plasmare la cultura della gioventú bramosa di luce. Per Ferge quelle erano tutte cose troppo elevate, come fece capire piú volte, e Wehsal vi prese scarsamente parte da quando non si parlò piú di legnate e torture. Castorp a capo chino frugava col bastone nella neve e pensava alla grande confusione. Infine il gruppo si sciolse. Non si poteva star lí in eterno, e il colloquio era senza limiti. I tre ospiti del Berghof ripresero la via di casa e i due pedagoghi in gara dovettero entrare insieme nella casetta, l'uno per ritirarsi nella serica cella, l'altro nella stanzina di umanista col leggio e la bottiglia dell'acqua. Castorp raggiunse il suo balcone, le orecchie rintronate dal guazzabuglio e dallo strepito d'armi dei due eserciti che, avanzando da Gerusalemme e da Babilonia, si scontravano sotto le dos banderas in un confuso tumulto di guerra.

Neve. Cinque volte al giorno si udiva esprimere, alle sette tavole, l'unanime malcontento per le condizioni del tempo nell'inverno corrente. Tutti erano del parere che esso adempiva in grado molto insufficiente i suoi obblighi d'inverno d'alta montagna, che non offriva affatto i rimedi meteorologici, ai quali la zona doveva la sua fama, nella misura promessa dall'opuscolo pubblicitario, come i residenti anziani erano avvezzi e i novellini si erano figurato. Si registrarono enormi ammanchi di sole, di radiazioni solari, farmaco importante, senza il cui contributo la guarigione veniva indubbiamente procrastinata... E comunque la pensasse Settembrini circa la sincerità, con cui gli ospiti attendevano alla loro guarigione e al ritorno dalla "patria" alla pianura, in ogni caso essi chiedevano il giusto, volevano rifarsi delle spese, delle somme che i genitori, i mariti sborsavano per loro, e perciò brontolavano, a tavola, nell'ascensore, nel vestibolo. D'altro canto la direzione comprendeva il proprio dovere di porre ripiego e di risarcire il danno. Acquistò una nuova lampada di quarzo, perché le due già esistenti non bastavano a soddisfare le richieste di coloro che desideravano farsi abbronzare con l'energia elettrica, la qual cosa donava alle ragazze e alle signore e conferiva agli uomini, ad onta del tenore di vita orizzontale, un magnifico aspetto sportivo e conquistatore; aspetto che dava in realtà i suoi frutti; le donne, benché pienamente consapevoli della provenienza cosmetico-tecnica di quella virilità, erano abbastanza sciocche o scaltre, abbastanza intestate a lasciarsi ingannare, da inebriarsi di questa illusione e da sentirsi sollecitate nei loro istinti femminili. Dio mio! disse la signora Schonfeld, una malata berlinese dai capelli rossi e gli occhi arrossati, una sera nel vestibolo, a proposito di un cavaliere dalle gambe lunghe e dal petto incavato, il quale sul biglietto di visita si diceva "Aviateur diplomé et Enseigne de la Marine allemande" ed era provvisto di pneumotorace, oltre a ciò compariva a colazione in smoking, ma la sera se lo toglieva affermando che cosí voleva il regolamento della marina,... Dio mio ! disse lei guardando avidamente l"'EnSejgne" come è diventato bruno col sole di montagna! Sembra un cacciatore d'aquile, questo demonio!... Aspetta, sirena! le sussurrò lui, nell'ascensore, all'orecchio, facendole venire la pelle d'oca, mi dovrà ripagare delle sue occhiate assassine! E per i balconi, lungo i tramezzi di vetro, il demonio e cacciatore d'aquile riuscí a raggiungere la sirena... Si era ben lontani però dall'accettare il sole artificiale come vera compensazione della mancanza di genuina luce celeste. Due o tre limpidi giorni di sole al mese giorni, in verità, che col cupo azzurro vellutato dietro alle vette candide, con uno scintillio di diamanti e un delizioso calore sulla nuca e sul viso degli uomini, erompevano radiosi dal grigiore sfumato delle nebbie e dalla spessa nuvolaglia - due o tre di questi giorni nel corso di settimane erano troppo pochi per il cuore di persone, la cui sorte giustificava straordinarie pretese di conforto, senza dire che tra sé si facevano forti di un patto il quale, contro la rinuncia alle gioie e alle pene della pianura, garantiva loro una vita senza vita ma oltremodo facile e divertente,... spensierata fino ad annullare il tempo e in tutto favorevole.

Poco giovava al consigliere rammentare che in quelle circostanze la vita del Berghof non somigliava affatto al soggiorno in un bagno penale o in una miniera siberiana, e far notare quali pregi l'aria di lassú, leggera e rarefatta com'era, quasi sgombro etere dell'universo, povero di aggiunte terrene, buone e cattive, offrisse, anche senza sole, in confronto della caligine e dei vapori della pianura: inutile, malumori e proteste dilagavano, le minacce di partenze arbitrarie erano frequenti e di moda, e venivano anche effettuate, nonostante certi esempi, come quello del recente triste ritorno della signora Salomon, la cui malattia, non grave seppure di lunga durata, in seguito al suo arbitrario soggiorno nell'umida e ventilata Amsterdam era peggiorata fino a far prevedere che lei se la sarebbe trascinata per tutta la vita... Invece di sole però c'era neve, neve in quantità, in una tale abbondanza che Castorp non aveva mai vista. Nel l'inverno precedente non era certo mancata, ma le provviste erano state piuttosto povere se paragonate a quelle dell'anno in corso. Queste erano mostruose e smisurate e davano veramente un'idea della bizzarria e dell'eccentricità della zona. Nevicava un giorno dopo l'altro e durante la notte, a fiocchi radi o a turbini fitti, ma nevicava. Le poche strade che erano tenute sgombre e transitabili, sembravano trincee con pareti di neve ai lati, alte piú di un uomo, superfici lisce e alabastrine che era piacevole vedere nel loro cristallino e granuloso luccichio, e servivano agli ospiti montani per scrivere e disegnare, per trasmettere ogni sorta di notizie, di motti scherzosi, di scurrili allusioni. Ma anche tra quelle pareti, nonostante la spalatura, si camminava su un fondo rialzato, lo rivelavano i punti cedevoli e le buche nelle quali il piede affondava, giú giú, magari fino al ginocchio: bisognava stare attenti per non rischiare di rompersi una gamba. Le panchine erano scomparse, sprofondate, un pezzo di spalliera ne sporgeva dal loro bianco sepolcro. Giú nel paese, il livello stradale era cosí stranamente spostato che i negozi al pianterreno delle case erano diventati cantine, nelle quali si scendeva per gradini di neve dall'altezza del marciapiede. E sulle masse nevose continuò a cadere la neve, per giorni e giorni, in silenzio e con freddo moderato, dieci quindici gradi sotto zero, che non penetrava proprio nelle ossa,... si sentivano poco, potevano anche essere cinque o due, la bonaccia e l'asciuttezza dell'aria li rendevano meno pungenti. Le mattine erano molto buie, si faceva colazione alla luce artificiale dei lampadari nella sala ornata di gaie figure lungo la volta. Fuori c'era il nulla cupo, un mondo bene imballato in ovatta biancogrigia che urgeva contro i vetri, in un vaporio di neve e di nebbia. La montagna era invisibile; se mai, col tempo, s'intravedevano le piú vicine conifere, tutte cariche, che si perdevano rapidamente nella caligine, e di tanto in tanto un abete si liberava dal carico eccessivo sollevando un polverio bianco sul grigio. Alle dieci il sole sorgeva dal monte come un fumo debolmente illuminato, per recare una scialba vita fantasmagorica, uno smorto riverbero di forme tangibili nel paesaggio evanescente e irriconoscibile. Tutto era sciolto in una pallida morbidezza spettrale, senza una linea che l'occhio potesse seguire con sicurezza. La sagoma delle vette scomparve, svaní nella nebbia e nel fumo.

Campi di neve sotto quella luce sbiadita, susseguentisi, sormontantisi, guidavano l'occhio verso l'irreale. Infine, davanti a una parete di roccia, poteva librarsi una nuvola illuminata, come un globo di fumo, a lungo, senza mutare forma. Verso mezzogiorno il sole, in un tentativo di rompere, sembrava che volesse risolvere la nebbia in cielo azzurro. Ma il conato era ben lungi dal riuscire; per qualche momento però si affermava una parvenza di cielo libero, e la poca luce era sufficiente ad accendere uno scintillio di diamanti nella regione bizzarramente deformata dall'avventura nivale. Di solito a quell'ora smetteva di nevicare, come per dar modo di osservare i risultati raggiunti; a tal fine servivano forse anche le poche giornate di sole intercalate, quando il sinibbio cessava e l'improvviso calore del cielo tentava di sciogliere la superficie deliziosamente pura delle masse di neve novella. L'aspetto del mondo era fiabesco, puerile e comico. Gli spessi e soffici guanciali, quasi sprimacciati, sui rami degli alberi, le gobbe del terreno, sotto alle quali si nascondevano piante nane e spunzoni di roccia, le forme del paesaggio accucciate, affondate, buffamente infagottate, tutto ciò formava un mondo di gnomi, ridicolo, da libro di fiabe. Ma se lo scenario vicino, nel quale ci si moveva con fatica, aveva un'aria fantastica e scherzosa, lo sfondo lontano, le Alpi nevose e torreggianti ispiravano sentimenti di sublime santità. Nel pomeriggio tra le due e le quattro, Castorp stava coricato sul balcone e, bene imbacuccato, la testa sorretta dalla spalliera, né troppo sollevata, né troppo orizzontale della sua eccellente sedia a sdraio, guardava oltre il parapetto imbottito, i boschi e la montagna. La foresta di abeti verde-nera, carica di neve, montava su per i pendii, e il terreno tra gli alberi era coperto di morbidi cuscini di neve. Piú su si ergevano in bianco-grigio i monti rocciosi, con estesi piani di neve interrotti qua e là da scuri nasi di pietra emergenti, e con le creste svaporanti nell'aria. Nevicava in silenzio. Tutto andava dileguando. Lo sguardo, sperduto in quel nulla ovattato, si lasciava prendere facilmente dalla sonnolenza. Un brivido accompagnava il momento del trapasso, ma non ci può essere sonno piú puro di quello che egli dormiva là al gelo, senza sogni che fossero mossi da un inconscio senso del peso della vita, poiché il respiro dell'aria sottile, priva di vapori, non riusciva piú difficile di quanto non sia il non-respiro dei morti. Al risveglio la montagna era tutta scomparsa nel nevischio e soltanto qualche parte, una vetta, una punta di roccia, sbucava alternatamente alcuni minuti per velarsi poi un'altra volta. Quel giuoco spettrale era quanto mai divertente. Bisognava stare molto attenti per seguire la fantasmagoria dei veli nelle sue misteriose mutazioni. Alto e selvaggio emergeva dalla caligine un particolare della montagna, di cui non si vedeva né la cima né il piede: bastava voltar l'occhio un minuto, e la montagna non c'era piú. Si scatenarono poi bufere di neve che impedirono di trattenersi sul balcone, perché il turbine bianco irrompeva con masse di neve che coprivano ogni cosa, il pavimento e i mobili.

Nell'alta valle chiusa imperversava anche la tormenta. L'aria sottile era sconvolta e lo sfarfallio dei fiocchi cosí fitto che non si vedeva a un passo di distanza. Raffiche di una violenza soffocante investivano di fianco il nevischio con moto fulmineo, lo sollevavano di sotto in su, dal fondovalle verso il cielo, lo frullavano in una folle danza vorticosa,... non era piú una nevicata, era una bianca tenebra caotica, uno scompiglio, era l'eccesso fenomenico d'una regione travalicante le zone moderate, dove soltanto il fringuello nivale, che improvvisamente compariva a stormi, poteva sentirsi a casa propria. A Castorp però piaceva vivere in mezzo alla neve. Quella vita gli pareva avesse parecchie analogie con la vita sulla spiaggia: hanno infatti in comune la primordiale monotonia della natura; la neve, fonda, soffice, immacolata, polverosa fa là in alto la stessa parte che laggiú la rena bianco-gialla; il contatto con entrambe è ugualmente pulito, si scuote il gelo bianco e asciutto dalle scarpe e dagli abiti come laggiú il tritume di pietre e conchiglie, privo di polvere, sollevato dal fondo del mare, che non lascia traccia, e similmente faticoso è camminare nella neve come sulle dune, a meno che la superficie non sia stata sciolta dal sole e rigelata la notte: e allora si cammina con maggior facilità e piacere che su un pavimento lucido,... con la stessa facilità e con lo stesso piacere che sulla sabbia liscia, soda, elastica della battigia. Se non che le nevicate e la neve ammassatasi nell'anno erano tali da restringere miseramente la possibilità di moto all'aperto, per tutti tranne che per gli sciatori. Gli spartineve erano in funzione, ma duravano fatica a tener sgombri i sentieri piú usati e la strada principale del luogo, e le poche vie aperte che sfociavano subito in zone inaccessibili erano frequentatissime da sani e malati, dai paesani e dalla società internazionale presente negli alberghi; i pedoni poi si trovavano tra le gambe gli appassionati dello slittino, uomini e donne, che piegati all'indietro, i piedi avanti, lanciando grida e avvertimenti tali da far intendere quanto fossero compresi dell'importanza della loro impresa, filavano giú dai versanti con lo slittino da ragazzi, rollando e tombolando, finché, arrivati in fondo, tornavano a salire tirandosi dietro il loro giocattolo di moda. Di quelle passeggiate Castorp era arcisazio. Ora aveva due desideri: il piú forte era quello di poter stare solo con i suoi pensieri e affari di governo, e fin qui il suo balcone lo poteva anche appagare, sia pure superficialmente. L'altro invece, collegato col primo, era la viva aspirazione a un contatto piú intimo e libero con la deserta montagna nevosa, che aveva suscitato le sue simpatie, e questo desiderio era inattuabile finché lui lo coltivava da pedone disarmato e senza ali; come tale sarebbe affondato fino al petto, se avesse fatto il tentativo di proseguire oltre il termine, presto raggiunto, di tutte le vie di comunicazione spalate e sgombre. Perciò, un giorno, nel secondo inverno che passava lassú, Castorp deliberò di acquistare un paio di sci e di imparare a usarli fin dove lo esigeva il suo progetto. Non era uno sportivo, per mancanza di attitudini fisiche non lo era mai stato, né fingeva di esserlo come facevano taluni ospiti del Berghof che, per compiacere la moda e lo spirito locale, si vestivano da elegantoni,... specialmente le donne, per esempio Hermine Kleefeld la quale, benché l'insufficiente respiro desse una tinta bluastra alle sue labbra e alla punta del naso, compariva volentieri a pranzo in

calzoni di lana, e in quella foggia, dopo il pasto, seduta su una poltrona di vimini nel vestibolo, si comportava villanamente a ginocchia divaricate. Castorp, se avesse chiesto al consigliere il permesso di attuare il suo esagerato proponimento, avrebbe incontrato un netto rifiuto. L'attività sportiva era assolutamente vietata a tutti gli ospiti sia del Berghof, sia di qualunque altro simile sanatorio; bastava infatti l'aria, cosí leggera in apparenza, a imporre un notevole sforzo al muscolo cardiaco e, in quanto a lui, Castorp doveva considerare sempre valida la sua intelligente massima dell"'abitudine a non abituarsi"; e la sua tendenza alla febbre, che Radamanto faceva risalire a una zona umida, continuava ostinata. Poteva forse aspirare ad altro lassú? Ecco, dunque, che il suo desiderio e il suo proposito erano contraddittori e illeciti. Ma bisogna anche capirlo. Egli non era pungolato dall'ambizione di mettersi alla pari degli zerbinotti sportivi e dei galanti naturalisti che, se fosse corsa la parola d'ordine, si sarebbero dedicati con altrettanto zelo e al trettante arie al giuoco delle carte in un locale chiuso e soffocante. Egli sapeva di appartenere a una specie piú disciplinata, diversa dal popolino dei turisti, e sotto un piú ampio, piú nuovo angolo visuale, in base a una dignità allontanante, a un obbligo di moderazione, sentiva che non era affar suo divertirsi in superficie come quelli e avvoltolarsi nella neve come uno scemo. Non aveva in animo di fare scappate clamorose, sapeva moderarsi, e Radamanto poteva approvare tranquillamente il suo piano. Ma siccome, per non venir meno al regolamento, glielo avrebbe vietato, Castorp decise di agire a sua insaputa. All'occasione espose il suo progetto a Settembrini, il quale per poco non lo abbracciò dalla gioia. Ma sí, ma sí, ingegnere, lo faccia senz'altro! Non chieda nulla a nessuno e lo faccia... E' stato il suo angelo tutelare a suggerirglielo. Lo faccia subito, prima che gliene passi la voglia! Vengo con lei, l'accompagno nel negozio, e su due piedi comperiamo insieme quei benedetti arnesi. L'accompagnerei anche sui monti, volerei come l'alipede Mercurio insieme con lei, ma non devo... Non mi è lecito. Oh, se mi fosse soltanto non lecito, lo farei lo stesso, ma non ne sono capace, sono un uomo perduto. Lei invece... No, non le farà male, purché sia ragionevole e non voglia esagerare. Ma, via, se anche dovesse nuocere un pochino sarà stato sempre il suo angelo tutelare a... Non dico altro. Che progetto eccellente! Essere qui da due anni e avere ancora codesta trovàta... eh, la stoffa è buona, non c'è motivo di disperare di lei. Bravo, bravo! Lei fa tanto di naso al suo re di paglia lassú, compera gli scivoli, li fa mandare da me o a Lukacek o dal droghiere là nella nostra casetta. Là li viene a prendere per fare gli esercizi e se ne scivola via... Cosí fu fatto.

Presente Settembrini che faceva la parte del critico competente, mentre di sport non capiva un'acca, Hans Castorp acquistò in un negozio specializzato della via principale un paio di sci eleganti, verniciati di marrone chiaro, di ottimo frassino, con la punta ricurva e con magnifici attacchi di cuoio, comperò anche i bastoncini con puntale di ferro e con la racchetta rotonda, e non rinunciò a prendere tutto ciò in spalla e a portarlo di persona fino all'abitazione di Settembrini, dove si mise subito d'accordo col droghiere per la quotidiana custodia degli arnesi. Imparatone l'uso stando a guardare gli altri, cominciò per conto suo, su un pendio quasi senza alberi, lontano dal brulichio dei campi di scuola, a fare le sue maldestre prove quotidiane; qualche volta, da una certa distanza, vi assisteva Settembrini appoggiato al bastone, i piedi graziosamente incrociati, e salutava con dei "bravo" i suoi progressi di abilità. Andò ancora bene un giorno, in cui Castorp, scendendo per la svolta spalata verso Dorf con l'intenzione di portare gli sci dal droghiere, s'imbatté in Behrens. Questi non lo riconobbe, benché fosse mezzogiorno, e il principiante gli fosse quasi andato addosso. Avvolto in una nube di fumo di sigaro passò oltre a gran passi. Castorp notò che si acquista presto un'abilità della quale si sente il bisogno interiore. Non che pretendesse di diventare un campione. Tutto quanto gli occorreva lo imparò in pochi giorni senza scalmanarsi e perdere fiato. Si avvezzò a tenere i piedi vicini e a tracciare orme parallele, imparò a usare il bastoncino per dirigersi in discesa, trovò il modo di superare ostacoli, come piccole gobbe del terreno, prendendo lo slancio a braccia distese, sollevandosi e avvallando come una nave sul mare in burrasca, e dopo la ventesima prova non cadde piú quando nell'arresto a telemark frenava in piena corsa con una gamba tesa e il ginocchio dell'altra piegato. A poco a poco allargò il territorio dei suoi esercizi. Un giorno Settembrini lo vide scomparire nella nebbia bianchiccia, gli mandò un avvertimento facendo tromba delle mani e pedagogicamente soddisfatto se ne ritornò a casa. Era bello lassú sulla montagna invernale - non un bello dolce e gentile, ma simile a quello del Mare del Nord selvaggio, quando vi soffia la furia del ponente senza fragori tonanti, anzi in un silenzio di morte, ma tale da suscitare sensi di rispetto molto affini. Le suole lunghe e flessibili portavano Castorp in tutte le direzioni: lungo il versante sinistro verso Clavadel, oppure a destra davanti a Frauenkirch e Glàris, dietro ai quali sbucava dalla nebbia come un'ombra spettrale il massiccio di Amselfluh; o anche in Val Dischm o su, dietro al Berghof in direzione del boschivo Seehorn, del quale sopra il limite della vegetazione arborea si vedeva soltanto la cima nevosa, e verso la Val Drusacia, dietro alla quale appariva il pallido profilo della catena del Rhatikon carica di neve. Egli si faceva anche sollevare, insieme alle sue assicelle, con la funicolare fino alla Schatzalp e lassú, a duemila metri, si aggirava comodamente sui scintillanti pendii di neve polverosa, dai quali con tempo chiaro gli si offriva l'austero panorama del teatro delle sue avventure.

Era lieto della conquista che gli spalancava un mondo inaccessibile e annullava quasi gli ostacoli; esso lo fasciava con la desiderata solitudine, la piú profonda che potesse immaginare, una solitudine che gli toccava il cuore con le sensazioni d'un'enorme e critica lontananza dagli uomini. Da un lato talvolta un ripido pendio di abeti precipitava nel nevischio e dall'altro montava un roccione carico di masse di neve enormi, ciclopiche, a pance e gobbe, con caverne e cappucci. Quando si fermava, immobile per non sentire se stesso, il silenzio era assoluto e perfetto, una quiete ovattata, ignota, mai avvertita, senza riscontri possibili. Non c'era un alito di vento che sfiorasse gli alberi, non un sussurro, non una voce d'uccello. Castorp, appoggiato al bastone, la testa china su una spalla, la bocca aperta, ascoltava il silenzio primordiale; e la neve vi continuava a cadere, quieta, incessante, senza alcun rumore. Ecco, quel mondo che, nel suo abissale silenzio, non aveva nulla di ospitale, accoglieva il visitatore a suo rischio e pericolo, anzi non lo accoglieva, non lo accettava, ma tollerava il suo arrivo, la sua presenza, senza nessuna sicurezza, senza alcuna garanzia, emanando sensazioni di una quieta elementarità minacciosa, non tanto di ostilità, quanto piuttosto di una indifferenza mortale. Il figlio della civiltà, estraneo e fin dalla nascita lontano dalla natura selvaggia, è molto piú accessibile alla sua grandezza di quanto non sia il suo rude figlio che, avvezzo fin da bambino, ci vive in fredda confidenza; questo non conosce, si può dire, il timore riverente con cui quello vi si affaccia sollevando le sopracciglia, e da cui è determinato nel profondo quel suo sentimentale rapporto con essa che mantiene nel suo cuore una continua commozione religiosa e una pavida eccitazione. Castorp, in quel suo panciotto di pelo di cammello con le maniche lunghe, le mollettiere alle gambe e gli sci di lusso ai piedi, si reputava, in fondo, molto audace nel sorprendere il silenzio primordiale, nel visitare il deserto nevoso mortalmente afono, e quel senso di sollievo che si faceva sentire quando, al ritorno, vedeva divilupparsi dai veli le prime dimore umane gli dava la coscienza del suo stato precedente e gli dimostrava che per ore la sua mente era stata dominata da un segreto e sacro terrore. Nell'isola di Sylt aveva sostato in calzoni bianchi, sicuro, elegante e rispettoso, al margine di una immensa risacca come davanti alla gabbia del leone, dietro alle cui sbarre la belva spalanca la voragine delle fauci armata di terribili canini. Poi aveva fatto il bagno, mentre un custode segnalava con la cornetta il pericolo a coloro che sfacciatamente tentavano di avventurarsi oltre la prima ondata e di avvicinarsi troppo àll'imminente burrasca; e l'ultimo scarico della cateratta l'aveva colto alla nuca come un colpo d'artiglio. Là il giovane aveva appreso l'entusiasmante gioia del lieve contatto amoroso con forze, il cui completo abbraccio sarebbe fatale. Non aveva invece sperimentato la tendenza ad approfondire quegli entusiasmanti contatti fino a sentire la minaccia dell'abbraccio completo,... ad arrischiarsi - da quella creatura debole che era, anche se armata e discretamente equipaggiata dalla civiltà - a procedere sul terreno pauroso, o almeno a non fuggire finché non fosse raggiunto il punto critico e non ci fosse piú la possibilità di porgli un termine, finché non si trattasse piú di uno scarico di schiume e di un colpetto di artiglio, bensí dell'onda, delle fauci, del mare. Per farla breve: Castorp aveva coraggio lassú,... se coraggio di fronte agli elementi non è ottusa freddezza nel rapporto con essi, bensí consapevole dedizione e paura di morire vinta con la simpatia.

Simpatia? Certo, Castorp nel suo petto angusto e civile provava simpatia per gli elementi; e c'era un nesso tra questa simpatia e il novello senso di dignità di cui si era reso conto alla vista del popolino slittante, mentre d'altro canto aveva giudicato decorosa e desiderabile una solitudine piú profonda, piú ampia, meno comoda di quella del suo balcone dal quale aveva osservato l'alta montagna nebbiosa, la danza della tormenta, e in fondo all'anima si era vergognato della sua oziosa curiosità al di qua del parapetto che limitava la sua vita agiata. Per questo, non per tifo sportivo né per innate abitudini ginniche aveva imparato a sciare. Se non si sentiva a suo agio in quella grandezza, nel mortale silenzio della nevicata (e, figlio com'era della civiltà, non poteva sentirsi sicuro), be', era un pezzo che disagi spirituali ne aveva provati lassú. Una conversazione con Naphta e Settembrini non era proprio la cosa piú comoda; anch'essa portava in zone impervie e altamente pericolose; e se si può parlare di simpatia per l'ampio deserto invernale, bisogna considerare che, nonostante il suo timore riverente, Castorp vi trovava l'ambiente adatto per chiarire i suoi pensieri, il dicevole soggiorno per chi, pur non sapendo bene come fosse toccato a lui, si sentiva addosso il peso di affari di governo circa la posizione e lo stato dell'homo dei. Là non c'era nessuno che con la cornetta segnalasse il pericolo ai temerari, a meno che quello non fosse Settembrini il quale vedendolo scomparire, aveva mandato a Castorp un avvertimento facendo tromba delle mani. Questi però, armato di coraggio e simpatia, non badò al grido lanciatogli alle spalle piú di quanto non avesse badato, a un certo punto della notte di carnevale, alle parole pronunciate dietro a lui: Ingegnere, un po' di buon senso, via! . "Ma va, Satana pedagogo" pensò, "con la tua 'ragione' e 'ribellione'. Però ti voglio bene. Sei, è vero, uno smargiasso, un sonatore d'organetto, ma sei in buona fede, migliore e piú simpatico dell'acuto piccolo gesuita e terrorista, di quell'aiuto del boia e bastonatore spagnolo, con quegli occhiali lampeggianti, benché abbia quasi sempre ragione quando disputate,... quando litigate da pedagoghí per la mia povera anima, come nel medioevo l'io e il diavolo per il possesso dell'uomo..." Le gambe incipriate, salí passo passo su pallide alture, coperte di candidi lenzuoli, sempre piú in alto, di terrazza in terrazza non si capiva dove; pareva che non conducessero in nessun luogo; la regione superiore sfumava confondendosi col cielo, altrettanto bianco e nebbioso, che non si vedeva dove cominciasse; non appariva una vetta, non una cresta; Castorp si portava in alto verso quel nulla vaporoso, e come dietro a lui il mondo con la valle abitata si chiuse rapidamente e scomparve allo sguardo, né di laggiú arrivava alcun suono; anche la sua solitudine, anzi l'abbandono fu, prima che non pensasse, cosí vasto come aveva potuto desiderare, profondo fino allo spavento che è il presupposto del coraggio. "Praeterit figura huius mundi" disse tra sé in un latino che non era di spirito umanistico,... parole che aveva udite da Naphta. Si fermò e guardò in giro. Non c'era niente da vedere da nessuna parte, tranne singoli minuscoli fiocchi di neve che scendendo dal bianco superiore si posavano sul bianco del fondo, e il silenzio tutt'intorno era enorme e nulladicente.

Mentre il suo sguardo si frangeva contro il vuoto abbagliante, sentí annunciarsi il cuore che batteva forte a causa della salita,... quel muscolo cardiaco del quale aveva osservato di sorpresa (e forse non era lecito) la forma animale e il modo di pulsare, ai lampi scoppiettanti del gabinetto radiologico. E lo prese quasi una commozione, una schietta e riverente simpatia per il proprio cuore, per il palpitante cuore umano, cosí solo lassú, nel gelido vuoto, con le sue domande e i suoi enigmi. Si spinse oltre, piú in alto, verso il cielo. Talvolta ficcava nella neve l'estremità superiore del bastoncino e stava a guardare la luce azzurra che dal fondo del buco rincorreva il bastone, quando egli lo estraeva. Ci si divertiva e si tratteneva a lungo per ripetere piú volte il modesto fenomeno ottico. Era una delicata e caratteristica luce dei monti e delle profondità, verdazzurra, limpida come il ghiaccio e pur velata, misteriosa e attraente. Gli ricordava la luce e il colore di certi occhi, occhi obliqui dallo sguardo fatale, che Settembrini col suo criterio umanistico e con disprezzo aveva definiti "fessure tartare" e "occhi da lupo delle steppe", occhi visti da ragazzo e poi inevitabilmente ritrovati, gli occhi di Hippe e di Clavdia Chauchat. Volentieri disse a mezza voce nel silenzio. Ma bada di non romperla: il est à visser, tu sais. E con la mente udiva dietro a sé armoniosi inviti al buon senso. Di fianco, a destra, intravide a qualche distanza un bosco nella nebbia. Prese quella direzione per avere davanti agli occhi una meta terrena invece di quella trascendenza biancastra; e d'un tratto partí in discesa senza aver minimamente notato l'avvallamento. Il barbaglio rendeva impossibile riconoscere le forme del terreno. Non si vedeva nulla, tutto sfumava e gli ostacoli si presentavano improvvisi. Egli si lasciò andare senza distinguere i gradi dell'inclinazione. La boscaglia che lo aveva attirato sorgeva al di là della gola nella quale era inavvertitamente disceso. Il fondo di questa, coperto di neve molle, si abbassava dalla parte del monte; egli se ne accorse quando l'ebbe seguita un tratto in quella direzione. E continuò a scendere; i fianchi obliqui si alzavano; lo spacco pareva s'inoltrasse nel monte come una trincea. Poi le punte delle assicelle si risollevarono; il suolo montava; dopo un po' non ci fu piú parete laterale da superare, e il cieco viaggio di Castorp riprese sul libero pendio verso il cielo. Vide le conifere al suo fianco e sotto di sé, vi si diresse e in veloce discesa raggiunse gli abeti carichi di neve, che, disposti a cuneo, si spingevano, propaggini di precipiti boscaglie avvolte nella nebbia, fin nella zona sgombra di piante. Sotto i loro rami riposò fumando una sigaretta, sempre un po' oppresso nell'anima, teso, angosciato dall'eccessivo silenzio, dalla fantastica solitudine, ma orgoglioso di averla conquistata e pieno di coraggio per i diritti che la sua dignità sembrava di poter vantare su quella regione. Erano le tre del pomeriggio. Era partito poco dopo la colazione col proposito di marinare una parte della grande cura a sdraio e la merenda e di essere di ritorno prima che facesse buio.

Era beato all'idea di disporre di alcune ore per vagabondare in quel mondo libero e grandioso. Aveva un pezzo di cioccolata nella tasca dei calzoni alla scudiera e una bottiglietta di Porto nella tasca del panciotto. Era quasi impossibile distinguere la posizione del sole, tanto-era fitta la nebbia. In fondo, verso lo sbocco della valle, nell'angolo della montagna nascosta allo sguardo, la nuvolaglia e le nebbie erano piú dense e scure e sembrava che venissero avanti. Si sentiva un'aria di neve, di piú neve ancora - come per colmare un fabbisogno urgente - di una vera e propria tormenta. Infatti, i fiocchetti silenziosi infittirono. Castorp fece un passo avanti per farne cadere alcuni sulla manica e osservarli con la competenza dello studioso dilettante. Sembravano straccetti informi, ma piú di una volta egli ne aveva visti attraverso la sua buona lente e sapeva benissimo di che gioielli graziosamente regolari erano composti, di oggetti preziosi, stelle cavalleresche, fermagli di brillanti, che piú ricchi e minuziosi non avrebbe saputo creare neanche il piú coscienzioso gioiel liere,... anzi quel bianco polverio, lieve e soffice, che ammassato gravava sul bosco e copriva la landa, e sul quale lo portavano le sue assicelle, era pur diverso dalla natia rena marina, alla quale faceva pensare: questi non erano, si sa, granelli di sabbia, bensí miriadi di particelle d'acqua congelate e variamente cristallizzate - particel le della sostanza inorganica che fa sbocciare anche il plasma della vita, il corpo dei vegetali e dell'uomo - e tra quelle miriadi di stelline magiche nella loro minuta e segreta magnificenza, inaccessibile e d'altronde neanche destinata al nudo occhio umano, non ce n'era una che fosse uguale all'altra; una illimitata gioia d'inventare si manifestava nella variazione e nella finissima elaborazione di uno stesso invariabile schema, quello dell'esagono equilatero-equiangolo; ma in se stesso ciascuno di quei freddi prodotti era di una simmetria assoluta, di una gelida regolarità, anzi questo era il loro lato inquietante, antiorganico, ostile alla vita; erano troppo regolari, la sostanza organizzata per vivere non lo è mai fino a tal punto, la vita aborre la precisione esatta, la considera letale, come l'enigma della morte stessa, e Castorp credette d'intuire perché i costruttori di templi antichi abbiano introdotto di nascosto piccole divergenze nella simmetria dei loro ordini di colonne. Partí slittando coi lunghi pattini, scese sullo spesso tratto di neve lungo l'obliquo margine del bosco tuffandosi nella nebbia, girellò con comodo e senza meta, salendo e sormontando, per la morta landa che, coi suoi piani deserti e ondulati, con la sua arida vegetazione, consistente in singoli neri ciuffi di mughi affioranti, e con il suo limite orizzontale di morbide alture somigliava chiaramente a un paesaggio di dune. Quando sostava a godersi questa rassomiglianza Castorp approvava soddisfatto con cenni del capo; e sopportava con simpatia anche il bruciore del viso, l'incipiente tremito delle braccia, il singolare ed ebbro insieme di eccitazione e stanchezza, perché tutto ciò gli rammentava familiarmente gli affini effetti dell'aria di mare satura di sostanze sferzanti e ad un tempo soporifere. Sentiva con soddisfazione la sua alata indipendenza, il suo libero vagabondaggio. Davanti a lui non si aprivano strade alle quali fosse legato, come non ne aveva alle spalle per il ritorno.

Da principio aveva notato delle pertiche, pali piantati per segnavia sulla neve, ma presto si era liberato apposta della loro tutela, perché gli ricordavano il custode dalla cornetta e gli sembravano inadeguati all'interiore rapporto che correva tra lui e il vasto deserto invernale. Dietro a colli rocciosi e imbiancati, tra i quali egli si insinuò poggiando ora a destra, ora a sinistra, trovò un pendio, poi un pianoro, poi un alto monte, i cui passi e botri dalla soffice imbottitura gli parevano accessibili e invitanti. Anzi, l'attrazione della montagna e dell'altezza, delle sempre nuove solitudini che gli si aprivano dinanzi, era potente nell'animo suo, e a rischio di far tardi si addentrò in quel deserto silenzio privo di sicurezza e garanzia,... nonostante che, oltre a tutto, la tensione e l'angoscia interiore diventasse vera paura alla vista dell'anticipato abbuiarsi del cielo che calava i suoi veli opachi su tutta la regione. Questa paura lo fece accorto come fino a quel momento avesse addirittura mirato a perdere l'orientamento e a dimenticare da che parte fossero la valle e il paese: cosa che gli era riuscita con non auspicata compiutezza. D'altro canto gli era lecito pensare che, se faceva dietro-front e scendeva diritto, doveva raggiungere la valle rapidamente, anche se per caso lontano dal Berghof,... troppo rapidamente; sarebbe arrivato troppo presto, senza sfruttare il suo tempo, mentre, è vero, sorpreso da una bufera di neve, non avrebbe trovato sul momento la via del ritorno. Ma non per questo era disposto a fuggire anzi tempo,... per quanto la paura, la sua sincera paura degli elementi lo angosciasse. Non si può dire che fosse un contegno sportivo: infatti chi pratica lo sport s'impegna con gli elementi solo fin tanto che sa di poterli signoreggiare, usa prudenza e fa il saggio che cede. Ma ciò che avveniva nel cuore di Castorp lo si può definire con una sola parola: una sfida. E per quanto la parola contenga di biasimevole, anche quando - o massime quando - il colposo sentimento relativo si unisce a tanta sincera paura, con un po' di umana riflessione si può anche comprendere come in fondo all'anima di un giovane, il quale per anni sia vissuto come costui, si accumulino, o come avrebbe detto Hans Castorp, l'ingegnere, si "ammassino" parecchie cose che un bel giorno si scaricano in un elementare "macché!" o in un "che importa?" pieno di amareggiata impazienza, appunto come sfida e rifiuto di ogni prudente saggezza. Proseguí pertanto con le sue lunghe ciantelle, scivolò lungo la discesa e, oltre un altro pendio, sul quale a una certa distanza sorgeva una casetta di legno, malga o fienile che fosse, col tetto gravato di pietre, mosse verso il monte successivo, il cui dorso era irto di abeti, che si elevavano nella nebbia fin oltre la cima. La parete che aveva davanti a sé, popolata da qualche gruppo d'alberi, era scoscesa, ma a destra, di sbieco, si doveva poterla aggirare a metà con moderata salita, per vedere che cosa ci fosse dall'altra parte: Castorp si accinse a questa fatica di esploratore dopo essere sceso ancora dal piano della malga in una forra piuttosto profonda che scendeva da destra a sinistra. Aveva appena incominciato a salire allorché, come era da prevedere, la bufera e la nevicata si scatenarono con una furia che bisognava vedere: la tormenta, insomma, era arrivata dopo aver minacciato a lungo, se di minaccia si può parlare a proposito di elementi ciechi e ignari che non mirano ad annientarci, il che sarebbe relativamente simpatico, ma sono di una mostruosa indifferenza se per caso accade anche questo.

"Olà!" pensò Castorp fermandosi quando il primo colpo di vento lo urtò con un turbinio di nevischio. "Questa è una prima ventata. Penetra nelle ossa." Era infatti un vento molto odioso: il freddo terribile che faceva in realtà, circa venti gradi sotto zero, non lo si avvertiva e sembrava clemente solo quando l'aria priva di umidità era immobile come di solito; ma non appena si moveva, il vento tagliava come una lama che entrasse nella carne, e quando infuriava come ora - poiché quella prima folata spazzante era stata solo un preavviso, - non sarebbero bastate sette pellicce a proteggere le ossa dal gelido orrore mortale, e Castorp non aveva indosso sette pellicce, ma solo un panciotto di lana che di norma era sufficiente, e anzi al minimo raggio di sole gli dava fastidio. Il vento lo colpiva un po' di fianco alle spalle, sicché era poco raccomandabile voltare e prenderlo in faccia; e siccome questa considerazione si accoppiava con la sua cocciutaggine e col reciso "macché!" della sua mente, il folle giovane andò avanti ancora, tra singoli abeti, per aggirare il monte che aveva preso d'assalto. Non era però un divertimento, perché la vista era intercettata dalla danza dei fiocchi che pareva non cadessero nemmeno, ma empivano lo spazio coi loro fittissimi vortici; le raffiche gelate provocavano dolori acuti alle orecchie, paralizzavano le membra, rendevano insensibili le mani, sicché Castorp non si rendeva conto se stringeva o no il bastone ferrato. La neve gli entrava dal colletto e gli si scioglieva lungo la schiena, si posava sulle sue spalle e si attaccava al suo fianco destro; gli pareva di diventare un fantoccio di neve, rigido, col bastone in mano; e questa insopportabile condizione risultava da circostanze relativamente favorevoli: se egli si voltava, era anche peggio; eppure la via del ritorno diventava una fatica che egli non doveva porre indugio ad affrontare. Si fermò dunque, scrollò in collera le spalle e voltò gli sci. Il vento contrario gli mozzò subito il respiro, sicché egli si sobbarcò un'altra volta allo scomodo procedimento della voltata per prendere fiato ed affrontare poi in miglior forma l'indifferente nemico. A testa bassa, regolando la respirazione con cauta economia, riuscí davvero a mettersi in moto in senso contrario,... sorpreso, nonostante i brutti presentimenti, della difficoltà di procedere, derivante soprattutto dalla cecità e dallo scarso respiro. Ogni momento era costretto a fermarsi, in primo luogo per prendere fiato contro la bufera, e poi perché alzando lo sguardo a testa china non vedeva nulla in quella bianca tenebra e doveva pur stare attento a non cozzare contro un albero, a non imbattersi in ostacoli. I fiocchi gli volavano in faccia e si scioglievano facendola irrigidire. Gli volavano in bocca dove si squagliavano con un leggero sapore d'acqua, volavano contro le palpebre che si chiudevano convulse, allagavano gli occhi e impedivano di guardare,... che poi sarebbe stato inutile, perché il denso velame steso sul campo visivo e il bianco abbacinante intercettavano quasi interamente la facoltà della vista. Era il nulla, il bianco nulla vorticoso che gli si affacciava, quando tentava di guardare. E solo di quando in quando vi affiorava qualche fantastica ombra del mondo tangibile: un cespuglio di mughi, un gruppo di abeti, e a un certo punto la sagoma del fienile dal quale era passato poco prima. Lo lasciò da parte e cercò la via del ritorno sul ripiano dove sorgeva la malga.

Ma una via non c'era; tenere la direzione, l'approssimativa direzione verso il sanatorio e la valle era piú questione di fortuna che di giudizio, perché egli riusciva magari a vedere la mano davanti agli occhi, ma non la punta degli sci; e se anche avesse potuto vedere meglio, la natura aveva preso ancora abbondanti misure per rendergli estremamente difficile l'avanzata: il viso pieno di neve, la lotta contro la bufera che annullava piú di quanto non ostacolasse il respiro, impedendo di accogliere l'aria e di espirarla, e costringendo a voltarsi ogni istante boccheggiando,... come era possibile che uno avanzasse, fosse Castorp o un altro piú robusto di lui. Bisognava fermarsi ansimando, spremersi l'acqua dalle ciglia, a suon di pacche liberarsi dalla corazza di neve che si formava davanti e considerare pretesa irragionevole quella di andare avanti in siffatte circostanze. Eppure Castorp andava avanti, ossia si spostava. Ma, che fosse uno spostamento opportuno, un'avanzata nella direzione giusta, o non fosse meno sbagliato fermarsi dov'era (ma nemmeno questo pareva fattibile) restava da vedere; vi si opponeva persino la probabilità teorica, e in pratica Castorp ebbe presto l'impressione di non essere a buon punto, di non avere il terreno giusto sotto i piedi, cioè quel pianoro che salendo dalla forra era riconquistato con grande fatica e ora si trattava anzitutto di ripercorrere. Il tratto piano era stato troppo breve, egli stava già risalendo. Il maltempo che veniva da sudovest, dallo sbocco della valle, lo aveva fatto deviare con la sua furiosa pressione. Egli si logorava, da parecchio ormai, in uno spostamento errato, alla cieca, avvolto in una bianca notte turbinosa, si affannava a inoltrarsi sempre piú nella minacciosa indifferenza. Questa poi! borbottò tra i denti e si arrestò. Non assunse toni piú patetici, benché a un certo punto gli sembrasse che una mano gelida gli stringesse il cuore, in modo da farlo sussultare e battere veloce contro le costole come allora, quando Radamanto aveva scoperto la sua zona umida. Capiva infatti di non aver alcun diritto a parole grosse e gesti drammatici, perché la sfida l'aveva lanciata lui e a lui andavano addebitate tutte le difficoltà della situazione. Mica male disse accorgendosi che i suoi lineamenti, i muscoli del viso non obbedivano piú all'anima e non erano in grado di esprimere nulla, né paura né furore né disprezzo, perché erano irrigiditi. E ora! Giú di qua, di sbieco, e poi bel bello dietro al naso, sempre esattamente contro il vento. Piú facile dire che fare, è vero continuò ansando, a pezzi e bocconi, ma parlando davvero sottovoce, mentre si rimetteva in moto; qualcosa devo pur fare, non posso sedermi qui e attendere, perché sarei ricoperto dalla regolarità esagonale, e Settembrini, se viene a cercarmi con la sua cornetta, mi trova qui rannicchiato, con gli occhi vitrei, un berretto di neve in testa per traverso... Notò che parlava con se stesso, in un modo un po' strano. Se lo vietò, ma lo fece ancora, a mezza voce, espressamente, benché avesse le labbra cosí paralizzate da rinunciare a servirsene, e da parlare omettendo le consonanti che si formavano con le labbra, e ciò gli rammentò un'altra situazione in cui era avvenuto lo stesso. Sta zitto e bada a muoverti si impose, e soggiunse Mi sembra di vaneggiare e di non avere la testa a posto.

Che è grave in un certo senso. Che fosse grave, però, in quanto al progredire, era un puro e semplice avvertimento del vigile raziocinio, come dire di una persona estranea, non interessata, anche se in apprensione. Per sua natura egli era molto propenso ad abbandonarsi alla mancanza di chiarità che stava per impadronirsi di lui con l'aumento della stanchezza, ma si accorse di questa inclinazione e si mise a ragionarci su. Questo è l'alterato comportamento di chi in montagna è sorpreso da una tormenta di neve e non trova la via per tornare a casa argomentò affannandosi e buttando là le parole, staccate, senza fiato, evitando per discrezione espressioni piú precise. Chi ne sente parlare dopo, si figura l'orrore, ma dimentica che la malattia - e la mia situazione è in certo qual modo una malattia - concia il suo uomo in maniera che entrambi possono andare d'accordo. Ci sono menomazioni sensorie, narcosi generose, misure di sollievo che la natura prende, sissignori... Ma occorre combatterle perché sono bifronti, quanto mai ambigue; tutto dipende, chi le voglia valutare, dal punto di vista. Sono offerte a fin di bene e benefiche in quanto non si debba arrivare a casa, sono invece malefiche e vanno assolutamente combattute quando si pensi ancora a tornare a casa, come nel caso mio, poiché non intendo nel mio cuore burrascosamente agitato, non intendo affatto di farmi coprire qui da una cristallometria stupidamente regolare... In realtà era già molto depresso e lottava contro l'incipiente ottenebramento del sensorio in modo vago e febbrile. Non si spaventò come da sano si sarebbe dovuto spaventare, quando capí che di nuovo aveva abbandonato la via piana; questa volta evidentemente dall'altra parte, dove il pendio si abbassava. Scese infatti col vento obliquamente contrario, adottando, benché per il momento non lo dovesse fare, la soluzione piú comoda. "Va bene cosí" pensò. "Piú in basso, rettificherò la direzione." E lo fece o credette di farlo, o non lo credette veramente nemmeno lui o, peggio ancora, cominciò ad essergli indifferente se lo faceva o no. Era l'effetto delle ambigue menomazioni che egli combatteva solo debolmente. Quel misto di stanchezza ed agitazione che era lo stato costante e familiare dell'ospite la cui acclimazione consisteva nell'assuefarsi a non assuefarsi, si era rafforzato in entrambe le componenti fino al punto che non era piú il caso di parlare d'un assennato contegno contro le menomazioni. Stordito e balordo, tremava di ebbrezza e di eccitazione, press'a poco come dopo un colloquio con Naphta e Settembrini, ma in misura piú forte; e cosí fu che cominciò a scusare la sua lentezza nel combattere le narcotiche menomazioni con ebbre reminiscenze di quei tali dibattiti,... e, ad onta della sprezzante ribellione contro la coltre della regolarità esagonale, si diede a cianciare tra sé nel senso (o non senso) che quel sentimento del dovere, per cui avrebbe dovuto lottare contro le sospette minorazioni, non era che etica, cioè meschinità borghese e filisteismo irreligioso. Il desiderio e il tentativo di coricarsi a riposare gli s'insinuarono nella mente in modo da farlo riflettere che era come in una tormenta di sabbia nel deserto, dalla quale gli arabi sono indotti a buttarsi con la faccia a terra e a coprirsi col burnús.

E solo il fatto che non possedeva un burnús ed è difficile coprirsi con un panciotto di lana, soltanto questo gli parve un'obiezione a tale contegno, benché non fosse un infante e da varie descrizioni sapesse abbastanza bene in che modo uno muoia assiderato. Dopo una discesa a velocità moderata e un breve tratto in piano, il terreno saliva di nuovo, e alquanto ripido. Non era detto che fosse sbagliato perché durante il percorso fino a valle ci doveva pur essere anche qualche salita, e in quanto al vento, esso si era incapricciato a mutar direzione, perché Castorp l'aveva di nuovo alle spalle e, in sé e per sé, gliene era grato. Ma era la bufera a piegarlo, o il soffice pendio bianco davanti a lui, velato dal crepuscolare nevischio, esercitava un'attrazione tale da fare che il suo corpo vi si inclinasse. Affidarsi ad essa era soltanto un mòdo di appoggiarsi, e grande era la tentazione di farlo,... grande e, secondo le esperienze, tipicamente pericolosa, la qual cosa però non recava al cun pregiudizio al vivo e presente potere della tentazione stessa. Essa vantava diritti individuali, non voleva inserirsi nell'ordine delle cose note a tutti, non vi si voleva riconoscere, si dichiarava unica e incomparabile nella sua oggettività,... ma senza poter negare di essere il suggerimento che veniva da una determinata parte, l'ispirazione di un individuo in nera foggia spagnola, con la gorgiera nivea e pieghettata, alla cui idea e ai cui principi era connessa ogni sorta di particolari truci, spiccatamente gesuitici e misantropici, ogni sorta di torture e percosse da schiavi, che Settembrini aborriva, ma non senza che si rendesse ridicolo con il suo organetto e la sua "ragione". Castorp però seppe reggersi e resistette alla lusinga di appoggiarsi. Non vedeva niente ma lottava e si spostava; in senso utile o no, fatto è che faceva quanto stava in lui e si moveva, ad onta dei sempre piú grevi legami nei quali la gelida tormenta lo inviluppava. Quando la salita si presentò troppo scoscesa, piegò di fianco senza rendersi ben conto di ciò che faceva, e per un po' seguí il pendio. Per aprire le palpebre paralizzate ed esplorare ci voleva uno sforzo la cui provata inutilità incoraggiava poco a sobbarcarvisi. Eppure ogni tanto qualcosa vedeva: abeti che si accostavano, un ruscello o un fosso la cui riga nera spiccava tra i margini nevosi a strapiombo; e quando, per cambiare, riprese a scendere, contro il vento questa volta, scorse poco lontano, quasi sospesa nell'intreccio dei veli svolazzanti, l'ombra di una dimora umana. Benvenuta, confortante visione ! Ecco che c'era riuscito con la sua energia, nonostante tutte le contrarietà, se ora gli apparivano persino costruzioni umane, indizio che la valle abitata era vicina. Forse c'era qualche persona, forse si poteva entrare per aspettare sotto un tetto la fine del maltempo e trovare magari una guida, nel caso che intanto fossero scese le tenebre normali. Si diresse verso il chimerico oggetto che ogni tanto spariva nel buio del temporale; per raggiungerlo dovette superare ancora contro vento una snervante salita e, appena arrivato, si convinse, indignato, atterrito e preso dalle vertigini che era la nota capanna, il fienile col tetto gravato di pietre, riconquistato con i piú onesti sforzi dopo mille ambagi. Il diavolo ci aveva messo la coda.

Dalle labbra rigide di Castorp uscí, senza le labiali, una sequela di maledizioni. Per orientarsi fece il giro della capanna e trovò che l'aveva raggiunta dal lato posteriore, e per una buona ora, secondo i suoi calcoli, si era arrabattato nella piú schietta e arcinutile assurdità. Ma cosí avviene, dice l'esperienza. Si gira in tondo, ci si affatica con l'idea di far cosa utile, e non si fa che percorrere un arco lungo e sciocco che rientra in se stesso come il burlesco corso dell'anno. Cosí si vaga intorno e non si arriva a casa. Castorp riconobbe il tradizionale fenomeno con una certa soddisfazione, benché con sgomento, e dalla stizza e dallo stupore si batté una gamba, perché il fatto generico si era cosí puntualmente avverato nel suo caso particolare, individuale e presente. La malga solitaria era inaccessibile, la porta sprangata, non si poteva entrare da nessuna parte. Castorp deliberò tuttavia di fermarsi là per il momento, dato che il tetto sporgente dava l'illusione di una certa ospitalità, e la capanna stessa, sul lato rivolto alla montagna, offriva davvero un po' di riparo dalla tormenta: bastava appoggiare la spalla alla parete di tronchi d'albero, dato che, a causa dei lunghi pattini, non era possibile appoggiarvi la schiena. Stette cosí obliquo dopo aver piantato il bastone accanto a sé nella neve, le mani in tasca, il bavero della giacca di lana alzato, usando la gamba esterna come puntello, e posò il cranio rintronato con gli occhi chiusi contro l'intavolato, lanciando solo ogni tanto uno sguardo lungo la spalla, oltre la forra, alla montagna di contro che a momenti traspariva scialba dai veli. La sua posizione era relativamente comoda. "Cosí, se occorre, posso star qui tutta la notte" pensò, "se ogni tanto sposto il peso da una gamba all'altra, se mi giro, per cosí dire, sull'altro fianco e ogni volta intercalo un po' di moto, che è indispensabile. Benché sia rigido di fuori, dentro ho accumulato calore col moto che ho fatto, e l'escursione non è stata del tutto inutile, anche se ho finito col girare in tondo ed errare dalla malga alla malga... Ho finito? Che modo di parlare è questo? E' il caso di dirlo nelle mie condizioni? Mi è sfuggito soltanto perché ho la testa un po' balorda, eppure mi sembra che in fondo era detto bene... Meno male che resisto, perché questo turbine di neve, questo disordine può anche durare fino a domattina, e se anche dura solo fino a che fa buio, è già un brutto guaio, perché di notte si finisce, si finisce, dico, col girare in tondo, la notte è pericolosa quanto la tormenta... Anzi, dovrebbe già essere sera, circa le sei,... dopo tanto tempo che ho sprecato nel giro. Che ora sarà?" E guardò l'orologio quantunque non gli riuscisse facile scavarlo dagli abiti, con le dita rigide e insensibili... il suo orologio d'oro, col coperchio a scatto ornato del monogramma, il quale ticchettava vivo e ligio al dovere, nella deserta solitudine, come il suo cuore, il commovente cuore umano nel calore organico del suo torace... Erano le quattro e mezzo. Che diamine? Era quasi l'ora in cui era scoppiato l'uragano. Doveva credere che tutti quei giri fossero durati soltanto un quarto d'ora? "Il mio tempo s'è allungato" disse tra sé. "A quanto sembra, girare cosí è noioso. Ma alle cinque o cinque e mezzo farà buio sul serio, questo è certo.

Cesserà prima? cesserà in tempo perché altri giri mi siano risparmiati? Intanto, per prendere forza, potrei bere un sorso di Porto." Si era messa in tasca questa bevanda da dilettanti unicamente perché al Berghof la tenevano a disposizione in bottigliette piatte e la vendevano ai gitanti, beninteso non pensando a quelli che senza averne il permesso andavano, con tempo di neve e gelo, a smarrirsi in montagna e in tali condizioni aspettavano la notte. Se avesse avuto i sensi meno compromessi, avrebbe dovuto pensare che, in quanto a tornare a casa, quel vino era forse la cosa peggiore che potesse prendere; e lo pensò davvero quando ebbe mandato giú qualche sorso che gli fece subito effetto, un effetto simile a quello della birra di Kulmbach che aveva bevuto la sera del primo giorno, dopo il suo arrivo, quando non potendo frenare la lingua aveva urtato Settembrini con allusioni a salse di pesce e simili,... il signor Lodovico, il pedagogo, che con lo sguardo faceva diventare ragionevoli persino i pazzi agitati, e la cui armoniosa cornetta squillava proprio in quel momento per segnalare a Castorp che l'eloquente educatore si avvicinava a marce forzate con l'intento di liberare da quella folle situazione e condurre a casa l'alunno del dolore, il pupillo della vita... Tutto ciò era naturalmente assurdo e dipendeva soltanto dalla birra di Kulmbach che aveva bevuto per errore. In primo luogo, infatti, Settembrini non possedeva una cornetta, ma sol tanto l'organetto sostenuto da una gamba di legno piantata sul marciapiede, e mentre sonava girando agilmente la manovella alzava gli occhi umanistici lungo la facciata delle case; in secondo luogo non sapeva e non avvertiva niente di ciò che accadeva, perché non abitava piú nel sanatorio Berghof, bensí da Lukacek, il sarto per signora, nello stanzino sotto il tetto, con la bottiglia del l'acqua, sopra alla serica cella di Naphta,... d'altra parte non aveva né il diritto né la possibilità d'intervenire, come non l'aveva avuta a suo tempo, la notte di carnevale, quando Castorp si era trovato in una simile posizione folle e difficile e aveva restituito alla malata Clavdia Chauchat son crayon, la sua matita, la matita di Pribislav Hippe...Posizione? Era forse una "posizione" la sua, finché stava cosí in piedi? A rigore, secondo l'etimologia, avrebbe dovuto "porsi" giú, sdraiarsi, orizzontale era la posizione che spettava a chi viveva lassú da tanto tempo. Non era forse avvezzo a stare in posizione orizzontale all'aperto, con la neve e col gelo, di giorno e di notte? Si accingeva quindi ad abbandonarsi allorché gli passò per la mente, anzi lo prese, diremo, per il colletto e lo tenne ritto, il pensiero che anche le sue segrete chiacchiere sulla "posizione" andavano messe a carico della birra di Kulmbach e provenivano dalla propria impersonale e, secondo ogni esperienza, tipicamente pericolosa voglia di coricarsi e dormire, la quale lo voleva sedurre con sofismi e bisticci. "Questo fu un passo falso" ammise. "Il Porto non era il rimedio che ci voleva, i pochi sorsi mi hanno appesantito la testa che ora mi casca sul petto, i miei pensieri sono roba confusa e insulse facezie delle quali non devo fidarmi,... non solo i pensieri originali, come mi vengono in mente, ma anche i successivi, cioè le mie considerazioni critiche sui primi, questo è il guaio. Son crayon significa il crayon di lei, ma potrebbe anche essere suo di lui, il 'suo' non distingue se un oggetto appartiene a un uomo o a una donna; tutto il resto sono facezie. E io perdo il tempo con queste sciocchezze! mentre, ad esempio, è molto piú urgente il fatto che la mia gamba sinistra, sulla quale mi appoggio rammenta la gamba di legno dell'organetto di Settembrini che egli

va spingendo col ginocchio sul marciapiede, quando si accosta alla finestra e porge il cappello di velluto, affinché la ragazza lassú vi butti qualcosa. E intanto mi sento impersonalmente indotto, quasi tirato a sdraiarmi nella neve. Unico rimedio è il moto. Devo muovermi per espiare la birra di Kulmbach e ammorbidire la gamba di legno." Con una spallata si staccò dalla parete. Ma non appena fece un passo avanti, il vento lo investí come a colpi di roncola e lo respinse contro il riparo che senza alcun dubbio era il rifugio assegnatogli, del quale intanto doveva accontentarsi, mentre era libero di appoggiare la spalla sinistra e di reggersi sulla gamba destra, dondolando la sinistra per animarla. "Con un tempo simile non si abbandona il tetto", pensò. "La posizione alterna è ammessa, non invece la smania di tentare vie nuove e di azzuffarsi col turbine. Stai quieto e lascia pur cascare la testa, visto che è cosí pesante. La parete è buona, travi di legno, che par che emanino un certo calore, seppure qui si può parlare di calore, del calore proprio del legno, magari è questione di sensazioni oggettive... Oh, quanti alberi! Ecco il clima vivo dei viventi! Che profumo!..." Era un parco che si stendeva lí sotto, sotto il balcone sul quale egli si trovava,... un ampio, verde, lussureggiante parco di alberi frondosi, olmi, platani, faggi, aceri, betulle, con le tinte graduate del fogliame fresco, abbondante, lucido, nel sommesso stormire delle cime. L'aria era umida, deliziosa, balsamica in seguito al respiro degli alberi. Vi passò un caldo scroscio di pioggia, ma attraversato dai raggi del sole. Si vedeva l'aria fino in alto nel cielo percorsa dal vivido ruscello. Che bellezza! Oh, respiro della patria, aroma e dovizia della pianura, da tanto tempo perduto! L'aria era piena di voci d'uccelli, di un grazioso, intimo e dolce flautare, gorgheggiare, cinguettare, tubare senza che nessuno dei pennuti apparisse alla vista. Castorp sorrise, respirando con gratitudine, E intanto tutto diventava ancor piú bello. Un arcobaleno s'incurvò da una parte sopra il paesaggio, con tutti i suoi colori vivaci, umidi, lucenti, che densi come olio fluivano sul verde intenso e luminoso. Una meraviglia. Era come una musica, come un forte tinnire d'arpe che accompagnasse flauti e violini. Specie il turchino e il viola scorrevano stupendamente. Tutto si vi immergeva, con sfumature magiche, si trasformava e si risviluppava piú bello di prima. Era come una volta, parecchi anni prima, Castorp aveva ascoltato un cantante di fama mondiale, un tenore italiano, dalla cui gola sgorgava un'arte generosa e potente che si riversava nel cuore degli uomini: aveva tenuto un tono alto, bello fin da principio; ma poi a poco a poco, di momento in momento la voce armoniosa e appassionata si era aperta, gonfiata, sempre piú luminosa e raggiante. Ne erano caduti i veli, l'uno dopo l'altro, che prima nessuno aveva notati,... un ultimo ancora che pure, cosí si pensava, aveva svelato la luce estrema e piú pura, e poi un ultimissimo e ancora uno inverosimilmente ultimo che liberò una profusione di splendore e una tale lacrimante magnificenza da

suscitare nella folla un mormorio estatico, quasi di incredula protesta, e da far venire a lui stesso, al giovane Hans Castorp, la voglia di singhiozzare. Cosí gli accadeva ora, in quel paesaggio che si mutava e si apriva in una luce sempre piú viva, nuotando nell'azzurro... I lucidi veli di pioggia caddero, ed ecco il mare... era il mare meridionale, d'un turchino cupo e profondo, balenante di guizzi argentei, una baia meravigliosa, aperta da un lato tra vapori sfumanti, circondata per metà da catene di monti d'un azzurro sempre piú scialbo, con alcune isole sulle qua]i crescevano le palme o si vedevano casette bianche occhieggiare dai cipresseti. Oh, basta, troppo, tutto immeritato ! Come mai tutta quella radiosa beatitudine, quella purezza di cieli, quella frescura d'acque solatie? Castorp non aveva mai visto una cosa simile. Nei suoi viaggi di vacanza aveva appena assaggiato il Mezzogiorno, conosceva il mare pallido, accigliato, gli era affezionato con sentimenti puerili, goffi, ma non aveva mai raggiunto il Mediterraneo, Napoli, per esempio, la Sicilia o la Grecia. Eppure "ricordava". Sí, quell'incontro era un riconoscimento. "Eh sí, cosí è!" pensava come se l'azzurra felicità solare che si stendeva davanti a lui l'avesse tenuta segretamente, senza dirlo neanche a se stesso, e portata nel cuore da sempre, da un tempo lontano, infinitamente lontano come quel mare aperto, là a sinistra, dove il cielo si chinava tinto d'un tenero colore di viole. Alto era l'orizzonte e la lontananza pareva salisse, illusione creata dal fatto che Castorp vedeva il golfo dall'alto, da una certa altezza: i monti si allungavano in promontori, irti di boscaglia, protesi nel mare, e dal centro del panorama arrivavano in semicerchio fin dov'era lui e piú oltre; accucciato su gradini di pietra scaldati dal sole, egli si trovava su una costa rocciosa; la riva che aveva dinanzi, petrosa e muscosa, dirupava con blocchi a scalinata, inframmezzati di sterpi, verso una spiaggia pianeggiante dove gli sfasciumi formavano, in mezzo a canneti, seni azzurrini, porticciuoli, laghetti. E quella zona soleggiata, quelle accessibili alture costiere, quei ridenti bacini rocciosi, nonché il mare fino alle isole dove le barche andavano e venivano, erano tutti popolati: uomini, figli del sole e del mare, si movevano o riposavano da per tutto, bella giovane umanità, intelligente e serena, tanto simpatica da vedere... Il cuore di Castorp si aprí tutto, dolente e amoroso, a quella vista. C'erano giovani che addestravano cavalli, correvano, reggendo la cavezza accanto al loro trotto fra nitriti e groppate, tiravano i riottosi per le lunghe briglie o, cavalcando senza sella, li spingevano in mare con colpi dei calcagni nudi nei fianchi, mentre si vedeva il giuoco dei muscoli delle spalle sotto la pelle brunodorata esposta al sole, e le voci che si scambiavano o rivolgevano ai loro animali avevano, per chi sa quale ragione, un suono affascinante. Sulle rive di un'insenatura, specchiante come un lago alpino, profondamente incuneata nella terraferma, si svolgeva un ballo di fanciulle. Una di loro, i cui capelli erano annodati sulla nuca con una grazia particolare, stava seduta, coi piedi in una cavità del terreno, e sonava la zampogna, mentre il suo sguardo, al di sopra del giuoco delle dita, era rivolto alle compagne che, in abito largo e fluente, sorridenti e con le braccia distese, singole o a coppie, la

tempia dolcemente appoggiata alla tempia, si spostavano a passo di danza, e alle spalle della sonatrice bianche e tenere e arrotondate a causa della posizione delle braccia, altre sorelle stavano sedute o in piedi a braccetto, in pacata conversazione. Un po' piú in là alcuni giovanotti si esercitavano nel tiro dell'arco. Era un piacere osservare come i piú anziani istruissero i ricciuti inesperti a tendere la corda, a incoccare, a mirare e li sorreggessero ridendo allorché, partita la freccia frullante, barcollavano per il contraccolpo. Al tri pescavano: proni sulle lastre di pietra, dondolando una gamba, calavano la lenza in mare, chiacchieravano tranquilli, la testa rivolta al vicino, che seduto e reclinato lanciava l'esca possibilmente lontano. Altri ancora erano occupati a trascinare in acqua, tirando, puntando, spingendo, una barca d'alto bordo con l'albero e il pennone. Bambini giocavano e gridavano in mezzo ai frangiflutti. Una giovinetta, lunga distesa, guardando all'indietro, si reggeva con una mano l'abito fiorato tra i seni, mentre con l'altra cercava avidamente di agguantare un frutto con foglie che un giovane, snello di fianchi, in piedi dietro a lei, col braccio teso le offriva e per giuoco negava. Appoggiati a incavi di roccia, alcuni esitavano a fare il bagno tenendo le proprie spalle con le braccia in croce e tastando l'acqua fredda con la punta del piede. Coppiette passeggiavano lungo la riva e all'orecchio della fanciulla erano vicine le labbra di colui che la guidava in confidenza. Capre dal vello arruffato balzavano di rupe in rupe sorvegliate da un pastorello che, una mano sul fianco, l'altra poggiata al bordone, un cappellino con la tesa rialzata di dietro sulle ciocche castane, stava sopra un'altura. "E' bellissimo!" pensò Castorp incantato... "E' un piacere e se ne rimane conquisi. Come sono belli, sani, saggi e felici! Infatti, non soltanto belli di forme,... ma anche intelligenti e intimamente amabili. Ecco, questo mi commuove e m'innamora: lo spirito, il senno, direi, che è nella loro natura e li unisce nella vita." Intendeva la grande gentilezza di quel popolo solare e gli unanimi riguardi che gli uni avevano per tutti gli altri: un rispetto facile e nascosto sotto i sorrisi che si tributavano reciprocamente a ogni piè sospinto, quasi inavvertito, eppure presente in virtú di un universale legame tra i cuori e di un'idea innata; persino una dignità severa, ma serenamente distesa, che guidava le loro azioni e omissioni sotto un inesprimibile influsso spirituale di tutt'altro che fosca serietà e di comprensiva devozione... sia pure non del tutto priva di formalità. Là infatti sopra una pietra tonda e muscosa stava seduta, in abito bruno, aperto su una spalla, una giovane madre che allattava il bambino. Chi le passava davanti la salutava in un modo particolare che assommava tutto quanto il generale comportamento delle persone esprimeva in eloquente silenzio: i giovani chinavano sorridendo la testa rivolta alla madre, le braccia incrociate sul petto rapidamente, con leggerezza formale; le fanciulle accennavano non troppo chiaramente una genuflessione simile a quella di chi va in chiesa e leggermente si umilia passando davanti all'altar maggiore.

Ma nello stesso tempo, le facevano cenni del capo vivaci, allegri, cordiali, e quel misto di devozione formale e di serena amicizia, insieme con la lenta dolcezza con cui la madre alzava gli occhi dalla creaturina, cui facilitava il poppare premendo il seno con l'indice, e ringraziava con un sorriso quelli che la riverivano, empí Castorp di vivo entusiasmo. Non si saziava di guardare, ma si chiedeva anche con angoscia se gli era lecito guardare, se spiando quella solare e civile felicità egli, estraneo e per giunta (cosí si reputava) ignobile e brutto e goffamente calzato, non commettesse un reato gravissimo. Pareva che non fosse il caso. Un bel ragazzo, i cui abbondanti capelli con la scriminatura da una parte gli ricadevano sulla fronte e su una tempia, stava discosto dai compagni, le braccia conserte, poco sotto di lui... non triste o imbronciato, ma soltanto in disparte e tranquillo. Questi lo vide alzando gli occhi, e stette a guardare ora lui, ora le scene sulla spiaggia, osservando l'osservatore. A un tratto però guardò oltre lui, dietro a lui, lontano, e sull'istante il suo bel viso, dal taglio severo, seminfantile, perdette quel sorriso di cortese fraterno riguardo che era comune a tutti... Anzi, senza che egli si fosse accigliato, vi si stese una serietà quasi petrigna, insondabile, inespressiva, una riservatezza mortale che a Castorp, da pochi istanti tranquillato, incusse un livido spavento, non senza l'aggiunta di un vago presentimento circa il suo significato. Si voltò anche lui a guardare... Dietro a lui sorgevano possenti colonne senza plinto, a rocchi sovrapposti dai cui interstizi spuntava il musco: le colonne dell'ingresso a un tempio sulla cui aperta gradinata stava seduto. A malincuore si alzò, scese di fianco i gradini ed entrò in un lungo androne, lo attraversò percorrendo una via lastricata di mattonelle che lo portò subito ad altri propilei. Attraversò anche questi e si trovò davanti al tempio, massiccio, grigio-verdognolo per l'azione del tempo, con ripidi gradini di base e la fronte larga, posata sui capitelli di quelle immense colonne tozze, rastremate, dalla cui compagine qualche rocchio scannellato sporgeva leggermente di fianco. Con fatica, usando anche le mani e sbuffando, perché sempre piú sentiva stringerglisi il cuore, Castorp s'arrampicò sugli alti gradini e raggiunse la foresta delle colonne che formavano l'atrio. Questo era profondo ed egli vi si aggirò come fra i tronchi del faggeto in riva al mare grigio evitando apposta la parte centrale e cercando di scansarla. Ma ci ritornava sempre finché, nel punto in cui le file di colonne divergevano, scorse un gruppo marmoreo, due figure femminili, su un piedestallo, madre e figlia probabilmente: l'una seduta, piú anziana, piú veneranda, molto clemente e divina, ma con le sopracciglia dolenti sopra gli occhi vuoti, senza pupilla, la tunica e il manto ricchi di pieghe, le onde dei capelli da matrona coperte da un velo; l'altra in piedi, cinta dal braccio materno della prima, col tondo viso di vergine, le mani e le braccia nascoste e avvolte nelle pieghe della sopravveste. Mentre Castorp era immerso nella contemplazione del gruppo, il suo cuore per oscuri motivi si fece ancora piú gonfio, pieno di angoscia e di presentimenti.

Non ne aveva quasi il coraggio, ma si vide costretto a girare intorno alle statue e a passare, dietro di esse, fra le successive file di colonne: trovò aperta la porta metallica della cella del tempio e alla scena che gli si presentò il poveretto si sentí quasi spezzare le ginocchia. Due donne grigie, seminude, coi capelli scarmigliati, i seni da streghe penduli e i capezzoli lunghi un dito, erano impegnate là dentro, tra sfiaccolanti padelle di fuoco, in un lavoro orribile. Sopra un catino sbranavano un bambinello, lo sbranavano con le mani in un silenzio sinistro - Castorp vide teneri capelli biondi lordi di sangue - e ne divoravano i pezzi facendo scricchiolare tra i denti i fragili ossicini, mentre il sangue sgocciolava dalle loro labbra sel vagge. Un gelido spavento lo fece inorridire. Voleva coprirsi gli occhi e non poteva. Voleva fuggire e non poteva. Quelle intanto, nella loro orrenda bisogna, avendolo già scorto lo minacciarono coi pugni insanguinati, lanciando insulti afoni, ma quanto mai volgari e osceni, nel popolare dialetto della patria di Castorp. Il quale si sentí male, come non si era sentito mai. Disperato fece per strapparsi di lí... e cosí, addosso com'era alla colonna dietro di lui, avendo ancora nelle orecchie quegli sconci strilli sommessi, ancora in preda a quel freddo raccapricciante, si trovò coricato su un braccio nella neve, la testa contro la capanna, le gambe lunghe e distese coi piedi allacciati agli sci. Ma non fu un vero risveglio; egli batté soltanto le palpebre, col sollievo di essersi liberato da quelle streghe, ma non capiva ancora bene, né gli importava di sapere se stava addossato a.una colonna del tempio o alla parete d'una malga, e continuò in certo modo a sognare,... non piú con visioni, ma col ragionamento che però non era meno audace e confuso. "Lo sapevo che era un sogno" disse tra sé vagellando. "Un sogno delizioso e terrificante. In fondo, me ne rendevo conto, in tutto questo tempo me lo sono fabbricato da me,... il parco frondoso e il dolce umidore e tutto il resto, il bello e il brutto, lo sapevo quasi in anticipo. Ma come si possono sapere queste cose e fabbricarsele, e procurarsi felicità e angoscia? Dove l'ho preso quel bel golfo con le isole e con il tempio indicatomi dallo sguardo di quel simpatico giovane isolato? I sogni non nascono soltanto dalla propria anima, direi, ma possono essere anonimi e comuni, sia pure a modo loro. La grande anima, della quale sei soltanto una particella, sogna, sí, talvolta per opera tua, a tuo modo, cose che in segreto sogna sempre,... la sua giovinezza, la sua speranza, la felicità, la pace... e il suo banchetto cruento. Ed eccomi steso ai piedi della mia colonna e ho ancora in corpo i residui reali del mio sogno, il gelido orrore del sanguinoso pasto, e anche la grande gioia precedente, la gioia della felicità e delle pie consuetudini degli uomini bianchi. Mi spetta, dico io, ho l'implicito diritto di giacere qui e di sognare queste cose. Molto ho imparato tra le persone di quassú, in fatto di sconsideratezza e di raziocinio. Con Naphta e Settembrini sono finito... ho finito col girare per la montagna piena di pericoli. So tutto sul conto dell uomo.

Ne conosco la carne, il sangue, ho reso a Clavdia malata il lapis di Pribislav Hippe. Ma chi riconosce il corpo, la vita, riconosce la morte. Salvo che ciò non è tutto,... è piuttosto un principio, nient'altro, pedagogicamente parlando. Bisogna tener conto dell'altra metà, del contrario. Ogni interessamento alla morte e alla malattia non è che un modo di esprimere l'interessamento alla vita, come dimostra l'umanistica facoltà di medicina, che parla, sempre cortesemente in latino, alla vita e alla sua malattia, ed è soltanto la sfumatura dell'unico, grave, urgentissimo oggetto che, con tutta la mia simpatia, voglio chiamare per nome: si tratta del pupillo della vita, dell'uomo, della sua posizione e del suo stato... Di lui m'intendo non poco, ho appreso molto tra le persone di quassú, dalla pianura mi sono spinto in alto finché, povero me, mi è quasi mancato il respiro; ma ora dalla base della mia colonna godo un discreto panorama... Ho sognato le condizioni dell'uomo, della sua cortese, comprensiva, rispettosa comunità, dietro alla quale ha luogo nel tempio l'orrendo banchetto di sangue. Erano cosí cortesi e garbati tra loro i figli del sole proprio nella silenziosa previsione di quell'orrore? Ne trarrebbero davvero una bella e galante deduzione! Col mio cuore starò dalla loro parte, non da quel la di Naphta; e nemmeno da quella di Settembrini, sono chiacchieroni tutti e due. L'uno è libidinoso e maligno, l'altro non fa che sonare la cornetta della ragione e s'illude di far rinsavire persino i pazzi, che è assurdo. E' filisteismo, mera etica, è irreligioso, siamo d'accordo. Ma non intendo nemmeno di mettermi dalla parte del piccolo Naphta, con quella sua religione che è soltanto un guazzabuglio di Dio e diavolo, di bene e male, buona appena perché l'individuo vi si butti a capo fitto con la mira di affondare misticamente nell'universale. Oh, i due pedagoghi! Le loro liti e i loro contrasti sono a loro vol ta un guazzabuglio e un confuso strepito di battaglia, dal quale non si lascia stordire chi abbia soltanto un poco la testa libera e il cuore buono. La loro indagine aristocratica! La loro nobiltà! Morte o vita; malattia, salute; spirito e natura. Sono forse contraddizioni? Domando: sono forse problemi? No, non sono problemi, non lo è nemmeno l'inchiesta sulla loro nobiltà. La sconsideratezza della morte è nella vita, senza di essa la vita non sarebbe vita, e nel mezzo sta l'homo Dei - nel mezzo tra leggerezza e ragione - come nel mezzo tra mistica comunità e vana individualità è il suo stato. Questo vedo dalla mia colonna. In queste condizioni egli ha il dovere di avere con se stesso rapporti di fine galanteria e gentile rispetto, ... perché lui solo è nobile, non le antitesi. L'uomo è signore delle antitesi, esse devono a lui la loro esistenza, perciò è piú nobile di esse. Piú nobile di esse. Piú nobile della morte, troppo nobile per essa,... ecco la libertà della sua testa. Piú nobile della vita, troppo nobile per essa, ... ecco la bontà del suo cuore. Ho combinato una poesia, un sogno poetico dell'uomo.

Ci voglio pensare. Voglio essere buono. Non voglio concedere alla morte il dominio sui miei pensieri! In questo infatti consistono, in nient'altro, la bontà e l'amore del prossimo. La morte è una grande potenza. Alla sua presenza ci si leva il cappello e si cammina oscillando in punta di piedi. Essa porta la solenne gorgiera del passato, e in suo onore l'uomo si veste severamente di nero. La ragione le sta dinanzi da sciocca, perché non è che virtú, la morte invece è libertà, leggerezza, assenza di forma e piacere. Piacere, dice il mio sogno, non amore. Amore e morte: ecco una rima mal riuscita, insulsa, sbagliata. L'amore è opposto alla morte, esso solo, non la ragione, è piú forte di essa. Esso solo, non la ragione, suggerisce pensieri di bontà. Anche la forma è fatta soltanto di amore e bontà: forma e civiltà d'una gentile e intelligente comunità e del bello stato degli uomini... nella silenziosa visione del pasto cruento. Oh, questo si chiama sognare chiaramente, governare bene! Ci voglio pensare. Voglio restare fedele alla morte dentro al mio cuore, ma rammentare con chiarezza che la fedeltà alla morte e al passato è soltanto cattiveria e tetra voluttà e misantropia, se determina il nostro pensare e governare. Per rispetto alla bontà e all'amore l'uomo ha l'obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri. E con ciò mi sveglio... Con ciò ho terminato di sognare e sono alla meta. Da un pezzo ero in cerca di questa sentenza: nel luogo in cui mi apparve Hippe, sul mio balcone e dappertutto. La ricerca di essa mi ha spinto anche sulla montagna nevosa. Ora l'ho trovata. Il sogno me l'ha suggerita cosí chiaramente che la saprò per sempre. Sí, ne sono entusiasta e accalorato. Il mio cuore batte forte e sa perché. Non batte soltanto per motivi fisici, non come alla salma crescono ancora le unghie; batte umanamente e proprio con animo felice. E' un filtro, la mia sognata sentenza,... migliore che il Porto e la birra, mi scorre nelle vene come l'amore e la vita, perché mi scrolli dal sonno e dal sogno che naturalmente so benissimo quanto siano pericolosi per la mia giovane vita... Su, su! Aprire gli occhi! Sono tue queste membra, queste gambe nella neve! Devi contrarle e alzarti. Guarda!... Il tempo è bello.

Fu enormemente difficile liberarsi dalle catene che lo stringevano e cercavano di tenerlo al suolo, ma la spinta che Castorp seppe darsi fu piú forte. Egli puntò sui gomiti, tirò a sé con forza le ginocchia e con mosse da ginnasta si rimise in piedi. Pestò la neve con le assicelle, si sbatté le braccia intorno al torace e scrollò le spalle lanciando sguardi agitati e affaticati qua e là e verso il cielo dove un pallido celeste baluginava tra grigiazzurri veli di nuvole che migravano adagio e scoprivano la falce della luna. Un leggero crepuscolo. Niente uragano, niente nevicata. La parete del monte dirimpetto, irsuta di abeti, appariva distinta, in un'aura di pace. L'ombra la copriva fino a metà, piú in alto era illuminata dal piú tenero color di rosa. Che cos'era successo? Che mondo era quello? Era già il mattino? Era rimasto tutta la notte nella neve senza assiderarsi come avrebbe dovuto secondo tutte le esperienze? Non aveva alcun membro tramortito, alcun membro che si spezzasse tintinnando mentre pestava i piedi e si scrollava e si dibatteva alacremente cercando nello stesso tempo di rendersi conto del la situazione. Le orecchie, i polpastrelli, i diti dei piedi erano, sí, insensibili, ma non piú di altre volte, quando nelle notti invernali stava coricato sul balcone. Riuscí a pescare l'orologio. Non si era fermato come gli capitava di solito quando si scordava di caricarlo. Non segnava ancora le cinque... Mancava ancora parecchio, dodici, tredici minuti. Stupefacente! Possibile che fosse rimasto steso nella neve soltanto dieci minuti o poco piú e avesse concepito fantastiche visioni paurose e pensieri temerari, mentre l'esagonale maltempo dileguava con la stessa velocità con cui si era scatenato? In tal caso, per quanto riguardava il ritorno, aveva avuto una considerevole fortuna. Due volte infatti il sogno e il delirio avevano preso una piega tale da farlo sussultare rianimato: una volta dall'orrore, un'altra volta dalla gioia. La vita aveva avuto buone intenzioni col suo smarritissimo pupillo... Ma comunque fosse e fosse mattina o pomeriggiò (senza dubbio era ancora pomeriggio, verso sera), in ogni caso né le circostanze né le sue condizioni personali impedivano che Castorp se ne ritornasse a casa. E cosí fece: in grande stile, quasi in linea d'aria scese a valle dove al suo arrivo trovò già i lumi accesi, benché durante il tragitto gli fossero bastati i residui della luce diurna conservata dalla neve. Scese per il Brehmenbuhl, sul margine del Mattenwald, e fu alle cinque e mezzo a Dorf, dove, deposti gli arnesi presso il droghiere, fece sosta nella soffitta di Settembrini e gli raccontò come anche lui si fosse fatto sorprendere dalla tormenta di neve. L'umanista ne rimase atterrito. Alzò la mano sopra la testa, biasimò aspramente quella pericolosa leggerezza e accese sui due piedi lo sbuffante fornello a spirito per preparare al giovane sfinito dalla stanchezza un caffè, che per quanto forte non impedí a quest'ultimo di addormentarsi sulla sedia. La civilissima atmosfera del Berghof lo accolse, un'ora dopo, dolce e carezzevole.

A cena mangiò come un lupo. Quanto aveva sognato stava impallidendo. Quanto aveva pensato, già quella sera non gli appariva del tutto chiaro.

Soldato e uomo di coraggio. Hans Castorp aveva ricevuto sempre brevi notizie di suo cugino, prima buone, baldanzose, poi meno favorevoli, infine tali da mascherare fiaccamente qualcosa di assai triste. La serie delle cartoline cominciò con la gaia notizia dell'entrata in servizio e della entusiasmante cerimonia in cui, come si espresse Castorp nella cartolina di risposta, Joachim aveva fatto i voti di povertà, castità e obbedienza. Poi continuò allegramente: le tappe di una carriera liscia, favorita, facilitata dall'attaccamento al dovere e dalla simpatia dei superiori, erano segnate da cenni e saluti. Siccome aveva frequentato alcuni semestri, Joachim fu esonerato dall'obbligo di frequentare la scuola di guerra e dal servizio di allievo ufficiale. A capodanno fu promosso sottufficiale e mandò una sua fotografia coi relativi galloni. L'entusiasmo per lo spirito della gerarchia nella quale era inserito, ferrea, inflessibile sul punto d'onore e ciò nonostante comprensiva, magari con mordace umorismo, trapelava da tutte le sue brevi relazioni. Egli riferiva aneddoti intorno al romantico e bizzarro contegno che un sergente, soldato burbero e fanatico, aveva adottato con lui, giovane e fallibile subalterno, nel quale però scorgeva il predestinato superiore di domani, che già frequentava il circolo ufficiali. Era buffo e serio ad un tempo. Poi si parlò dell'ammissione agli esami di ufficiale. E ai primi di aprile Joachim era sottotenente. Non-c'era manifestamente uomo piú felice di lui, il cui carattere e i cui desideri coincidessero meglio di cosí con quel tenore di vita. Con una certa voluttà pudica raccontò che, passando la prima volta nella nuova pomposa divisa davanti al municipio e avendo visto da lontano la sentinella mettersi sull'attenti per rendere gli onori, le aveva fatto cenno di tralasciare. Riferí piccoli fastidi nonché soddisfazioni del servizio, episodi di splendido cameratismo, parlò della scaltra fedeltà del suo attendente, di comici incidenti durante le esercitazioni e le ore di istruzione, di visite e conviti amichevoli. All'occasione dava notizie della vita di società, di pranzi, di balli. Della sua salute, mai. Mai fin verso l'estate. Allora scrisse che s'era messo a letto, che purtroppo aveva dovuto marcar visita: una febbre catarrale, questione di qualche giorno.

Al principio di giugno era di nuovo in servizio, ma alla metà del mese aveva "fatto cilecca" un'altra volta, si lagnò amaramente della sua "iella" e fece trapelare la paura di non poter partecipare, ai primi d'agosto, alle grandi manovre che aspettava con ansia e gioia. Storie, in luglio stava benissimo, per settimane, fin tanto che all'orizzonte si delineò una visita medica, resasi necessaria in seguito alle maledette oscillazioni della sua temperatura; e molto sarebbe dipeso da quella visita. Dell'esito di essa Castorp non seppe nulla per molto tempo e quando lo seppe, non gliene scrisse Joachim - sia che non fosse in grado di farlo, sia che se ne vergognasse - bensí sua madre, la signora Ziemssen, mediante un telegramma. Comunicava che il medico aveva dichiarato indispensabile per Joachim una licenza di qualche settimana. Indicata alta montagna, consigliato partire subito, prenotare per favore due camere. Risposta pagata. Firma: zia Luise. Era la fine di luglio quando Castorp sul suo balcone scorse questo dispaccio che poi lesse e rilesse. Annuí piano piano, non solo con la testa, ma con tutto il busto e, mentre diceva tra i denti: Già, già, già!... Guarda, guarda, guarda ! Joachim ritorna ! , una gioia improvvisa lo pervase. Se non che si calmò subito e pensò: "Uhm, gravi novità. Si potrebbe anche chiamare un bel pasticcio! Accidenti, come ha fatto presto... già maturo per tornare a casa! La mamma lo accompagna..." (disse "la mamma", non "zia Luise ', tanto si era insensibilmente affievolito in lui il senso della parentela, dei rapporti familiari, fino a diventargli estranei)... "ciò aggrava il fatto. E proprio prima delle manovre, alle quali teneva tanto ! Uhm, quanta bassezza in tutto questo, quanto scherno! E' un fatto antidealistico. Trionfo del corpo che ha voglie diverse da quelle dell'anima, e s'impone, a ludibrio degli esaltati che vengono a dire che è soggetto all'anima. Non sanno, pare, quel che dicono, poiché, se avessero ragione, un caso come questo getterebbe sull'anima una luce ambigua. Sapienti sat, so come la penso. La domanda che formulo io è precisamente questa: fin dove è errato contrapporre l'uno all'altra, fin dove invece fanno causa comune fra loro e giuocano una partita concertata? A questo gli esaltati non pensano, per loro fortuna. Ottimo Joachim, chi osa offenderti e calpestare il tuo eccesso di zelo? Il tuo intendimento è onesto,... ma che cosa è l'onestà se corpo e anima sono in combutta? Possibile che tu non abbia potuto dimenticare certi rinfrescanti profumi, un seno alto e un riso infondato, che ti attendono alla tavola della Stohr?... Joachim ritorna!" pensò di nuovo torcendosi dalla gioia. "Ritorna in condizioni pietose, evidentemente, ma saremo ancora in due, non vivrò piú quassú cosí solo. E' un bene.

Non tutto sarà preciso come prima; la sua camera è occupata; c'è Mistress Macdonald che tossisce a suo modo, in silenzio, e naturalmente ha sul tavolino accanto a sé o magari in mano il ritratto del suo figlioletto. Ma è all'ultimo stadio e, se la camera non è prenotata... per ora si potrà averne un'altra. Il 28 è libero, ch'io sappia. Vado subito dall'amministratore e in particolare da Behrens. Quale novità ! Triste da un lato e bellissima dall'altro, in ogni caso però una grossa novità. Vorrei soltanto aspettare il camerata, quello dell''addivedetci', che deve arrivare a momenti, perché, come vedo, sono le tre e mezzo. Gli vorrei chiedere se anche in questo caso mantiene l'opinione che il corpo debba considerarsi secondario..." Prima del tè era già nell'ufficio dell'Amministrazione. La menzionata camera, sullo stesso suo corridoio, era a disposizione. Anche la signora Ziemssen avrebbe trovato alloggio. Corse poi da Behrens. Lo trovò nel laboratorio, il sigaro in una mano, nell'altra una provetta piena d'un liquido di brutto colore. Consigliere, sa la novità? cominciò Castorp... Sí, che la stizza non ha limiti rispose il pneumotomo. Ecco qui Rosenheim di Utrecht soggiunse indicando col sigaro la provetta. Gaffky dieci. E poi mi viene Schmitz, il direttore di fabbrica, e fa il diavolo a quattro lagnandosi che durante la passeggiata Rosenheim ha sputato ... con dieci Gaffky! E dice che lo devo strapazzare. Ma se lo sgrido, gli vengono le convulsioni, è quanto mai suscettibile e con la famiglia occupa tre camere. Non posso buttarlo fuori, le sento poi dalla direzione generale. Vede in quali conflitti ci si trova tutti i momenti, mentre si vorrebbe invece andare per la propria strada in santa pace. Antipatico disse Castorp con la comprensione del confidente e del vecchio esperto. Li conosco. Schmitz è persona molto corretta e zelante, Rosenheim alquanto trasandato. Devono avere però, direi, anche altri motivi di attrito. Schmitz e Rosenheim sono tutti e due amici di Dona Perez di Barcellona, che siede alla tavola della Kleefeld: sarà per questo. Proporrei di rammentare ancora una volta a tutti il relativo divieto e, per il resto, di chiudere un occhio. Certo che lo chiudo. A furia di chiudere gli occhi soffro di blefarospasmo. E lei che cos'ha? Castorp espose la sua triste e d'altro canto bellissima novità. Non che il consigliere ne fosse sorpreso. Non lo sarebbe stato in nessun caso, ma non lo fu in particolare, perché Castorp, interrogato o no, lo aveva sempre tenuto al corrente della salute di Joachim e fin dal maggio gli aveva segnalato che si era messo a letto. Vedo fece Behrens. Ci siamo.

Che cosa le avevo detto? Che cosa dissi a lui e a lei non dieci, ma cento volte? Ecco dunque. Per nove mesi ha fatto come voleva lui e ha toccato il paradiso. Ma un paradiso non del tutto disintossicato non può finir bene, il fuggiasco non ha voluto credere al vecchio Behrens. Ma al vecchio Behrens bisogna credere, sempre, altrimenti ci si scapita e troppo tardi si mette giudizio. Ce l'ha fatta a diventar tenente, d'accordo, non c'è che dire. Ma che gli gioVa? Dio vede nei cuori, non tiene conto del grado e della condizione, davanti a lui siamo tutti nudi, generali e soldati semplici... E si mise a straparlare, si fregò gli occhi con la manona che reggeva il sigaro e disse a Castorp che per questa volta gli levasse il disturbo: un buco per Ziemssen si sarebbe trovato e appena arrivava, suo cugino doveva cacciarlo a letto senza indugio; in quanto a lui, Behrens non ce l'aveva con nessuno, al largava le braccia paterne ed era pronto a macellare un Castorp telegrafò. Raccontò a destra e a sinistra che suo cugino stava per ritornare, e tutti coloro che conoscevano Joachim provarono tristezza e letizia, sincere entrambe, perché Joachim, caro e cavalleresco com'era, si era conquistato la simpatia generale, e molti pensavano e sentivano che lassú era stato il migliore di tutti. Non vogliamo alludere a nessuno in particolare, ma crediamo che taluni provarono una certa soddisfazione alla notizia che Joachim era costretto a lasciare il mestiere delle armi e a riprendere il tenore di vita orizzontale diventando di nuovo, con tutta la sua gentilezza, "uno dei nostri". La signora Stohr, com'è noto, si era già fatta la sua opinione, e ora vedeva confermato il volgare dubbio col quale aveva accompagnato la partenza di Joachim per la pianura e non disdegnava di vantarsene. Puzza, puzza andava dicendo; avevo capito subito che la faccenda puzzava e ora sperava che Ziemssen non la facesse arcipuzzare con la sua testardaggine. ("Arcipuzzare" disse nella sua incommensurabile volgarità.) Allora era meglio, diceva, non uscire dal seminato, come lei che pure aveva i suoi vitali interessi in pianura, a Cannstatt, un marito e due figli, ma sapeva dominarsi... Da Joachim o dalla signora Ziemssen non giunse alcuna risposta. Castorp ignorava il giorno e l'ora dell'arrivo; perciò non ci fu il ricevimento alla stazione; e tre giorni dopo il telegramma di Hans erano bell'e arrivati; e il sottotenente Joachim si avvicinò con una nervosa risata al giaciglio di servizio del cugino Castorp. La cura a sdraio serale era appena cominciata. Erano venuti con lo stesso treno che aveva portato Castorp anni prima: anni né brevi né lunghi, ma senza tempo, sommamente ricchi di esperienze e pur nulli; e anche la stagione era la stessa: uno dei primissimi giorni di agosto. Joachim arrivò, come si è detto, nervoso ma lieto..., sí, lí per lí, indubbiamente lieto e agitato, da Castorp; o, meglio, dalla camera che aveva attraversato a passo di corsa uscí sul balcone e salutò ridendo, col respiro veloce, smorzato e irregolare. Aveva fatto il lungo viaggio, attraverso diversi paesi, sul lago simile a un mare e poi era giunto su, su, per vie strette, e ora stava lí come non fosse mai partito, ricevuto dal suo parente, che era balzato su in parte dalla posizione orizzontale con esclamazioni di gioia e domande. Aveva il colorito vivace, sia per esser vissuto all'aria aperta, sia perché accaldato dal viaggio.

Senza entrare nella sua camera era corso difilato al n. 34 per salutare il compagno dei tempi passati che ora ridiventavano presenti, mentre sua madre si metteva in ordine. Desideravano cenare tra dieci minuti, beninteso nel ristorante; Castorp poteva certo mangiare ancora qualche cosa o bere un sorso di vino. E Joachim se lo tirò dietro, al n. 28, dove tutto si svolse come a suo tempo, la sera dell'arrivo di Hans, ma viceversa: chiacchierando febbrilmente Joachim si lavò le mani nel lavabo scintillante e Castorp lo stette a guardare,... stupito e quasi deluso di vedere suo cugino in borghese. Questi non presentava alcun segno della sua carriera, gli disse; se l'era sempre figurato ufficiale, in divisa, e ora se lo trovava dinanzi in grigio, in tinta unita, come uno qualunque. Joachim rise e lo definí ingenuo; l'uniforme l'aveva lasciata tranquillamente a casa. Castorp doveva sapere che l'uniforme ha la sua importanza, non tutti gli ambienti si frequentano in divisa. Capito. Ringrazio umilmente rispose Castorp. L'altro non doveva essersi accorto che la sua spiegazione era offensiva, e s'informò di tutte le persone e dei fatti avvenuti al Berghof, non solo senza alterigia, ma con tutta l'affettuosa commozione del reduce. Alla porta di comunicazione si affacciò poi la signora Ziemssen la quale salutò il nipote nella forma che certuni scelgono in queste occasioni, mostrandosi cioè lieta e sorpresa di trovarlo lí: espressione però malinconicamente smorzata dalla stanchezza e dal muto dolore per Joachim,... e scesero con l'ascensore. Luise Ziemssen aveva gli stessi occhi belli, neri e dol ci di suo figlio. I suoi capelli, pure neri, ma già misti a molto bianco, erano tenuti a posto da una reticella simile a un velo, quasi invisibile, e ciò era conforme alla sua natura, riflessiva, gentile ma misurata, dolcemente raccolta, che insieme alla palese schiettezza dell'animo le conferiva una simpatica dignità. Si vedeva, e Castorp non se ne stupí, che non capiva l'euforia di Joachim, il suo respiro accelerato, la parlantina affrettata - fenomeni che probabilmente erano in contrasto col suo comportamento a casa e durante il viaggio e certo erano contrari alle sue condizioni - e ne era quasi scandalizzata. A lei quel l'ingresso pareva doloroso, credeva perciò di doversi comportare in conformità. Le sensazioni di Joachim, turbolente sensazioni del ritorno, che in quel momento di ebbrezza superavano tutti gli ostacoli e per giunta erano sollecitate dall'incomparabile aria di lassú, leggera, rarefatta, eccitante, le riuscivano oscure e inesplicabili. "Povero figliolo" pensava, e intanto vedeva quel povero figliolo darsi con suo cugino a una sfrenata allegria, rinfrescare cento ricordi, porre cento domande e, alla risposta, abbandonarsi ridendo sulla spalliera della sedia. Piú volte intervenne: Ma ragazzi!. E quando infine parlò, le sue parole che dovevano essere liete, ebbero invece un tono di stupore e di sommesso biasimo: Joachim, in verità è un pezzo che non ti vedo cosí. Penso che abbiamo dovuto venire fin qua perché tu fossi come il giorno della tua promozione . Parole che troncarono la sua allegria. Egli cambiò umore tornò a riflettere, tacque, non assaggiò l'ultima portata, benché fosse un ghiottissimo soufflé di cioccolata con la panna (Castorp gli fece onore in vece sua, nonostante che fosse passata

soltanto un'ora dalla sua abbondantissima cena) e, in genere, non alzò piú lo sguardo, forse perché aveva gli occhi pieni di lacrime. Questa non era certo l'intenzione della signora Ziemssen. Piú che altro per educazione aveva voluto stabilire una serietà moderata, non sapendo che lassú non usavano la moderazione o la via di mezzo, e non c'era che la scelta fra gli estremi. Ora, vedendo suo figlio cosí affranto, lei stessa parve non lontana dalle lacrime e fu grata al nipote che si sforzava di rianimare il cugino tanto rattristato. In quanto agli ospiti, disse, Joachim avrebbe trovato parecchi mutamenti e varie novità, altre situazioni invece, ricostituitesi durante la sua assenza, erano al punto di prima. La prozia, per esempio, con la nipote, era rientrata da un pezzo, e come al solito stavano alla tavola della Stohr. Marusja si faceva le sue frequenti e cordiali risate. Joachim tacque, mentre sua madre, a quelle parole, si sovvenne di un incontro e di saluti che, prima di dimenticare, doveva trasmettere,... l'incontro con una signora, non antipatica, benché sola, e con sopracciglia un po' troppo regolari, che a Monaco, dove si erano trattenuti un giorno fra due notti di viaggio, si era avvicinata in un ristorante alla loro tavola per salutare Joachim. Una paziente che era stata lí con loro... Joachim, aiutami... Madame Chauchat disseJoachim tranquillo. Ora, aggiunse, soggiornava in un luogo di cura dell'Allgau e in autunno voleva andare in Spagna. Poi contava di venire a passare l'inverno lí. Cordiali saluti da parte sua. Castorp non era piú un ragazzino, sapeva dominare i nervi vascolari che avrebbero fatto impallidire o arrossire il suo viso. Disse: Ah, quella! Guarda un po', è sbucata di nuovo da dietro il Caucaso. E in Spagna vuol andare? La signora aveva nominato un luogo dei Pirenei. Bel la donna, o almeno piacente commentò la signora ziemssen. Vocè gradevole, gradevoli gesti. Ma di modi liberi, trasandata. Ci rivolge la parola come a vecchi amici, fa domande, racconta, benché Joachim, a quanto ho saputo, non le sia mai stato presentato. Strano. La colpa è dell'Oriente e della malattia spiegò Castorp. Non era il caso, disse, di applicare i criteri della civiltà umanistica; sarebbe stato un errore. E ora stava pensando che la signora Chauchat, dunque, aveva intenzione di andare in Spagna. Uhm. La Spagna, osservò, è altrettanto lontana dal centro umanistico, in direzione opposta,... non dal lato tenero, ma da quello duro; non è mancanza di forma, ma eccesso di forma, la morte in quanto forma, per cosí dire, non il dissolvimento della morte, ma il rigore della morte, nera, nobile e cruenta, l'Inquisizione, la gorgiera inamidata, il Loyola, l'Escorial... Interessante apprendere se la Spagna piacerà a madame Chauchat. Là le sarebbe passata la smania di sbattere le porte, e si poteva anche arrivare a una certa compensazione tra i due campi extraumanistici dal lato umano.

Se però l'Oriente andava in Spagna, non erano da escludere maligni effetti terroristici... No, non era diventato né rosso né pallido, ma l'impressione fattagli dalle inattese notizie sul conto della Chauchat si manifestò con frasi alle quali non era possibile rispondere se non con un perplesso silenzio. Joachim rimase meno colpito; conosceva da prima l'acume di Castorp lassú. Gli occhi della signora Ziemssen invece rivelarono una vera costernazione; e lei si comportò come se Castorp avesse detto cose molto indecenti: dopo una pausa penosa si alzò da tavola stendendo con molto tatto un velo sull'incidente. Prima di separarsi, Castorp trasmise da parte del consigliere l'ordine che Joachim rimanesse a letto fino alla visita medica; il resto a dopo. I tre parenti stettero poi nelle loro camere, con le finestre aperte, esposti al fresco della notte estiva d'alta montagna, ognuno coi propri pensieri, Castorp in specie con quello del ritorno della signora Chauchat previsto entro sei mesi. E cosí il povero Joachim era rientrato a "casa sua" per una breve cura suppletiva che gli avevano consigliato. La "breve cura suppletiva" era evidentemente la parola d'ordine adottata giú in pianura, e ora la si fece circolare anche lassú. La accettò perfino il consigliere Behrens pur appioppando subito quattro settimane di riposo a letto: necessarie, disse, per raccomodare i guasti peggiori, per acclimarsi di nuovo e regolare un po' le riserve di calore. Seppe fare in modo da non fissare il periodo del supplemento di cura; la signora Ziemssen con intelligenza e comprensione, tutt'altro che invadente, propose, lontano dal letto di Joachim, come termine di congedo l'autunno, poniamo il mese di ottobre, e Behrens approvò dichiarando che a quell'epoca si sarebbero fatti in ogni caso molti passi avanti. A lei il consigliere piacque mol tissimo: era cavaliere, diceva "gentile signora", guardandola devotamente con gli occhi gonfi soffusi di sangue, e usava frasi goliardiche tali che, nonostante l'afflizione la facevano ridere. So che è in buone mani disse e otto giorni dopo l'arrivo ripartí per Amburgo, dato che non vi era una seria necessità di cure e, d'altro canto, Joachim godeva già la compagnia d'un parente. Dunque, sii contento: in autunno disse Castorp seduto al n. 28 accanto al letto di suo cugino. Il vecchio si è un po' impegnato; ci puoi contare. Ottobre sarebbe il momento. Allora certuni vanno in Spagna, e anche tu te ne ritorni alla tua bandera per distinguerti oltremodo... Tutti i giorni aveva il compito di consolare Joachim, soprattutto perché gli toccava rinunciare a giocare alla guerra, in quel principio d'agosto,... poiché non ci si poteva rassegnare e affermava persino di avere in uggia se stesso per quella maledetta fiacchezza che gli era piombata addosso all'ultimo momento. Rebellio carnis obiettò Castorp. Che ci vuoi fare? Non ci può far nulla neanche il piú valoroso ufficiale, e persino Sant'Antonio ne sapeva qualcosa. Pazienza: le manovre si fanno tutti gli anni, e tu conosci il tempo di quassú. E' un tempo che non è tempo e tu non sei stato assente abbastanza da non riprendere facilmente il ritmo, e prima che tu volti l'occhio, il periodo della breve cura suppletiva è bell'e andato. Se non che il

rinnovamento del senso del tempo, derivante dalla vita in pianura, era troppo notevole perché Joachim non avesse paura di quelle quattro settimane. Ma non gli mancarono gli aiuti per superarle; la simpatia che tutti nutrivano per il suo bel carattere si manifestò con visite di vicini e lontani: venne Settembrini, affettuoso e affascinante, che, siccome lo aveva sempre chiamato "tenente", ora gli diede del "capitano"; anche Naphta andò a trovarlo, e tra quelli di casa si fecero vedere a mano a mano tutti i vecchi conoscenti, approfittando di un quarto d'ora libero dal servizio per sedersi accanto al suo letto, ripetere le parole del breve supplemento di cura e farsi raccontare le sue vicende: le signore Stohr, Levi, Iltis e Kleefeld, i signori Ferge, Wehsal e altri. Alcuni gli portarono persino dei fiori. Passate le quattro settimane, si alzò perché la febbre era calata al punto da consentirgli di circolare, e andò a sedersi con suo cugino nella sala da pranzo, tra lui e la signora Magnus, la consorte del birraio, di fronte a quest'ultimo, al posto d'angolo che a suo tempo era stato occupato dallo zio James e per qualche giorno anche dalla signora Ziemssen. Cosí i due giovani vivevano di nuovo a fianco a fianco, come una volta; anzi, per ricostruire al completo il quadro di allora gli toccò - quando Mrs. Macdonald, col ritratto del figlio in mano, ebbe esalato l'ultimo respiro - la sua solita camera, attigua a quella di Castorp, dopo, s'intende, una radicale disinfezione con H2CO. A rigore e per quanto attiene al sentimento dobbiamo dire che Joachim viveva al fianco di Castorp e non viceversa: questi era ora il residente, del quale l'altro condivideva la vita per un po' di tempo, per la durata d'una visita. Joachim infatti si sforzava di tenere fermamente d'occhio il termine di ottobre, benché certi punti del suo sistema nervoso centrale non volessero adattarsi alla norma umanistica e impedissero la compensatrice emissione di calore attraverso la pelle. Ripresero anche le visite a Settembrini e Naphta, nonché le passeggiate con questi due alleati nemici, e quando vi partecipavano anche A. K. Ferge e Ferdinand Wehsal, come accadeva spesso, erano in sei, e quei due avversari nello spirito combattevano i loro interminabili duelli; nel riferirli non possiamo aspirare a darli integralmente, perché ci perderemmo su un piano disperato e senza limiti, come facevano loro ogni giorno davanti a un pubblico ragguardevole, anche se Castorp era dell'idea che il principale argomento della loro gara dialettica fosse la sua povera anima. Da Naphta aveva appreso che Settembrini era frammassone,... e ciò non lo aveva colpito meno della rivelazione dell'italiano circa la provenienza gesuitica di Naphta e la fonte del suo gesuitico sostentamento. Anche questa volta era rimasto sbalordito alla notizia che una cosa simile esistesse ancora sul serio, e aveva assiduamente scandagliato il terrorista per conoscere le origini e la natura di quella curiosa istituzione, della quale tra qualche anno si sarebbe potuto festeggiare il bicentenario. Se Settembrini alle spalle di Naphta parlava del suo atteggiamento spirituale come di cosa diabolica dalla quale, in tono patetico, consigliava di guardarsi, Naptha alle spalle di quello aveva buon giuoco a deridere il campo che rappresentava, facendo capire che era un campo molto antiquato e arretrato: illuminismo borghese, libero pensiero di avantieri, nient'altro che meschina visione di fantasmi, dedita però alla

ridicola illusione di essere ancora in piena vita rivoluzionaria. Diceva: Che vuole? Già suo nonno era carbonaro, cioe carbonaio; da lui ha preso la fede da carbonai nella ragione, nella libertà, nel progresso umano e tutto quel rancidume di ideologia classico-borghese della virtú... Vede, lo scompiglio del mondo dipende dalla sproporzione che c'è tra la velocità dello spirito e l'enorme lentezza, goffaggine, inerzia, fiacchezza della materia. Bisogna riconoscere che questa sproporzione sarebbe sufficiente a scusare il mancato interessamento dello spirito al reale, perché è normale che i fermenti, i quali provocano le rivoluzioni della realtà, gli sono venuti a nausea da un pezzo. Di fatto, lo spirito morto ripugna a quello vivo piú di qualsiasi basalto che almeno non ha la pretesa di essere spirito e vita. Siffatti basalti, residui di realtà d'una volta che lo spirito si e lasciato alle spalle al punto da rifiutare di collegarsi ancora al concetto reale, continuano a esistere per inerzia e con la loro pesante e morta durata impediscono purtroppo che l'insulsaggine si accorga d'essere insulsa. Io parlo sulle generali, ma lei ne saprà fare l'applicazione pratica a quel liberalismo umanitario che crede di trovarsi ancora in posizione eroica contro il potere e l'autorità. Che dire, ahimè, delle catastrofi mediante le quali vorrebbe convincersi d'esser vivo, dei ritardati e spettacolosi trionfi che sta preparando e sogna di celebrare in avvenire? Al solo pensiero di questi lo spirito vivente si annoierebbe a morte se non sapesse che in realtà lui solo riporterà la vittoria e l'usufrutto di tali catastrofi,... lui che fonde in sé gli elementi del passato col piú lontano avvenire per una vera rivoluzione... Come sta suo cugino, signor Castorp? Lei sa che per lui nutro molta simpatia . Grazie, signor Naphta. Tutti lo hanno in sincera simpatia, da quel bravo giovane che è. Anche al signor Settembrini piace, benché naturalmente sia costretto a disapprovare certo fanatico terrorismo, insito nella professione di Joachim. Ora sento che il signor Settembrini è Fratello d'una Loggia. Guarda un po'. Ciò, devo dire, mi dà da pensare. Mi pone la sua persona sotto una luce nuova e chiarisce parecchie cose. Chi sa se all'occasione mette anche lui i piedi a squadra e unisce alla stretta di mano un toccamento particolare? Non l'ho mai notato... Queste fanciullaggini osservò Naphta, il nostro buon Fratello trepuntini le avrà già superate. Suppongo che il cerimoniale di Loggia si sia miseramente adattato al disincantato spirito cittadino dei tempi. Del rituale di un tempo ci si vergognerebbe, penso, come di un'incivile ciurmeria,... non a torto, perché, presentare il repubblicanesimo ateo come un mistero, sarebbe veramente insensato. Non so con quali spaventi abbiano messo alla prova la perseveranza del signor Settembrini: se l'abbiano condotto con gli occhi bendati per chissà quanti corridoi e fatto attendere in un gabinetto buio prima che

gli fosse aperta la sala rischiarata da luci riflesse; o se l'abbiano catechizzato solennemente e, davanti a un teschio e tre candele, gli abbiano puntato le spade contro il petto nudo. Lo deve chiedere a lui, ma temo che sarà poco loquace, perché, se anche il procedimento fosse stato molto piú borghese, in ogni caso avrà dovuto giurare segretezza. Giurare? Segretezza? Davvero? Certo. Segretezza e obbedienza. Anche obbedienza. Senta, professore, ora direi che egli non ha motivo di chiamare esaltata e terroristica la professione di mio cugino. Segreto e obbedienza! Non avrei mai immaginato che un uomo d'ingegno come Settembrini possa assoggettarsi a condizioni o promesse cosí decisamente spagnole. Nella massoneria fiuto addirittura una vena gesuitico-militare... Lei fiuta giusto ribatté Naphta. La sua bacchetta magica freme e batte un colpo. L'idea dell'alleanza in genere è inseparabile e legata fin dalle radici con quella dell'assoluto. Per conseguenza è terroristica, cioè antiliberale. Sgrava la coscienza individuale e in vista del fine assoluto giustifica ogni mezzo, anche quello cruento, anche il delitto. Esistono indizi che una volta anche nelle Logge massoniche la fratellanza sia stata simbolicamente suggellata col sangue. Un'associazione non è mai contemplativa, ma ha sempre, per sua natura, uno scopo assolutamente organizzatore. Non sa che il fondatore dell'Ordine degli Illuminati, il quale per qualche tempo si fuse quasi con la Libera Muratoria, fu un ex appartenente alla Società di Gesú? No, per me sono cose nuove, naturalmente. AdamWeishaupt organizzò la sua lega umanitaria segreta esattamente sul modello dell'Ordine dei Gesuiti. Lui stesso era massone e i piú ragguardevoli Fratelli dell'epoca erano Illuminati. Parto della seconda metà del Settecento che Settembrini non esiterà a presentare come epoca di decadenza della sua corporazione. In realtà fu il periodo della sua maggiore espansione, come delle associazioni in genere, l'epoca in cui la Muratoria salí veramente a una vita superiore, dalla quale piú tardi fu di nuovo purgata ad opera di persone sul tipo del nostro filantropo, che in quel tempo sarebbe stato con certezza tra coloro che le rinfacciavano gesuitismo e oscurantismo. C'erano motivi per farlo? Sí,... se vogliamo. Il volgare movimento del libero pensiero li aveva, i motivi. Era il tempo in cui i nostri padri cercarono di ispirare alla lega una vita gerarchicocattolica, e in Francia prosperava la Loggia massonica dei gesuiti di Clermont. Era il tempo in cui s'introdusse nelle Logge il rosacrocesismo,... una curiosa confraternita che, se ne vuol prender nota, accoppiava mete politiche di miglioramento sociale e di incremento della felicità umana, su piano meramente razionale, a singolari relazioni con l'occultismo dell'Oriente, con la sapienza indiana e araba e con lo studio magico della natura. Al lora si effettuarono la riforma e la rettifica di numerose Logge massoniche col criterio della stretta osservanza,...

criterio espressamente irrazionale, mistagogico e magicoalchimistico, cui si devono gli` Alti Gradi scozzesi della Massoneria: gradi di ordine cavalleresco, che si aggiunsero alla vecchia gerarchia militare di apprendista, compagno e maestro; gradi di Gran Maestro che portarono sul piano ieratico ed erano pregni di esoterismo rosacrociano. Fu un risalire a certi Ordini cavallereschi religiosi del medioevo, soprattutto ai Templari, capisce? i quali davanti al patriarca di Gerusalemme pronunciavano i voti di povertà, castità e obbedienza. Esiste ancora un Alto Grado della gerarchia massonica che reca il titolo di Grande Principe di Gerusalemme. Nuovo per me, tutto nuovo, signor Naphta. Cosí scopro gli intrighi del signor Settembrini... Grande Principe di Gerusalemme: non mi dispiace. Lei lo dovrebbe chiamare cosí, una volta o l'altra, per celia. Lui d'altronde le ha affibbiato recentemente il nomignolo di Doctor angelicus. Bisogna ripagarlo. Oh, ce n'è un mucchio di questi titoli significativi degli Alti Gradi dei Templari di Stretta Osservanza. Le cito il Maestro Perfetto, il Cavaliere d'Oriente, il Grande Eletto, e il trentunesimo grado si chiama perfino Sublime Principe del Segreto Reale. Come vede, tutti questi nomi rivelano rapporti col misticismo orientale. La stessa ricomparsa del Templare significò soltanto l'assunzione di siffatti rapporti e, di fatto, l'irruzione di fermenti irrazionali in un mondo di idee inteso a migliorare razionalmente e fruttuosamente la società. Con ciò la Muratoria acquistò un nuovo fascino e splendore che spiega le numerose adesioni di allora. Essa attirò tutti quegli elementi che erano stufi delle sofisticherie, dell'umano illuminismo e di tutti i lumi del secolo, e bramavano piú forti beveraggi vitali. I trionfi dell'Ordine furono tali da strappare ai filistei il lamento che esso straniava i mariti dalla felicità domestica e dalla dignità femminile. Be', senta, professore, allora si può anche capire che il signor Settembrini non ricordi volentieri quel periodo del suo Ordine. Infatti, non gli piace ricordare che ci furono tempi nei quali la sua lega si attirò tutte le antipatie che il libero pensiero, l'ateismo, la ragione enciclopedica nutriva di solito contro la Chiesa, il cattolicesimo, i frati e il medioevo messi insieme. Le ho detto che i massoni erano tacciati di oscurantismo. Ma perché? Mi piacerebbe saperlo. Glielo dico io. La Stretta Osservanza era come dire un approfondimento, un allargamento delle tradizioni dell'Ordine, la cui origine storica era fatta risalire al mondo dei misteri, alle cosí dette tenebre del medioevo. I gradi di Gran Maestro delle Logge erano iniziati alla physica mystica, detentori della scienza magica della natura, in sostanza grandi alchimisti... A questo punto devo fare uno sforzo per ricordare press'a poco che cosa fosse in complesso l'alchimia. Al chimia sarebbe la conversione dei metalli in oro, la pietra filosofale, l'aurum potabile... Sí, in lingua spicciola. In forma piú dotta diremo depurazione, trasformazione e raffinamento di sostanze, transustanziazione, verso l'alto beninteso, dunque potenziamento,... il lapis philosophorum, l'ermafrodita combinazione di

zolfo e mercurio, la res bina, la bisessuale prima materia non era altro, non era nientemeno che il principio dell'incremento, dell'elevazione mediante azioni esterne,... pedagogia magica, se vuole. Castorp tacque. Stringendo le palpebre guardò in alto, di scancio. Un simbolo di trasmutazione alchimistica proseguí Naphta era anzitutto il sepolcro. La tomba? Sí, il luogo della putrefazione. Essa è la quintessenza di ogni ermetismo, nient'altro che il vaso, la ben conservata storta di cristallo, nella quale la sostanza è spinta incontro alla sua ultima metamorfosi e purificazione. Ermetismo è detto bene, signor Naphta. Ermetico: una parola che mi è sempre piaciuta. E' una vera parola magica, ricca di associazioni a largo raggio. Mi scusi, ma mi ha sempre fatto pensare ai vasi da conserva che la nostra governante amburghese Schalleen si chiama, senza signora o signorina, semplicemente Schalleen - tiene allineati sulle scansie in dispensa,... vasi di vetro pieni di frutta o carni o tante altre cose, chiusi ermeticamente. Sono là da anni e quando, secondo la necessità, se ne apre uno, il contenuto è fresco e intatto, gli anni non l'hanno potuto danneggiare, lo si può mangiare come sta. Certo non è alchimia né purificazione, è soltanto conservazione, per questo le chiamiamo conserve. Ma la magia sta in questo: che il contenuto è sottratto al tempo, ne è separato ermeticamente, il tempo passa via e quel contenuto non ha tempo, ne sta fuori, là sulle scansie. Be, non dirò altro delle conserve. Molto non ne ho cavato, mi scusi. Ma lei, se non erro, voleva insegnarmi altre cose ancora. Soltanto se le fa piacere. L'apprendista dev'essere desideroso d'imparare e impavido, per dirla con lo stile del nostro argomento. Il sepolcro, la tomba è stata sempre il piú importante simbolo dell'iniziazione. L'apprendista, il novellino che aspira a entrare in possesso del sapere, ha da dar prova d'intrepidezza in quell'orrore, il rito esige che egli vi sia fatto scendere per prova, vi si debba trattenere e ne esca guidato da un'ignota mano paterna. Di qui i complicati corridoi e le stanze buie che il novizio deve attraversare, di qui il panno nero di cui è rivestita la sala di riunione della Stretta Osservanza, e il culto della bara che ha tanta importanza nelle cerimonie dell'iniziazione e delle riunioni. La via dei misteri e della purificazione è irta di pericoli, conduce attraverso angosce mortali, nel regno della putrefazione, e l'apprendista, il neofito, è il giovane avido di conoscere i miracoli della vita, di essere portato alla demoniaca capacità d'esperienza, guidato da individui mascherati che sono soltanto ombre del mistero. La ringrazio, signor Naphta. Perfettamente. Questa dunque sarebbe la pedagogia ermetica. Non mi può nuocere di averne sentito parlare anch'io. Tanto piú che qui si tratta di essere guidati all'estremo, all'assoluta professione del soprassensibile e quindi alla meta. Nei decenni successivi l'osservanza alchimistica delle Logge ha condotto a questa meta parecchi spiriti nobili e cercatori,... non occorre che la nomini, perché non le può essere sfuggito che la graduatoria degli

Alti Gradi scozzesi è soltanto un surrogato della gerarchia, che la sapienza alchimistica del Maestro Muratore si compie nel mistero della transustanziazione, che la guida segreta offerta dalla Loggia ai suoi adepti si ritrova nei mezzi della grazia altrettanto chiaramente come simbolici trastulli del cerimoniale massonico si trovano nel simbolismo liturgico e edificante della nostra santa Chiesa romana. Vedo. Ma non è ancora tutto. Mi sono già permesso di accennare che la derivazione delle Logge dalle rispettabili corporazioni di operai muratori è soltanto un fenomeno storico. La Stretta Osservanza almeno gli conferí ben piú profonde basi umane. Il segreto delle Logge ha in comune con la nostra Chiesa il palese riferimento a rituali segretezze e sacre licenziosità degli uomini primitivi... In quanto alla Chiesa alludo all'agape e alla Cena, alla sacramentale ingestione del Corpo e del Sangue; in quanto alle Logge invece... Un momento. Vorrei fare un'osservazione marginale. Anche nella vita di società, nella quale è inserito mio cugino, si tengono agapi, amichevoli conviti. Egli me ne scrisse varie volte. Naturalmente tutto si svolge con la massima decenza, salvo un po' di ubriachezza, ma non si arriva neanche al punto delle bicchierate studentesche... In quanto alle Logge invece, alludo al culto della tomba e della bara, sul quale dianzi ho richiamato la sua attenzione. In entrambi i casi si tratta di un simbolismo degli estremi, di elementi di una primitiva religiosità orgiastica, di liberi notturni sacrifici in onore del morire e divenire, di morte, trasmutazione e risurrezione... Lei ricorderà che i misteri di Iside, come anche quelli di Eleusi, si svolgevano di notte e in antri oscuri. Ebbene, nella Muratoria troviamo una quantità di reminiscenze egizie, e certe società segrete si chiamarono associazioni eleusine. Si celebravano feste delle Logge, feste dei misteri eleusini e occulti riti afrodisiaci, nei quali infine c'entrava la donna,... feste delle rose, alle quali alludono le tre rose azzurre sul grembiule massonico; feste che, a quanto pare, finivano in baccanali... Ma che ascolto, signor Naphta? Tutto questo sarebbe la Libera Muratoria? E tutto questo dovrei... nell'idea che mi son fatto del nostro Settembrini cosí lucido di mente... Gli farebbe un grave torto. No, di tutto ciò Settembrini non sa piú nulla. Le ho detto che i suoi pari hanno purgato la Loggia da tutti gli elementi di una vita superiore. Dio buono, essa si è umanizzata, ammodernata. Da siffatte aberrazioni è ritornata all'utile, alla ragione e al progresso, alla lotta contro preti e sovrani, insomma alla diffusione della felicità sociale: vi si parla un'altra volta di natura, virtú, moderazione e patria. Anche di affari, suppongo. In breve, è la miseria borghese in forma di club... Peccato. Mi dispiace per le feste delle rose. Domanderò a Settembrini se non ne sa piú nulla.

L'onesto cavaliere della squadra! esclamò Naphta beffardo. Deve considerare che non gli fu certo facile essere ammesso al cantiere del tempio dell'umanità, perché è povero in canna, e là, scusi, non si richiede soltanto una cultura superiore, una cultura umanistica, ma bisogna appartenere anche alla classe abbiente per poter versare le non esigue tasse di ammissione e i canoni annui. Cultura e ricchezza: ecco il borghese! Ecco le basi dell'universale repubblica liberale! Giusto rise Castorp, eccola qui chiara e tonda. Eppure aggiunse Naphta dopo una pausa, le consiglierei di non prendere troppo alla leggera quest'uomo e la sua causa, e giacché stiamo parlando di questo argomento, la vorrei persino pregare di stare in guardia. Insulsaggine e innocenza non sono affatto la stessa cosa. Non è detto che chi è limitato sia innocuo. Costoro hanno annacquato parecchio il loro vino che in certi momenti fu tutto fuoco, ma l'idea della loro associazione è ancora abbastanza forte da sopportare molta acqua; essa conserva residui di misteri fecondi, e non c'è da dubitare che le Logge abbiano lo zampino nelle vicende del mondo, come converrà scorgere in codesto amabile signor Settembrini qualcosa di piú che lui stesso, e pensare che sia spalleggiato da poteri, dei quali è un parente, un emissario... Un emissario? Sí, uno che va a caccia di proseliti, un pescatore di anime. "E tu che emissario sei?" pensò Castorp. A voce alta disse: Grazie, signor Naphta. Sinceramente obbligato dell'avvertimento. E ora, sa cosa faccio? Salgo di un piano, se lassú si può parlare di piano, e vado a toccare il polso al Fratello mascherato. L'apprendista deve essere desideroso di sapere e impavido... Anche cauto, s'intende... Con gli emissari la prudenza non è mai troppa. Anche a Settembrini poté rivolgersi senza timore per ulteriori informazioni, perché questi in fatto di discrezione non aveva niente da rimproverare a Naphta e d'altronde non aveva mai tenuto in modo particolare a far un mistero della sua appartenenza a quell'armoniosa associazione. La Rivista della Massoneria Italiana era aperta sulla sua tavola, salvo che Castorp non vi aveva posto attenzione. E quando, istruito da Naphta, portò il discorso sull'arte regale come se non avesse mai dubitato del legame che c'era tra essa e Settembrini, incontrò soltanto poca resistenza. C'era bensí qualche punto sul quale il letterato non si pronunciò, anzi sentendolo nominare chiuse le labbra con una certa ostinazione; avendo evidentemente le mani legate dai voti terroristici dei quali aveva parlato Naphta, faceva il misterioso intorno a costumanze esteriori e al posto che egli stesso occupava in quella strana organizzazione. Nel resto fu addirittura loquace e tracciò all'ospite curioso un quadro significativo della diffusione della sua lega che con circa ventimila Logge e centocinquanta Grandi Logge abbracciava il mondo intero, persino civiltà come Haiti e la repubblica negra della Liberia. E si vantò non poco dei nomi di grandi uomini che erano stati o erano allora massoni, citò Voltaire, Lafayette e Napoleone, Franklin e Washington, Mazzini e Garibaldi, tra i viventi anche il re d'Inghilterra

e oltre a ciò una folla di persone nelle cui mani erano gli affari degli stati europei, membri dei governi e dei parlamenti. Castorp manifestò rispetto, ma non stupore. Lo stesso avveniva, rammentò, anche nelle associazioni di studenti. Anche questi rimangono uniti per tutta la vita e sanno collocare i loro uomini, di modo che chi non è un confratello difficilmente riesce a farsi strada nella gerarchia degli uffici. Perciò non era forse esatto affermare, come faceva il signor Settembrini, che l'appartenenza di quelle illustri persone alla Loggia sia un fatto lusinghiero per quest'ultima; ma viceversa, l'occupazione di tanti posti importanti da parte di Fratelli dell'Ordine sta a dimostrare la potenza della lega che nella politica mondiale ha le mani in pasta piú di quanto egli non fosse disposto a confessare. Settembrini sorrise. E si fece vento col fascicolo della Massoneria che teneva in mano. Gli si voleva tendere una trappola? domandò. Si pensava forse di indurlo a incaute confessioni intorno alla natura politica, allo spirito essenzialmente politico delle Logge? Scaltrezza superflua, ingegnere! Noi facciamo della politica, lo dichiariamo senz'altro, apertamente. Noi ci infischiamo dell'odiosità che alcuni sciocchi - nel suo paese si trovano, ingegnere, quasi nessuno altrove - collegano con questa parola, con questo titolo. Il filantropo non può neanche ammettere la diversità tra politica e non-politica. La nonpolitica non esiste. Tutto è politica. In tutto e per tUtto? So benissimo che certa gente reputa opportuno risalire al carattere originariamente non-politico del pensiero massonico. Ma costoro giuocano con le parole e tracciano confini che è finalmente ora di definire immaginari e assurdi. In primo luogo almeno le Logge spagnole presentarono fin da principio una tinta politica... Me lo figuro. Poco può figurarsi, ingegnere. Non creda di potersi figurare molto per conto suo, cerchi invece di apprendere ed elaborare - glielo chiedo nel suo interesse, come in quello del suo paese e dell'Europa - ciò che sto per esporle in secondo luogo. In secondo luogo, cioè, il pensiero massonico non è mai stato apolitico, in nessun'epoca, non lo poteva essere, e quando ha creduto di esserlo, s'ingannava intorno al proprio carattere. Che cosa siamo noi? Costruttori e manovali in un cantiere. Lo scopo di tutti è unico, il meglio dell'insieme è legge fondamentale della fratellanza. Qual è questo meglio, questo edificio in costruzione? La struttura sociale a regola d'arte, la perfezione dell'umanità, la nuova Gerusalemme. Che distinzione si vuol fare tra politica e non-politica? Il problema sociale, lo stesso problema della coesistenza è politica, politica da cima a fondo, nient'altro che politica. Chi gli si dedica - e non meriterebbe di essere considerato uomo chi si sottrae a questo impegnoappartiene alla politica, di dentro e di fuori, capisce che l'arte del Libero Muratore è arte di governo... Di governo... Che nella Muratoria illuminata c'era il grado di Reggente... Molto bene, signor Settembrini. Arte di governo, grado di Reggente: mi piace.

Ma mi dica una cosa: siete cristiani, tutti voi altri, nella vostra Loggia? Perché? Mi scusi. Farò un'altra domanda, piú generica e piú semplice. Lei crede in Dio? Le risponderò. Ma perché lo chiede? Non ho voluto tentarla dianzi, ma c'è un aneddoto nella Bibbia, dove un tale tenta il Signore con una moneta romana e si sente rispondere che bisogna dare all'imperatore ciò che è dell'imperatore e a Dio ciò che è di Dio. Ho l'impressione che questo modo di distinguere rispecchi la differenza tra politica e non-politica. Se c'è Dio, c'è anche questa distinzione. I frammassoni credono in Dio? Mi ero impegnato a risponderle. Lei parla di una unità alla cui costituzione si sta lavorando, ma oggi con grande dispiacere di tutti i buoni non esiste ancora. La lega mondiale dei Liberi Muratori non esiste. Quando sarà costituita - si sta lavorando, ripeto, in laborioso silenzio a quest'opera grandiosa, - anche la sua professione religiosa sarà senza dubbio unitaria, e dirà: crasez l'infdme ! D'obbligo? Non sarebbe un gesto tollerante. Lei, ingegnere, non è forse all'altezza del problema della tolleranza. Però si metta bene in mente che la tolleranza diventa delitto quando riguarda il male. Dio sarebbe il male? Il male è la metafisica. Perché non serve a nulla, tranne che a addormentare la diligenza che dobbiamo applicare alla costruzione del tempio sociale. Già da una generazione infatti il Grande Oriente di Francia ha dato l'esempio togliendo il nome di Dio da tutti i suoi documenti. Noi italiani abbiamo fatto altrettanto... Molto cattolico! Come dice? Dico che cancellare Dio è un gesto estremamente cattolico ! Lei vuol dire... Niente di notevole, signor Settembrini. Non dia retta alle mie chiacchiere. Lí per lí mi è balenata l'idea che l'ateismo dev'essere un atteggiamento molto cattolico, che si cancella Dio per poter essere tanto piú cattolici. Se Settembrini fece seguire una pausa, era chiaro che lo faceva soltanto per accortezza pedagogica. Dopo un opportuno silenzio rispose: Ingegnere, sono ben lontano dall'intenzione di fuorviarla dal suo protestantesimo o di volerla mortificare. Si parlava di tolleranza... E' superfluo avvertire che per il protéstantesimo nutro piú che tolleranza, che anzi lo ammiro profondamente in quanto nella storia si è opposto all'imbavagliamento delle coscienze. L'invenzione del la stampa e la Riforma sono e restano i due piú alti meriti che l'Europa centrale abbia acquistati a vantaggio dell'umanità. Non c'è dubbio. Ma dopo quanto lei ha detto or ora, non dubito che mi capirà perfettamente se le faccio notare che questo è soltanto un lato della cosa, la quale ne ha anche un altro. Il protestantesimo contiene elementi... La stessa persona del vostro riformatore conteneva elementi...

Alludo a elementi di indolenza e di contemplazione ipnotica che non sono europee, che sono estranee e ostili alla legge di vita di questo attivo continente. Lo guardi un po', questo Lutero! Osservi i suoi ritratti, da giovane e piú in età! Che ne dice di quel cranio, che degli zigomi, della strana posizione degli occhi? Amico mio, questa è Asia ! Mi stupirei, molto mi stupirei se non avessero avuto una loro parte elementi vendicoslavo-sarmatici, se quindi la (chi lo negherà?) colossale figura di quest'uomo non avesse fatalmente sovraccaricato uno dei due piatti della bilancia, che nel suo paese stanno cosí pericolosamente in equilibrio,... un peso tremendo sul piatto orientale, per cui ancora oggi l'altro, quello occidentale, ondeggia, in alto nell'aria... Dall'umanistico leggio pieghevole accanto alla finestrella, davanti al quale era stato in piedi, Settembrini si era spostato verso il tavolino rotondo dove era la bottiglia dell'acqua, per essere piú vicino all'alunno che, seduto sul divano senza spalliera, spinto contro la parete, teneva il gomito sul ginocchio e il mento sulla mano. Caro disse, caro amico! Occorrerà prendere decisioni,... decisioni di incalcolabile portata per la felicità e per l'avvenire d'Europa, e al suo paese toccherà prenderle, nella sua anima dovranno maturare. Trovandosi tra l'Oriente e l'Occidente, sarà costretto a fare la scelta, a risolversi definitivamente e con coscienza tra le sfere che se lo contendono. Lei è giovane, prenderà parte a quella decisione, è chiamato a esercitarvi la sua influenza. Sia perciò benedetta la sorte che l'ha sbalestrata in questa orribile regione, ma nello stesso tempo offre a me l'occasione d'influire con la mia parola non priva d'esercizio, non del tutto fiacca, sulla sua plasmabile giovinezza e di farle sentire la responsabilità che ha, che il suo paese ha verso la civiltà... Castorp, seduto, col mento nella mano, guardava dal la finestra della soffitta e i suoi schietti occhi celesti avevano l'espressione di chi non si vuol arrendere. Taceva. Lei tace notò Settembrini commosso. Lei e il suo paese osservano un silenzio pieno di riserve, la cui tenebra non consente di farsi un giudizio della sua profondità. Lei non ama la parola e non la possiede o la santifica in maniera scortese;... il mondo articolato non sa e non viene a sapere come lei la pensi. Badi, amico, è pericoloso. La lingua è per se stessa civiltà... La parola, anche la piú contraddittoria, è impegnativa... L'assenza del la parola crea la solitudine... Si suppone che lei tenterà di rompere la sua solitudine con l'azione. Lei farà comparire suo cugino Giacomo (per comodità Settembrini chiamava Joachim Giacomo), lo farà comparire davanti al suo silenzio, "e con terribili fendenti due stende a terra, gli altri volge in fuga..." Siccome Castorp cominciò a ridere, Settembrini sorrise, soddisfatto per il momento dell'effetto ottenuto con la sua plastica parola. Bene, ridiamo ! esclamò. Lei mi troverà sempre pronto all'allegria. "Il riso è uno scintillio dell'anima", dice un antico. E poi abbiamo deviato... verso cose che, voglio ammettere, sono collegate con le difficoltà, contro le quali urtano i nostri preparativi per la costituzione della lega massone mondiale, difficoltà suscitate

specialmente nell'Europa protestante... E Settembrini continuò a svolgere con calore l'idea di questa lega mondiale, iniziata in Ungheria, la cui auspicabile attuazione sarebbe destinata a conferire alla Libera Muratoria un potere decisivo nel mondo. Fece vedere alcune lettere che aveva ricevuto in proposito da dignitari esteri. uno scritto autografo del Gran Maestro svizzero, il Fratello Quartier la Tente del trentatreesimo grado, ed espose il progetto di adottare l'idioma artificiale esperanto come lingua universale della lega. Il suo fervore lo inalzò al livello del l'alta politica, e volgendo gli occhi di qua e di là valutò le speranze che la rivoluzionaria idea repubblicana poteva nutrire nella propria patria, in Spagna, in Portogallo. Intendeva di rimanere in contatto epistolare anche con i dirigenti della Grande Loggia portoghese. Là stavano maturando decisioni risolutive. Pregava Castorp di pensare a lui quando, tra poco, avrebbe visto laggiú precipitare gli eventi. Castorp promise di farlo. Va notato che queste chiacchierate massoniche, svoltesi separatamente fra l'alunno e ciascuno dei due mentori, avevano avuto luogo prima che Joachim ritornasse tra gli ospiti di lassú. La discussione che ci accingiamo a riferire avvenne invece dopo il suo ritorno e in sua presenza, quando era là ormai da nove settimane, i primi di ottobre, e quel convegno al sole d'autunno davanti alla Casa di cura di Platz, col conforto di bibite rinfrescanti, rimase sempre bene impresso nella memoria di Castorp, perché proprio allora era in pensiero per Joachim,... in pensiero a causa di indicazioni e fenomeni che di solito non fanno stare in pensiero, il mal di gola, cioè, e la raucedine. Disturbi, questi, innocui che però al giovane Castorp apparivano in qualche modo sotto una luce singolare,... sotto appunto quella luce, si può dire, che gli pareva di scorgere in fondo agli occhi di Joachim, i quali erano stati sempre grandi e dolci, ma quel giorno, esattamente quel giorno, avevano subito un certo indefinibile ingrandimento e un approfondimento dell'espressione pensosa e - bisogna pur aggiungere la strana parola - minacciosa, insieme con la menzionata illuminazione dal di dentro, a proposito della quale sarebbe un grosso errore affermare che a Castorp non piacque,... anzi, al contrario, gli piacque assai, ma ciò nonostante lo fece stare in pensiero. Di queste impressioni insomma, non si può che parlare confusamente, in conformità appunto della loro natura. Il colloquio, la controversia - controversia beninteso tra Naphta e Settembrini - fu una cosa a sé, non proprio legata alle discussioni particolari intorno alle Logge. Oltre ai due cugini erano presenti anche Ferge e Wehsal, e l'interessamento di tutti era vivo, benché non tutti fossero all altezza dell argomento,... Ferge, per esempio, non lo era per sua ammissione. Ma un dibattito, condotto come se ne andasse la vita, ma anche con spirito e urbanità, come se "non" ne andasse la vita, ma fosse solo una gara elegante - cosí erano condotte tutte le polemiche tra Settembrini e Naphta -: un dibattito di questo genere è avvincente e di per se stesso un divertimento, anche per chi ne capisce poco e ne intuisce solo vagamente la portata. Persino estranei, persone sedute lí intorno ascoltavano il diverbio con le sopracciglia sollevate, avvinti dal la passione e dalla grazia della disputa.

Era, ripetiamo, davanti alla Casa di cura, nel pomeriggio dopo il tè. I quattro ospiti del Berghof vi avevano incontrato Settembrini, e Naphta era passato di lí per caso. Tutti erano seduti intorno a un tavolinetto di metallo, con diverse bevande, anice e vermut, diluite col seltz, Naphta che vi faceva merenda aveva ordinato vino e fette di torta, evidente reminiscenza di quando era alunno; Joachim s'inumidiva spesso la gola dolente con limonata naturale, che prendeva forte e acida, perché, diceva, essendo astringente gli dava sollievo, e Settembrini prese eoltanto acqua zuccherata, ma sorbendola attraverso una paglia con tanto garbo e tanta eleganza che pareva prendesse il piú prezioso dei rinfreschi. Cominciò scherzando: Che cosa sento, ingegnere? Che voce mi è giunta all'orecchio? La sua Beatrice ritorna? La sua guida attraverso le nove sfere rotanti del Paradiso? Be', spero che non vorrà rifiutare neanche ora la mano amica del suo Virgilio. Il nostro ecclesiastico le confermerà che il mondo del medioevo non è completo se al misticismo francescano manca l'opposto polo della conoscenza tomistica. Tutti risero di quella spassosa erudizione e guardarono Castorp che, pure ridendo, alzò il bicchiere di vermut alla salute del "suo Virgilio". Ma non è quasi da credere quale inesauribile contrasto intellettuale abbiano provocato, nell'ora che seguí, le parole sia pure arzigogolate, ma molto innocue di Settembrini. Naphta infatti, sentendosi in certo qual modo sfidato, andò subito all'attacco e si lanciò contro il poeta latino che Settembrini, come sappiamo, adorava e poneva persino al di sopra di Omero, mentre Naphta aveva dimostrato piú volte di disprezzare profondamente, come, in genere, la poesia latina. Sicché anche ora, pronto e maligno, approfittò dell'occasione. Era stata, disse, per il grande Dante una molto benevola prevenzione dei tempi, se aveva preso cosí solennemente sul serio quel mediocre versaiolo affidandogli nel poema una parte cosí importante, anche se il signor Lodovico attribuiva forse a quella parte un significato troppo massonico. Che cosa contava dopo tutto quel cortigiano laureato, quel leccapiedi della Casa Giulia, quel letterato metropolitano e retore pomposo senza un briciolo di produttività, la cui anima, seppur l'aveva, era in ogni caso di seconda mano? E poi, quello non era un poeta, ma un francese di riccioluta parrucca augustea ! Settembrini non dubitava che il suo preopinante avesse mezzi e modo di conciliare il suo disprezzo per l'alta civiltà romana con il suo ufficio d'insegnante di latino. Sembrava però necessario richiamare la sua attenzione sulla ben piú grave contraddizione tra i suoi giudizi e i secoli da lui preferiti, i quali non solo non hanno disprezzato Virgilio, ma ne hanno giudicato rettamente la grandezza facendone, nella loro ingenuità, un mago sapientissimo. Invano, obiettò Naphta, Settembrini chiamava in aiuto l'ingenuità di quei secoli aurorali - la trionfatrice che ha dato prova della sua capacità creativa persino con la demonizzazione del vinto. D'altro canto i maestri della giovane Chiesa non si stancarono di mettere in guardia il prossimo dalle menzogne dei filosofi e poeti antichi, massime dal macchiarsi dell'esuberante eloquenza di Virgilio, e oggi, nel momento in cui un'epoca scende nella tomba e un nuovo mattino proletario sta spuntando, è veramente il caso di condividere i loro sentimenti! E - per rispondere a tutto - il signor Lodovico poteva star sicuro che egli si dedicava a quel po' di occupazione borghese, cui l'altro aveva avuto la bontà di

alludere, con tutta la dovuta reservatio mentalis e si adattava non senza ironia a un'attività educativa classico-retorica, cui una testa calda poteva semmai pronosticare una durata di qualche decennio. Voi li avete esclamò Settembrini, li avete studiati fino a sudare, quei poeti e filosofi antichi, avete cercato di appropriarvi il loro prezioso retaggio, come avete usato le pietre degli edifici antichi per i vostri oratorii! Sentivate certo che con la forza della vostra anima proletaria non eravate capaci di produrre una nuova forma d'arte e speravate di battere l'antichità con le sue stesse armi. Cosí avviene di nuovo, cosí avverrà sempre! La vostra rozza baldanza mattutina dovrà andare a scuola da quelli che vorreste istigare voi ed altri a disprezzare; poiché senza cultura non potete presentarvi sulla faccia della terra, e la cultura è una sola: quella che voi chiamate cultura borghese, ed è cultura umana! Questione di decenni... la fine del principio educativo umanistico? Soltanto la cortesia impediva a lui, Settembrini, di scoppiare in una risata noncurante e beffarda. Un'Europa che sappia conservare il suo patrimonio di eternità, di fronte ad apocalissi proletarie che qua e là ci si compiace di sognare, saprà passare tranquillamente all'ordine del giorno della ragione classica. Proprio dell'ordine del giorno, ribatté Naphta mordace, pareva che il signor Settembrini non fosse ben informato. All'ordine del giorno era il problema che egli reputava opportuno considerare risolto: se, cioè, la tradizione classico-umanistico-mediterranea abbia riguardato l'umanità e sia perciò umanamente eterna,... o sia stata soltanto una forma dello spirito e l'accessorio di un'epoca, dell'epoca liberaleborghese, e possa morire con essa. La decisione spetterà alla storia, e a Settembrini bisognava a buon conto raccomandare di non essere troppo sicuro che il problema debba risolversi a favore del suo conservatorismo latino. Questa era una squisita impudenza del piccolo Naphta: dare del conservatore a Settembrini, il dichiarato servitore del progresso! Tutti ebbero questa impressione, con particolare amarezza beninteso il colpito che si arricciava nervosamente i baffi ondulati e nella ricerca del contrattacco lasciò all'avversario il tempo di tirare altre frecciate contro l'ideale di cultura classica, contro lo spirito retorico-letterario della scuola e dell'educazione europea e contro la sua mania grammatico-formale che è soltanto un interesse accessorio della dominante classe borghese, mentre per il popolo è da un pezzo oggetto di derisione. Oh, non si ha un'idea di quanto il popolo se la rida del nostro titolo di dottore, di tutto il mandarinismo culturale e della scuola primaria statale, strumento della dittatura borghese, maneggiato con l'illusione che la cultura del popolo sia cultura di dotti annacquata. La cultura e l'educazione, delle quali ha bisogno nella lotta contro il fradicio regno borghese, il popolo se la va a prendere altrove anziché negli istituti statali obbligatori, e infine lo sanno anche i passeri sul tetto che il nostro tipo di scuola, come si è sviluppato dalle scuole conventuali del medioevo, è un'anticaglia ridicola, un anacronismo; che nessuno al mondo deve piú la sua vera cultura alla scuola; che un'istruzione libera, aperta, mediante conferenze pubbliche, mostre, cinema e cosí via è di molto superiore a qualunque istruzione scolastica. Nel misto di rivoluzione e oscurantismo che Naphta porgeva ai suoi ascoltatori, gli rispose Settembrini, la componente oscurantistica predominava in maniera disgustosa.

Il compiacimento suscitato dalle sue premure per la cultura popolare era in parte compromesso dal timore che si trattasse invece dell'istintiva tendenza ad avvolgere il popolo e il mondo in tenebre analfabete. Naphta sorrise. Analfabetismo! Con ciò si credeva di aver pronunciato una parola orrenda, di aver mostrato la testa della Gorgone, nella convinzione che ognuno ne dovesse impallidire. Lui, Naphta, era dolente di dover deludere il suo interlocutore, perché il timore umanistico del concetto di analfabetismo lo faceva soltanto ridere. Bisogna essere un letterato rinascimentale, un prezioso, un secentista, un marinista, un pagliaccio dell'estilo culto per attribuire alle discipline del leggere e scrivere un'urgenza educativa cosí esagerata da illudersi che, dove quelle manchino, debba regnare la notte dello spirito. Non ricordava Settembrini che il piú grande poeta del medioevo, Wolfram von Eschenbach, era analfabeta? A quel tempo in Germania si considerava vergogna mandare a scuola un ragazzo, se proprio non voleva farsi prete, e quell'aristocratico e popolare disprezzo per le arti letterarie aveva sempre contraddistinto l'essenza della nobiltà,... mentre il letterato, vero figlio dell'umanesimo e della borghesia, sa bensí leggere e scrivere, cosa che il nobile, il guerriero e il popolo non sanno o sanno a mala pena,... ma oltre a questo non sa e non capisce assolutamente nulla, non è che un latinista fanfarone, il quale amministra la loquela e lascia la vita alla gente per bene,... e perciò anche della politica fa una vescica piena di vento, piena cioè di retorica e di belle lettere, che poi nel linguaggio di partito si chiama radicalismo e democrazia,... eccetera, eccetera. Sentire poi Settembrini ! Con troppa audacia, gridò, l'altro metteva in mostra il piacere che gli dava la fervorosa barbarie di certe epoche e si faceva beffe dell'amore per la forma letteraria, senza la quale però non è possibile né pensabile il senso dell'umano! Nobiltà? Soltanto un misantropo può dare questo nome all'assenza della parola, alla rozza e muta materialità. Nobile è invece soltanto un certo lusso, la "generosità", la quale si manifesta nel riconoscere alla forma un proprio valore umano, indipendente dal contenuto,... è il culto della parola come un'arte per l'arte, retaggio della civiltà greco-romana, che gli umanisti, gli "uomini letterati", hanno ridonato alla Romània, a questa almeno, ed è la fonte di ogni ulteriore idealismo, anche di quello politico. Sissignore! Quella separazione di parola e vita che lei vorrebbe vilipendere non è che una superiore unità nell'armonioso cerchio del bello, e in un conflitto nel quale si dovesse scegliere tra letteratura e barbarie non ho timori né dubbi sulla parte che la nobile gioventú sceglierebbe. Castorp che aveva seguito la conversazione con un'orecchia sola, perché pensava alla presenza del guerriero e rappresentante dell'essenza della nobiltà o, meglio, alla nuova espressione dei suoi occhi, si riscosse sentendosi quasi chiamato e interrogato dalle ultime parole di Settembrini, ma, come quando quest'ultimo aveva voluto costringerlo solennemente a decidersi fra "Oriente e Occidente", atteggiò il viso all'espressione di chi pone riserve e non si vuole arrendere, e tacque. Spingevano tutto all'estremo, quei due, come è forse necessario quando si viene ai ferri corti, e litigavano accaniti per un'alternativa suprema, mentre a lui sembrava che nel mezzo, tra le esagerazioni contestate,

tra il retorico umanesimo e la barbarie analfabeta, ci doveva pur essere quello che si potrebbe chiamare l'umano. Ma non lo disse per non indispettire i due pensatori e, avvolto nelle riserve, li vide affaccendarsi e, ostili com'erano, aiutarsi vicendevol mente a saltare di palo in frasca dopo che Settembrini ebbe dato l'avvio con quel suo scherzetto sul latino Virgilio. Settembrini non cedette la parola, la brandí, la fece trionfare. Si eresse a protettore del genio letterario, esaltò la storia degli scritti dal momento in cui per la prima volta un uomo, desiderando conferire durata monumentale al suo sapere e sentire, aveva inciso segni grafici nella pietra. Parlò del dio egizio Thot, equivalente al tre volte grande Ermete dell'Ellenismo, venerato come un inventore della scrittura, patrono delle biblioteche e promotore di tutte le aspirazioni intellettuali. Parlando, piegò il ginocchio davanti a questo Trismegisto, all'Ermete umanistico, maestro della palestra, cui l'umanità deve il sublime dono della parola letteraria, della retorica agonale, e cosí indusse Castorp a osservare che allora quel l'oriundo egizio doveva essere stato anche lui un uomo politico e aver fatto, in misura piú ampia, la stessa parte che ebbe Brunetto Latini, il quale insegnò il garbo ai fiorentini e il modo di parlar bene, nonché l'arte di governare la loro repubblica secondo le norme della politica,... al che Naphta replicò dicendo che il signor Settembrini arruffava un po' le cose delineando di ThotTrismegisto un ritratto troppo leccato. Costui invece era un dio delle scimmie, della luna e dell'anima, un babbuino con una falce di luna sulla testa e, col nome di Ermete, anzitutto un dio della morte e dei morti: il signore e duce delle anime, che già per la tarda antichità era diventato un arcimago e per il medioevo cabalistico il padre dell'alchimia ermetica. Come, come? Nell'officina delle idee di Castorp ci fu un grande scompiglio. La morte in manto turchino si presentava come retore umanistico e, a guardar meglio il pedagogo filantropo e dio della letteratura, ecco che al suo posto c'era una smorfia di scimmia col simbolo della notte e della magia sulla fronte... Fece un gesto di distacco e con la mano si coprí gli occhi. Ma nella tenebra nella quale si era rifugiato per salvarsi dalla confusione, udiva la voce di Settembrini che continuava a tessere gli elogi della letteratura. Non soltanto le grandezze contemplative, ma anche quelle attive, esclamò, vi sono sempre state congiunte; e citò Alessandro, Cesare, Napoleone, nominò il prussiano Federico e altri protagonisti, persino Lassalle e Moltke. Non si scompose quando Naphta volle rimandarlo in Cina dove regna la piú buffa adorazione dell'abbiccí che si sia mai vista, e diventa generale e feldmaresciallo chi sa pitturare con l'inchiostro tutti i quarantamila segni, vera manna del cielo per un umanista. Lui, Naphta, doveva sapere benissimo che non si trattava della pittura con l'inchiostro di China, bensí della letteratura in quanto impulso umano, del suo spirito, di questo burlone che non è altro, della miracolosa fusione di analisi e forma: è lo spirito a suscitare la comprensione di tutto ciò che è umano, a

smorzare e abolire convinzioni e sciocchi giudizi di valore, a nobilitare, moralizzare, migliorare il genere umano. Creando l'estremo affinamento e la massima sensibilità morale, esso, ben lontano dal fanatizzare, educa insieme al dubbio, alla giustizia, alla tolleranza. L'azione purificatrice e santificante della letteratura, l'annullamento delle passioni mediante la conoscenza e la parola, la letteratura come avviamento alla comprensione, al perdono e all'amore, la virtú redentrice della lingua, lo spirito letterario in quanto nobilissimo fenomeno dello spirito umano in genere, il letterato uomo perfetto, il letterato santo: questa la tonalità radiosa dell'apologetico panegirico di Settembrini. Ma, ahimè, anche l'avversario aveva la lingua in bocca; con gravi e brillanti obiezioni seppe disturbare l'angelico alleluia aderendo al partito della conservazione e della vita contro lo spirito del dissolvimento che, secondo lui, si celava sotto quella serafica ipocrisia. La miracolosa fusione, decantata da Settembrini, non era altro che inganno e ciurmeria, poiché la forma che lo spirito letterario si vanta di fondere col principio dell'indagine e della tistinzione non è che una forma apparente e mendace, non già una forma genuina, cresciuta, naturale, una forma di vita. Il cosí detto riformatore dell'uomo ha bensí sulle labbra la purificazione e la santificazione, ma in realtà mira a evirare e a dissanguare la vita; anzi, lo spirito, la teoria fanatica oltraggia la vita, e chi vuol distruggere le passioni, vuole il nulla,... il puro nulla, sí, puro, poiché "puro" è l'unico attributo che si possa eventualmente dare al nulla. E qui appunto Settembrini, il letterato, si rivelava davvero, disse, quello che era, cioè l'uomo del progresso, del liberalismo e della rivoluzione borghese: il progresso infatti è puro nichilismo e il cittadino liberale, a rigore, l'uomo del nulla e del diavolo, il quale anzi nega Dio, l'assoluto in senso conservatore e positivo, in quanto giura sull'antiassoluto diabolico e, nel suo mortale pacifismo, si crede chi sa quanto religioso: è invece tutt'altro che religioso, è un gran delinquente ai danni della vita, davanti al cui tribunale e alla cui Santa Verna meriterebbe di essere trascinato... e cosí via. Cosí Naphta seppe mettere gli accenti, tramutare il panegirico in accusa diabolica e presentare se stesso come incarnazione del rigido amore conservatore, sicché ancora una volta fu impossibile distinguere dove fosse Dio e dove il diavolo, dove la morte e dove la vita. Si può crederci sulla parola se aggiungiamo che il suo antagonista non rimase debitore della risposta, la quale fu eccellente, dopo di che ne ricevette una altrettanto buona, e cosí si andò avanti per un po' finché la conversazione sfociò in discussioni già a suo tempo accennate. Castorp però non ascoltò piú a lungo, perché Joachim a un certo punto si era detto convinto di avere la febbre da raffreddore e non sapeva come comportarsi perché lassú i raffreddori non erano reali. I duellanti non vi avevano fatto caso, ma Castorp, come abbiamo detto, aveva guardato suo cugino e, in pena, se n'era andato insieme con lui durante una replica, non curandosi se il pubblico che rimaneva, cioè Ferge e Wehsal, sarebbe stato un incentivo pedagogico sufficiente alla continuazione del dibattito. Durante il tragitto si mise d'accordo con Joachim perché a proposito del raffreddore e del male di gola si seguisse la via gerarchica, avvertendo cioè il bagnino che trasmetteva la notizia alla superiora, dopo di che qual cosa si sarebbe pur fatto a favore del sofferente.

E cosí avvenne. La sera stessa, subito dopo cena, Adriatica bussò alla porta di Joachim, proprio quando Castorp era nella stessa camera, e con la voce stridula s'informò delle richieste e lagnanze del giovane ufficiale. Mal di gola? Rauccedine? ripeté. Figlio mio, che vi salta in mente? E fece il tentativo di fissarlo negli occhi con lo sguardo penetrante; ma non fu colpa di Joachim se l'incontro dei loro sguardi fallí: fu quello di lei a deflettere. Chi sa perché rifaceva sempre quel tentativo, mentre l'esperienza le doveva pur suggerire che non le era dato di compiere l'impresa! Con l'aiuto di una specie di cal zatoio che estrasse dalla tasca della cintura guardò in gola al paziente, intanto che Castorp le faceva lume con la lampada del comodino. Mentre in punta di piedi osservava l'ugola di Joachim, domandò: Dite un po', figlio mio, vi è mai andato qualcosa di traverso? Che cosa si poteva rispondere? Lí per lí, mentre lei esplorava, non c'era alcuna possibilità di parlare; ma anche quando ebbe finito, la risposta era tutt'altro che facile. Certo, dacché era al mondo, qualcosa, mangiando o bevendo, gli era andata di traverso; ma capita a tutti, e non poteva essere questo il senso della domanda. Egli chiese: Come dice? e rispose di non ricordare quando gli fosse accaduto l'ultima volta. Bene, bene, era soltanto un'idea che le era passata per la mente. Era dunque costipato, disse, con stupore dei cugini, dato che la parola costipazione era vietata là dentro. Per esaminare la gola occorreva, aggiunse, eventual mente il laringoscopio del consigliere. Prima di uscire lasciò del formitrol, nonché un rotolo di garza e guttaperca per impacchi umidi durante la notte; Joachim approfittò di entrambi ed ebbe la precisa impressione di trarre un sollievo dai due medicamenti, e cosí continuò tanto piú che la rocaggine non accennava a migliorare, anzi nei giorni successivi peggiorò, nonostante che in certi momenti il mal di gola fosse quasi scomparso. La sua febbre da infreddatura era pura illusione. Il reperto obiettivo era il solito: quello cioè che, insieme coi risultati delle visite del consigliere tratteneva lí l'ambizioso Joachim per un breve supplemento di cura, prima che potesse affrettarsi a raggiungere il reggimento. Il termine fissato a ottobre era trascorso inosservato. Nessuno aveva detto una parola, né il consigliere, né i cugini fra di loro: vi passarono sopra in silenzio e con gli occhi bassi. Da ciò che Behrens durante la visita mensile dettò all'assistente psicologo e dalle rivelazioni della lastra fotografica apparve fin troppo chiaramente che, se mai, poteva trattarsi di una partenza arbitraria, mentre questa volta era necessario perseverare con ferrea disciplina fino a ottenere la definitiva resistenza alle intemperie per il servizio in pianura e l'osservanza del giuramento. Questa era la parola d'ordine sulla quale si asseriva tacitamente di essere tutti d'accordo. La verità invece era che l'uno, in fondo al cuore, non si sentiva affatto sicuro che l'altro fosse convinto di questa parola d'ordine, e se l'uno abbassava gli occhi davanti all'altro, lo faceva a causa di questo dubbio, e non lo faceva senza che prima gli sguardi si fossero incontrati.

La qual cosa avveniva di frequente dopo la conversazione sulla letteratura, durante la quale Castorp per la prima volta aveva scorto la nuova luce in fondo agli occhi di Joachim e quella sua singolare espressione "minacciosa". Avvenne in specie una volta a tavola, quando al rauco Joachim qualcosa andò improvvisamente di traverso ed egli non riuscí a riprender fiato. Mentre dunque ansimava dietro al tovagliolo e la signora Magnus, sua vicina, secondo una vecchia usanza, gli dava dei colpetti sulla schiena, i loro occhi s'incontrarono in modo che Castorp rimase paurosamente scosso piú da quello sguardo che dall'infortunio stesso, che può capitare a chiunque, dopo di che Joachim chiuse gli occhi e, col tovagliolo sul viso, abbandonò la tavola e la sala per finir di tossire nel vestibolo. Sorridendo, seppure ancora un po' pallido, rientrò dopo dieci minuti, con una scusa sulle labbra per il disturbo che aveva dato, partecipò come prima al pasto sovrabbondante, e in seguito tutti dimenticarono di riparlare dell'incidente. Ma dopo qualche giorno, questa volta non durante il pranzo, ma alla sontuosa colazione del mattino, il fatto si ripeté, senza che gli occhi, almeno quelli dei due cugini, si fossero incontrati, perché Castorp, chino sul piatto, continuò a mangiare apparentemente disattento; levate le mense però si dovette spendervi una parola, e Joachim si mise a imprecare contro quella dannata Mylendonck, il diavolo se la porti, che con la sua provocante domanda gli aveva messo una pulce nell'orecchio suggestionandolo e stregandolo. Sí, certo era suggestione, confermò Castorp, divertente benché sgradevole. E Joachim, ora che aveva detto pane al pane, si sottrasse con buon esito alla malia, stette in guardia quando era a tavola e non gli capitò che qualcosa gli andasse a traverso piú di quanto non capiti a chi non è stregato: gli toccò di nuovo soltanto nove o dieci giorni dopo, sicché non ci fu niente da dire. Ma fuori turno e a ora insolita fu invitato a recarsi da Radamanto. Lo aveva denunciato la superiora, e la sua idea non era stata nemmeno sciocca; poiché, dato che in casa c'era un laringoscopio, quella ostinata raucedine che per ore degenerava in vera e propria afonia, e il mal di gola che ritornava appena Joachim si scordava di tenere la gola pastosa con medicamenti salivatori, parvero motivo sufficiente per tirar fuori dalla bacheca quel perspicace strumento,... senza dire che, se ora qualcosa andava a traverso a Joachim soltanto rare volte, come avviene a tutti, lo doveva alla sua meticolosa attenzione che a tavola lo faceva quasi regolarmente restare in ritardo sugli altri commensali. Il consigliere dunque speculò, riflesse, occhieggiò a lungo in fondo alla gola di Joachim, dopo di che il paziente, per espresso desiderio di Castorp, andò a raggiungerlo sul balcone per riferire. Una faccenda molesta, un gran prurito, gli comunicò bisbigliando perché era l'ora della cura con l'obbligo del silenzio, e infine Behrens aveva blaterato di non so quale irritazione e decretato che si facessero pennellate quotidiane; voleva cominciare a cauterizzare fin dall'indomani, intanto avrebbe preparato il farmaco. Irritazione dunque e cauterizzazioni. Castorp, con la testa piena di associazioni d'idee che andavano lontano fino a toccare il portiere claudicante e quella signora che un'intera settimana si era tenuta una mano su un'orecchia e pure aveva

potuto essere tranquillata, aveva alcune domande sulla punta della lingua, ma non le pronunciò, decise invece di farle a quattr'occhi al consigliere e con Joachim si limitò a esprimere la sua soddisfazione perché quel fastidio era ormai controllato e nelle buone mani del consigliere, che, in gamba com'era, avrebbe trovato il rimedio. Joachim, senza guardare il cugino, approvò con un cenno, si volse e si ritirò nella sua loggia. Che cos'aveva l'ambizioso Joachim? Da qualche giorno i suoi sguardi erano incerti e timidi. Ancora poco tempo prima un tentativo della superiora Mylendonck di guardarlo negli occhi dolci e scuri era fallito, ma se avesse tentato ora la buona sorte, chi sa come sarebbe andata a finire. In ogni caso egli evitava siffatti incontri, e se pur avvenivano (poiché Castorp lo guardava spesso e volentieri), non per questo si sentiva meglio. Castorp rimase nella sua loggia, depresso e con la smania di andar subito a parlare col capo. Ma non era possibile perché Joachim l'avrebbe udito alzarsi; perciò era consigliabile rimandare e cercar di sorprendere Behrens nel pomeriggio. Ma non vi riuscí. Strano! Non ci fu modo di pescare il consigliere, né quella sera, né durante i due giorni seguenti. Joachim, s'intende, era di ostacolo, perché non doveva accorgersi di nulla, ma ciò non bastava a spiegare perché non si potesse ottenere quel colloquio né sequestrare in alcuna maniera Radamanto. Castorp lo cercò e chiese di lui in tutta la casa, lo mandarono di qua e di là dove lo avrebbe certamente trovato, e quando arrivava, quello non c'era piú. A un pasto Behrens era presente, ma lontano, alla tavola dei "russi incolti", e prima della frutta scomparve. Alcune volte Castorp credette di averlo già accalappiato, e avendolo visto per le scale e i corridoi a colloquio con Krokowski, con la superiora, con un paziente, gli fece la posta. Ma non appena voltava gli occhi, quello era sparito. Soltanto il quarto giorno la spuntò. Dal balcone vide il ricercato nel giardino mentre dava istruzioni al giardiniere: sgusciò dalle coperte e scese di corsa. Il consigliere con quella sua collottola tonda stava già remigando verso il suo alloggio. Castorp si mise al trotto e osò persino chiamare, ma senza essere ascoltato. Finalmente, senza fiato, poté fermare il suo uomo. Che viene a fare da queste parti? lo investí il consigliere, con gli occhi gonfi. Dovrò farle consegnare una copia speciale del regolamento? Che io sappia è l'ora della cura a sdraio. La sua curva e la lastra non le conferiscono un particolare diritto di fare il libero cittadino. Qui bisognerebbe piantare un divino spauracchio contro i ladri, con la minaccia che chi fra le due e le quattro si dà al libertinaggio nel giardino sarà impalato! Si può sapere cosa vuole? Signor consigliere, le devo assolutamente parlare un minuto. Ho notato che già da un po' s'illude di poterlo fare. Mi corre dietro come fossi una ragazza o chissà diavolo che leccornia. Cosa vuole da me? E' per via di mio cugino, signor consigliere, mi scusi! Ora lo spennellano... Sono sicuro che tutto è fatto per il suo bene.

Ma non c'è niente di grave? Soltanto questo mi permetto di chiederle. Lei vuole che non ci sia mai nulla di grave, Castorp, cosí è fatto lei. Non che sia alieno dall'occuparsi qualche volta di cose gravi, ma allora le tratta come se fossero innocue, e cosí crede di piacere a Dio e agli uomini. Lei è una specie di vigliacco, di gattamorta, capisce? e se suo cugino le dà del borghese, usa un'espressione molto eufemistica. Posso ammettere tutto, signor consigliere. I lati deboli del mio carattere sono fuori discussione. Ma questo è il punto. non è certo il momento di discuterli, mentre invece son tre giorni che la volevo pregare... Di dirle la verità schietta, ma indorata e zuccherata! Lei mi molesta, mi annoia, perché io le dia una conferma nella sua soppiatteria e lei possa dormire nella sua innocenza, mentre altri vegliano e annusano il vento. Ma, signor consigliere, lei è troppo severo con me. Al contrario, volevo... Già, severo. La severità non è certo il suo forte. Suo cugino è ben diverso, è di altra lega. Lui sa come stanno le cose. Sa e tace, ha capito? Non si aggrappa alla giacca del prossimo perché gli faccia vedere lucciole per lanterne e gli dica che non e grave. Lui sapeva che cosa faceva e cosa rischiava, ed è quel che si dice un uomo, si comporta come tale e sa star zitto, che è un'arte virile, non già affare di bipedi amanti dei loro comodi come è lei, purtroppo. Badi però, Castorp, se è in vena di far scene e si mette a strillare e si abbandona ai suoi sentimenti borghesi, le do lo sfratto. Qui vogliamo essere uomini tra uomini, inteso? Castorp tacque. Anche lui aveva la pelle macchiata quando impallidiva. Era troppo rosso, color rame, per diventare pallido. Infine disse con le labbra tremanti: La ringrazio, signor consigliere. Ora lo so anch'io, poiché penso che lei non mi parlerebbe, come dire? con tanta solennità se le condizioni di Joachim non fossero serie. Non ho l'abitudine di far scene e di mettermi a strillare, lei mi fa torto. E in quanto a segretezza, anch'io so fare il mio dovere, credo di poterlo promettere. Lei, Hans Castorp, è affezionato a suo cugino? domandò Behrens prendendo la mano del giovane e guardandolo di sotto in su con gli occhi azzurri, dalle ciglia bianche, gonfi e soffusi di sangue. Che vuole che le dica, signor consigliere? Un parente cosí prossimo, un caro amico, il mio compagno di quassú. E con un breve singhiozzo sollevò un piede sulla punta e volse il calcagno al di fuori. Behrens si affrettò a lasciar andare quella mano. Be', allora sia gentile con lui queste sei, otto settimane disse. Si affidi al suo innato candore, non potrà fargli cosa piú gradita. Poi ci sono anch'io, appunto per rendere la situazione possibilmente confortevole, tra gentiluomini. La laringe, vero? domandò Castorp scotendo la testa. Laryngea confermò l'altro, disfacimento galoppante.

Anche la mucosa della trachea è già malridotta. Può darsi che le grida di comando durante il servizio vi abbiano creato un locus minoris resistentiae. Ma a siffatte diversioni dobbiamo essere preparati sempre. Poche speranze, caro il mio giovanotto, o diciamo pure nessuna. Naturalmente tenteremo tutto quanto si può e si deve. Sua madre... cominciò Castorp. Dopo, dopo. Per ora non c'è fretta. Provveda lei con tatto e con garbo a spiegarle via via la situazione. E ora fili al suo posto. Già quello se n'accorge. E certo gli dispiace che si parli di lui alle sue spalle. Joachim andava ogni giorno a farsi spennellare. Era un bell'autunno. In calzoni di flanella bianca, che accompagnavano la giacca turchina, egli arrivava molte volte a tavola in ritardo dopo la medicazione; con la sua linea militare, salutava brevemente, con cortesia e compostezza virile, chiedendo scusa del ritardo, e si sedeva per il pranzo che ora gli veniva preparato a parte, perché, dato il pericolo che gli andassero di traverso, i soliti cibi non erano adatti per lui; gli venivano servite minestre, carne tritata e pappine. I commensali avevano capito subito come stavano le cose. Rispondevano al suo saluto con spiccata cortesia e con molto calore dandogli del "tenente". In sua assenza chiedevano informazioni a Castorp e anche da altre tavole venivano da lui a chiedere. La signora Stohr arrivava torcendosi le mani, con lamenti plebei. Ma Castorp rispondeva a monosillabi, ammetteva la serietà del caso, ma fino a un certo limite negava, lo faceva per punto d'onore, per non dover abbandonare suo cugino prima del tempo. Andavano a spasso insieme, facevano tre volte al giorno la passeggiata di servizio, alla quale Behrens aveva limitato con la massima severità i movimenti di Joachim per evitare un inutile dispendio di forze. Castorp camminava alla sinistra di suo cugino,... prima avevano camminato cosí o anche altrimenti, secondo che capitava, ma ora Castorp si teneva di preferenza a sinistra. Non parlavano molto, dicevano le parole che la normale giornata del Berghof suggeriva e nient'altro. Dell'argomento che pendeva tra loro non c'era niente da dire, massime tra persone ritrose che soltanto in casi estremi si chiamavano vicendevolmente per nome. Eppure talvolta Castorp sentiva urgere e gonfiarsi il suo petto borghese ed era sul punto di traboccare. Ma non era lecito. E allora la burrasca che gli aveva dolorosamente gonfiato il cuore si placava, ed egli rimaneva muto. Joachim camminava accanto a lui a capo chino. Pareva che studiasse il terreno. A pensarci era strano: camminava, elegante, accurato, salutava i passanti col suo garbo cavalleresco, teneva come sempre al vestito, alla bienséance... e apparteneva alla terra. Be', ad essa apparteniamo tutti o prima o poi.

Ma appartenerle cosí giovane, con tanta gioiosa volontà di servire la bandiera, a cosí breve scadenza, è ben amaro; piú amaro ancora e inconcepibile lo era per un Castorp che, sapendo, gli camminava al fianco, piú amaro di quanto non fosse per lo stesso uomo della terra, la cui consapevolezza decorosamente taciuta era, a rigore, di natura accademica, aveva un carattere poco reale per lui e, in fondo, era affare degli altri piú che suo. Di fatto il nostro morire riguarda piú i sopravvissuti che noi stessi; poiché, sia che sappiamo o non sappiamo citarle, le parole dell'arguto sapiente hanno per sempre il loro valore psichico: che, cioè, fin tanto che ci siamo, la morte non c'è, e quando c'è la morte, non ci siamo noi; che pertanto tra noi e la morte non esiste alcun rapporto reale, ed essa è una cosa che non ci riguarda proprio niente, e semmai riguarda un po' il mondo e la natura,... e perciò tutti gli esseri la aspettano con grande calma, indifferenza, mancanza di responsabilità e innocenza egoistica. Di siffatta innocenza e mancanza di responsabilità Castorp notò parecchio inJoachim durante quelle settimane, e comprese che egli sapeva bensí, ma non per questo gli riusciva difficile passare la sua consapevolezza sotto un decoroso silenzio, perché i suoi interni rapporti con essa erano sol tanto lenti e teorici o, fin dove erano anche pratici, venivano regolati e determinati da un sano senso di decenza, che non consentiva di portare quella consapevolezza sul tappeto come non si portano altre funzioni indecenti che sono condizione della vita, delle quali la vita è conscia, ma non per questo le impediscono di serbare la bienséance. Cosí passeggiavano senza parlare delle indecenze della natura. Anche le lamentele di Joachim, tanto smaniose da principio ed esasperate, per la perdita delle manovre e, in genere, del servizio militare in pianura, erano ammutolite. Ma perché al loro posto, nonostante l'innocenza, ritornava tante volte nei suoi occhi dolci quell'espressione di torbido timore,... quell'incertezza che, se la superiora ci avesse tenuto, questa volta le avrebbe probabilmente aggiudicato la vittoria, Forse perché egli sapeva di avere gli occhi troppo grandi e le guance infossate? Cosí infatti diventò a vista d'occhio in quelle settimane, piú di quanto non fosse al suo ritorno dal piano, e il suo bruno colorito si fece di giorno in giorno piú giallastro e coriaceo. Come se un ambiente che insieme col signor Albin non badava ad altro che a godersi gli immensi vantaggi della vergogna, gli desse motivo di vergognarsi e di avere se stesso in dispregio. Da chi e da che cosa dunque si nascondeva intimorito il suo sguardo già cosí aperto e franco,? Strano il pudore delle creature che si acquattano in un nascondiglio per aspettare la fine, convinte che là fuori, nella natura, non hanno da attendere pietà o rispetto delle loro sofferenze e della loro morte, convinte di ciò a ragione, tant'è vero che il lieto stormo dei volatili sani non solo non rispetta il compagno infermo, ma lo tratta a beccate di rabbia e di disprezzo. Cosí però è la volgare natura, mentre il cuore di Castorp si gonfiava di umanissima e amorosa pietà, quando scorgeva negli occhi del povero Joachim quella oscura istintiva vergogna. Camminava alla sua sinistra, lo faceva apposta; e siccome Joachim cominciò a non essere piú saldo in gambe, lo sorreggeva talvolta, quando salivano su un prato in pendio; vincendo la consueta ritrosia, lo cingeva con un braccio, anzi si dimenticava poi di togliere il braccio dalla spalla di Joachim finché questi lo scrollava quasi con dispetto dicendo: Ma ti pare? Ci prenderanno per ubriachi. Venne in seguito un

momento in cui il turbamento nello sguardo di suo cugino apparve a Castorp sotto un'altra luce, quando cioè Joachim ricevette l'ordine di rimanere a letto, al principio di novembre,... La neve era già alta. Allora gli riusciva troppo difficile mandare giú anche le pappine e la carne tritata, perché ogni secondo boccone gli andava di traverso. Era indicato passare esclusivamente a cibi liquidi, e nello stesso tempo Behrens ordinò assoluto riposo a letto per economia di forze. Era dunque la vigilia del giorno in cui Joachim doveva mettersi a letto, l'ultima sera che passava in piedi, allorché Hans lo trovò,... Lo trovò a colloquio con Marusja, quella che rideva sempre senza motivo, che aveva il fazzoletto profumato d'arancio, e il seno ben fatto di fuori. Càstorp si era trattenuto nella sala di musica e uscí in cerca di Joachim: ed ecco che lo trovò davanti al caminetto di mattonelle accanto alla sedia di Marusja,... stava seduta su una sedia a dondolo che Joachim con la sinistra sulla spalliera teneva inclinata all'indietro, di modo che Marusja, sdraiata, lo guardava in viso coi suoi tondi occhi castani, mentre lui parlando piano e a scatti si chinava su di lei che ogni tanto, sorridendo eccitata e sdegnosa, scrollava le spalle. Castorp fu lesto a ritirarsi, non senza aver notato che anche altri ospiti, come avviene, avevano osservato divertiti quella scena,... non visti o trascurati da Joachim. Quel quadro: Joachim immerso, senza alcun riguardo, nel colloquio con Marusja, la ragazza dall'alto seno, con la quale si era seduto per tanto tempo alla stessa tavola senza scambiare una parola; davanti alla quale e alla cui esistenza aveva chinato gli occhi, ragionevole e ambizioso, con espressione severa, benché impallidisse, con la pelle macchiata, quando si parlava di lei,... scosse Castorp piú di qualunque indizio di indebolimento avesse notato in suo cugino durante quelle settimane. "Sí, è perduto!"' pensò e andò a sedersi nella sala di musica per lasciar tempo a ciò che Joachim quell'ultima sera si concedeva ancora là nel vestibolo. Da quel giorno dunque Joachim adottò la linea orizzontale in continuazione e Castorp scrisse a Luise Ziemssen, le scrisse dalla sua eccellente sedia a sdraio per aggiungere alle sue precedenti occasionali comunicazioni che Joachim si era dovuto mettere a letto e a lui non l'aveva confessato, ma gli si leggeva negli occhi il desiderio di aver vicino la sua mamma; e il consigliere Behrens appoggiava espressamente questo non espresso desiderio: scrisse anche questo con cautela e chiarezza. Nessuna meraviglia pertanto se la signora Ziemssen si serví dei mezzi di comunicazione piú rapidi per raggiungere suo figlio; arrivò tre giorni dopo la spedizione di quell'umano allarme, e Castorp in un turbine di nevischio l'andò a prendere con la slitta alla stazione di Dorf,... e in attesa del trenino, sul marciapiede, adottò un'espressione di circostanza, affinché la madre non si spaventasse troppo, ma d'altro canto non leggesse nel primo sguardo nulla di falso, di allegro. Quante volte vi saranno avvenuti simili incontri, quante volte uno sarà corso verso l'altro cercando con angosciosa urgenza, appena sceso dal treno, di leggere negli occhi di chi era venuto a riceverlo. La signora Ziemssen pareva fosse accorsa da Amburgo a piedi.

Col viso accaldato si portò una mano di Castorp al petto e guardando intorno quasi impaurita fece domande precipitose e quasi segrete, alle quali egli si sottrasse ringraziandola di essere venuta cosí sollecita,... e dicendo che era un'ottima cosa e a Joachim avrebbe fatto un immenso piacere. Il quale, eh, sí, per ora purtroppo era a letto, per via dell'alimentazione liquida che, si sa, influisce sull'energia dell'organismo. Ma in caso di necessità si adottano ripieghi, per esempio la nutrizione artificiale. D'altronde lei stessa avrebbe visto. Vide, e al suo fianco anche Castorp vide. Fino a quel momento non aveva notato chiaramente la trasformazione subita da Joachim in quelle settimane,... i giovani non hanno occhi per queste cose. Ma ora, accanto alla madre venuta da fuori, lo osservò, per cosí dire, come se non l'avesse visto da un pezzo, e avvertí chiaro e netto ciò che anche lei avvertiva, che però fra i tre Joachim sapeva meglio di tutti: che era moribondo. Egli tenne la mano di sua madre nella propria, che era gialla e scarna come il viso, dal quale, appunto perché era dimagrato, le orecchie, quel suo piccolo dispiacere degli anni belli, sporgevano piú che a suo tempo sfigurandolo, mentre prescindendo da questo difetto e ad onta di esso, quel viso appariva piuttosto virilmente imbellito dall'impronta della sofferenza e dalla sua espressione di serietà e rigore, anzi di orgoglio,... benché le sue labbra coi baffetti neri sembrassero ora piú grosse contro l'ombra delle guance infossate. Due rughe si erano incavate nella pelle giallognola della fronte tra gli occhi, i quali, benché affondati nelle occhiaie erano piú grandi e piú belli che mai, e Castorp avrebbe voluto gioirne. Ogni turbamento, ogni incertezza ne era scomparsa da quando Joachim era a letto, e nel fondo calmo e buio si poteva scorgere soltanto quella luce già notata... e anche però quella "minaccia". Egli non sorrise, mentre stringeva la mano di sua madre e bisbigliando le dava il buon giorno e il benvenuto. Nemmeno vedendola entrare aveva sorriso, e quell'invariabile immobilità del viso diceva tutto. Luise Ziemssen era una donna coraggiosa. Alla vista del suo bravo figliolo non si sciolse in lamenti. Rassegnata, raccolta in se stessa come i suoi capelli contenuti dal velo di rete quasi invisibile, flemmatica ed energica, come si è notoriamente al suo paese, assunse la sorveglianza di Joachim, spronata proprio dall'aspetto di lui a un'attività combattiva, nella convinzione che, se c'era qualcosa da salvare, si potesse salvare soltanto con la sua energia e vigilanza. Non certo per sua comodità, ma sol tanto per un senso di opportunità permise dopo alcuni giorni che si chiamasse un'infermiera: e fu la Schwester Berta, al secolo Alfreda Schildknecht, a comparire con la valigetta nera davanti al letto di Joachim; ma la gelosa energia della signora Ziemssen non le lasciò molto da fare né di giorno né di notte, sicché all'infermiera rimase un mucchio di tempo per trattenersi nel corridoio e, col cordone degli occhiali su un orecchio, stare a spiare in giro. Era protestante e d'animo freddo.

Rimasta sola nella camera con Castorp e l'infermo che non dormiva, ma giaceva supino con gli occhi aperti, fu capace di dire: Non me la sarei mai aspettata di dover assistere un giorno uno di loro, signori, fino alla morte. Castorp, allibito e infuriato, le mostrò il pugno, ma lei lo stentò a capire,... ben lontana, e giustamente, dal pensare che potesse essere opportuno risparmiare Joachim, e troppo obiettiva da considerare che qualcuno, meno che mai il piú vicino e affezionato potesse farsi illusioni sulla natura e sull'esito del caso. Prenda disse versando un po' d'acqua di Colonia su un fazzoletto e mettendolo sotto il naso a Joachim, se la goda ancora un po', tenente! In realtà sarebbe stato ormai poco ragionevole dare a intendere a Joachim lucciole per lanterne,... se non ,a scopo tonificante, come l'intendeva mamma Ziemssen, quando con voce forte e commossa gli parlava di guarigione. Due cose infatti erano lampanti e indiscutibili: che Joachim andava incontro alla morte in piena coscienza e, in secondo luogo, che lo faceva in armonia e in pace con se stesso. Solo nell'ultima settimana, alla fine di novembre quando si manifestarono sintomi di debolezza cardiaca, egli si dimenticò per qual che ora, colto da speranzosa incertezza sulle sue condizioni, e parlò del suo prossimo ritorno al reggimento e della sua partecipazione alle grandi manovre che immaginava ancora in corso. Nello stesso momento il consigliere Behrens rinunciò a dare speranza ai parenti e dichiarò che ormai era questione di ore. E' un fenomeno malinconico e regolare questo dimentico e crudele autoinganno di cuori anche virili, nei momenti in cui il processo di distruzione s'avvicina alla meta fatale,... un fenomeno conforme alla regola, che trascende la persona ed è superiore a ogni coscienza individuale, come la seduzione del sonno che avvinghia chi sta gelando e come la corsa in cerchio di chi si smarrisce. Castorp cui l'affanno e il cordoglio non impedivano di contemplare il fenomeno con occhio obiettivo, ne ricavò considerazioni impacciate, benché acute, in colloqui con Naphta e Settembrini, quando recò loro notizie sulle condizioni del suo parente, e si ebbe un rabbuffo dal secondo, allorché espresse l'opinione che il concetto corrente, secondo il quale la credenza filosofica e la fiducia nel bene sarebbero espressioni di salute, il pessimismo e la negazione del mondo invece indizi di malattia, è evidentemente frutto di un errore; altrimenti non sarebbero proprio le sconsolate condizioni finali a produrre un ottimismo, roseo ma triste, appetto al quale la precedente malinconia sarebbe una sana e vigorosa manifestazione di vita. Per fortuna poté comunicare nello stesso tempo ai simpatizzanti che nella disperazione del caso, Radamanto lasciava uno spiraglio di speranza e prediceva una morte dolce e, nonostante la giovane età di Joachim, senza dolori. Idillio cardiaco, cara e gentile signora disse stringendo la mano della Ziemssen tra le sue, larghe come pale, e guardandola di sotto in su con gli azzurri occhi gonfi, lacrimosi, soffusi di sangue. Ho piacere, molto piacere, che dipenda dal cuore, ed egli non abbia bisogno di attendere l'èdema della glottide o altre infamie; cosí gli saranno risparmiate molte angherie. Il cuore si arresta rapidamente, buon per lui, buon per noi, noi possiamo fare del nostro meglio e intervenire doverosamente con iniezioni di canfora, senza timore di procurargli noiose lungaggini. Alla fine, credo di poter promettere, dormirà molto e farà sogni piacevoli, e all'ultimo, se proprio non dormirà, avrà un trapasso veloce, inavvertito, gli sarà alquanto indifferente, creda a me.

In fondo avviene sempre cosí. Conosco la morte, sono un suo vecchio funzionario, mi creda, la si sopravvaluta. Le posso dire che non conta quasi nulla: i tormenti eventuali che precedono non si possono onestamente attribuire alla morte, sono guai arcivivi e possono condurre alla guarigione e alla vita. Ma nessuno, quando ritornasse, potrebbe dire nulla di serio intorno alla morte, perché non se ne fa l'esperienza. Noi veniamo dalla tenebra e andiamo nella tenebra, frammezzo ci sono le esperienze vissute, ma il principio e la fine, la nascita e la morte non sono nostre esperienze, non hanno un carattere soggettivo, sono fatti che avvengono in campo oggettivo: ecco come stanno le cose. Questo era il metodo che Behrens seguiva per recare conforto. Speriamo che abbia fatto un po' di bene all'intelligente signora Ziemssen; le assicurazioni del consigliere si avverarono infatti largamente. Joachim, debole com'era, dormí molte ore in quegli ultimi giorni, sognò anche probabilmente sogni gradevoli, cioè, supponiamo, argomenti militari svolgentisi in pianura; e quando si destava e gli si chiedeva come si sentisse, rispondeva sempre, sia pure in modo appena comprensibile, che stava bene ed era felice,... benché il polso non battesse quasi piú e infine egli non sentisse nemmeno l'ago della siringa,... il corpo era insensibile, si poteva attanagliarlo e scottarlo, ormai al buon Joachim non gliene sarebbe importato niente. Dopo l'arrivo di sua madre però aveva subíto notevoli mutamenti. Siccome gli riusciva faticoso radersi e già da otto o dieci giomi aveva smesso di farlo, il pelo gli crebbe abbondante, il suo viso cereo con gli occhi dolci gli si era incorniciato di una barba nera,... una barba di guerra, come se la lasciano crescere i soldati al campo, che del resto, a giudizio di tutti, gli stava bene e gli conferiva un'aria virile. Ecco, a un tratto Joachim giovanotto era diventato un uomo maturo, in virtú di quella barba, e non soltanto di essa. Visse velocemente, come un meccanismo d'orologeria che si srotoli, percorse al galoppo le stagioni della vita, che non gli era concesso di raggiungere nel tempo, e durante le ultime ventiquattr'ore toccò la vecchiezza. L'astenia cardiaca provocò il gonfiore del viso, che parve effetto di uno sforzo, talché Castorp ne trasse l'impressione che morire debba almeno essere una gran fatica, anche se Joachim, a causa di parecchie perdite e minorazioni, sembrava non se ne accorgesse; e quella gonfiezza si era manifestata soprattutto intorno alle labbra, aggiunta visibilmente a un'essiccazione o enervazione della cavità orale, di modo che per parlare Joachim balbettava come un vecchio e s'indispettiva di questo impedimento; quando se ne fosse liberato, diceva farfugliando, tutto si sarebbe aggiustato, ma intanto era una dannata molestia. Come intendesse quel "tutto aggiustato" non era ben chiaro; si notava benissimo la sua tendenza all'ambiguità, piú di una volta disse frasi a doppio senso, pareva sapesse e non sapesse, e una volta, rendendosi evidentemente conto dello sfacelo, scosse la testa rabbrividendo e disse, affranto, che cosí male non era mai stato.

Poi divenne scostante, ostile a ogni contatto, persino scortese: non accettava finzioni o tentativi di attenuare la gravità, non reagiva ad essi, guardava imbronciato davanti a sé. Specialmente dopo che il giovane parroco, chiamato dalla signora Ziemssen, il quale con rammarico di Castorp non portava una gorgiera inamidata, ma sol tanto le facciuole, ebbe pregato insieme con lei, il suo contegno assunse un'impronta di servizio, ufficiale, e i suoi desideri erano espressi soltanto sotto forma di ordini brevi e secchi. Alle sei del pomeriggio Joachim cominciò uno strano armeggío: passò ripetute volte sulla coperta, nei pressi dell'anca, con la destra, che recava intorno al polso il suo bracciale d'oro a catenella, la sollevò un poco nel ritorno e la riportò verso di sé raschiando, rastrellando la coperta, come per adunare o raccogliere qualcosa. Alle sette spirò,... Alfreda Schildknecht era nel corridoio, presenti erano soltanto la mamma e il cugino. Joachim era affondato nel letto e ordinò brevemente che lo sollevassero. Mentre sua madre, cingendogli le spalle con le braccia, eseguiva l'ordine, disse con una certa fretta che doveva compilare e inoltrare subito una supplica perché gli fosse prolungata la licenza, e mentre lo diceva, avvenne il "veloce trapasso",... osservato religiosamente da Castorp alla luce della lampadina rivestita di rosso. L'occhio si spense, l'inconscio sforzo dei lineamenti si distese, la faticosa enfiagione delle labbra dileguò visibilmente, la bellezza di una gioventú precocemente virile si distese sul viso ammutolito del nostro Joachim, e fu finita. Siccome Luise Ziemssen si era voltata singhiozzando, fu Castorp a chiudere col polpastrello dell'anulare le pal pebre del cugino immoto e senza respiro, e a giungergli delicatamente le mani sopra la coperta. Poi si rizzò e pianse anche lui, lasciò scorrere le lacrime che tanto avevano bruciato le guance dell'ufficiale della marina inglese,... quel limpido umore che scorre cosí abbondante e amaro in tutto il mondo, a tutte le ore, sicché da esso fu denominata poeticamente la valle della terra; quel prodotto ghiandolare salsoalcalino che la scossa nervosa del dolore lancinante, sia fisico, sia psichico, spreme dal nostro corpo. Egli sapeva che contiene anche un po' di mucina e di albumina. Avvertito da Schwester Berta, arrivò Behrens. Era stato là soltanto mezz'ora prima per un'iniezione di canfora, aveva perduto l'istante del veloce trapasso. Be', per lui è finita disse schiettamente sollevandosi con lo stetoscopio dal muto petto di Joachim. E con un cenno del capo strinse la mano ai due parenti. Poi stette ancora un po' con loro davanti al letto osservando il viso immobile di Joachim, incomiciato dalla barba guerriera. Folle ragazzo, questo disse voltandosi a metà e indicandolo con la testa. Ha voluto spuntarla, ecco... il suo servizio laggiú non fu che un atto di forza, di ostinazione... con la febbre faceva servizio, a tutti i costi. Il campo dell'onore, capisce?... è scappato, il fuggiasco, sul campo dell onore. Ma l'onore per lui era la morte...

sí, anche viceversa, se loro credono,... in ogni caso ci ha detto: Ho l'onore! Folle ragazzone, questo, folle davvero. E se ne andò lungo e curvo, con la collottola sporgente. La traslazione di Joachim in patria era fuori discussione e il Berghof provvide a tutto l'occorrente, a tutto quanto parve opportuno e decoroso,... madre e cugino non ebbero bisogno di muovere un dito. Il giorno seguente, in camicia di seta, fiori sulla coperta, placido nello scialbo chiarore della neve, Joachim s'era fatto ancora piú bello che subito dopo il trapasso. Dal suo viso era scomparsa ogni traccia di sforzo; freddo, si era irrigidito nella forma piú pura e silente. Brevi riccioli dei suoi capelli scuri gli ricadevano sulla immobile fronte giallognola che sembrava fatta di una sostanza nobile, ma delicata, tra la cera e il marmo, e in mezzo alla barba pure un po' arricciata s'inarcavano, piene e superbe, le labbra. Un elmo antico sarebbe stato confacente a quella testa, come affermarono alcuni visitatori convenuti per il commiato. Vedendo la forma di quello che era stato Joachim, la Stohr pianse con entusiasmo: Un eroe! un eroe! andava dicendo e chiese che sulla sua tomba si sonasse l'"Erotica" di Beethoven! Stia zitta, lei! sibilò al suo fianco Settembrini che con Naphta e lei era là, veramente commosso. Con ambo le mani indicò Joachim ai presenti invitandoli al lamento. Un giovanotto tanto simpatico, tanto stimabile! ripeté piú volte. Naphta, contegnoso e senza guardarlo, non si trattenne dal sussurrargli mordace: Vedo con piacere che oltre alla libertà e al progresso comprende anche le cose serie . Settembrini incassò. Può darsi che sentisse una certa superiorità della posizione di Naphta, transitoriamente provocata dalle circostanze, sopra la propria; o forse aveva cercato di controbilanciare la momentanea supremazia dell'avversario con la vivacità del suo dolore, e perciò preferí tacere,... anche quando Leo Naphta, sfruttando gl'instabili vantaggi della sua posizione, lanciò la sentenza: L'errore dei letterati consiste nel credere che soltanto lo spirito sia fonte di decoro. Vero è piuttosto il contrario. Decoro c'è soltanto dove "non" c'è spirito. "Be'" pensò Castorp, "anche questa è una sentenza da Pizia ! Se dopo averla pronunciata si stringono le labbra, se ne subisce lí per lí l'intimidazione..." Nel pomeriggio arrivò la cassa di metallo. Il trasferimento di Joachim in quella cospicua custodia, ornata di anelli e teste di leone, avrebbe dovuto essere compito di un uomo solo, il quale era arrivato insieme con essa: era imparentato con gli impresari delle pompe funebri incaricati, vestito di nero con una specie di corta finanziera, con l'anello nuziale alla mano plebea, nella quale il cerchietto giallo si era, per cosí dire, incarnito. Veniva fatto di avvertire un lezzo di cadavere emanante da quella finanziera, ma ciò era frutto di fantasia e pregiudizio. L'uomo però ostentava la presunzione dello specialista, per cui tutta la sua attività doveva svolgersi, diremo, dietro le quinte, e agli occhi dei superstiti bisognava presentare soltanto pietosi risultati di parata,... ma proprio questo era contrario alle convinzioni di Castorp e suscitò la sua diffidenza.

Egli caldeggiò la proposta che la signora Ziemssen si ritirasse, ma non si lasciò mandar via con le buone; rimase e offrí la sua assistenza: prese la salma sotto le ascelle e aiutò a trasportarla dal letto nel feretro, dove le spoglie di Joachim furono deposte alte e solenni sul lenzuolo e sul cuscino ornato di nappe, tra candelabri forniti dal Berghof. Il giorno dopo però subentrò un fenomeno che indusse Castorp a staccarsi e separarsi spiritualmente dalla forma e a lasciare in effetti il campo al professionista, odioso tutore della pietà. Joachim infatti, la cui espressione era stata fino allora seria e decorosa, si era messo a sorridere sotto la barba di guerriero, e Castorp non si nascose che quel sorriso tendeva a degenerare,... sicché il suo cuore fu preso dalla fretta. Meno male che, grazie al Cielo, il trasporto era imminente e si doveva chiudere e avvitare la cassa. Trascurando la sua innata ritrosia, Castorp si congedò dal suo defunto Joachim sfiorandone con le labbra la fronte, fredda come una pietra, e nonostante la diffidenza contro l'uomo del lato dell'ombra, uscí ubbidiente insieme con Luise Ziemssen. Qui caliamo il sipario, la penultima volta. Ma mentre scende frusciando, gettiamo in spirito, insieme con Hans Castorp rimasto lassú in alto, uno sguardo in un umido camposanto laggiú, lontano, in pianura, dove una sciabola balena e s'inchina, e ascoltiamo lo scatto di un comando e gli esaltanti onori di tre salve di fucileria che tuonano sopra la tomba, scavata in un groviglio di radici, del soldato Joachim Ziemssen. Capitolo settimo... Passeggiata in riva al mare. E' possibile narrare il tempo, il tempo stesso, come tale, in e per sé? No davvero, sarebbe un'impresa pazzesca! Un racconto che dicesse: "Il tempo passò, trascorse, il tempo fluiva" e sempre cosí via,... nessuno che abbia la testa a posto lo potrebbe chiamare racconto. Sarebbe come se un dissennato tenesse per un'ora una stessa nota o un accordo e... spacciasse questa roba per musica. La narrazione infatti somiglia alla musica in quanto "riempie" il tempo, lo "riempie decorosamente", lo "suddivide" e fa sí che "contenga e significhi" qualcosa,... per citare - con malinconico rispetto per i detti dei trapassati - parole occasionali del povero Joachim, parole spentesi da molto tempo,... non sappiamo se il lettore si rende conto da quanto. Il tempo è "l'elemento" del racconto, come è l'elemento della vita,... ad essa indissolubilmente legato, come ai corpi nello spazio. E' anche l'elemento della musica, come quella che misura e articola il tempo, e lo rende dilettevole e prezioso: affine in ciò, ripetiamo, alla narrazione, la quale a sua volta (e diversamente dall'opera dell'arte figurativa che a un tratto è presente e luminosa e solo in quanto corpo è legata al tempo) si presenta soltanto come successione, come uno svolgimento, e anche quando volesse tentare di essere presente tutta intera in ogni istante, per mostrarsi ha bisogno del tempo. Che sia cosí è evidente. Ma altrettanto palese è anche una differenza.

L'elemento temporale della musica è uno solo: un settore dell'umano tempo terreno, nel quale essa si riversa per nobilitarlo in modo ineffabile ed elevarlo. Il racconto invece ha due specie di tempo: anzitutto il proprio, il tempo musico-reale che ne condiziona lo svolgimento, l'apparizione, e in secondo luogo quello del suo contenuto che è prospettico, e in misura cosí diversa che il tempo immaginario del racconto può quasi, o anche del tutto coincidere col suo tempo musicale, ma può anche allontanarsene a distanze astronomiche. Un pezzo di musica intitolato Valzer di cinque minuti dura cinque minuti; in questo e in nient'altro consiste il suo rapporto col tempo. Un racconto invece, il cui contenuto abbracciasse un periodo di cinque minuti, potrebbe durare mille volte tanto in virtú d'una straordinaria coscienziosità nel l'empire questi cinque minuti... ed essere anche molto dilettevole, benché in relazione al suo tempo immaginario sarebbe molto noioso. D'altra parte è possibile che il tempo contenuto nella narrazione superi a dismisura, per accorciamento, la durata di essa: diciamo "per accorciamento" volendo in ciò accennare a un elemento illusorio o, per dirla con chiarezza, morboso, che vi ha evidentemente la sua parte: in quanto cioè qui la narrazione ricorre a una magia ermetica e a una prospettiva temporale che ricordano certi casi anormali della reale esperienza: i quali riportano chiaramente al soprassensibile. Possediamo scritti di fumatori d'oppio i quali attestano che durante la breve eStaSi l'intossicato ebbe a vivere sogni, il cui periodo abbracciava dieci, trenta e persino sessant'anni o si lasciava addirittura addietro il limite di ogni possibile esperienza umana in fatto di tempo,... sogni cioè, il cui tempo immaginario superava enormemente la loro durata, nei quali aveva luogo un incredibile accorciamento del tempo empirico e le idee si affollavano con una tale velocità da sembrare come si esprime un masticatore di hascisc - che dal cervello dell'intossicato "si fosse tolta qualche cosa come la molla da un orologio guasto Ora, la narrazione può operare col tempo in maniera simile a questi sogni viziosi, e similmente lo può trattare. Siccome però lo può "trattare", ne consegue che il tempo, cioè l'elemento del racconto, ne puó anche diventare l'argomento e se fosse troppo dire che si può"narrare il tempo", l'impresa di raccontare parlando del "tempo" non è certo assurda come ci sembrò da principio,... sicché dunque la definizione di "romanzo del tempo" potrebbe avere un singolare e fantastico doppio significato. In effetti abbiamo formulato la domanda se si possa narrare il tempo soltanto per confessare che con la narrazione presente abbiamo realmente di mira qualcosa di simile. E se abbiamo sfiorato l'altra questione, se cioè gli ascoltatori qui raccolti abbiano ancora bene in mente quanto tempo sia passato dacché l'ambizioso Joachim, defunto nel frattempo, inserí in un colloquio quell'osservazione sulla musica e il tempo (la quale d'altro canto era indizio di un certo potenziamento alchimistico dell'essere suo, dato che osservazioni siffatte non erano, a rigore, conformi alla sua natura), ci saremmo irritati poco, udendo che davvero lí per lí non lo si ricorda chiaramente: poco irritati, o saremmo anzi contenti per la semplice ragione che l'universale simpatia per le esperienze del nostro protagonista è naturalmente nel nostro interesse, e quest'ultimo, Hans Castorp, non era del tutto sicuro nel punto menzionato, non lo era piú da un pezzo. Ciò fa parte del suo romanzo del tempo,... considerato in questo... e anche nell'altro senso.

In verità quanto tempo Joachim fosse vissuto lassú con lui, fino alla sua arbitraria partenza o nel complesso; quando, secondo il calendario, avesse avuto luogo quella prima ribelle partenza, quanto tempo fosse rimasto assente, quando rientrato, da quanto lo stesso Castorp fosse lí quando quello era ritornato e poi uscito dal tempo; quanto - per lasciare da parte Joachim - la signora Chauchat fosse stata lontana e da quando (in modo da saperne dire l'anno) fosse lí di nuovo (poiché di nuovo c'era) e quanto tempo terreno Castorp avesse vissuto al Berghof allorché lei era ritornata: a tutte queste domandeammesso che gliele avessero poste, ma nessuno lo faceva, nemmeno lui stesso, perché probabilmente aveva paura di porsele Castorp si sarebbe tamburellato la fronte coi fenomeno non meno inquietante di quella passeggera incapacità che, la prima sera dopo il suo arrivo, gli aveva impedito di indicare la propria età a Settembrini, anzi un peggioramento di quell'incapacità? perché ora non sapeva mai, proprio seriamente, quanti anni avesse! Ciò può sembrare bizzarro, ma è ben lontano dall'essere inaudito o inverosimile, perché in determinate condizioni può capitare in qualunque momento a ognuno di noi; premesse queste circostanze nulla ci preserverebbe dall'affondare nella piú grave ignoranza circa il decorso del tempo e quindi anche circa la nostra età. Il fenomeno è reso possibile dalla mancanza di un qualsiasi organo del tempo dentro di noi, dalla nostra assoluta incapacità di determinare per parte nostra e senza appiglio esteriore il decorso del tempo, neanche con una sicurezza approssimativa. Certi minatori rimasti sepolti, esclusi da ogni possibilità di osservare l'avvicendarsi di giorno e notte, una volta salvati, calcolarono di aver passato tre giorni al buio, tra la speranza e la disperazione. Invece erano stati dieci. Si penserebbe che in quelle loro angosciose condizioni il tempo dovesse essere lungo; invece si era ridotto a meno di un terzo della sua estensione oggettiva. Sembra pertanto che in circostanze conturbanti l'uomo abbandonato e messo in difficoltà abbia la tendenza a sentire il tempo molto accorciato piuttosto che a sopravvalutarlo. Certo, nessuno contesta che Castorp, se avesse voluto, avrebbe potuto uscire dall'incertezza senza vere difficoltà e chiarire con un calcolo la sua situazione".. come potrebbe fare anche il lettore con lieve fatica, qualora la vaga nebulosità dovesse ripugnare al suo buon senso. In quanto a Castorp, può darsi che egli non ci si trovasse proprio bene, ma non faceva nessuno sforzo per divincolarsi da quella vaga nebulosità e rendersi conto dell'età che aveva già raggiunto quassú; e la paura che glielo impediva era una paura della sua coscienza,... benché non ci sia evidentemente peggior mancanza di coscienza che quella di non badare al tempo. Non sappiamo se si debba mettere a sua discolpa il fatto che le circostanze favorirono assai la sua mancanza di buona volontà (se non la vogliamo chiamare addirittura cattiva volontà). Quando era ritornata la signora Chauchat (in maniera diversa da quella che Castorp aveva sognata... ma di ciò a suo luogo), si era di nuovo in periodo di avvento, e il giorno piú breve, cioè l'inizio dell'inverno, astronomicamente parlando, era ormai in vista. In realtà invece, prescindendo dall'ordinamento teorico e considerando la neve e il gelo, l'inverno era già ritornato da Dio sa quanto tempo, anzi era sempre stato interrotto solo di passata da cocenti giornate estive di un'azzurrità cosí esageratamente fonda da dare quasi nel nero,... da giornate estive come

s'intercalavano anche nell'inverno, se non si teneva conto della neve che d'al tronde cadeva anche in tutti i mesi estivi. Quante volte Castorp aveva chiacchierato con la buon'anima di Joachim a proposito della grande confusione che mescolava e metteva sottosòpra le stagioni, annullava la regolare suddivisione dell'anno e lo rendeva noiosamente dilettevole o dilettevolmente noioso, di modo che, in conformità a una delle prime frasi di Joachim, detta con disgusto, non era il caso di parlare di tempo. In quella grande confusione, per essere precisi, erano rimescolati e scompigliati i concetti sentimentali o stati di coscienza dell"'ancora" e del "già di nuovo",... una delle piú sconcertanti, piú imbrogliate, piú dannate esperienze che ci siano, un'esperienza che Castorp fin dal primo giorno che passò in montagna aveva sentito l'immorale tendenza ad assaporare: di fronte, cioè, ai cinque mostruosi pasti nella sala da pranzo ornata di pitture allegre ripetute con lo stampo, dove era stato colpito dal primo di siffatti imbrogli, ancora abbastanza innocente. Da allora quest'inganno dei sensi e dello spirito aveva assunto proporzioni ben piú vaste. Il tempo, anche quando la soggettiva esperienza di esso sia affievolita o annullata, ha una sua realtà obiettiva in quanto agisce, in quanto produce. Conviene lasciare ai pensatori di professione - e soltanto per presunzione giovanile dunque Castorp se n'era occupato una volta - la questione se la conserva ermetica sulla sua mensola sia fuori del tempo. Noi sappiamo però che il tempo agisce anche sul ghiro. Un medico ci garantisce il caso di una fanciulla dodicenne che un giorno si addormentò e cosí rimase per tredici anni,... non rimanendo però dodicenne, ma prosperando fino ad essere donna matura. Né potrebbe essere diversamente. Il morto è morto e ha abbandonato la vita terrena; ha molto tempo, cioè come persona non ne ha punto. Ciò non toglie che gli crescano ancora le unghie e i capelli, che tutto sommato... ma non vogliamo ripetere la frase spensierata che Joachim disse una volta a questo proposito suscitando in Castorp un risentimento da uomo di pianura. Anche a lui crescevano le unghie e i capelli, crescevano anzi in fretta, sicché si trovava spesso, avvolto nella mantellina bianca, sulla sedia girevole del parrucchiere nella via principale di Dorf e si faceva tagliare i capelli, perché alle orecchie gli si erano formate le frange,... anzi stava sempre seduto là o, meglio, quando vi si sedeva e discorreva con l'addetto abile e insinuante che su di lui eseguiva il lavoro come il tempo aveva già eseguito il suo; o quando presso la porta del balcone, con le forbicine e la lima, tolte dalla bella custodia di velluto, si accorciava le unghie,... ecco che, con una specie di sgomento cui erano uniti curiosità e diletto, quell'imbroglio lo coglieva all'improvviso; una vertigine, un inganno, una turbinosa incapacità di distinguere tra "ancora" e "di nuovo", la cui miscela e confusione producono il "sempre" e l"'eternamente", entrambi fuori del tempo. Piú di una volta abbiamo assicurato che non desideriamo farlo migliore, ma nemmeno peggiore di quanto non fosse. Perciò non nasconderemo che spesso pur cercava di farsi perdonare con sforzi in senso contrario il suo riprovevole compiacimento di siffatti mistici attacchi che egli provocava magari apposta e consapevole.

Era capace di star seduto con l'orologio in mano - il suo piatto orologio da tasca, d'oro liscio, del quale aveva fatto scattare il coperchio col monogramma inciso - e di guardare il disco di porcellana col doppio cerchio di cifre arabiche nere e rosse, sul quale le due lancette d'oro, ornate di graziosi e splendidi svolazzi, indicavano due direzioni divaricate, e la sottile lancetta dei secondi percorreva affaccendata il picchiettante cammino intorno alla sua breve zona particolare. Castorp la teneva d'occhio per frenare o allungare alcuni minuti e trattenere il tempo per la coda. La sferetta arrancava per la sua strada senza badare alle cifre che raggiungeva, toccava, superava, lasciava dietro di sé, lontano, per poi riavvicinarsi e raggiungerle un'altra volta. Era insensibile a mete, settori, tacche. Al 60 avrebbe dovuto fermarsi un istante o indicare almeno con un minuscolo segno che qualche cosa vi si era compiuta. Dal modo invece con cui lo superava, non diverso da quello di qualunque altra lineetta senza cifre, si capiva che tutta la suddivisione del suo cammino e la sequenza delle cifre le erano soltanto sottoposte, e non faceva che camminare, camminare... Castorp quindi si rinfilava il cronometro nella tasca del panciotto e abbandonava il tempo a se stesso. Come potremo far capire alle onorevoli persone di pianura i mutamenti che avvennero nell'interiore economia del giovane avventuriero? La misura delle vertiginose identità andò crescendo. Se con un po' di arrendevolezza non è facile contrapporre un "ora" a un "adesso" di ieri, di ieri l'altro e del giorno prima che gli somigli come un uovo all'altro, I"'adesso" è anche incline e capace di scambiare il proprio presente con uno di un mese, di un anno prima, e di sfumare con esso nel "sempre". In quanto però i casi di coscienza morali dell"'ancora" e "di nuovo" e "in avvenire" rimangono distinti, viene la tentazione di allargare il significato di definizioni relative come l"'oggi", che respinge decisamente il passato e l'avvenire, come l"'ieri", come il "domani", e di usarlo per rapporti piú ampi. Non è difficile immaginare esseri, eventualmente su pianeti minori, che amministrino un tempo in miniatura, e per la cui "breve" vita gli svelti passetti della nostra lancetta dei secondi abbiano la tenace lentezza della sfera delle ore. Viceversa si possono pensare quelli al cui spazio sia collegato un tempo di andatura gigantesca, di modo che i concetti di distanza tra l"'un momento fa" e il "fra poco", tra l"'ieri" e il "domani" avrebbero un significato empirico enormemente ampliato. Ciò, affermiamo, sarebbe non solo possibile, ma, giudicando con lo spirito di un tollerante relativismo e secondo il detto "paese che vai, usanze che trovi", sarebbe anche legittimo, sano e rispettabile. Ma che dobbiamo pensare di un figlio di questo mondo, nell'età, per giunta, in cui un giorno, il volgere di una settimana, un mese, un semestre dovrebbero avere ancora tanta importanza, e la vita reca tanti mutamenti e progressi,... il quale un giorno assuma la vergognosa consuetudine o almeno si prenda talvolta il gusto di dire "ieri" invece di "un anno fa" e "domani" anziché "fra un anno". In questo caso il giudizio di "aberrazione e confusione" è senza dubbio appropriato e c'è anche motivo di stare in pensiero. C'è su questa terra una condizione di vita, ci sono circostanze paesistiche (se di "paesaggio" è lecito parlare nel caso che abbiamo in mente) nelle quali una siffatta confusione e l'eliminazione delle distanze di tempo

e spazio fino alla vertiginosa uniformità hanno luogo, si può dire, per natura e di diritto, sicché l'abbandono al loro fascino in ore di vacanza può in ogni caso considerarsi lecito. Alludiamo alla passeggiata in riva al mare condizione che Castorp ricordava sempre con la massima simpatia - e già sappiamo che la vita in mezzo alla neve gli faceva ricordare volentieri e con gratitudine la rincorsa delle dune nella sua regione. Nutriamo fiducia che l'esperienza e il ricordo del lettore non ci abbandonino, se ci riferiamo a questo strano smarrimento. Tu cammini, cammini,... e da questa passeggiata non tornerai mai a casa in tempo, perché il tempo ti ha perduto come tu hai smarrito il tempo. O mare, mentre narriamo siamo lontani da te; a te rivolgiamo i nostri pensieri, il nostro amore, nel nostro racconto ci devi essere espressamente e invocato a gran voce, come ci sei sempre stato in silenzio e sei e sarai... Sibilante deserto, sotto una volta pallida e grigia, pregno d'un aspro umidore, del quale ci rimane sulle labbra un sapore di salso. Camminiamo, camminiamo su un fondo leggermente elastico, cosparso di alghe e nicchi, le orecchie fasciate dal vento, da questo vento grande, vasto e mite, che libero e sciolto attraversa lo spazio senza perfidie e ci provoca un dolce stordimento ...e andiamo, andiamo, e vediamo i nostri piedi lambiti dalle lingue di schiuma del mare che con moto alterno avanza e poi si ritira. Bolle la risacca, con schianti acuti e cupi, onda dopo onda fruscia come seta sulla spiaggia pianeggiante,... sia qui, sia là, sia sugli isolotti al largo, e questo fragore generale e confuso, questo lieve rombo ci sbarra le orecchie a tutti i rumori del mondo. Soddisfazione profonda, consapevole oblio... Chiudiamo, suvvia, gli occhi, al riparo dell'eternità! Ma, guarda, là nella schiumosa lontananza verdegrigia che con enormi rastremazioni si perde all'orizzonte, là c'è una vela. Là? Che là è codesto? Lontano? Vicino? Tu non lo sai. Ingannevole si sottrae al tuo giudizio. Per dire quanto questa nave sia lontana dalla riva, dovresti sapere quant'è grande come corpo a sé. Piccola e vicina, o grande e lontana? Il tUO sguardo si frange contro l'ignoranza, perché non c'è organo o senso in te che ti dia conto dello spazio... camminiamo, camminiamo... da quanto ormai? Fin dove? E' indeciso. Nulla muta col nostro passo, là è come qui, dianzi come ora e dopo; il tempo annega nella non misurata monotonia dello spazio, il moto da un punto all'altro non è piú moto quando domina l'uniformità, e dove il moto non è piú moto non c'è il tempo. I dotti del medioevo pretendevano di sapere che il tempo è un'illusione, il suo decorso in causa e conseguenza nient'altro che il risultato di un congegno dei nostri sensi, e il vero essere delle cose un "adesso" fisso. Avrà fatto una passeggiata lungo il mare, il dottore che per primo concepí questo pensiero,... con il lieve amaro dell'eternità sulle labbra? Noi a buon conto ripetiamo che stiamo parlando di licenze feriali, di

fantasie della vita oziosa, delle quali lo spirito morale si sazia rapidamente, come l'uomo robusto si sazia del riposo sulla sabbia calda. Fare la critica di mezzi e forme della conoscenza umana, renderebbe problematica la loro pura validità, sarebbe impresa assurda, disonorevole, oppositrice, se le si attribuisse un senso diverso da quello di segnare alla ragione limiti che essa non varca senza rendersi colpevole di aver trascurato i suoi veri compiti. A un uomo come Settembrini non possiamo che essere grati se al giovane, della cui sorte ci occupiamo, al quale egli stesso a un certo momento diede con molto acume il nome di "pupillo della vita", spiegò con risolutezza pedagogica che la metafisica è "il male". Secondo noi, il modo migliore di onorare la memoria di un nostro caro defunto è quello di asserire il senso, lo scopo, la meta del principio critico, il comando della vita. Tracciando criticamente le frontiere della ragione, la saggezza legislativa ha issato su queste frontiere la bandiera della vita e proclamato che l'uomo ha il dovere militare di servirla. Dobbiamo mettere nel conto delle scuse di Hans Castorp e assumere che, nella sua vergognosa amministrazione del tempo, nel suo brutto trastullarsi con l'eternità, lo abbia confortato il fatto che quello che un malinconico fanfarone aveva chiamato "zelo eccessivo" del suo cugino militare aveva avuto un esito letale?

Mynheer Peeperkorn. Mynheer Peeperkorn, un olandese di età matura, fu per qualche tempo ospite del Berghof che a buon diritto recava nella sua insegna l'attributo "internazionale". La nazionalità di Peeperkorn che era un po' un uomo di colore - un olandese delle colonie, un uomo di Giava, piantatore di caffè - non sarebbe motivo sufficiente per introdurre Pieter Peeperkorn (cosí si chiamava, cosí parlava di sé Pieter Peeperkorn si conforta con l'acquavite" soleva dire),... non sarebbe sufficiente, dicevamo, per introdurre la sua persona nella nostra storia all'undicesima ora; poiché, Dio buono, quante tinte e sfumature non presentava la società del rinomato istituto, diretto sul piano sanitario dal consigliere dottor Behrens con la sua fraseologia multilingue! Non solo vi soggiornava di nuovo una principessa egiziana, quella stessa che aveva regalato al consigliere il notevole servizio da caffè e le sigarette con la sfinge, una persona impressionante con le dita inanellate e gialle di nicotina e coi capelli corti, la quale, prescindendo dai pasti principali (a questi interveniva con abiti parigini), andava in giro in giacchetta da uomo e calzoni stirati, e non voleva saperne di uomini, mentre invece rivolgeva la sua pigra e a un tempo veemente benevolenza soltanto a un'ebrea romena che si chiamava semplicemente signora Landauer - e sí che il procuratore Paravant per amore di Sua Altezza trascurava la matematica e da tanto che era innamorato faceva lo stupido -, non solo, dunque, lei in persona, ma tra i pochi componenti il suo seguito c'era anche un eunuco negro, un uomo debole, malato, che però nonostante le sue condizioni, berteggiate volentieri da Karoline Stohr, pareva attaccato alla vita piú di qualunque altro e si mostrò

inconsolabile alla vista della sua immagine interiore, rivelata dai raggi che avevano attraversato la sua negrezza... Confrontato dunque con questi tipi, mynheer Peeperkorn poteva sembrare quasi incolore. E se questa sezione del nostro racconto si potesse intitolare, come una delle precedenti, "Un altro ancora", non per questo c'è da temere che qui entri di nuovo in scena un produttore di confusioni spirituali e pedagogiche. No, no, mynheer Peeperkorn non era uomo da recare nel mondo sovvertimenti logici. Era, come vedremo, ben diverso. E se ciò nonostante rècò grave scompiglio nella vita del nostro protagonista, lo si potrà comprendere da quanto segue. Il signor Peeperkorn arrivò alla stazione di Dorf con lo stesso treno della sera, con cui vi giunse la signora Chauchat, salí insieme con lei al Berghof nella medesima slitta e cenò con lei nel ristorante. Piú che contemporaneo fu un arrivo "comune", e questa comunanza che continuò, per esempio, con la disposizione che mynheer sedesse accanto alla reduce signora alla tavola dei "russi ammodo", di fronte al posto dei dottori, dove a suo tempo il maestro Popov si era comportato nella sua maniera sbrigliata e ambigua,... questa comunione ebbe a sconcertare il buon Castorp, perché un fatto simile era sfuggito alle sue previsioni. A suo modo il consigliere gli aveva annunciato il giorno e l'ora dell'arrivo di Clavdia. Oh, Castorp, vecchio mio gli aveva detto, chi la dura la vince. La gattina rientra posdomani sera, ho il telegramma. Che però la Chauchat non veniva sola non l'aveva detto, forse anche perché non sapeva che lei e Peeperkorn arrivavano insieme e formavano coppia,... almeno si finse sorpreso quando Castorp, il giorno dopo il comune arrivo, quasi gliene chiese conto, Né saprei dire dove l'abbia pescato dichiarò. Conosciuto in viaggio certamente, sui Pirenei, suppongo. Che ci vuol fare? Giunta alla derrata che dovrà accettare, caro il mio spasimante deluso. Amicizia stretta, pare. Sembra persino che viaggino con cassa comune. Lui è ricco sfondato, a quanto sento. Re del caffè a riposo, capisce? Cameriere segreto della Malesia, opulenza grassa. Ma non viene per divertimento, oltre a una grave mucosità derivante dall'alcool, pare che abbia una febbre tropicale maligna, una febbre intermittente, capisce, trascurata, ostinata. Dovrà avere pazienza con lui. Prego, si figuri! disse Castorp dall'alto in basso. "E tU?" pensò. "Come ti senti? Del tutto disinteressato non sei nemmeno tu, fin da prima, se non m'inganno, vedovo dalle guance blu, con la tua eloquente pittura a olio. Infili nelle tue parole la gioia del danno altrui, mi sembra, eppure siamo compagni di sventura rispetto a Peeperkorn." Curiosa figura, decisamente originale disse con un gesto descrittivo. Robusto e stentato, ecco l'impressione che se ne ritrae, che io almeno ne ho ritratto stamane, alla prima colazione. Robusto, ma anche stentato, secondo me andrebbe definito con questi aggettivi, anche se di solito paiono inconciliabili.

E', sí, grande e grosso e sta volentieri a gambe larghe, le mani affondate nelle tasche verticali dei calzoni sono applicate, ho notato, in senso verticale, non di fianco, come le sue, le mie, come usa negli alti ceti sociali, - e quando si presenta cosí e parla schiacciando le parole contro il palato, all'olandese, non si può negare che abbia un aspetto mol to robusto. Ma ha la barba rada, ...lunga, ma rada, che vi si potrebbero contare i peli, e anche i suoi occhi sono piccoli e scialbi, persino senza colore, direi, ed è inutile che egli cerchi sempre di spalancarli formando, per conseguenza, le profonde rughe che salgono dalle tempie e poi attraversano orizzontali la fronte,... la fronte alta, rossa, con quell'alone di capelli bianchi, lunghi bensí, ma radi,... ma gli occhi, per quanto li apra, restano pur sempre piccini e scialbi. Il panciotto, accollato e abbottonato, gli conferisce un che di sacerdotale, benché la giacca sia a quadretti. Questa è la mia impressione di stamane. Vedo che gli ha tenuto gli occhi addosso osservò Behrens e ha studiato l'uomo nei tratti caratteristici, e ha fatto bene, mi pare, perché dovrà pur fare i conti con la sua presenza. Eh, sí, dovremo farli ammise Castorp. - Era lasciata a lui la briga di delineare un ritratto approssimativo del nuovo ospite inaspettato, e bisogna dire che fece un buon lavoro,... noi non avremmo potuto farlo molto meglio. Vero è che il suo osservatorio era favorevolissimo: noi sappiamo infatti che durante l'assenza di Clavdia egli aveva occupato un posto piú vicino alla tavola dei "russi ammodo", e poiché la sua era parallela a quest'ultima - salvo che questa stava un po' piú avanti verso la porta della veranda - e tanto Castorp quanto Peeperkorn occupavano il lato breve rivolto verso l'interno della sala, essi sedevano, per cosí dire, affiancati, Castorp un po' piú indietro dell'olandese, e ciò gli consentiva di osservare senza dar nell'occhio,... mentre aveva la Chauchat di fronte, in linea obliqua, col profilo di tre quarti. Per integrare il suo intelligente schizzo ci sarebbe da aggiungere che Peeperkorn aveva il labbro superiore raso, il naso grosso e carnoso, grande anche la bocca, con le labbra irregolari, simile a uno squarcio. Oltre a ciò le sue mani erano piuttosto larghe, ma fornite di unghie lunghe, tagliate a punta, ed egli se ne serviva quando parlava - parlava quasi senza smettere, anche se Castorp non riusciva ad afferrare bene il contenuto dei discorsi, - facendo gesti ricercati, per attirare l'attenzione, gesti civili da direttore d'orchestra, precisi e puliti, studiati, adatti a esprimere sfumature delicate, curvando l'indice e il pollice fino a formare un cerchio, o stendendo la mano aperta - larga, ma con le unghie appuntite per smorzare, ovviare, esigere attenzione,... e poi deludere l'ottenuta sorridente attenzione con l'oscurità delle sue frasi cosí solennemente preparate,... o forse non proprio deluderla, ma tramutarla in lieve stupore: infatti la solennità, la delicatezza, la prosopopea della preparazione sostituivano benissimo, anche successivamente, le parole mancanti, e riuscivano a soddisfare, a divertire, ad arricchire per se stesse. Certe volte le frasi non erano neanche pronunciate. Egli posava delicatamente la mano sull'avambraccio del suo vicino di sinistra, un giovane scienziato bulgaro, o su quello di madame Chauchat a destra, alzava poi la mano obliquamente chiedendo silenzio e attenzione per ciò che era in procinto di dire e, alzando le sopracciglia in modo che le rughe correnti ad angolo retto dalla sua fronte agli angoli esterni degli occhi si approfondivano come su una maschera, abbassava lo sguardo sulla tovaglia accanto alla persona che aveva bloccato, mentre lo squarcio delle labbra, aperto, pareva sul punto di emettere parole di somma importanza.

Dopo un po' invece mandava fuori il fiato, rinunciava, faceva un cenno come per comandare "Riposo!" e senza aver fatto nulla ritornava al caffè che si era fatto servire straordinariamente carico, preparato con la propria macchinetta. Dopo averlo bevuto procedeva nel modo seguente. Con la mano arginava la conversazione, stabiliva il silenzio come il direttore che fa tacere la confusione degli strumenti quando l'orchestra li sta accordando e, col suo civile comando, la raccoglie all'inizio dell'esecuzione,... poiché, siccome la sua gran testa fiammeggiante di capelli bianchi, con gli occhi scialbi, le profonde rughe della fronte, la lunga barba e le nude labbra doloranti facevano senza dubbio un notevole effetto, tutti si assoggettavano al suo gesto, tutti ammutolivano, lo guardavano sorridendo in attesa e uno qua, uno là lo incoraggiava con cenni e con sorrisi. Ed egli diceva con voce piuttosto bassa: Signori... bene. Tutto bene. Chiuso, e non parliamone piú. Ma prego di considerare e di non trascurare, nemmeno un istante, che... Ma lasciamo questo punto. Ciò che spetta a me di dire non è tanto questo quanto piuttosto e soprattutto che abbiamo l'obbligo... che ci è imposto l'imprescindibile... ripeto e metto in rilievo questa parola... l'imprescindibile dovere di... No! Nossignori, non cosí ! Non già che io... Sarebbe grave errore pensare che io... Chiuso, signori, chiuso e liquidato. So che in tutto ciò siamo d'accordo. Dunque: veniamo all'argomento ! Non aveva detto un bel niente, ma la sua testa aveva senza alcun dubbio un aspetto cosí importante, la mimica e i gesti erano stati talmente decisi, penetranti, espressivi che tutti, Castorp compreso, credevano di aver udito cose notevolissime o, anche avendo notato l'assenza di una comunicazione oggettiva e portata a termine, non ne sentivano la mancanza. Ci domandiamo in che stato d'animo si sarebbe trovato un sordo. Forse si sarebbe rammaricato deducendo, per errore, dall'espressione i concetti espressi e figurandosi di averci rimesso a causa del suo difetto. Costoro sono portati alla diffidenza e all'amarezza. Un giovane cinese, invece, ancora poco pratico della lingua tedesca, il quale non aveva capito, ma udito e veduto, manifestò la sua lieta soddisfazione esclamando: Very well! ... e persino applaudendo. E mynheer Peeperkorn venne "all'argomento". Si rizzò, gonfiò il largo petto, si abbottonò la giacca quadrettata sopra il panciotto accollato, e sollevò la bianca testa regale. Con un cenno chiamò una delle cameriere - era la nana - la quale, pur essendo molto occupata, accorse subito al richiamo e, reggendo i bricchi del latte e del caffe, si mise accanto alla sua sedia. Anche lei non poté fare a meno di guardarlo con quel suo viso largo e vecchiotto e di sorridergli incoraggiante, attenta e soggiogata dallo scialbo sguardo di lui sotto le profonde rughe della fronte e dalla

mano alzata, il cui indice formava cerchio col pollice, mentre le tre altre dita erano ritte e sollevate, coronate dalle unghie a punta di lancia. Figlia mia disse, bene. Fin qui tutto bene. Lei è piccola,... ma che m'importa? Anzi, al contrario. Per me è un particolare positivo, ringrazio Iddio che lei sia com'è, e con la sua caratteristica piccolezza... Bene, dunque. Anche ciò che le chiedo è piccolo, piccolo e caratteristico. Prima di tutto, come si chiama2 Lei balbettò sorridendo e disse poi il suo nome: Emerentia. Perfetto ! esclamò Peeperkorn appoggiandosi alla spalliera e puntando il braccio verso la nana. Lo disse in tono come per dire: "Che vuole mai! Meglio di cosí!...". Figlia mia continuò serenissimo e quasi severo, questo supera ogni mia aspettativa. Emerentia... lei lo pronuncia con modestia, ma questo nome... applicato alla persona... offre insomma le piú belle possibilità. Merita ogni considerazione, e con tutto il sentimento... nel vezzeggiativo... sia esso Rentia, ma anche Emina sarebbe dolce... per ora, senza esitazione, io scelgo Emina. Dunque, Emina, figlia mia, sta attenta! Un po' di pane, mia cara. Alto là! Ferma! Che non ci siano malintesi! Leggo sul tuo viso relativamente grande che questo pericolo... Pane, Rentia, ma non cotto nel forno; di questo ne abbiamo qui in abbondanza, di tutte le forme. Bensí distillato, angelo mio. Pane di Dio, pane limpido, piccolo vezzeggiativo, che serva di conforto. Non sono sicuro se il significato di questa parola... proporrei di sostituirla con "cordiale", se non si corresse il nuovo rischio, secondo la consueta leggerezza... Chiuso, Renzina. Chiuso ed escluso. Piuttosto secondo il nostro dovere e il sacro impegno... Come esempio, pertanto, del debito d'onore che ho di rallegrarmi cordialmente... Un ginepro, cara!... della tua caratteristica piccolezza, volevo dire. Di Schiedam, Emerenzina. Corri e portamelo! Un ginepro, genuino! ripeté la nana, girò su se stessa studiando il modo di liberarsi dei bricchi e li posò poi sulla tavola di Castorp, accanto alle sue posate, perché evidentemente non voleva che dessero noia al signor Peeperkorn. Scappò di corsa e il cliente fu soddisfatto senza indugio. Il bicchierino era cosí colmo che il "pane" vi colava da tutte le parti e bagnava il piattino. Egli lo prese col pollice e il medio e lo alzò verso la luce. Cosí dichiarò Pieter Peeperkorn si conforta con l'acquavite. E inghiottí il distillato d'orzo, dopo averlo masticato brevemente. Ora soggiunse, vi vedo tutti con occhi rinfrescati. E presa la mano della Chauchat dalla tovaglia se la portò alle labbra e la ripose, lasciandovi sopra alcun tempo la propria. Uomo singolare, persona importante, anche se poco chiara.

Gli ospiti del Berghof s'interessavano molto a lui. Aveva abbandonato da poco, si diceva, gli affari coloniali e messo la sua parte al coperto. Si parlava della sua magnifica casa all'Aia e della villa a Scheveningen. La signora Stohr lo definí un "magnete del denaro" (magnate, sciagurata!) e alluse a una collana di perle che dopo il suo ritorno la Chauchat portava con l'abito da sera, e secondo l'opinione di Karoline non doveva essere una prova di galanteria del marito transcaucasico, ma con ogni probabilità proveniva dalla cassa comune. E strizzando l'occhio indicò con un cenno della testa il giovane Castorp e parodiò con la bocca torta la sua tristezza, facendosi beffe, senza alcun riguardo, delle sue incresciose condizioni e dimostrando cosí di non essere stata punto affinata dalla malattia e dal dolore. Castorp si seppe controllare. Anzi, corresse lo strafalcione di lei con un certo spirito. La avvertí che aveva detto una parola per un'altra. Magnate, ma poteva dire anche magnete, perché Peeperkorn aveva evidentemente molte attrattive. Anche alla maestra Engelhart rispose in tono tranquillo, allorché, con un bieco sorriso, leggermente arrossendo e senza guardarlo in faccia gli domandò se il nuovo ospite gli andava a genio. Mynheer Peeperkorn, disse, era una "personalità sfumata",... una personalità, ma sfumata. L'esattezza di questa definizione denotava uno spirito oggettivo e quindi calmo, sicché sbalzò la maestra dalla sua posizione. In quanto poi a Ferdinand Wehsal e al suo caricaturale accenno alle inattese circostanze nelle quali era ritornata la signora Chauchat, Castorp dimostrò che esistono occhiate d'una chiarezza cosí precisa che non la cedono di un pelo alla piú distinta e ben articolata parola. "Miserabile!" fu il significato dello sguardo col quale misurò l'uomo di Mannheim, escludendo ogni altra interpretazione sia pure lievemente errata; Wehsal riconobbe lo sguardo e incassò, anzi fece un cenno di approvazione mostrando i denti distrutti, ma da quel momento, nelle passeggiate con Naphta, Settembrini e Ferge, si astenne dal portare il soprabito di Castorp. Dio buono, questi poteva portarlo da sé, anzi preferiva portarselo lui e soltanto per cortesia l'aveva affidato ogni tanto a quel miserabile. Certo però, nessuno nella nostra cerchia disconosce che Castorp era rimasto duramente colpito da quelle circostanze assolutamente impreviste, che mandarono a rotoli tutti i suoi spirituali preparativi per l'incontro con l'oggetto delle sue avventure carnevalesche. Diremo meglio: li resero superflui, e questo era il lato umiliante. I suoi propositi erano quanto mai delicati e assennati, ben lontani da ogni foga balorda. Non aveva affatto pensato di andare a prendere Clavdia alla stazione,... e fu fortuna che non avesse accarezzato questa idea! In genere era incerto se una donna, cui la malattia consentiva tanta libertà, avrebbe voluto ammettere i fantastici avvenimenti d'una lontana notte di sogno, tra maschere e discorsi in lingua straniera, o non avrebbe desiderato di esservi richiamata direttamente. No, nessuna invadenza, nessuna goffa pretesa ! Anche concesso che la sua relazione con la malata dagli occhi obliqui superasse essenzialmente i limiti del buon senso e delle costumanze occidentali, nella forma

era necessario osservare i piú perfetti modi civili e, per il momento, persino un apparente mancanza di memoria. Un saluto cavalleresco da una tavola all'altra... e nientaltro per ora! In seguito, alloccasione, la avrebbe cortesemente avvicinata informandosi della salute di lei durante l'ultimo viaggio... E l'incontro vero e proprio ne sarebbe derivato a suo tempo a premiare la sua padroneggiata cavalleria. Tutta questa delicatezza, ripetiamo, era ormai superflua, perché non aveva piú il carattere di spontaneità e le mancava quindi ogni merito. La presenza di mynheer Peeperkorn escludeva radicalmente la possibilità di una tattica che "non" consistesse in un'estrema riservatezza. La sera dell'arrivo Castorp, dalla sua loggia, aveva visto salire al passo per le svolte della strada la slitta, sulla quale il cameriere malese, un omarino giallo col colletto di pelliccia sul soprabito e il cappello duro, era salito a cassetta insieme col cocchiere, mentre sul sedile posteriore c'era a fianco di Clavdia il forestiero, col cappello calato sulla fronte. Quella notte Castorp aveva dormito poco. La mattina non gli era stato difficile apprendere il nome del conturbante compagno di viaggio e, per soprammercato, la notizia che i due occupavano al primo piano camere di lusso attigue. Era seguita la prima colazione, durante la quale, trovatosi al suo posto per tempo e fin troppo pallido, aveva aspettato lo sbattere della porta vetrata. Ma questo non ci fu: Clavdia era entrata senza rumore, perché dietro a lei era stato Peeperkorn a chiudere la porta,... grande, grosso, con la fronte alta, la testa possente avvolta in candide fiamme, aveva seguito le orme della compagna di viaggio che col noto passo felino, spingendo avanti la testa, si era avvicinata alla sua tavola. Sí, era lei, immutata. Contrariamente al programma e dimentico di sé, Castorp la cinse col suo sguardo, languido per la veglia notturna: erano i capelli biondorossicci, pettinati alla buona, raccolti in una treccia intorno alla testa, erano gli "occhi da lupo della steppa", la curva del collo, le labbra che sembravano piú piene di quanto non fossero, a causa degli zigomi rilevati che formavano il grazioso incavo delle guance... "Clavdia"! pensò con un brivido. E fissò l'uomo inatteso, non senza levare la fronte sdegnosa e caparbia contro il solenne aspetto della sua maschera, non senza invitare il suo cuore a prendere in burletta la potenza del suo presente diritto di possesso, sul quale certi eventi passati gettavano una luce alquanto ambigua: "certi" eventi in realtà, non già oscuri o incerti, connessi con una dilettantesca pittura a olio, i quali avevano potuto inquietare lui stesso... Lei aveva conservato anche la sua maniera di mettersi di fronte alla sala prima di accomodarsi, di presentarsi in certo qual modo ai commensali riuniti, e Peeperkorn le faceva compagnia, perché stando di fianco dietro a lei aspettava che la breve cerimonia fosse eseguita e si sedeva poi a capo della tavola di fianco a Clavdia. In fumo era andato anche il saluto cavalleresco da una tavola all'altra.

Nel "presentarsi" lo sguardo di Clavdia aveva sorvolato su Castorp e tutta la sua zona soffermandosi su piú lontane regioni della sala; nella successiva riunione in quella sala le cose non si erano svolte diversamente; e quanto piú i pasti passavano senza che gli occhi s'incontrassero, tranne quando la Chauchat durante il pasto girava lo sguardo cieco sfiorando le persone con indifferenza, tanto meno era il caso di sfoderare quel cavalleresco saluto. Durante il breve ritrovo serale i due compagni di viaggio si trattenevano nel salottino: stavano seduti sul divano, l'uno vicino all'altra, nel circolo dei loro commensali, e Peeperkorn, la cui faccia solenne si stagliava accesa sotto il bianco dei capelli lingueggianti e della barba, finiva di vuotare la bottiglia di vino rosso che si era fatta servire a cena. Ne beveva una a ciascuno dei pasti principali, anche una e mezza o due, senza dire del "pane" col quale cominciava fin dalla prima colazione. Evidentemente la sua persona regale aveva un insolito bisogno di ristoro. E se lo concedeva anche sotto forma di caffè fortissimo che prendeva varie volte al giorno, non solo al mattino, ma anche a mezzogiorno, da una tazza grande: e non già dopo il pasto, ma durante e a pari col vino. L'uno e l'altro, lo sentí dire Castorp, faceva bene contro la febbre,... anche prescindendo dagli effetti ristoratori, e benissimo contro la febbre tropicale intermittente che già il secondo giorno lo costrinse per alcune ore a letto. Febbre quartana, la chiamò Behrens, perché colpiva l'olandese ogni quattro giorni: prima con un tremito, poi con un'arsura, infine col sudore. Pare che ne avesse anche la milza ingrossata.

Vingt et un . Cosí passò un periodo,... settimane, da tre a quattro forse, calcolate da parte nostra, perché non possiamo affatto fidarci del giudizio e del senso della misura di Castorp. Scivolarono via senza recare nuovi mutamenti, e provocarono nel nostro eroe il consueto dispetto contro le circostanze impreviste che gli imponevano un ritegno senza alcun merito: contro quella circostanza che chiamava se stessa Pieter Peeperkorn ogni qualvolta prendeva un grappino, contro la fastidiosa presenza di quest'uomo regale, importante e poco chiaro,... fastidiosa davvero in modo anche peggiore di quanto non avesse dato fastidio, poniamo, Settembrini, a suo tempo. Rughe di sdegnoso malumore si disegnavano verticali tra le sopracciglia di Castorp, e da sotto quelle rughe egli osservava cinque volte al giorno la reduce, pur contento di poterla osservare, e colmo di disprezzo per una possente presenza che non immaginava di quale ambigua luce lo avvolgesse il passato. Una sera però, come certo poteva accadere senza un particolare movente, la riunione serale nel vestibolo e nelle salette fu piú mossa del solito. Si era fatta un po' di musica, melodie zingaresche eseguite vivacemente col violino da uno studente ungherese, dopo di che il consigliere Behrens, che pure era intervenuto un quarto d'ora col dottor

Krokowski, aveva spinto un tale a sonare nelle ottave basse del pianoforte il Coro dei pellegrini, mentre lui, in piedi al suo fianco, batteva con una spazzola i tasti del registro acuto parodiando con note saltellanti l'accompagnamento dei violini. Ciò suscitò mol te risate. Tra scroscianti applausi, scotendo con benevolenza la testa alla propria petulanza, il direttore lasciò la sala di ritrovo. La conversazione invece si protrasse ancora, si continuò a far musica senza pretendere attenzione e raccoglimento, si giocò a domino, a bridge, bevendo e chiacchierando, o divertendosi con gli strumenti burleschi. Anche i commensali della tavola dei "russi ammodo" si erano mescolati tra i gruppi nel vestibolo e nella sala del pianoforte. Si vedeva mynheer Peeperkorn ora qua, ora là,... non era possibile non vederlo, la sua testa maestosa superava qualsiasi vicino, lo batteva col suo peso regale e con la sua importanza, e se quelli che gli stavano intorno erano stati attirati, in origine, soltanto dalla notizia della sua ricchezza, ben presto furono conquisi dalla sua stessa personalità: lo circondavano sorridendo, con cenni incoraggianti, dimentichi di sé, affascinati dai suoi occhi scialbi sotto le gravi rughe della fronte, incantati dagli energici gesti civili delle sue mani con le unghie lunghe, senza provare il minimo senso di delusione alle incomprensibili sospensioni, all'oscurità ed effettiva inettitudine delle parole che seguivano. Se in queste condizioni andiamo in cerca di Castorp, lo troviamo nella sala di lettura e scrittura, in quel locale comune in cui una volta (questo "una volta" è vago; il narratore, il protagonista e il lettore non hanno un'idea precisa della sua distanza nel passato) gli erano state impartite importanti rivelazioni intorno all'organizzazione del progresso umano. Là regnava maggior silenzio, sol tanto alcune persone erano presenti. Uno scriveva a una delle doppie scrivanie, sotto una lampada sospesa. Una signora con due paia di occhiali sul naso, seduta davanti alla libreria, sfogliava un volume illustrato. Castorp era seduto presso il passaggio alla sala del pianoforte, le spalle rivolte alla portiera, un giornale in mano, sulla sedia che aveva trovato là, una sedia rinascimento - per chi la vuol vedere - rivestita di felpa, con la spalliera alta, diritta, e senza braccioli. Il giovane teneva il giornale come lo si tiene per leggere, ma non leggeva, stava invece ascoltando, con la testa reclinata su una spalla, la musica che si faceva nella stanza attigua, a pezzi staccati, intercalata dal brusio delle voci, mentre il suo sguardo scuro e accigliato denotava che lo faceva con un'orecchia sola, che i suoi pensieri percorrevano vie tutt'altro che musicali, le vie spinose della delusione causata da circostanze che, alla fine della lunga attesa impostasi dal giovane, lo beffavano in modo infame,... amare vie della stizza dove egli non era certo lontano dal prendere ed eseguire la deliberazione di posare il giornale su quella sedia casuale e scomoda, di uscire dalla porta che dava nell'atrio e di sostituire alla seccaggine di quella riunione sociale la gelida solitudine del suo balcone in compagnia d'un "Maria Mancini". E suo cugino, monsieur? domandò una voce dietro a lui, sopra la sua testa.

Era una voce incantevole per le sue orecchie, fatte ormai per ascoltare con immenso piacere la sua asprodolce velatura - se vogliamo spingere il concetto di piacere a una vetta estrema - era la voce che una volta aveva detto: Volentieri. Ma non romperla , una voce vittoriosa, fatale, che, se aveva ben capito, gli aveva chiesto notizie di Joachim. Castorp abbassò lentamente il giornale e sollevò un poco il viso di modo che la sua testa toccò la spalliera verticale un po' piú in su, soltanto col cocuzzolo. Socchiuse persino gli occhi, ma li riaprí subito per fissare obliquamente un punto nel vuoto, nella direzione assegnatagli dalla posizione del capo. Verrebbe fatto di dire che la sua espressione aveva un che di profetico, da sonnambulo. Egli si augurò che lei ripetesse la domanda, ma ciò non avvenne. Sicché non fu neanche sicuro che lei fosse ancora dietro di lui quando, passato qualche tempo, rispose con strano ritardo e a mezza voce: E' morto. Ha fatto servizio in pianura ed è deceduto . Egli stesso notò che "morto" fu la prima parola detta con rilievo tra loro questa volta. Notò pure che non essendo abbastanza pratica della sua lingua, lei scelse parole di condoglianza troppo lievi, allorché dietro e sopra di lui disse: Ah, che peccato! Proprio morto e sepolto? Da quando? Da qualche tempo. Sua madre lo portò con sé laggiú. Gli era cresciuta una barba da guerriero. Sopra la sua tomba furono sparate tre salve d'onore. Le meritava. Era molto valoroso. Piú valoroso di altri, di certi altri! Sí, era valoroso. Radamanto discorreva sempre del suo zelo eccessivo. Ma il suo corpo fu d'altro parere. Rebellio carnis, dicono i gesuiti. E' sempre stato per il corpo, onorevolmente. Ma il suo corpo aveva lasciato entrare qualcosa di disonorevole e fece lo sgambetto al suo zelo. D'altronde, perdersi e perire è piú morale che conservarsi. Vedo che siamo ancora disutili filosofi. Radamanto: chi è? Behrens. Cosí lo chiama Settembrini. Ah, Settembrini, so. Era quell'italiano... Io non lo amavo. Non era di sentimenti umani. (Lo disse con una sua strana pronuncia, allungando le vocali.) Era superbo. Non è piú qui? Come sono sciocca: non so chi è Radamanto. E' roba da umanisti. Settembrini è traslocato. Abbiamo filosofato in lungo e in largo durante questo periodo. Lui, Naphta e io. Chi è Naphta? Il suo avversario. Se è suo avversario mi piacerebbe conoscerlo.

Ma non avevo detto che suo cugíno sarebbe morto se tentava di fare il soldato in pianUra? Sí, tu lo sapevi. Che le viene in mente? Un lungo silenzio. Egli non ritrattò. Col cocuzzolo premuto contro la spalliera diritta, lo sguardo da visionario, attese che la voce risonasse un'altra volta; di nuovo incerto se lei fosse ancora dietro a lui, col timore che i brani di musica nella stanza vicina potessero aver assorbito il rumore di passi allontanatisi. Finalmente, invece, ecco: E monsieur non è neanche sceso al funerale del cugino? Egli rispose: No, gli dissi addio qui, prima che lo chiudessero, quando cominciò a sorridere. Non puoi immaginare quanto fosse fredda la sua fronte. Di nuovo! Che modo è codesto di parlare con una signora che si conosce appena! Devo parlare in maniera umanistica anziché umana? (E senza volere allungò le vocali come uno che, assonnato, si stiri e sbadigli.) Quelle blague! E lei è stato sempre qui? Sí. In attesa. Di che cosa? Di te. Una risata sopra la sua testa, insieme con l'esclamazione: Matto! Di me? Non ti avranno lasciato andar via . Invece sí. Behrens mi avrebbe lasciato andare una volta, in un accesso di collera. Ma sarebbe stata una partenza arbitraria. Oltre alle vecchie cicatrici di un tempo, di quando andavo a scuola, lo sai, c'è quella zona recente, scoperta da Behrens, la quale mi dà la febbre. Ancora febbre? Sí, sempre un poco. Quasi sempre. Va e viene. Ma non è intermittente. Des allusions? Egli tacque. Con le ciglia aggrondate sopra lo sguardo da visionario. Dopo una pausa domandò: E tu dove sei stata? Una mano batté sulla spalliera. Mais c'est un sauvage! Dove sono stata? Da per tutto. A Mosca (la voce disse Mosca, con allungamento della vocale), a Baku, in stazioni balneari tedesche, in Spagna. ,? To', in Spagna. E come è andata? Cosí cosí. Si viaggia male. Gli abitanti sono mezzi mori. La Castiglia è molto arida e dura. Il Cremlino è piú bello di quel castello o monastero là ai piedi della montagna... L'Escorial. Sí, il castello di Filippo. Un castello disumano. Mi è piaciuta molto piú la danza popolare in Catalogna, la sardana, al suono della cornamusa. Vi ho ballato anch'io. Tutti si prendono per mano e fanno il girotondo. Tutta la piazza è affollata. C'est charmant.

Ed è umano. Ho acquistato un berrettino azzurro, come lo portano tutti gli uomini e i ragazzi del popolo, è quasi un fez, la boina. Lo porto durante lo sdraio e anche altrove. Monsieur giudicherà se mi sta bene. Quale monsieur? Questo qui sulla sedia. Credevo mynheer Peeperkorn. Quello ha già giudicato. Dice che mi sta magnificamente. Cosí ha detto? Fino in fondo? Ha terminato la frase in modo che si potesse capire? Oh, pare che siamo di cattivo umore. Vogliamo essere maligni e mordere. Si tenta di farsi beffe di persone che sono molto piú grandi e migliori e piú umane di quanto non sia un tale insieme al suo... avec son ami bavard de la Méditerranée, son matAtre grand parleur... Ma io non permetterò che ai miei amici... Ce l'hai ancora il mio ritratto interiore? interruppe lui, la voce con accento melanconico. Lei rise. Dovrei andarlo a cercare. Io lo tengo qui. Oltre a ciò ho un piccolo cavalletto sul cassettone dove di notte e... Non poté finire. Davanti a lui stava Peeperkorn che era venuto in cerca della sua compagna di viaggio: era entrato scostando la portiera e si era messo davanti alla sedia di colui, col quale vide lei discorrere alle sue spal le,... stava impalato come una torre, vicino ai piedi di Castorp che, nonostante il sonnambulismo, si rese conto che doveva alzarsi ed essere cortese, ma stretto fra i due durò fatica a tirarsi su dalla sedia,... dovette girarsi di fianco, sicché poi i personaggi formarono un triangolo con la sedia nel mezzo. La signora Chauchat adempí un dovere dell'Occidente civile presentando l'un l'altro "i signori". Un conoscente di prima, disse riferendosi a Hans Castorp,... del suo soggiorno precedente. La presenza di Peeperkorn non aveva bisogno di commento. Lei ne disse il nome e l'olandese, fissando il giovane con gli occhi scialbi di sotto alla fronte da idolo arabescata di rughe d'attenzione sulla fronte e sulle tempie, gli tese la mano, il cui largo dorso era coperto di lentiggini,... una mano da comandante, pensò Castorp, se si prescindeva dalle unghie lanceolate. Per la prima volta subiva il diretto influsso della possente personalità di Peeperkorn ("personalità": parola che si affacciava sempre alla mente di chi lo guardava; vedendolo si capiva che cosa fosse una personalità, anzi ci si convinceva che una personalità non poteva avere un aspetto diverso dal suo), e i suoi malfermi anni giovanili si sentivano schiacciati dal peso di quei sessanta dalle spalle larghe, dal viso acceso, dalle bianche vampe dei capelli, con quella bocca dolorosamente squarciata e quella barba che pendeva lunga e sottile sul panciotto accollato, da religioso. Peeperkorn però fu la gentilezza in persona. Signore disse, senz'altro. No, mi permetta,... senz'altro! Questa sera faccio la sua conoscenza,... La conoscenza d'un giovane che ispira fiducia, ...la faccio, signore; io... prego! Chiuso. Lei è il mio tipo. Non c'era nulla da obiettare. I suoi gesti civili erano perentori, Castorp gli piaceva.

E Peeperkorn ne trasse deduzioni che espose per accenni, integrati poi opportunamente dall'intervento della sua compagna di viaggio. Figlio mio disse, tutto in ordine. Ma se noi... prego di comprendermi. La vita è breve, la nostra facoltà di adempierne le esigenze, ecco, è... Questi sono fatti, figlio mio. Leggi. Necessità i-ne-so-rabili. Insomma, figlio mio, ecco... E si arrestò in un gesto espressivo rimettendosi agli altri e rifiutando ogni responsabilità per il caso che, nonostante il suo avvertimento, ci si trovasse ad aver commesso un errore decisivo. La Chauchat, che era evidentemente pratica e in grado di afferrare da mezza parola i desideri di lui, disse pertanto: Perché no? Si potrebbe stare ancora un po' insieme, giocare un poco e bère una bottiglia di vino. E lei che fa? disse rivolta a Castorp. Si muova! Non staremo qui in tre, compagnia ci vuole. Chi è ancora nella sala? Impegni tutti quelli che trova. Vada a chiamare qualche amico, sui balconi. Noi inviteremo il dottor Ting-Fu della nostra tavolata. Peeperkorn si fregò le mani. Senz'altro disse. Perfetto. Benissimo. Corra, giovane amico ! Faremo circolo. Si giocherà, si mangerà, si berrà. Sentiremo che noi... Senz'altro, giovanotto! Castorp salí con l'ascensore al secondo piano. Bussò alla porta di A. K. Ferge, il quale a sua volta nella veranda di sotto fece alzare dalla sedia a sdraio Ferdinand Wehsal e il signor Albin. Il procuratore Paravant e i coniugi Magnus erano ancora nel vestibolo, la signora Stohr e la Kleefeld nella sala. Là, sotto il lampadario centrale, fu collocata una spaziosa tavola da giuoco, con un cerchio di seggiole e tavolini di servizio. Mynheer salutava gli ospiti via via che arrivavano, con lo sguardo scialbo e cortese, alzando per l'attenzione gli arabeschi frontali. Si sedettero in dodici, Castorp fra il maestoso anfitrione e Clavdia Chauchat; si distribuirono carte e gettoni, poiché tutti furono d'accordo per alcune mani di vingt et un, e Peeperkorn con la sua aria d'importanza ordinò alla nana, chiamata apposta, uno Chablis del 1906, tre bottiglie per il momento, e dolciumi, quel tanto che riusciva a raccogliere tra frutta secca meridionale e pasticceria. Il suo modo di fregarsi le mani quando le buone cose arrivavano in tavola esprimeva una profonda soddisfazione; ed egli cercava di comunicare i suoi sentimenti anche a parole, spezzando le frasi in maniera significativa, e ci riusciva di fatto pienamente, in quanto si trattava di ottenere il generico effetto della sua personalità.

Posava le mani sull'avambraccio dei due vicini, alzava l'indice con la punta di lancia ed esigeva, con largo successo, la massima attenzione per lo stupendo color oro del vino nelle coppe, per lo zucchero trasudato dall'uva malaga, per certe ciambelline coperte di sale e semi di papavero, che egli definì divine, soffocando in germe con un gesto perentorio tutte le obiezioni che si fossero tentate contro un aggettivo cosí smaccato. Lui fu il primo a tenère il banco; ma presto lo cedette ad Albin perché, se si era capito bene, quel compito gli impediva di godersi liberamente le circostanze. Si vedeva che l'azzardo era per lui cosa secondaria. Nel giuoco la posta era insignificante secondo lui, tanto è vero che aveva proposto il minimo di cinquanta rappen, che però era moltissimo per la maggior parte dei giocatori; il procuratore Paravant e la Stohr arrossivano e impallidivano alternatamente, quest'ultima specialmente si torceva in convulsioni quando a diciotto si trovava davanti al problema se acquistare ancora o no. Quando poi Albin con fredda destrezza le gettava la carta, i cui punti superavano il rischio, lei si metteva a strillare e Peeperkorn rideva di cuore. Strilli, strilli, signora diceva. E' una voce stridula, piena di vita, e viene dalla piú profonda... Beva, dia ristoro al suo cuore per nuovi... E le empiva il bicchiere, empiva anche quello del vicino e il proprio, e, ordinate tre altre bottiglie, brindò con Wehsal e con la signora Magnus internamente desolata, perché questi due gli parvero i piú bisognosi di incoraggiamento. In virtú del vino davvero meraviglioso i visi si fecero sempre piú rossi e accesi, tranne quello del dottor Ting-Fu che restò invariabilmente giallo, con due fessure da topo, nere come il giaietto; egli puntava forte, rideva sotto i baffi, e aveva una fortuna sfacciata. Altri non vollero essere da meno. Paravant, con gli occhi foschi, puntò dieci franchi su una carta di modeste prospettive, acquistò troppo e impallidí, ma, avendo Albin ricevuto un asso e fatto raddoppiare tutte le poste con eccessiva fiducia, riebbe il doppio del suo. Queste furono scosse che non si limitarono a colui che se le procurava. Tutto il circolo vi partecipò e persino Albin che in fredda avvedutezza gareggiava coi croupier del Casinò di Montecarlo, del quale si diceva assiduo frequentatore, non seppe dominare abbastanza la sua agitazione. Anche Castorp puntava forte, e cosí pure la Kleefeld e madame Chauchat. Si passò da un giuoco d'azzardo all'altro, fino al pericoloso différence. Ci furono scoppi di gioia e di disperazione, scariche di rabbia e isteriche risate, in seguito all'irritazione dei nervi provocata dalla sorte perfida, ed erano manifestazioni serie e genuine,... non sarebbero state diverse nelle vicende della vita stessa. Eppure non erano soltanto e nemmeno principalmente il giuoco e il vino a produrre l'alta tensione psichica del gruppo, quel calore del viso, quegli occhi sbarrati e lustri o quello che si sarebbe potuto chiamare lo sforzo della piccola brigata, quel suo stare col fiato sospeso, quel suo quasi penoso concentrarsi nel momento.

Tutto ciò derivava invece dall'influsso d'un carattere imperioso, di una "personalità" che dominava e spiccava tra i presenti: quella di mynheer Peeperkorn, il quale teneva il comando nel pugno gesticolante e stringeva tutti in balía dell'ora con la sua figura spettacolosa, col pallido sguardo e le monumentali rughe della fronte, con la parola e l'insistenza della sua mimica. Che cosa diceva? Parole molto confuse, tanto piú confuse quanto piú beveva. Ma tutti pendevano dalle sue labbra, fissavano sorridendo e approvando con le ciglia sollevate il cerchio formato dal suo indice e dal pollice, accanto al quale si rizzavano le altre dita come lance, mentre gli si leggeva in viso lo sforzo eloquente del pensiero e tutti, senza opporre resistenza, si lasciavano trascinare a una dedizione che superava di molto il devoto affetto di cui costoro si consideravano normalmente capaci. Era una dedizione che sorpassava le forze dei singoli. Tant'è vero che la Magnus si sentí male e fu lí lí per svenire, ma rifiutò a tutti i costi di ritirarsi in camera sua, limitandosi invece a stendersi su una sedia a sdraio, dove le misero sulla fronte una pezzuola bagnata finché, riavutasi, ritornò al suo posto. Peeperkorn attribuí il suo mancamento a una insufficiente alimentazione. E in questo senso perorò con parole interrotte in modo significativo, alzando l'indice. Mangiare si deve, mangiare bene, osservò, chi voglia osservare le esigenze, e ordinò per tutti una refezione rifocillante, con carne, affettato, lingua, petto d'oca, arrosto, salame e prosciutto... piatti colmi di grasse leccornìe che, guarnite di palline di burro, ravanelli e prezzemolo, somigliavano a pompose aiuole di fiori. Ma quantunque - ad onta della cena precedente, della cui abbondanza è superfluo parlare - i piatti fossero accolti con gioia, Peeperkorn dopo qualche boccone li definí "robaccia"... con una collera che rivelò quanto fosse inquietante e incalcolabile il suo imperioso carattere. Quando uno osò prendere le difese dello spuntino montò sulle furie, gonfiando il testone, picchiando il pugno sulla tavola e dichiarando che quella era una gran porcheria,... dopo di che tutti ammutolirono imbarazzati, perché in fin dei conti era lui che offriva e aveva quindi il diritto di valutare i suoi doni. D'altro canto la collera, per quanto potesse apparire incomprensibile gli donava, come Castorp in specie dovette convenire. Non lo deformava, non lo diminuiva, nella sua misteriosità che nessuno in cuor suo osava mettere in relazione con la quantità del vino bevuto, appariva cosí grande e regale che tutti si fecero piccoli e si guardarono bene dal prendere ancora un boccone di quelle carni. Ma la signora Chauchat intervenne a calmare il suo compagno di viaggio. Accarezzò la sua mano di comandante, ferma sulla tavola dopo il colpo, e con voce insinuante osservò che si poteva benissimo ordinare dell'altro, un piatto caldo, se voleva e se era possibile conquistare a tal fine il capocuoco. Figlia mia rispose lui, ... bene. E senza sforzo, dignitosamente, trovò il passaggio dal furore alla moderazione, mentre baciava la mano a Clavdia. Espresse un desiderio di frittata per sé e per i suoi,... per tutti una buona frittata con ripieno d'erbe, affinché si potessero soddisfare le esigenze. E con l'ordine mandò in cucina un biglietto da cento franchi per indurre il personale a interrompere il riposo.

E si sentí di nuovo a suo agio quando arrivarono i piatti col cibo fumante, di color giallo canarino, macchiettato di verde, diffondendo nella stanza un soave profumo di uova e burro. Tutti si servirono insieme con Peeperkorn, sorvegliati da lui che con frasi frammentarie e gesti imperiosi spingeva ognuno ad apprezzare con la massima attenzione, persino con fervore, quel dono di Dio. Fece anche mescere per tutti un ginepro olandese e li costrinse a bere con cosciente devozione il limpido liquore che emanava un sano odore di acquavite di grano insieme con una delicata punta di ginepro. Castorp fumava. Anche la Chauchat faceva onore alle sigarette col bocchino, che per comodità aveva messe davanti a sé sulla tavola, in un astuccio rosso, laccato, ornato con una troika in piena corsa. Peeperkorn non ebbe parole di rimprovero per i suoi vicini che si abbandonavano a quel piacere; lui però non fumò; non fumava mai. Se si era ben capito ciò che diceva, il consumo del tabacco andava annoverato, secondo il suo giudizio, tra i raffinati godimenti che rappresentano una diminuzione della maestà di quegli schietti doni della vita, di quelle esigenze che la forza del nostro sentimento riesce a mala pena a soddisfare. Giovanotto disse a Castorp incantandolo col pallido sguardo e col suo gesto civile, ... giovanotto,... le cose semplici! Le cose sacre! Bene, lei mi ha capito. Una bottiglia di vino, una frittata fumante, un'acquavite pura,... cominciamo con l'appagare, con l'assaporare tutto ciò, andiamo fino in fondo, cerchiamo di soddisfare pienamente prima di... Assolutamente, signore. Chiuso. Ho conosciuto certa gente, uomini e donne, mangiatori di cocaina, fumatori di hascisc, morfinomani... Bene, caro amico. Perfetto! Facciano pure! Noi non dobbiamo disputare o giudicare. Ma da ciò che dovrebbe precedere, dalle cose semplici, dalle cose grandi, da ciò che è di origine divina, costoro erano assolutamente... Chiuso, amico mio. Condannati. Ripudiati. Ben lontani erano rimasti. Comunque lei si chiami, giovanotto,... Sí, lo sapevo, ma l'ho dimenticato... La depravazione non sta nella cocaina, non nell'oppio, non nel vizio come tale. Il peccato che non può essere perdonato sta... S'interruppe. Grande e grosso, rivolto al vicino, in un grave ed espressivo silenzio che, di fronte all'indice alzato, costringeva a capire; e stette con la bocca irregolarmente squarciata sotto il labbro superiore glabro e rosso, un po' ferito dal rasoio, con le rughe lineari, sol levate per lo sforzo sulla fronte calva in mezzo a un candido lingueggiare, con gli scialbi occhietti dilatati, nei quali Castorp vide guizzare una specie di orrore del delitto, del grave peccato, dell'imperdonabile fallimento al quale egli aveva alluso, mentre la silenziosa

e stringente potenza del suo confuso carattere dominatore imponeva di sviscerarlo in tutta la sua orribilità... Orrore, pensò Castorp, di natura obiettiva, ma anche un poco personale, riguardante lui stesso, l'uomo regale,... "paura", dunque, vide guizzare là, ma non paura esigua e meschina, bensí una specie di terrore panico, e Castorp era di indole troppo ossequiosa perché- prescindendo da tutti i motivi che aveva di essere ostile al maestoso compagno di viaggio della signora Chauchat - quell'osservazione non lo dovesse sconvolgere. Chinò gli occhi e approvò per preparare all'eccelso vicino la soddisfazione di averlo compreso. E' sicuramente vero disse. Può essere peccato... e indizio di insufficienza... farsi schiavi della raffinatezza senza tener conto dei semplici e naturali doni della vita, che sono grandi e sacri. Se ho ben capito, questa è la sua opinione, signor Peeperkorn, e quantunque io non ci abbia mai pensato, posso per mia propria esperienza essere d'accordo con lei, dato che vi ha richiamato la mia attenzione. D'altronde avverrà di rado che a questi sani e semplici doni della vita sia resa piena giustizia. Per certo la maggior parte degli uomini è troppo fiacca e disattenta e senza scrupoli e intimamente spanata per rendergliela. Penso che sia cosí. L'eccelso rimase molto soddisfatto. Giovanotto disse. Perfetto. Mi permetterà... basta, non una parola di piú. La prego di brindare con me, di vuotare il bicchiere fino in fondo, e precisamente con le nostre braccia intrecciate. Questo non significa ancora che io le proponga il "tu" fraterno,... stavo per farlo, ma ora ci ripenso e mi pare che sarebbe fretta eccessiva. Molto probabilmente in un momento poco lontano io... Ci conti! Ma se desidera, se ci tiene che oggi stesso... Castorp caldeggiò per accenni il rinvio proposto dallo stesso Peeperkorn. Bene, giovanotto. Bene, camerata. Insufficienza... giusto. Giusto e orribile. Senza scrupoli,... benissimo. Doni,... male. Esigenze! Sacre, femminili esigenze della vita in fatto d'onore e vigore virile... Castorp fu costretto a riconoscere che Peeperkorn era ubriaco fradicio. Ma nemmeno la sua ubriachezza era umiliante e meschina, o condizione degradante; essa si fondeva invece con la maestà dell'uomo dandogli un aspetto grandioso e venerando. Anche Bacco, pensò Castorp, si appoggiava ubriaco ai suoi compagni entusiasti senza per questo rimetterci in divinità, e piú che mai si trattava di vedere "chi" era ubriaco, se una personalità o un tessitore. In fondo all'anima si guardava bene dal ridurre il suo rispetto per lo schiacciante compagno di viaggio, i cui gesti civili si erano rilassati e la cui lingua balbettava.

Dare del tu... disse Peeperkorn, abbandonando al l'indietro il gran corpo in libera e superba ebbrezza, il braccio steso sulla tavola, picchiandovi leggermente il pugno floscio,... previsto... fra breve, anche se la riflessione per il momento.... bene. Chiuso. La vita - giovanotto - è una donna, lunga distesa, coi seni gonfi e ravvicinati, col largo ventre morbido tra i fianchi sporgenti, le braccia sottili, le cosce grosse, gli occhi semichiusi, la quale in una splendida ironica sfida impegna il nostro massimo fervore, tutta la tensione del nostro piacere virile, che o dà buona prova o crolla,... crollare, giovanotto, capisce che cosa significherebbe? La sconfitta del sentimento di fronte alla vita, ecco l'insufficienza per la quale non c'è grazia, non c'è pietà, non c'è dignità: è soltanto spietatamente ripudiata, con una risatina di scherno,... chiuso, giovanotto, e sputato... Ignominia e disonore sono parole troppo blande per questa rovina, questo fallimento, questa orrida mortificazione. Essa è la fine, la disperazione infernale, la fine del mondo... Mentre parlava, l'olandese aveva reclinato sempre piú la persona possente e chinato nello stesso tempo la testa regale sul petto come se stesse per addormentarsi. Ma all'ultima parola alzò il pugno floscio e lo fece cadere pesantemente sulla tavola, di modo che lo smilzo Castorp, innervosito dal giuoco, dal vino e dalla singolarità delle circostanze, ebbe uno scossone e, devoto e allibito, guardò l'eccelso. "La fine del mondo": come gli si attagliavano queste parole! Castorp non ricordava di averle mai sentite pronunciare tranne che nelle ore di religione, e non era un caso fortuito, pensò, poiché tra tutta la gente che conosceva chi poteva essere pari a quella frase tonante, chi - per formulare meglio la domanda - ne aveva la statura? Se ne poteva servire, poniamo, il piccolo Naphta; ma sarebbe stata un'usurpazione, una ciancia sottile, mentre sulle labbra di Peeperkorn la frase tonante aveva tutta la sua squillante possanza, in mezzo a un clangore di trombe, acquistava, insomma, proporzioni bibliche. "Dio mio,... una personalità!"-notò per la centesima volta. "Ho incontrato una personalità, che è poi il compagno di viaggio di Clavdia!" Piuttosto annebbiato anche lui, andava rigirando il suo bicchiere sulla tavola, l'altra mano nella tasca dei calzoni e un occhio strizzato a causa del fumo della sigaretta che teneva nell'angolo della bocca. Non avrebbe dovuto tacere dopo che un competente aveva pronunciato parole di tuono? Che c'entrava ora la sua povera voce? Se non che, allenato alla discussione dai suoi democratici educatori - democratici per indole entrambi, benché uno di loro rifiutasse di esserlo, - si lasciò indurre a uno dei suoi sinceri commenti e disse: Le sue osservazioni, mynheer Peeperkorn (che razza di parola! Osservazioni! Si fanno forse osservazioni sulla "fine del mondo" , riportano ancora il mio pensiero a ciò che si è stabilito dianzi a proposito del vizio, che questo, cioè, consiste in un'offesa ai doni della vita semplici e, come lei diceva, sacri, o come vorrei dire io, classici, ai doni della vita di una certa statura, direi, negletti in favore dei nuovi e maliziosi, delle raffinatezze cioè, delle quali, come ha detto uno di noi due, ci si fa schiavi, mentre a quegli altri, grandi, ci si consacra e si rende omaggio. Ma qui è anche compresa, mi pare, la scusa,... benché una scusa, capisco benissimo, non possa avere una statura,... la scusa, intendo del vizio, appunto perché questo ha le radici nella, dicevamo, insufficienza.

Intorno agli orrori della insufficienza lei ha detto cose di tale statura che, come vede, ne sono sinceramente colpito. Sono però del parere che il vizioso non sia affatto insensibile a questi orrori, anzi li prende pienamente sul serio, in quanto proprio la cattiva prova del suo sentimento di fronte ai doni classici della vita lo spinge al vizio, e ciò non contiene o non c'è bisogno che contenga alcuna offesa alla vita, poiché potrebbe anche essere un omaggio ad essa, in quanto le raffinatezze sono rimedi che eccitano e inebriano, sono, come si dice, stimolanti, sostegni e incrementi delle forze sentimentali, per cui, nonostante tutto, il loro scopo e significato è sempre la vita, l'amore per il sentimento, l'aspirazione al sentimento da parte dell'insufficienza... Intendo... Che cosa stava blaterando? Non era sufficiente sfacciataggine democratica dire "uno di noi due" trattandosi di una personalità e di lui? Traeva forse il coraggio di tanta impudenza da cose passate che mettevano in cattiva luce certi diritti presenti? O gli era venuto l'uzzolo di impegolarsi in quell'insolente analisi del "vizio"? Toccava ora a lui trarsi d'impaccio, poiché era chiaro che stava provocando reazioni spaventevoli. Durante il discorso dell'ospite, mynheer Peeperkorn era rimasto nel suo atteggiamento reclinato, col mento sul petto, sicché non era proprio sicuro che le parole di Castorp raggiungessero la sua coscienza. Ora invece, a poco a poco, mentre il giovane s'impappinava, cominciò a sollevarsi dalla spalliera, alto, sempre piú alto, in tutta la sua grandezza, mentre la testa maestosa si arrossava, si gonfiava, gli arabeschi frontali si tendevano e sollevavano e gli occhietti si dilatavano in una pallida minaccia. Che cosa si preparava? Pareva che fosse in arrivo una collera, di fronte alla quale la precedente non era che un lieve malumore. Il labbro inferiore di Peeperkorn premette rabbioso il superiore di maniera che gli angoli della bocca si abbassarono e il mento si protese in avanti; il braccio destro si alzò adagio dalla tavola fino all'altezza della testa e piú; pronto ad annientare col pugno stretto il chiacchierone democratico, il quale, atterrito, ma anche bizzarramente allietato dalla visione dell'espressiva rabbia regale che si ammassava davanti a lui, durava fatica a nascondere la paura e la voglia di scappare. Con cortese premura soggiunse: Naturalmente mi sono espresso male. E' una questione di statura, nient'altro. Non si può chiamare vizio ciò che ha una statura. Il vizio non ha mai una statura. Né la hanno le raffinatezze. Ma fin dai tempi primordiali la tendenza umana al sentimento possiede un mezzo, un rimedio eccitante e inebriante che fa parte, anch'esso, dei classici doni della vita ed è di natura semplice e sacra, dunque non viziosa, un rimedio, se mi è lecito dire, di grande statura, cioè divino, un dono che il Cielo ha fatto agli uomini, come asserirono già gli antichi popoli umanisti, la filantropica invenzione di un dio che, se lei mi permette l'accenno, accompagna persino la civiltà. Sappiamo infatti che, grazie all'arte di coltivare e pigiare l'uva, gli uomini uscirono dallo stato di barbarie e divennero civili, e oggi ancora i popoli, tra i quali cresce la vite, sono considerati- o si considerano piú civili di quelli che non l'hanno, dei cimmeri, e ciò è indubbiamente notevole, poiché significa che

l'incivilimento non dipende dall'intelletto o dalla ben articolata freddezza del pensiero, bensí dall'entusiasmo, dall'ebbrezza, dal ristorato sentimento,... non è, se posso prendermi la libertà di proporle una domanda, non è anche lei della stessa opinione? Che birba, quel Hans Castorp! O come l'aveva definito Settembrini con finezza letteraria, che "smaliziato burlone"! Incauto e persino insolente nel trattare con personalità, ma anche abile, all occorrenza, a cavarsi dall'imbroglio. In primo luogo aveva compiuto con molto garbo, in una situazione assai rischiosa e improvvisando, una riabilitazione del bere, poi, di straforo, era venuto a parlare di "civiltà" della quale se ne avvertiva ben poca nel primitivo e terrificante atteggiamento di Peeperkorn, e infine aveva scalzato e reso sconveniente questo stesso atteggiamento col proporre a colui che vi si era tutto impigliato una domanda, cui non era possibile rispondere col pugno levato. Infatti l'olandese moderò la sua antidiluviana espressione di stizza; il suo braccio scese lentamente sulla tavola, la testa si sgonfiò, "buon per te!" si leggeva nella sua faccia soltanto relativamente e a cose fatte, la burrasca dileguò, e oltre a ciò intervenne la Chauchat richiamando l'attenzione del compagno sul declino dell'interessamento che i presenti potevano avere alla riunione. Caro amico, lei trascura i suoi ospiti gli disse in francese. Si dedica troppo esclusivamente a questo signore col quale avrà da chiarire cose importanti, senza dubbio. Ma intanto il giuoco è quasi cessato e io temo che i presenti si annoino. Vogliamo chiudere la serata? Peeperkorn si rivolse subito alla brigata. Era vero: si era diffusa un'aria di scoraggiamento, di letargìa, di gravezza; gli ospiti facevano gazzarra come una classe di scolari senza sorvegliante. Alcuni stavano per addormentarsi. Peeperkorn strinse di colpo le briglie allentate. Signori! esclamò alzando l'indice,... e quell'indice a punta di lancia fu come una spada brandita o una bandiera, e il suo richiamo simile al "Chi non è un codardo mi segua!" del comandante che arresta una rotta incipiente. E l'intervento della sua personalità ebbe l'immediato effetto di svegliare e raccogliere gli sbandati. Tutti si riscossero, tesero il viso afflosciato e guardarono sorridendo il possente anfitrione, negli occhi scialbi sotto la rigatura da idolo che gli segnava la fronte. Egli si conquistò tutti e li rimise nei ranghi avvicinando il polpastrello dell'indice a quello del pollice e stendendo le altre dita ungulate. Allargò la mano da comandante come a frenare e arginare, e dal dolente squarcio delle labbra fece uscire parole la cui saltellante imprecisione, in virtú del rincalzo della personalità, esercitò il piú stringente potere sugli animi. Signori miei... bene. La carne, signori, si sa, è... Chiuso. No, mi permettano, debole, dice la Scrittura. Debole: vale a dire incline ad assoggettarsi alle esigenze... Ma io mi appello alla loro... insomma per farla breve, io mi ap-pello. Loro mi diranno: il sonno.

Bene, signori, perfetto, benissimo. Io amo e venero il sonno. Io adoro la sua voluttà dolce, profonda, ristoratrice. Il sonno è tra... come ha detto, giovanotto?... è tra i doni classici della vita fin dal primo, dal primissimo... mi scusino... dal supremo, o signori. E ora prego di notare e ricordare: Getsemani! "E presi seco Pietro e i due figlioli di Zebedeo, disse loro: 'Rimanete qui e vegliate meco'." Ricordate? "E venne a loro e li trovò che dormivano, e disse a Pietro: 'Non siete capaci di vegliare meco un ora sola? . Quale intensità, signori ! Penetrante. (,ommovente. "E tornato, li trovò che dormivano, e i loro occhi erano aggravati. E disse loro: 'Ah, volete dormire ora e riposare? Ecco, l'ora è giunta...'." Signori, parole che feriscono e trafiggono il cuore ! Difatti tutti erano profondamente commossi e umiliati. Egli aveva giunte le mani sul petto sopra la barba rada, e inclinato la testa. Il suo pallido sguardo si era spento al mortale dolore solitario, uscito dallo squarcio delle sue labbra. La signora Stohr singhiozzava. La Magnus emise un profondo sospiro. Il procuratore Paravant si sentí in dovere di rivolgere, come rappresentante, quasi deputato dei presenti, alcune parole con voce sommessa al venerato anfitrione per assicurargli che tutti lo seguivano: ci doveva essere stato, disse, un errore, tutti erano freschi e vispi, allegri e gioviali, cordialmente attenti; era una serata cosí bella, festosa, addirittura straordinaria... tutti lo capivano e sentivano, e per il momento nessuno pensava a gustare quel dono della vita che è il sonno, mynheer Peeperkorn poteva contare sui suoi ospiti, su ognuno di essi. Perfetto! Benissimo! esclamò l'olandese rizzandosi. Le sue mani si disgiunsero e si alzarono, ritte e distese, le palme all'esterno, come per una preghiera pagana. La sua grandiosa fisonomia, compresa un momento prima da un dolore gotico, rifiorí esuberante e serena; su una guancia comparve persino una fossetta sibaritica. L'ora è giunta... Si fece dare la lista, inforcò gli occhiali di tartaruga, il cui archetto gli sporgeva alto sulla fronte, e ordinò sciampagna, tre bottiglie di Mumm & Co., Cordon rouge, trés sec; e, insieme, petits fours, deliziosi pasticcini a forma di cono, ricoperti di ghiaccia colorata, della piú delicata pasta di biscotto, inumiditi nell'interno con crema di cioccolata e pistacchio, e serviti su centrini di carta dall'orlo riccamente merlettato. Gustandoli, la Stohr si leccò tutte le dita. Il signor Albin liberò con pacata destrezza il primo tappo dal carcere di filo metallico, fece sgusciare dal collo ornato e balzare al soffitto il sughero fungiforme con lo sparo d'una pistola da bambini, dopo di che, secondo un'elegante tradizione, prima di versare avvolse la bottiglia in un tovagliolo. La nobile spuma umettò il lino dei tavolini di servizio. Si fecero tintinnare i larghi calici e si vuotò il primo d'un fiato, elettrizzando lo stomaco col gelido aromatico pizzicore.

Gli occhi scintillavano. Si era smesso di giocare senza sentirsi in obbligo di sgomberare la tavola dalle carte e dal denaro. La brigata si abbandonò a un beato far niente scambiando chiacchiere sconnesse, i cui elementi derivavano in ognuno da un sentimento ravvivato e all'origine facevano le piú belle promesse, mentre poi concretandosi in comunicazioni diventavano frammentari, fiacchi, un vaniloquio, in parte indiscreto, in parte incomprensibile, tale da suscitare la stizza e la vergogna di uno che fosse arrivato là impreparato, ma sopportato senza difficoltà dagli interessati, perché tutti si cullavano nelle stesse condizioni di irresponsabilità. La stessa signora Magnus aveva le orecchie rosse e confessò di sentirsi scorrere la vita nelle vene, cosa che a suo marito non piacque. La Kleefeld, con la schiena appoggiata alla spalla di Albin, gli porgeva il calice perché mescesse. Peeperkorn dirigeva il baccanale con i suoi gesti lanceolati e provvedeva ai rifornimenti e supplementi. Dopo lo sciampagna ordinò caffè, doppio moca, che a sua volta era accompagnato dal "pane" e da liquori dolci; apricots brandy, chartreuse, creme de vanille e maraschino per le signore. Seguirono ancora filetti di pesce marinato con la birra, e infine il tè, sia quello cinese, sia quello di camomilla per chi non preferiva continuare con lo sciampagna o coi liquori o ritornare a un vino serio, come fece lo stesso Peeperkorn, il quale dopo la mezzanotte insieme con la signora Chauchat e con Castorp si era deciso per un sincero e frizzante rosso svizzero, di cui ingollò còn autentica sete un bicchiere dopo l'altro. La festevole riunione durò fino all'una di notte, mantenuta un po' dalla plumbea paralisi dell'ebbrezza, un po' dal singolare piacere di passare la notte insonne, un po' dall'impressione della personalità di Peeperkorn e dallo scoraggiante esempio di Pietro e dei suoi, la cui debolezza della carne nessuno intendeva di condividere. In complesso, la parte femminile sembrava meno in pericolo su questo punto. Mentre infatti gli uomini, rossi o smorti, allungando le gambe e gonfiando le gote mandavano giú un sorso ogni tanto, non piú animati dalla gioia di fare la loro parte, le donne erano piú attive. Hermine Kleefeld, i gomiti nudi puntati sulla tavola, le guance nelle mani, mostrava ridendo al ridente Ting-Fu lo smalto dei suoi incisivi, mentre la Stohr, civettando col mento sollevato sopra la spalla, cercava di interessare alla vita il procuratore. La signora Magnus era arrivata al punto di sedersi sulle ginocchia di Albin e di tirargli i lobi delle orecchie, la qual cosa parve che per il marito fosse un sollievo. Anton Karlovic Ferge fu invitato a raccontare la storia del suo choc pleurico, ma avendo la lingua impastata non ne fu capace e onestamente dichiarò fallimento: questo, proclamato da tutti, diede l'avvio a un'altra bevuta. Wehsal pianse un certo tempo amaramente per qualche ragione di miseria profonda, che la sua lingua non era piú in grado di rivelare al prossimo, ma con caffè e cognac il suo spirito fu rimesso in sesto; d'altro canto, coi gemiti che gli uscivano dal petto e col tremito del mento rugoso gocciolante di lacrime attirò il piú vivo interessamento di Peeperkorn, il quale con l'indice alzato e con gli arabeschi sollevati richiamò l'attenzione generale sulle sue condizioni.

Questo è... cominciò. Ma sí, è... Via, permettete; è sacro! Asciugagli il mento, figlia mia, prendi il mio tovagliolo! O, meglio ancora, no, lascia stare. Lui stesso vi rinuncia. Signori,... sacro! Sacro in tutti i sensi, sotto l'aspetto cristiano e pagano. Un fenomeno primitivo, un fenomeno del primo... del supremo... Via, questo è... Al "questo è... ma sí, è..." erano intonati tutti i suoi ordini e commenti, coi quali, abbozzando i gesti civili diventati a mano a mano un po' comici, accompagnava la manifestazione. Aveva una sua maniera di sollevare oltre l'orecchio l'anello formato dall'indice curvo e dal pollice e di allontanarne il capo per celia, suscitando sentimenti non dissimili da quelli che susciterebbe il vecchio sacerdote d'un culto forestiero che, sollevato il manto, si mettesse a ballare con strana grazia davanti all'altare. Poi abbandonato sulla sedia con tutta la sua monumentalità, un braccio posato sulla spalliera della sedia vicina, costrinse tutti a immergersi costernati nella viva e penetrante visione del mattino, di un buio e gelido mattino invernale, quando la luce giallognola della lampada sul comodino si specchia nel vetro della finestra, all'esterno, tra rami nudi e rigidi nell'ora ghiacciata e nebbiosa in cui gela il grido delle cornacchie... E per accenni seppe evocare quella prosaica scena di ogni giorno con tale evidenza che tutti rabbrividirono, specialmente quando egli menzionò l'acqua freddissima che a quell'ora ci si spreme sul collo da una grande spugna, e che egli chiamò sacra. Questa era soltanto una digressione, un istruttivo esempio di rispetto per la vita, una fantasiosa improvvisazione che sciorinò per rivolgere un'altra volta la sua insistente attività e la presenza del sentimento all'ora notturna libera e festosa. Si mostrò innamorato di tutti gli esseri femminili a portata di mano, senza predilezioni, senza tener conto dell aspetto fisico. Alla nana fece proposte tali che la storpia corrugò in un ghigno il viso troppo grande, da vecchia; disse alla Stohr gentilezze di un calibro che lei, poco fine com'era, sporse ancor piú una spalla e spinse le smancerie fino alla follia; chiese alla Kleefeld un bacio sulle grosse labbra squarciate e corteggiò persino la desolata signora Magnus: sempre senza pregiudizio della sua devota tenerezza per la compagna di viaggio, cui ogni tanto baciava la mano con galante dedizione. Il vino disse. Le donne... questo è... ma sí, è... Mi permettano... Fine del mondo... Getsemani... Verso le due esplose la notizia che "il vecchio", cioè il consigliere Behrens, a marce forzate si avvicinava alla sala di conversazione. In quel momento gli ospiti spossati furono presi dal panico. Seggiole e secchielli di ghiaccio si rovesciarono. Tutti fuggirono attraverso la sala di lettura. Peeperkorn montato su furie regali all'improvviso disperdersi della sua festa dedicata alla vita, batté il pugno sulla tavola e lanciò dietro ai fuggitivi un insulto come "pavidi schiavi", ma poi si lasciò rabbonire

fino a un certo punto da Castorp e dalla Chhauchat con la considerazione che il simposio, durato circa sei ore, doveva pur terminare; accolse anche l'invito a godere il sacro ristoro del sonno e accettò di farsi accompagnare a letto. Sorreggimi, figlia mia! E tu, giovanotto, reggimi da quest'altra parte disse alla Chauchat e a Castorp, i quali l'aiutarono ad alzare la pesante persona dalla sedia e gli porsero il braccio, di modo che, a gambe larghe, preso a braccetto, la testa possente inclinata su una delle spalle sollevate, spingendo da parte ora l'una, ora l'altra delle sue guide con le oscillazioni del passo, si avviò al riposo. In fondo si concedeva un lusso regale facendosi pilotare e puntellare a quel modo. Probabilmente, se ci avesse tenuto, avrebbe potuto camminare anche da solo,... ma disdegnava lo sforzo che poteva offrirgli soltanto il piccolo e secondario vantaggio di nascondere pudicamente la sbornia, mentre di questa non solo non si vergognava, ma anzi si compiaceva lautamente e provava un gusto regale nello spingere traballando i suoi devoti accompagnatori ora a destra, ora a sinistra. E intanto andava dicendo: Ragazzi... sciocchezze, non siamo mica... Se in questo istante... Se doveste vedere... Ridicolo. Ridicolo! confermò Castorp. Ma senza alcun dubbio noi rendiamo il suo al classico dono della vita facendoci sinceramente sballottare in suo onore. Sul serio invece... Ho anch'io la mia parte, ma nonostante la cosí detta sbornia mi rendo perfettamente conto che ho il particolare onore di accompagnare a letto una spiccata personalità, tanto poco mi domina l'ubriachezza, benché in fatto di statura non possa nemmeno paragonarmi... Oh, via, chiacchierino disse Peeperkorn spingendolo contro la ringhiera della scala e trascinando con sé la Chauchat. Evidentemente la notizia dell'arrivo di Behrens era stata un falso allarme. Poteva averla lanciata la nana stanca per sciogliere la riunione. Stando cosí le cose, l'olandese si fermò e fece per tornare indietro, a bere ancora; ma le due parti lo consigliarono per il meglio ed egli si lasciò rimettere in moto. Il cameriere malese, quell'omino in cravatta bianca e scarpe di seta nera ai piedi, aspettava il padrone nel corridoio, davanti all'uscio dell'appartamento, e lo ricevette con un inchino portandosi una mano al petto. Baciatevi ! ordinò Peeperkorn. Per finire, bacia, giovanotto, questa donna affascinante sulla fronte! disse a Castorp. Lei non avrà niente in contrario e ti ricambierà. Fatelo alla mia salute e col mio permesso! Ma Castorp rifiutò. No, Maestà! disse, mi scusi, ma non va. Peeperkorn, appoggiato al cameriere, sollevò gli arabeschi e volle sapere perché non andasse. Perché con la sua compagna di viaggio io non posso scambiare baci in fronte rispose Castorp. Le auguro buon riposo. No, da qualunque parte lo si guardi, sarebbe una vera assurdità. E siccome anche la signora andava verso la porta della sua camera, l'olandese lasciò partire il renitente, seguendolo però ancora con lo sguardo al di sopra della spalla propria e di quella del malese, con le rughe sollevate, stupefatto di un'insubordinazione che il suo carattere dominatore non doveva essere avvezzo a incontrare.

Mynheer Peeperkorn (continuazione). Mynheer Peeperkorn rimase al Berghof tutto quell'inverno... quel tanto che ne rimaneva e una buona parte della primavera, sicché alla fine si poté fare ancora in compagnia (c'erano anche Settembrini e Naphta) la memoranda escursione nel Val di Fluela alla grande cascata... Alla fine? ancora? E dopo non ci rimase più? - No, non piú. - Partí? - Sí e no. - Come, sí e no? Non facciamo misteri! Sapremo rassegnarci. Anche il tenente Ziemssen morí, per non dire di tanti altri meno onorati danzatori della morte. Il nebuloso Peeperkorn dunque fu portato via dalla febbre tropicale? - Questo proprio no, ma perché tanta impazienza? Tutto non può essere presente in una volta sola: è una condizione della vita e del racconto, e nessuno, crediamo, vorrà ribellarsi alle forme della conoscenza umana stabilite da Dio! Onoriamo il tempo almeno fin dove la natura della nostra storia lo concede! Molto non ne rimane piú, via via si avanza a rompicollo o, se vogliamo usare parole meno rumorose, si fila come il vento. Una minuscola lancetta misura il nostro tempo a passettini, come se misurasse secondi, mentre Dio sa che cosa segna quando, senza sosta e con sangue freddo, oltrepassa il culmine. Da anni, questo è certo, siamo già quassú - ci vengono le vertigini - in un sogno vizioso senza oppio o hascisc, il moralista ci condannerà... eppure contrapponiamo apposta al grave annebbiamento molta chiarezza intellettuale e molto acume logico! Non a caso - si vorrà riconoscerlo - abbiamo scelto la compagnia di persone come Naphta e Settembrini, anziché circondarci, ad esempio, di soli Peeperkorn nebulosi,... e cosí ci troviamo costretti a fare un paragone che, sotto parecchi aspetti e specialmente in riguardo alla statura, deve riuscire favorevole a quell'ultimo arrivato, come fu d'accordo anche Castorp quando. ripensandoci sul suo balcone, ammise che i due superarticolati educatori, i quali si contendevano la sua povera anima, erano nani accanto a Pieter Peeperkorn, sicché gli venne voglia d'affibbiare a loro il nome che questi, nell'ubriachezza regalmente scherzosa, aveva detto a lui, il nome di "chiacchierini"; e considerò un caso ottimo e fortunato il fatto che la pedagogia ermetica lo avesse messo ancora in contatto con una vera e propria personalità. Che questa personalità fosse apparsa all'orizzonte come compagno di viaggio di Clavdia Chauchat e rappresentasse quindi un enorme incomodo, era una questione a parte, dalla quale Castorp non si lasciò fuorviare nelle sue valutazioni. Non si lasciò fuorviare, ripetiamo, nella sua sinceramente rispettosa, anche se talvolta un po' arrogante simpatia per un uomo di tale statura,... soltanto perché aveva la cassa di viaggio in comune con la donna da cui nella notte di carnevale si era fatto prestare una matita. Non era nel suo carattere,... e qui ci aspettiamo senz'altro che taluno o taluna fra i nostri ascoltatori si scandalizzi di questa "mancanza di carattere", mentre preferirebbe che egli avesse odiato e scansato Peeperkorn dandogli mentalmente del vecchio asino e del barbugliante beone, invece di andarlo a trovare quando gli veniva la quartana, di sedersi accanto al suo letto e fare quattro chiacchiere - frase, beninteso,

adatta soltanto ai suoi contributi alla conversazione, non a quelli del solenne Peeperkorn - e di accogliere gli effetti della personalità con la curiosità di chi viaggia per istruirsi. Cosí faceva, e noi lo raccontiamo, indifferenti al rischio che a questo punto qualcuno possa ricordare Wehsal, il quale aveva portato il cappotto di, Castorp. E' un ricordo che non vuol dir nulla: il nostro eroe non era un Wehsal. La miseria profonda non era affar suo. Vero è che non era un "eroe", non faceva dipendere, cioè, dalla donna i suoi rapporti con gli uomini. Fedeli al nostro principio di non farlo né migliore né peggiore di quello che era, rileviamo soltanto che si rifiutava - non coscientemente ed espressamente, ma con animo ingenuo - di subire influssi romanzeschi che potessero distoglierlo dall'essere giusto verso il proprio sesso e dal perdere il gusto delle utili e istruttive esperienze in questo campo. Ciò potrà dispiacere alle donne... Crediamo di sapere che la Chauchat ne era istintivamente scandalizzata, ce lo fa pensare qualche osservazione pungente che si lasciò sfuggire e che noi al momento opportuno riferiremo,... ma forse proprio questa qualità faceva di lui un cosí idoneo soggetto di contesa sul piano pedagogico. Pieter Peeperkorn era spesso ammalato,... e non c'è da stupirsi se lo fu il giorno successivo a quella prima serata di giuoco e sciampagna. Quasi tutti i partecipanti alla numerosa e vivace riunione stettero male, Castorp compreso, il quale soffrí di una forte emicrania, ma non per questo fece a meno di andar a trovare l'infermo anfitrione della sera precedente. Si fece annunciare dal malese che incontrò nel corridoio del primo piano, e fu il benvenuto. Entrò nella camera a due letti dell'olandese, passando da un salottino che la separava da quella della signora Chauchat, e trovò che in confronto col tipo medio delle camere del Berghof era piú spaziosa e ammobiliata con maggiore eleganza. C'erano poltrone di seta e tavolini con le gambe arcuate; un morbido tappeto copriva il pavimento, e anche i letti erano diversi dai comuni igienici letti di morte, erano perfino magnifici, di lucido legno di ciliegio con guarnizioni d'ottone, e avevano un piccolo cielo comune, senza tendine, però: un baldacchino per unire e proteggere. L'olandese era coricato su uno dei due letti, con libri, lettere e giornali sulla trapunta di seta rossa, e con gli alti occhiali di tartaruga leggeva il Telegraaf Su una sedia accanto a lui c'era il vasellame del caffè e sul comodino una semipiena bottiglia di vino rosso - quello frizzante e sincero della sera prima - insieme con bicchieri di medicine. Con umile stupore di Castorp, Peeperkorn non portava la camicia bianca, bensí una maglia di lana con le maniche lunghe, abbottonate ai polsi e senza colletto, con la scollatura rotonda, liscia e aderente alle larghe spalle e all'ampio torace: foggia niente affatto borghese che faceva spiccare maggiormente l'umana grandezza del la testa sul guanciale e conferiva alla persona un'impronta, per un verso da popolano lavoratore, per un altro da busto commemorativo. Senz'altro, giovanotto disse afferrando gli occhiali per l'alto archetto e togliendoseli. La prego,... niente affatto.

Al contrario. E Castorp si sedette vicino a lui e nascose la sua affettuosa stupefazione - se non era autentica ammirazione il sentimento al quale lo costringeva il suo senso di giustizia - sotto un amichevole e vivace chiacchierio, secondato da Peeperkorn con grandiosi frammenti e con gecti oltremodo penetranti. Non aveva bella cera, era giallo, sofferente, deperito. Verso il mattino aveva avuto un forte attacco di febbre, e la spossatezza rimastagli aggravava le conseguenze della sbornia. Troppo abbiamo ieri sera... disse. No, no, permetta! Troppo, senz'altro. Lei è ancora... si sa, non ha importanza... Ma alla mia età, e col rischio... Figlia mia si rivolse con riguardosa, ma decisa severità alla Chauchat che stava appunto venendo dal salottino, ...bello e buono, ma ripeto anche a lei che si sarebbe dovuto stare piú attenti, impedirmi... A queste parole il viso e la voce manifestarono quasi una burrasca in arrivo. Ma bastava figurarsi che razza di temporale sarebbe scoppiato se qualcuno lo avesse seriamente ostacolato nel bere, per valutare l'ingiustizia e l'incoerenza del suo rimprovero. Ma queste cose devono far parte della grandezza. La sua compagna infatti vi passò sopra salutando Castorp che si era alzato in piedi... ma senza porgergli la mano, sol tanto con sorrisi e cenni e con l'invito a restar comodo "per carità", a non lasciarsi "minimamente" distrarre dal suo tete-à-tete con mynheer Peeperkorn... Assestò una cosa o l'altra nella camera, ordinò al cameriere di portar via il vassoio del caffè, scomparve un momento e ritornò senza far rumore per partecipare, in piedi, alla conversazione o -- se dobbiamo riferire la vaga impressione riportata da Castorp - per sorvegliarla un pochino. Si capisce! Lei poteva benissimo ritornare al Berghofinsieme con una personalità di una certa statura; ma se colui che l'aveva aspettata lí tanto tempo veniva doverosamente a riverire la personalità, da uomo a uomo, lei confessava la sua inquietudine e persino la mordacità con quel "per carità, con quel "minimamente . Castorp ne sorrise chinandosi su un ginocchio per nascondere il sorriso e, nello stesso tempo, si sentì avvampare dentro dalla gioia. Peeperkorn gli versò un bicchiere di vino dalla bottiglia che teneva sul comodino. In circostanze come quelle, spiegò l'olandese, era opportuno riallacciarsi al punto interrotto nella notte, e quel vino frizzante faceva lo stesso effetto dell'acqua di seltz. Toccarono i bicchieri e Castorp, mentre beveva, osservò la mano da comandante, lentigginosa, con le unghie appuntite, che, cinta al polso dall'abbottonatura della camicia di lana, sollevava il bicchiere, le labbra larghe e squarciate che si attaccavano al l'orlo e il vino che passava dalla saliente e scendente strozza da lavoratore o da busto scolpito. Parlarono poi della medicina che era sul comodino, di quel succo bruno di cui Peeperkorn su invito della Chauchat e dalle sue mani prese una cucchiaiata,... era un antipiretico, chinino essenzialmente; l'olandese ne diede un po' all'ospite da assaggiare, per fargli sentire il caratteristico sapore amaro e aromatico, e fece

poi ampi elogi del chinino, non soltanto benefico per la sua efficacia antibatterica, e per il salutare influsso sul centro calorico, ma anche pregevole come tonico: esso abbassa il ricambio d'albumina, favorisce l'alimentazione, è, insomma, un'autentica bevanda corroborante, un magnifico rimedio che stimola ed eccita,... oltre a tutto uno stupefacente; ed è facile prendersene una sbornietta, aggiunse scherzando con le dita e con la testa, come la sera prima, e riassomigliando al sacerdote pagano danzante. Eh, sí, ottima sostanza, la corteccia di china! Non sono passati trecento anni da quando la farmacologia del nostro continente ne ebbe notizia, né ancora un secolo da quando la chimica scoprí l'alcaloide dal quale dipendono le sue virtú, cioè la chinina... scoprí e fino a un certo punto analizzò; essa non può infatti affermare di aveme capito bene, fino a oggi, la struttura, o di essere in grado di produrlo sinteticamente. La nostra farmacognosia fa bene a non insuperbire del suo sapere, perché varie volte si è trovata nelle condizioni nelle quali si trova davanti alla chinina: sa molti particolari intorno alla dinamica e agli effetti delle sostanze, ma è nell'imbarazzo quando si tratta di spiegare a che cosa siano da attribuire gli effetti. Il giovane poteva cercare informazioni in fatto di tossicologia: nessuno gliene avrebbe date intorno alle qualità elementari che provocano l'azione delle cosí dette sostanze tossiche. Ci sono ad esempio i veleni dei serpenti,... intorno ai quali si sa soltanto che queste sostanze animali vanno annoverate fra le combinazioni di albumina, constano di diverse sostanze albuminoidi, le quali però esplicano la loro azione fulminante solo in questa determinata - cioè del tutto indeterminata - composizione; introdotte nel circolo sanguigno, producono effetti, dei quali non si può che stupirsi, perché non siamo avvezzi a mettere d'accordo albumina e veleno. Le sostanze però, soggiunse Peeperkorn sollevando l'anello dell'esattezza e le lance delle dita accanto alla testa dagli arabeschi frontali e dagli occhi pallidi, alzata dal cuscino,... tutte le sostanze contengono a un tempo la vita e la morte: tutte sono tisane e, insieme, veleni, farmacologia e tossicologia sono la stessa cosa, con veleni si guarisce e quelli che consideriamo datori di vita uccidono, in date circostanze, con un solo guizzo convulso nel giro di un secondo. Con molta insistenza e con insolito ordine parlò di tisane e veleni, e Castorp con la testa inclinata lo ascol tava annuendo, interessato non tanto al contenuto del discorso che pareva gli stesse a cuore, quanto piuttosto al silenzioso studio dell'efficacia di quella personalità che, alla fin fine, era inspiegabile come l'effetto del veleno dei serpenti. La dinamica, diceva Peeperkorn, è tutto nel mondo delle sostanze,... il resto ne è condizionato. Anche il chinino è un veleno curativo, potente anzitutto. Quattro grammi di chinino provocano la sordità, le vertigini, il fiato corto, causano disturbi alla vista come l'atropina, ubriacano come l'alcool, e gli operai nelle fabbriche di chinino hanno gli occhi infiammati e le labbra gonfie, e soffrono di eruzioni cutanee. E si mise a discorrere della cinchona, l'albero della china nelle foreste vergini delle Cordigliere dov'essa alligna a tremila metri di altitudine e donde la corteccia, chiamata "polvere dei gesuiti", arrivò assai tardi in Spagna,... mentre gli indigeni dell'America meridionale ne conoscevano da un pezzo l'efficacia; descrisse le vaste piantagioni di cinchona del governo olandese a Giava, donde si trasportano ogni anno ad Amsterdam e a Londra parecchi milioni di libbre della corteccia rossastra, simile alla cannella...

Le cortecce in genere, il tessuto corticale delle piante legnose, dall'epidermide al cambio, hanno un loro pregio, diceva Peeperkorn; possiedono quasi sempre virtú dinamiche, buone o malvage,... la conoscenza delle droghe presso i popoli di colore è molto superiore alla nostra. In alcune isole a oriente della Nuova Guinea i giovani preparano un filtro amoroso prendendo la corteccia di un dato albero, probabilmente velenoso come l'antiaris toxicaria di Giava, la quale, al pari del manzanillo, dicono che avveleni, con le sue esalazioni, l'aria tutt'intorno e sia micidiale agli animali e all'uomo: polverizzano, dunque, la corteccia di quest'albero, mescolano questa polvere con pezzetti di noce di cocco, involgono la miscela in una foglia e la mettono ad arrostire. Poi spruzzano il succo della mistura in viso alla ritrosa addormentata, e questa arde d'amore per chi l'ha spruzzata. Talvolta il pregio sta invece nella corteccia della radice, come quella di una liana dell'arcipelago malese, detta strychnos tienté, dalla quale gli indigeni, aggiungendo veleno di serpente, traggono l'upas-ragia, una droga che, entrata nel circolo sanguigno, per esempio con una freccia, provoca rapidamente la morte, senza che nessuno possa dire al giovane Castorp come ciò avvenga. Chiaro è soltanto che l'upas è dinamicamente affine alla stricnina... E Peeperkorn, ritto ora nel letto, portando ogni tanto con la mano da comandante leggermente tremula il bicchiere di vino allo squarcio delle labbra per calmare la sete con lunghi sorsi, parlò della noce vomica, albero che cresce sulle coste del Coromandel, dalle cui bacche giallo-arancione si estrae l'alcáloide piú dinamico di tutti, la stricnina... Abbassando la voce fino a un bisbiglio e sollevando la rigatura della fronte, parlò dei rami cinerei, del fogliame eccezional mente lustro e dei fiori giallo-verdi di quest'albero, di modo che Castorp vide davanti a sé l'immagine trista e ad un tempo isterico-multicolore della pianta, con un senso, tutto sommato, di raccapriccio. Ora intervenne la Chauchat facendo notare che non stava bene, che la conversazione stancava Peeperkorn, cui poteva ritornare la febbre, e per quanto le dispiacesse troncare il colloquio, doveva pregare Castorp di smettere per questa volta. Egli obbedí, naturalmente, ma altre volte nei mesi seguenti dopo un attacco di quartana, andò a sedersi accanto al letto dell'uomo regale, mentre la Chauchat andava e veniva, sorvegliando senza parere la conversazione, o anche partecipandovi con qualche parola; e anche quando Peeperkorn era sfebbrato, passava qualche ora con lui e con la sua compagna di viaggio ornata di perle. Se infatti non era costretto a letto, l'olandese si lasciava raramente sfuggire l'occasione di adunare dopo pranzo un gruppetto scelto e sempre vario di ospiti del Berghof intorno alla tavola da giuoco e alla bottiglia di vino, sia, come la prima volta, nella sala di conversazione, sia nel ristorante, dove Castorp occupava per consuetudine il posto tra l'indolente signora e l'uomo eminente; perfino all'aperto camminavano insieme, insieme facevano passeggiate, alle quali partecipavano talvolta Ferge e Wehsal e dopo un po' anche Settembrini e Naphta, gli intellettuali avversari, che non si potevano non incontrare, e che Castorp si reputò addirittura felice di poter presentare a Peeperkorn e finalmente anche a Clavdia Chauchat,... senza chiedersi menomamente se quella presentazione e quel contatto potevano essere

graditi o no ai contendenti, con la tacita fiducia che avessero bisogno d'un oggetto pedagogico e preferissero accollarsi un'appendice sgradita anziché rinunciare a esporre i loro contrasti davanti a lui. E non s'ingannò infatti nel supporre che gli appartenenti alla sua policroma cerchia di amici si sarebbero almeno avvezzati a non avvezzarsi l'uno all altro: situazioni tese, diversità di carattere, persino tacite ostilità non mancavano beninteso tra loro, e noi stessi ci meravigliamo che il nostro poco importante protagonista abbia saputo tenerli uniti intorno a sé,... ce lo spieghiamo con una certa scaltra e gioviale bonomia del suo carattere per il quale ogni cosa era "degna di essere udita"; la potremmo anche chiamare colleganza, persino nel senso che non solo legava a lui le piú disparate persone e personalità, ma fino a un certo punto le legava addirittura tra loro. Relazioni stranamente correnti e ricorrenti! Ci viene la voglia di far vedere un istante le varie fila intrecciate, come durante quelle passeggiate lo stesso Castorp le vedeva con occhio scaltro e gioviale. C'era il meschino Wehsal che ardeva dal desiderio della signora Chauchat e bassamente venerava Peeperkorn e Castorp, l'uno per l'imperioso presente, l'altro per il passato. C'era Clavdia Chauchat, la viaggiatrice malata dal passo grazioso e strisciante, soggetta all'olandese, certo per convinzione, ma pur sempre pungente e un po' inquieta, vedendo che il cavaliere di una lontana notte di carnevale era in così buoni rapporti col suo signore. Quella irritazione non somigliava un po' a quella che determinava il rapporto tra lei e il signor Settembrini, l'umanista eloquente che lei non poteva soffrire e che definiva altezzoso e disumano, l'amico del giovane Castorp, il pedagogo, al quale le sarebbe piaciuto moltissimo chiedere il significato delle parole che - nel suo idioma mediterraneo, del quale non capiva una sillaba, come lui non capiva nulla di quello di lei, ma con meno sicuro disprezzo - aveva lanciato dietro all'educato e bel giovane tedesco, a quel piccolo borghese di buona famiglia che aveva una zona umida, quando era stato sul punto di avvicinarsi a lei. Castorp, innamorato, come si dice, cotto, ma non nel senso piacevole di questo modo di dire, bensí alla maniera di chi ama quando l'amore è proibito e irragionevole e non vi si possono cantare pacifiche canzonette di pianura,... perdutamente innamorato, dunque, e quindi subordinato, soggetto, sofferente, schiavo, era però uomo da conservare, pur nella schiavitú, scaltrezza sufficiente da saper benissimo quale valore poteva avere e mantenere la sua devozione all'inferma strisciante, dagli incantevoli occhi di tartara: un valore che a lei - aggiungeva nonostante la sua dolente soggezione - poteva essere suggerito dal trattamento che le usava Settembrini, il quale confermava fin troppo apertamente la sua diffidenza, poiché le era ostile fin dove glielo consentiva la sua umanistica cortesia. Il peggio, o piuttosto, secondo il giudizio di Castorp, il vantaggio era che lei non aveva trovato un vero risarcimento neanche nei rapporti con Leo Naphta sui quali aveva pur fondato qualche speranza. Non incontrò, è vero, quella recisa negazione che il signor Lodovico opponeva alla sua persona, e anche le basi della conversazione erano piú favorevoli: discorrevano qualche volta appartati, Clavdia e il piccolo ragionatore, di libri, di problemi di filosofia politica, ed erano d'accordo sulle soluzioni radicali; Castorp vi prendeva parte col suo animo schietto. Ma una certa aristocratica limitazione del l'affabilità che l'arrivista, guardingo come tutti gli arrivisti, le dimostrava, non le dovette sfuggire; in fondo, il suo terrorismo spagnolo mal si accordava con la

vagabonda "umanità" di lei, anche se sbatteva le porte; e, ultimo e piú sottile particolare, vi si aggiungeva una lieve, difficilmente afferrabile astiosità che con fiuto femminile lei si sentiva ventare in faccia da parte di entrambi gli avversari, tanto Settembrini, quanto Naphta (come la sentiva ventare anche il suo cavaliere di carnevale), la quale proveniva dai rapporti che vigevano tra loro due e lo stesso Castorp: l'irritazione dell'educatore contro la donna in quanto elemento di disturbo e di distrazione, l'avversione tacita e di principio che li univa, perché vi si annullava il loro dissidio pedagogico. Non entrava un po' di quell'ostilità anche nel comportamento dei due dialettici verso Peeperkorn? A Castorp parve di notarlo, forse perché se l'era malignamente aspettata e in complesso era stato assaidesideroso di mettere insieme il regale barbuglione e i due "consiglieri di governo", come talvolta li chiamava tra sé per celia, e di star a vedere gli effetti. All'aperto, l'olandese non era solenne come in casa. Il feltro floscio che portava premuto sulla fronte coprendo le bianche fiamme dei capelli e la sua possente rigatura frontale, sminuiva i suoi lineamenti che, per cosí dire, si restringevano, e accorciava persino la maestà del suo naso arrossato. Era anche meno augusto quando camminava che da fermo: aveva la consuetudine di inclinare un po', a ciascuno dei suoi passetti, il gran corpo pesante e persino la testa, dalla parte del piede che stava movendo, e ciò gli conferiva, piú che un tono regale, un aspetto bonario da vecchio; e non appariva ritto in tutta la sua altezza come quando stava fermo, ma piuttosto un po' rattrappito. Ma anche cosí superava di una testa sia Lodovico Settembrini, sia a maggior ragione il piccolo Naphta,... e non solo per questo la sua presenza schiacciava i due politici come la fantasia di Castorp aveva perfettamente previsto. Era una pressione, una diminuzione, un pregiudizio derivante dal paragone,... avvertito non solo dall'astuto osservatore, ma anche, senza alcun dubbio, dagli interessati, dai gracili superarticolati come dal solenne farfuglione. Peeperkorn trattava Settembrini e Naphta con gentilezza ed estremo riguardo: con un rispetto che Castorp avrebbe chiamato ironico se non glielo avesse impedito la perfetta comprensione dell'inconciliabilità di questo concetto con quello della grande statura. I re non conoscono l'ironia,... nemmeno quale diritto e classico metodo dell'arte oratoria, figurarsi in un senso piú complicato. Perciò il contegno dell'olandese con gli amici di Castorp, sia nascosto sotto una serietà leggermente esagerata, sia del tutto manifesto, lo si poteva definire piuttosto un motteggio sottile e, ad un tempo, solenne. Sí... sí... sí... sí! era capace di dire minacciando col dito il punto dov'essi si trovavano, e volgendo dall'altra parte la testa con uno scherzoso sorriso sulle labbra squarciate. Questo è... Questi sono... Signori miei, richiamo la loro attenzione... Cerebrum, cerebrale, inteso? No, no...

perfetto, straordinario; qui si vede però... Essi si vendicavano scambiando occhiate che dopo essersi incontrate venivano rivolte al cielo, nelle quali cercavano di aver alleato anche Castorp, il quale invece faceva orecchio da mercante. Avvenne che Settembrini interpellasse direttamente l'alunno, manifestando in tal modo la sua inquietudine pedagogica. Ma, in nome di Dio, ingegnere, quello è un vecchio scemo! Mi sa dire che cosa ci trova? Può esserle utile? Non ci capisco un'acca. Tutto sarebbe comprensibile - se non proprio lodevole - qualora lo accettasse e nella sua compagnia cercasse soltanto quella della sua attuale amante. Ma è impossibile non accorgersi che lei si occupa quasi piú di lui che di lei. La scongiuro, mi spieghi, mi aiuti lei... Castorp rise. Senz'altro ! rispose. Perfetto ! Si tratta, vede... Mi permetta... Bene! E cercò anche di imitare i gesti civili di Peeperkorn. Sí, sí continuò ridendo. A lei sembra sciocco, signor Settembrini, e in ogni caso è poco chiaro... e ciò, secondo lei, è anche peggio di sciocco. Ah, La stupidità! Ci sono tante diverse specie di stupidità, e il senno non ne è la peggiore... Alto là! Ho coniato, credo, un frizzo, un mot. Le piace? Molto. Aspetto con ansia la sua prima raccolta di aforismi. Forse sono ancora in tempo per pregarla di accogliervi certe considerazioni che abbiamo fatto a proposito della misantropica natura del paradosso. Sarà fatto, signor Settembrini. Assolutamente. No, guardi, col mio mot non vado a caccia di paradossi. Tenevo soltanto ad accennare alle gravi difficoltà che procura la definizione della "stupidità" e del "senno". Che procura, dunque? E molto difficile distinguere; i due fenomeni si mescolano, si confondono... So benissimo che lei odia il guazzabuglio mistico ed è tutto per il valore, il giudizio, il giudizio sul valore, e qui sono pienamente d'accordo con lei. Ma la faccenda della "stupidità" e del "senno" è talvolta un gran mistero e deve pur essere lecito occuparsi di misteri, sempre che si faccia l'onesto sforzo di sviscerarli fin dove è possibile. Le voglio fare una domanda. Le chiedo: può forse negare che egli ci dà dei punti a tutti quanti? Parlo cosí rudemente e lei, a quanto vedo, non lo può negare. Ci dà dei punti e non so da dove gli venga il diritto di farsi beffe di noi. Da dove? perché? in che senso? Certo non per il suo senno. Ammetto che di senno non è il caso di parlare. Egli è piuttosto l'uomo dell'imprecisione e del sentimento; il sentimento è addirittura il suo baco... perdoni l'espressione popolare! Affermo pertanto- non per senno ci dà dei punti, voglio dire: non per motivi intellettuali,... Iei me lo vieterebbe e infatti lo escludo.

Ma nemmeno per ragioni fisiche! Non certo per le sue spalle da comandante, per la rude potenza del suo braccio, perché con un pugno potrebbe abbattere chiunque di noi,... egli non pensa affatto a questa possibilità, e se qualche volta ci pensa, bastano alcune parole civili per abbonirlo. Dunque, nemmeno per motivi fisici. Eppure il fisico vi ha certamente la sua parte,... non in senso bruto, ma in quello mistico,... non appena il fisico recita una sua parte, la faccenda diventa mistica...; e il fisico si converte in spirito e viceversa, e non si riesce a discernerli, stupidità e senno non si distinguono, ma l'effetto c'è, l'effetto dinamico, e c'è chi ci dà dei punti. E qui ci soccorre una sola parola, la parola "personalità". La si usa anche razionalmente, certo, dato che tutti noi siamo personalità,... morali e giuridiche e che so io. Ma qui non è intesa cosí; bensí come un mistero che sta al di là della stupidità e del senno, e di questo mistero deve pur essere lecito occuparsi,... sia per sviscerarlo nei limiti del possibile, sia, dove non è possibile, per nostra edificazione. E se lei è per i valori, la personalità, penserei, è in fin dei conti anch'essa un valore,... piú positivo della stupidità e del senno, sommamente positivo, assolutamente positivo, come la vita; insomma: un valore di vita e tale che si debba occuparsene sul serio. Questo ho creduto di doverle rispondere dopo quello che ha detto intorno alla stupidità. Negli ultimi tempi Gastorp non si confondeva né s'impappinava piú a questi sfoghi e non s'incagliava. Portava a termine la sua parte, abbassava la voce, metteva il punto e se ne andava per la sua strada, da uomo, benché arrossisse ancora e avesse un pochino di paura del critico silenzio che subentrava alla sua conclusione affinché avesse il tempo di vergognarsi. Settembrini fece seguire un silenzio, e poi replicò: Lei afferma di non essere a caccia di paradossi. E sa benissimo che altrettanto mi dispiace di vederla a caccia di misteri. Facendo della personalità un mistero, lei corre rischio di cadere nell'idolatria. Lei venera una maschera. Vede misticismo dove non è che mistificazione, una di quelle ingannevoli forme vuote con le quali il demone del fisico e della fisonomia si diletta talvolta di menarci per il naso. Non ha mai frequentato circoli di attori? Non ha mai visto quelle teste di mimi, nelle quali si fondono i tratti di Giulio Cesare, di Goethe e di Beethoven, e quei beati che li possiedono, appena aprono bocca, si danno a conoscere per i piú miseri minchioni che ci siano sotto il sole? Bene, un giuoco di natura ammise Castorp. Ma non soltanto un giuoco di natura, non soltanto una beffa. Poiché, siccome sono attori, costoro devono anche avere ingegno, e anche l'ingegno è superiore alla stupidità e al senno, è esso stesso un valore di vita. Il signor Peeperkorn - dica quel che vuole - è un uomo d'ingegno, e con questo ci dà dei punti. Metta in un angolo della stanza il signor Naphta e gli faccia tenere una conferenza su Gregorio Magno e lo stato di Dio, degna certo di essere ascoltata,... e nell'angolo opposto sta Peeperkorn con quelle sue labbra strane e le rughe sollevate sulla fronte e non dice altro che "Senz'altro! Mi permetta...

Chiuso!", vedrà che la gente si raccoglie intorno a Peeperkorn, tutti intorno a lui, e Naphta rimarrà solo con tutto il suo senno e il suo stato di Dio, benché si esprima con tale chiarezza da far erigere le ghiandole sebacee, direbbe Behrens... Si vergogni, non si adora il successo! lo ammoní Settembrini. Mundus vult decipi. Non pretendo che la gente si affolli intorno a Naphta. E' un intrigante. Ma sono disposto a entrare nelle sue file se vedo la scena immaginaria che lei mi descrive con riprovevoli elogi. Disprezzi pure ciò che è distinto, preciso, logico, le parole umanamente connesse! Le disprezzi e preferisca la ciurmeria delle allusioni e la ciarlataneria del sentimento; s'accorgerà di essere tra le grinfie del diavolo... Le assicuro però che, quando si accalora, sa fare anche un discorso filato ribatté Castorp. A un certo punto mi ha parlato di droghe e di velenosi alberi asiatici, in un modo cosí avvincente da essere quasi inquietante... ciò che interessa è sempre un po' inquietante.... e m'interessò non tanto in e per sé, ma piuttosto in relazione alla sua personalità la quale rendeva il discorso avvincente e inquietante a un tempo... S'intende, il suo debole per l'Asia lo conosciamo. Io, in verità, non sono in grado di offrire tali meraviglie replicò Settembrini con tanta amarezza che Castorp si affrettò a spiegare còme i pregi della sua conversazione e del suo insegnamento stessero ovviamente in tutt'altro, e a nessuno venisse in mente di stabilire paragoni che avrebbero fatto torto a entrambe ler parti. L'italiano però finse di non notare o disdegnò la cortesia. E continuò: In ogni caso, ingegnere, permetterà che si ammiri la sua obiettività e tranquillità d'animo. Rasenta il grottesco, ammetterà. Comunque sia... questo capocchione le ha portato via la sua Beatrice,... dico pane al pane. E lei? E' inaudito. Temperamenti diversi, signor Settembrini, differenze di calore e di cavalleria congenita. Si sa, lei, da buon meridionale, ricorrerebbe probabilmente al veleno e al coltello, e in ogni caso darebbe alla questione una tinta sociale-passionale, farebbe insomma la parte del gallo. Sarebbe certo un atteggiamento molto virile, socialmente virile e galante. Io, invece, sono diverso. Io non sono virile nel senso di chi vede nell'uomo soltanto il maschio rivale,... o forse non lo sono affatto, certo non nel modo che per istinto chiamo "sociale", non so nemmeno io perché. Nel mio cuore fiacco mi domando se gli posso rimproverare qualcosa. Mi ha forse cagionato scientemente qualche guaio? Le offese devono essere fatte con intenzione, altrimenti non sono offese. E in quanto al "cagionare", dovrei, se mai, prendermela con lei, ma non ne ho alcun diritto,... nessun diritto, in genere, e men che meno su Peeperkorn. Prima di tutto è una personalità, che già come tale affascina le donne, e in secondo luogo non è un borghese come me, ma una specie di militare, come il mio povero cugino, ha cioè un point d'honneur, un suo baco in fatto d'onore, che è il sentimento, la vita...

Sto dicendo sciocchezze, ma preferisco bamboleggiare un po' ed esprimere alla meno peggio una cosa difficile che ripetere sempre frasi tradizionali irreprensibili,... che è forse una specie di tratto militare nel mio carattere, se mi è lecito dire cosí... Lo dica pure acconsentí Settembrini. Sarebbe senza dubbio un tratto che si potrebbe lodare. Il coraggio di conoscere e di esprimere, ecco la letteratura, l'umanità... Cosí si separarono allora, passabilmente; Settembrini conchiuse il colloquio in forma conciliante, e ne aveva le sue buone ragioni. La sua posizione non era tanto invulnerabile da suggerirgli di spingere troppo in là il suo rigore; una conversazione sulla gelosia era per lui un terreno un po' sdrucciolevole; a un dato punto avrebbe dovuto rispondere, a rigore, che in considerazione della sua vena pedagogica i suoi rapporti col mondo maschile non erano proprio di natura sociale-gallesca, e perciò il potente Peeperkorn turbava i suoi circoli al pari di Naphta e di Clavdia Chauchat; e in conclusione non poteva sperare di togliere dalla mente dell'alunno l'impressione della personalità e una superiorità naturale, alla quale nemmeno lui, non solo il suo interlocutore in affari cerebrali, poteva sottrarsi. Meglio di tutto stavano nello spirare di aure intellettuali, quando disputavano, quando potevano vincolare l'attenzione dei compagni di passeggiata e concentrarla su una delle loro discussioni eleganti e, insieme, appassionate, accademiche, tenute in un tono come se si trattasse dei piú scottanti problemi del giorno e della vita; ed erano quasi soli a farne le spese e per tutta la durata la "statura" presente era, in certo qual modo, neutralizzata, poiché li poteva accompagnare soltanto con lo stupore delle rughe sollevate, e con mozziconi di frasi vaghe e ironiche. Ma pur in queste circostanze esercitava la sua pressione, copriva come un'ombra la conversazione che pareva ne perdesse lo splendore, la svuotava in un certo senso, le opponeva un ostacolo che tutti sentivano, anche se lui non ne era cosciente o lo era Dio sa fin a qual punto, sicché nessuna delle due cause se ne avvantaggiava, mentre l'importanza decisiva del dibattito impallidiva ed esso - ci facciamo scrupolo a dirlo - ne riceveva l'impronta della superfluità. Oppure, se ci proviamo con altre parole: la spinosa polemica dov'era questione di vita o di morte si riferiva sempre furtivamente, per vie sotterranee e indeterminate, alla "statura" che le camminava al fianco e si svigoriva a questo magnetismo. Non c'è altro modo di definire questo processo segreto e per i contendenti alquanto increscioso. Possiamo dire soltanto che, se non ci fosse stato Peeperkorn, gli altri si sarebbero sentiti piú rigorosamente obbligati a prendere partito, quando, ad esempio, Naphta difese la natura arcirivoluzionaria della Chiesa contro la dottrina di Settembrini: il quale pretendeva di scorgere in questa potenza storica soltanto la protettrice dell'oscurantismo e della conservazione e attribuiva tutta la gioiosa affermazione della vita e dell'avvenire - disposta alla rivoluzione e al rinnovamento - agli opposti illuministici princípi della scienzia e del progresso, provenienti da una gloriosa epoca di rinascita della cultura antica; e su questa professione di fede insisteva col piú bello slancio del la parola e del gesto. Allora Naphta, freddo e tagliente, si dichiarò pronto a mostrare (e lo mostrò quasi fino a un'abbagliante incontestabilità) che la Chiesa, quale personificazione dell'idea ascetico-religiosa, ben lontana intimamente dall'essere partigiana e sostegno di ciò che vuol sopravvivere, cioè della cultura laica, dei regolamenti giuridici statali,... ha invece sempre perseguito un programma, quanto mai radicale, di

sconvolgimento dalle radici; che tutto quanto si reputa degno di essere conservato, tutto ciò che i fiacchi, i codardi, i conservatori, i borghesi tentano di conservare: stato e famiglia, arte e scienza laica,... è sempre stato in cosciente o inconsapevole contraddizione con l'idea religiosa, con la Chiesa, la cui innata tendenza, la cui inviolabile meta è l'abolizione di tutti gli attuali ordinamenti secolari e il rinnovamento della società sul modello dell'ideale e comunista stato di Dio. La parola passò poi a Settembrini che, perdiana!, se ne seppe anche servire. Deplorevole è, disse, una siffatta confusione tra l'infernale idea della rivoluzione e la rivolta generale di tutti i mali istinti. La smania innovatrice della Chiesa è consistita, durante i secoli, nell'inquisire, strangolare, soffocare nel fumo dei roghi il pensiero generatore di vita, e oggi manda i suoi emissari a dichiarare che è rivoluzionaria, con la motivazione che tende a sostituire alla libertà, alla cultura e alla democrazia, la dittatura della plebe e la barbarie. Eh, in verità, una spaventosa specie di logicità contraddittoria, di contraddizione logica... Non mancavano, ribatté Naptha, al suo avversario quella contraddizione e quella coerenza. Democratico per sua definizione, aveva parole poco amichevoli per il popolo e per l'uguaglianza, rivelava invece una condannabile albagia aristocratica in quanto chiamava plebe il proletariato mondiale, chiamato ad assumere la dittatura. Democratico era però, in verità, rispetto alla Chiesa la quale, bisogna riconoscerlo con orgoglio, è la piú nobile potenza della storia umana,... nobile nell'ultimo e supremo significato, in quello dello spirito. Lo spirito ascetico, infatti, - se è lecito parlare per pleonasmi -, lo spirito della negazione del mondo, dell'annientamento del mondo, è la nobiltà in persona, il principio aristocratico piú genuino; che non può mai essere popolare, e in tutti i tempi la Chiesa è stata, in fondo, poco popolare. Se si fosse dedicato un po' allo studio della civiltà medievale, il signor Settembrini se ne sarebbe accorto,... avrebbe notato la rude antipatia che il popolo - e precisamente il popolo nel piú ampio significato della parola - aveva nutrito contro il mondo ecclesiastico, certe figure di monaci, per esempio, che, invenzione della fantasia poetica popolare, avrebbero contrapposto al pensiero ascetico, in maniera ormai nettamente luterana, il vino, la donna e il canto. Tutti gli istinti dell'eroismo laico; tutto lo spirito guerriero, nonché la poesia cortese era stata in piú o meno aperta opposizione all'idea religiosa e quindi alla gerarchia. Tutto questo infatti era "il mondo", era plebeo, a paragone della nobiltà dello spirito rappresentata dalla Chiesa. Settembrini lo ringraziò di avergli rinfrescato la memoria. La figura del monaco Ilsan nel Roseto rappresenta molti lati confortanti di fronte al sepolcrale spirito aristocratico qui elogiato, e pur non essendo amico del riformatore tedesco, al quale si era fatta un'allusione, lui, Settembrini, era dispostissimo a prendere le difese di tutto l'individualismo democratico insito nella sua dottrina, contro qualsiasi voglia ecclesiastico-feudale di signoreggiare la personalità. Come? esclamò a un tratto Naphta. Si pretendeva di attribuire alla Chiesa addirittura una mancanza di spirito democratico, di comprensione del valore della personalità umana? Che dire dell'umana spregiudicatezza del diritto canonico che -

mentre quello romano faceva dipendere la capacità giuridica dal possesso del diritto di cittadinanza e quello germanico la vincolava all'appartenenza al popolo e alla libertà personale - esige soltanto la comunità ecclesiastica e l'ortodossia, si sbarazza di ogni riguardo statale e sociale e ammette la capacità di testare e di succedere degli schiavi, dei prigionieri di guerra, dei servi? Questa affermazione, osservò Settembrini in tono mordace, era probabilmente sostenuta da un segreto riferimento alla "porzione canonica" che ogni testamento doveva rendere. Parlò poi di "demagogia pretina", chiamò affabilità d'un'assoluta brama di potere quella di sommuovere i bassifondi abbandonati ovviamente dagli dei, e asserí che, come si vede, la Chiesa tiene piú alla quantità delle anime che alla loro qualità, e ciò è indizio di scarsa nobiltà spirituale. Mancanza di nobiltà nella Chiesa? L'attenzione di Settembrini fu richiamata sull'inesorabile spirito aristocratico che aveva suggerito l'idea dell'onta ereditaria, della trasmissione di gravi colpe ai discendenti che, democraticamente parlando, sono innocenti; come per esempio, la macchia perpetua e l'illegittimità dei figli naturali. Ma Settembrini pregò di non parlarne,... anzitutto perché il suo senso di umanità vi si ribellava, in secondo luogo perché era stufo di raggiri, e nelle manovre delle apologie avversarie scorgeva da per tutto l'infame e diabolico culto del nulla, che pretendeva di chiamarsi spirito e presentare la confessata impopolarità del principio ascetico come un fatto pienamente legittimo e sacro. A questo punto Naphta chiese il permesso di scoppiare in una risata. Si parlava di nichilismo della Chiesa! del nichilismo del piú realistico sistema di governo che la storia universale abbia mai visto! Il signor Settembrini dunque non era mai stato sfiorato da un soffio di quell'umana ironia, con cui la Chiesa fa continue concessioni al mondo, alla carne, vela con saggia condiscendenza le ultime conseguenze del principio e assegna allo spirito la parte di influsso regolatore, senza opporsi alla natura con eccessivo rigore? Non aveva quindi mai sentito parlare nemmeno del sottile sacerdotale concetto di indulgenza che comprende persino un sacramento, quello del matrimonio, il quale non è, come gli altri sacramenti, un bene positivo, ma soltanto uno scudo contro il peccato, conferito soltanto per limitare la concupiscenza sensuale e la smoderatezza, di modo che vi si afferma il principio ascetico, l'ideale della castità, senza che per questo si muova contro la carne con insolito rigore. Settembrini non poté fare a meno di protestare contro un cosí abominevole concetto della "politica", contro il gesto di presuntuosa indulgenza e saggezza che lo spirito - il sedicente spirito - si arrogava verso il suo contrario, presunto colpevole da trattarsi "politicamente", il quale in verità non ha alcun bisogno della sua velenosa indulgenza; contro la dannata dualità d'un'interpretazione del mondo che indiavola l'universo, cioè tanto la vita quanto, ad un tempo, il suo preteso contrario, lo spirito: poiché, se quella è cattiva, lo dev'essere anche questo in quanto pura negazione! E spezzò una lancia in favore dell'innocenza della voluttà - e qui Castorp pensò alla sua stanzetta di umanista sotto il tetto, col leggío, le sedie impagliate e la bottiglia dell'acqua, - mentre Naphta, sostenendo che la voluttà non può essere mai incolpevole, e la natura debba avere, per favore, di fronte allo spirito la coscienza poco pulita, definiva "amore" la politica ecclesiastica e l'indulgenza dello spirito, per confutare il nichilismo del principio ascetico,... dove Castorp notò che la parola "amore" aveva un suono molto curioso sulle labbra dell'aspro, esile, piccolo Naphta...

Cosí continuarono, il giuoco lo conosciamo, come lo conosceva Castorp. Insieme con lui siamo stati un po' a sentire per osservare come, ad esempio, uno di quei conflitti peripatetici si presentasse all'ombra della personalità che li accompagnava, e in che modo quella presenza gli spezzasse il nerbo: in modo cioè che una segreta necessità di prenderne nota uccideva la scintilla scattante fra le due parti e imponeva di pensare a quel senso di fiacca mancanza di vita che ci prende quando una linea elettrica risulta fuori del circuito. Ecco, cosí avveniva. Non c'era piú il crepitio tra le contraddizioni, né il guizzo del lampo, né la corrente,... la presenza, neutralizzata dallo spirito (come questo s'illudeva che fosse), neutralizzava invece lo spirito, Castorp lo notava con stupore e curiosità. Rivoluzione e conservazione,... tutti fissarono Peeperkorn, lo si vedeva arrancare, non molto in gamba, con quel passo rollante, il cappello calcato sulla fronte; si vedevano le sue labbra larghe, irregolarmente squarciate, e lo si udiva dire, mentre col capo indicava celiando i contendenti: Già... già... già! Cerebrum, cerebrale, capite? Questo è... Qui però si vede... , ed ecco, la presa di corrente era morta e sepolta! Essi ritentarono, passarono a scongiuri piú efficaci, vennero a parlare del "problema aristocratico", della popolarità e nobiltà. Nessuna scintilla scoccava. Per forza magnetica la conversazione assunse riferimenti personali: Castorp vedeva il compagno di Clavdia a letto, sotto la trapunta di seta rossa, in camicia di maglia senza colletto, un po' vecchio operaio, un po' busto regale,... e con deboli guizzi il nerbo della disputa si spense. Tensioni piú energiche! Negazione e culto del nulla da una parte - eterno sí e amorosa inclinazione dello spirito attraverso la vita dall'altra! Dov'erano il nerbo, il lampo, la corrente quando si guardava l'olandese,... cosa inevitabile in virtú d'una segreta attraZione? In breve, "non c'erano", e questo, a detta di Castorp, era né piú né meno che un mistero. Per la sua col lezione di aforismi poteva notare che un mistero olo si esprime con le parole piú semplici,... o non lo si esprime affatto. In ogni caso per esprimere quello si poteva dire soltanto - ma senza peli sulla lingua - che Pieter Peeperkorn, con la sua rugosa maschera regale e le sue labbra amaramente squarciate, era di volta in volta l'uno e l'altro, che l'uno e l'altro gli si adattavano e a chi lo guardava, pareva si annullassero in lui: questo e quello, l'uno e l'altro. Eh, sí, quello stupido vecchio, quello zero dominatore stroncava il nerbo delle controversie, non, come Naphta, con intrighi e confusioni; non era ambiguo come lui, lo era in modo opposto, positivo, ... quel barcollante mistero che palesemente aveva superato non solo la stupidità e il senno, ma anche tante altre antitesi che Settembrini e Naphta mettevano sul tappeto per produrre l'alta tensione a scopo educativo. La personalità non è, pare, educativa,..: eppure quale occasione è per chi viaggia con lo scopo d'istruirsi! Come era strano osservare quell'ambiguità regale, quando i disputanti vennero a discorrere di matrimonio e peccato, del sacramento dell'indulgenza, di colpa e innocenza della voluttà! Egli : chinò la testa sulla spalla e sul petto, le sue dolenti labbra si staccarono, la bocca si aprí in un fiacco lamento, le narici si tesero

e allargarono come per un dolore, le rughe della fronte si sollevarono ingrandendo gli occhi a un pallido sguardo di sofferenza... il ritratto dell'amarezza. Ed ecco, nel medesimo istante il viso martoriato fiorí rigoglioso! L'inclinazione del capo mutò significato, denotò scaltrezza, le labbra ancora aperte sorrisero impudiche, la fossetta sibaritica, nota da casi precedenti, comparve su una guancia,... era di nuovo il sacerdote danzante e, mentre col capo indicava celiando il settore cerebrale, lo si udí mormorare: aGià, già, già... perfetto. Questo è... Questi sono... Ecco, qui si vede... Il sacramento della voluttà, Capite?... . Eppure, ripetiamo, i destituiti amici e maestri di Castorp continuarono a sentirsi piú che mai a loro agio solo quando potevano litigare. Allora erano nel proprio elemento, mentre la "statura" non lo era, e della parte che vi faceva si potevano certo dare giudizi diversi. Senza alcun dubbio, invece, erano in svantaggio quando non si trattava piú di parole e spirito e acume, ma di cose terrene, pratiche, insomma di questioni e argomenti nei quali danno buona prova i caratteri imperiosi: allora erano liquidati, entravano nell'ombra, non facevano figura, e Peeperkorn afferrava lo scettro, stabiliva, decideva, ordinava, prescriveva, comandava... C'è da stupirsi se cercava di passare dalla logomachia a queste altre condizioni? Soffriva fin che quella si svolgeva o almeno quando andava troppo per le lunghe; ma non vi soffriva per vanità,... Castorp ne era convinto. La vanità non ha statura, e la grandezza non è vanitosa. In Peeperkorn il desiderio di cose tangibili proveniva da altri motivi: dalla "paura", per dirla in soldoni, da quello zelo nell'adempiere il suo dovere, da quel punto d'onore che Castorp aveva menzionato in via di prova davanti a Settembrini definendolo un tratto quasi militare. Signori... disse l'olandese alzando, con imperioso gesto di scongiuro, la mano da comandante con le unghie appuntite, a . . . bene, signori, perfetto, eccellente ! L'ascesi... l'indulgenza... il piacere dei sensi... Io vorrei... senz'altro! Molto importante! Molto controverso! Ma mi permettano... Credo che ci rendiamo colpevoli di un grave... Ci sottraiamo, signori miei, ci sottraiamo da irresponsabili ai piú sacri... Respirò profondamente. Quest'aria, signori, la schietta aria sciroccale di questa giornata, con quella punta un po' snervante di aroma primaverile, piena di presentimenti e di ricordi,... non dovremmo empircene i polmoni per espirarla sotto forma di... Mi facciano il piacere: no, non dovremmo. E' un offesa. Soltanto ad essa dovremmo consacrare tutta la nostra... sí, la nostra somma... con la massima presenza di spirito... chiuso! E dal nostro petto dovremmo... sí, sol tanto il puro elogio delle sue buone qualità... Mi interrompo, signori! Mi interrompo in onore di questa...

Si era fermato guardando in aria e riparandosi gli occhi col cappello, e tutti lo imitarono. Richiamo disse la loro attenzione alle regioni alte, altissime, a quel punto nero lassú che ruota, sotto lo straordinariamente azzurro, quasi nerastro... Quello è un uccello rapace, un grosso rapace. Se non mi... Signori, e lei, figlia mia, quella è un'aquila. A quella richiamo decisamente... Vedono? Non è una poiana, non è un avvoltoio,... Se foste presbiti come me che col crescere... Sí, figlia mia, proprio col crescere. Ho i capelli quasi bianchi. Notereste chiaramente, come me, dalla curva smussata delle ali... Un'aquila, signori. Un'aquila reale. Ruota esattamente sopra di noi nell'azzurro, si libra senza battere le ali a grandissima altezza sopra le nostre... e con i suoi occhi potenti, acutissimi, di sotto all'arcata sopracciliare spia... L'aquila, signori miei, l'augello di Giove, la regina della sua famiglia, leonessa dell'aria! Porta calzoni di piume, ha il becco di ferro dalla curva improvvisa, e artigli d'una forza inaudita, unghie ricurve all'interno, le anteriori strette dalla lunga posteriore. Ecco, cosí. E con I unghiuta mano da comandante tentò di imitare l'artiglio dell'aquila. Comare, che stai rotando e spiando costí? domandò guardando di nuovo in alto. Piomba giú ! Col piscila col becco di ferro sulla testa e negli occhi, sbranale il ventre, alla creatura che Dio ti... Perfetto. Chiuso! Le tue grinfie devono impigliarsi nei visceri e il tuo becco grondare di sangue... Era ispirato, e l'interessamento del gruppo alle antinomie di Naphta e Settembrini bell'e dileguato. L'apparizione dell'aquila influí silenzio'samente anche sulle decisioni e le imprese che seguirono sotto la direzione del l'olandese: si fece tappa a una locanda per mangiare e bere, del tutto fuori orario, ma con un appetito che era stimolato dal tacito ricordo del rapace: una bisboccia e una trincata come quelle che mynheer Peeperkorn improvvisava spesso anche fuori del Berghof, dove capitava, a Platz e a Dorf, o nelle osterie di Glaris e Klosters, mete di gite col trenino. Sotto il suo governo si pappavano doni classici: caffè con la panna e pane rustico e saporoso formaggio sopra uno strato di olezzante burro alpino, meravigliosamente gustoso anche con le caldarroste scottanti, con vino rosso della Valtellina a volontà; Peeperkorn accompagnava lo spuntino improvvisato con gran frasi tronche o dava la parola a Ferge, il paziente rassegnato, cui tutte le cose elevate erano estranee, mentre invece sapeva parlare in maniera molto concreta della produzione di calosce in Russia: la massa di gomma era trattata con zolfo e altre sostanze e le soprascarpe pronte e verniciate venivano "vulcanizzate" a un calore di oltre cento gradi. Parlava anche del Circolo polare, perché i suoi viaggi di servizio l'avevano portato piú volte anche là: e del sole di mezzanotte e dell'inverno perpetuo al Capo Nord.

Là, diceva, mentre le parole gli uscivano dalla grossa gola e di sotto ai baffi spioventi, il piroscafo gli era sembrato piccolissimo di fronte all'enorme roccia e alla distesa del mare grigio come l'acciaio. E nel cielo erano apparsi squarci di luce gialla: l'aurora boreale. E tutto era parso a lui, Anton Karlovic, un quadro fantastico: quello scenario e lui stesso. Cosí diceva Ferge, l'unico della piccola brigata che stesse fuori dall'intreccio di quelle reciproche relazioni. In quanto a queste abbiamo da registrare due brevi col loqui, due memorabili conversazioni a quattr'occhi, avute allora dal nostro non eroico eroe con Clavdia Chauchat e col suo compagno di viaggio: con ciascuno a parte, l'una nel vestibolo una sera, mentre il "disturbo" era lassú con la febbre, l'altra un pomeriggio presso il letto dell'olandese. Quella sera l'atrio era semibuio. La solita riunione era stata fiacca e fugace, e assai presto gli ospiti si erano ritirati nelle loro logge per l'ultima cura della giornata, a meno che non avessero preso le vie contrarie alla cura, per scendere nel mondo a ballare e giocare. Una sola lampada era accesa al soffitto del locale deserto, e anche le salette adiacenti erano quasi al buio. Castorp però sapeva che la Chauchat, la quale aveva cenato senza il suo signore, non era ancora risalita al primo piano, ma se ne stava sola nella sala di lettura e scrittura, e perciò anche lui si era attardato. Stava seduto nella parte interna del vestibolo, che un basso gradino sopralzava e alcuni archi bianchi su pilastri rivestiti di legno separavano dal resto del locale, accanto al caminetto di maiolica, su una sedia a dondolo uguale a quella, su cui si era cullata Marusja quando Joachim aveva conversato con lei la sola e unica volta, e fumava una sigaretta, che a quell'ora era certamente lecita. Lei venne, egli ne udí dietro a sé i passi, il vestito, e gli arrivò accanto sventolando una lettera che teneva per un angolo e con la sua voce da Pribislav disse: Il portiere se n'è andato. Da bravo, tiri fuori un francobollo ! Portava un abito di leggera seta scura, con la scollatura rotonda e maniche larghe, strette in fondo da pol sini abbottonati. Era l'abito che a lui piaceva piú di tutti. Lei si era messa la collana di perle che nella penombra mandava pallidi bagliori. Egli alzò gli occhi e guardando la faccia chirghisa rispose: Francobolli? Non ne ho. Come, non ne ha? Tant pis pour vous. Cosí poco disposto a far piacere a una signora? Torse le labbra e alzò le spalle. E' una delusione. Precisi e fidati dovreste essere. M'ero illusa che in uno scomparto del portafoglio tenesse piccoli fogli di tutte le specie, ordinati per valori. No. A che scopo? replicò lui. Non scrivo mai lettere. A chi dovrei scriverle? Molto di rado una cartolina, e quelle sono già affrancate. A chi dovrei mai scrivere lettere? Non ho nessuno. Non ho piú contatti con la pianura, per me è scomparsa. Nella nostra raccolta di canti popolari c'è una canzone che dice: "Per me scomparso è il mondo".

Questa è la mia posizione. Be', allora, figliol prodigo, mi dia almeno una papyros! disse sedendosi di fronte a lui, vicino al caminetto, sulla panca coperta da un cuscino di tela, accavallando le gambe e stendendo la mano. Di queste è provvisto, a quanto pare. .E distratta, senza neanche ringraziare, prese la sigaretta dall'astuccio d'argento che egli le porgeva, e si serví dell'accendino tascabile che egli le fece scattare davanti al viso proteso. Quel pigro "da bravo, tiri fuori" e quel prendere senza ringraziare erano propri della donna ricca e viziata, ma indicavano anche un senso di comunità umana, di possesso solidale, d'un'arbitraria e molle naturalezza nel dare e nel prendere. Egli ne fece la critica da innamorato. Poi disse: Oh, di queste sempre. Sí, di queste sono sempre provvisto. Sono necessarie. Come si farebbe a vivere senza? E' quella che si dice una passione, non è vero? Io, confesso, non sono un uomo appassionato, ma ho qualche passione, passioni flemmatiche. Mi tranquillizza moltissimo disse lei emettendo con le parole il fumo sentire che lei non è un uomo appassionato. D'altronde, come sarebbe possibile? Lei dovrebbe aver tralignato. Che cos'è la passione? Vivere per amore della vita. Ma è noto che voi vivete per amore dell'esperienza. Passione vuol dire essere dimentichi di se stessi. Voi invece volete arricchire voi stessi. C'est la. Non immagina che codesto è detestabile egoismo e con esso sarete considerati un giorno nemici dell'umanità? Ohi, ohi, addirittura nemici dell'umanità? Che dici mai, Clavdia, perché generalizzi cosí? Pensi a qualcosa di concreto e personale affermando che noi non teniamo a vivere, ma ad arricchirci? Voi donne non moraleggiate a vanvera. Oh, la morale, tu sapessi: è un oggetto di dispute fra Naphta e Settembrini. Fa parte della grande confusione. Come si fa a sapere se si vive per amore di sé o per amore della vita? Non lo può sapere nessuno con certezza. Il limite, intendo, è fluido. C'è l'abnegazione egoistica, e c'è l'egoismo pieno di abnegazione... Credo che in complesso sia come nell'amore. E' immorale probabilmente che io non possa seguire bene ciò che mi dici in fatto di morale, ma sia lieto anzitutto che stiamo qui insieme come una sola volta finora e mai piú da quando sei ritornata. E che ti possa dire quanto ti stanno bene codesti polsini stretti e codesta seta sottile e ampia intorno alle tue braccia, ... alle tue braccia che io conosco... Me ne vado. No, non andar via, ti prego! Terrò conto delle circostanze e delle personalità. Su questo si potrà almeno contare in un uomo senza passioni. Ecco, vedi? Tu mi canzoni e mi rimproveri quando io...

E minacci di andartene quando... Si prega di parlare con meno lacune, se si desidera essere compresi. E io non dovrei quindi fruire affatto, nemmeno un briciolo, della pratica che hai nell'indovinare e colmare lacune? E' ingiusto, ... direi, se non mi rendessi conto che qui non si tratta di giustizia... Certo che no. La giustizia è una passione flemmatica. Il contrario della gelosia con la quale certa gente flemmatica si renderebbe assolutamente ridicola. Vedi? Ridicola. Concedimi dunque la mia flemma! Ripeto: come farei a vivere senza? Come potevo, senza questa, sopportare, per esempio, l'attesa? L'attesa di che cosa? Ho atteso te. Voyons, mon ami. Non voglio soffermarmi sulla forma in cui mi rivolge la parola con insensata ostinazione. A un certo momento si stancherà, e poi non sono schifiltosa, non sono una borghese indignata... No, perché sei malata. La malattia ti dà la libertà. Essa ti rende... ecco, ora mi sovviene,la parola che non ho mai usata! Ti rende geniale. Del genio discorreremo un'altra volta. Non volevo dir questo. Desidero una cosa: lei non vorrà far credere che io c'entri in qualche modo con la sua attesa - se pur ha atteso - che l'abbia incoraggiata, che gliel'abbia sol tanto permesso. Lei mi confermerà immediatamente che è vero il contrario... Certo, Clavdia, volentieri. Tu non mi hai mai invitato ad aspettare, no, ho atteso di mia spontanea volontà. Capisco benissimo che tu dia tanta importanza... Persino le sue concessioni sono un po' impertinenti. In genere, lei è un impertinente, Dio sa perché. Non solo nei rapporti con me, ma sempre. Persino la sua ammirazione, la sua subordinazione hanno un che d'impertinente. Non creda che io non me ne accorga! Per questo non dovrei neanche discorrere con lei, anche perché osa parlare di attesa. E' imperdonabile che lei sia ancora qui. Da un pezzo dovrebbe essere al suo lavoro, sur le chantier, o dovunque fosse... Adesso, Clavdia, le tue parole non rivelano alcun genio, sono convenzionali. E' soltanto un modo di dire. Non puoi essere del parere di Settembrini e degli altri. Sono parole buttate là, non posso prenderle sul serio. Non ricorrerò a una partenza arbitraria come il mio povero cugino che, come avevi pronosticato, morí quando tentò di far servizio in pianura, e forse sapeva anche lui che sarebbe morto, ma preferì morire che fare qui il servizio sulla sedia a sdraio. Certo, per questo era soldato. Io invece non lo sono, sono un borghese, per me sarebbe diserzione fare come lui e volere partout, ad onta del divieto di Radamanto, mettermi, in pianura, al servizio dell'utilità e del progresso.

Sarebbe la piú grande ingratitudine e infedeltà verso la malattia e il genio, verso il mio amore per te, del quale porto vecchie cicatrici e nuove ferite, e verso le tue braccia che conosco,... anche se concedo che soltanto in sogno, in un sogno geniale, le conobbi, sicché a te beninteso non ne derivano conseguenze e obblighi e limitazioni della tua libertà... Con la sigaretta in bocca lei rise stringendo gli occhi tartari e, appoggiate le spalle al rivestimento di legno, le mani puntate sulla panca, una gamba sopra l'altra, dondolò il piede infilato nella scarpa di vernice nera. Quelle générosité ! Oh là, là, vraiment, proprio cosí ho immaginato sempre un homme de génie, mio povero piccolo ! Lascia andare, Clavdia. Io per natura non sono certo un homme de génie, come non sono una "statura", Dio mio, no. Ma poi il caso - chiamalo caso - mi ha portato molto in alto, in queste regioni geniali... Insomma, tu forse non sai che esiste una pedagogia alchimisticoermetica, una transustanziazione, e precisamente verso l'alto, un potenziamento dunque, se il tuo pensiero mi segue. S'intende però che una materia adatta a essere spinta e costretta da influssi esterni a salire verso l'alto deve in partenza possedére qualche predisposizione. La mia - lo so benissimo - consiste nell'avere da gran tempo una certa familiarità con la malattia e con la morte e dall'essermi fatto prestare irragionevolmente, fin da ragazzo, una matita da te, come qui nella notte di carnevale. Ma l'amore irragionevole è geniale, poiché, sai, la morte è il principio geniale, la res bina, il lapis philosophorum, ed è anche il principio pedagogico, perché l'amore di essa conduce all'amore della vita e dell'uomo. Cosí è, cosí ho intuito nella mia loggia, e sono felice di potertelo dire. Ci sono due strade che conducono alla vita: l'una è la solita, diretta, onesta. L'altra è brutta, porta attraverso la morte, ed è la strada geniale. Sei un bel matto di filosofo disse lei. Non dirò di aver capito tutto il tuo arruffato pensiero tedesco, ma ciò che dici mi sembra umano, e tu sei senza dubbio un buon ragazzo. D'altro canto, bisogna riconoscere, ti sei comportato davvero en philosophe. Troppo en philosophe per il tuo gusto, vero, Clavdia Smetti di fare l'impertinente! Finisce per annoiare. Che tu abbia aspettato, fu una trovata sciocca e illecita. Ma non mi serbi rancore di aver aspettato invano, vero? Ecco, è stato un po' duro, Clavdia, anche per un uomo di passioni flemmatiche,... duro per me e duro da parte tua, che tu sia venuta con lui, poiché tu avevi saputo beninteso da Behrens che ero qui e ti aspettavo. Ma ti ho già detto che la considero un sogno, quella notte nostra, e ti concedo la tua libertà. In fondo non ho atteso invano, perché sei di nuovo qui, e stiamo vicini come allora, ascolto la meravigliosa intensità della tua voce, da molto tempo ben nota alle mie orecchie, e sotto codesta seta cosí ampia sono le tue braccia che conosco... anche se, là sopra, il tuo compagno di viaggio ha la febbre, il grande Peeperkorn, che ti ha regalato codeste perle... E col quale lei per arricchirsi ha stretto una cosí buona amicizia. Non avertene a male, Clavdia! Anche Settembrini me l'ha rinfacciato, ma non è che un pregiudizio sociale. Quell'uomo è un acquisto,...

Dio buono, è una personalità. Che sia avanti negli anni,... be', ciò nonostante capirei benissimo se tu, donna, lo amassi svisceratamente. Molto lo ami dunque? Con tutto il rispetto per la tua filosofia, piccolo Hans tedesco disse lei passandogli una mano sui capelli, non reputerei umano parlarti del mio amore per lui. Oh, Clavdia, perché no? Credo che lo spirito di umanità cominci dove le persone non geniali pensano che finisca. Parliamo pure di lui tranquillamente ! Lo ami appassionatamente? Lei si chinò per gettare il mozzicone della sigaretta nel caminetto e stette con le braccia conserte. Egli mi ama rispose, il suo amore mi rende orgogliosa e grata e a lui devota. Tu capirai, altrimenti non sei degno dell'amicizia che ha per te... Il suo sentimento mi costrinse a seguirlo e a servirlo. O che altro? Giudica tu! E' umanamente possibile non tener conto del suo sentimento? Impossibile! confermò Castorp. Ovviamente era escluso. Come poteva una donna non tener conto del suo sentimento, della sua ansia per il sentimento, e piantarlo in asso, per cosí dire, a Getsemani...? Non sei sciocco osservò lei, e trasognata teneva fissi gli occhi obliqui. L'intelligenza non ti manca. Ansia per il sentimento... Non occorre molta intelligenza per vedere che hai dovuto seguirlo, benché... o meglio, perché... il suo amore deve essere molto inquietante. C'est exact... Inquietante. C'è da stare molto in pensiero per lui, sai, le difficoltà... Gli aveva preso una mano e inconsciamente giocherellava con le falangi, ma a un tratto alzò lo sguardo, con le sopracciglia aggrottate, ed esclamò: Un momento! Non è volgare parlare di lui come stiamo facendo? Certo che no, Clavdia. Neanche lontanamente. Non è altro che umano. A te piace questa parola, dalle tue labbra l'ho udita sempre con interesse. A mio cugino Joachim non piaceva, per motivi militari. Significa, diceva, l'indolenza, la fiacchezza generale, e intesa cosí, come sconfinato guazzabuglio di tolleranza, confesso che anch'io ho i miei dubbi in proposito. Ma quando sta a significare libertà e genio e bontà, è pur una gran cosa, e possiamo usarla tranquillamente a vantaggio del nostro colloquio su Peeperkorn e sulle difficoltà e preoccupazioni che ti dà. Esse infatti derivano dal suo baco sull'onore, dalla sua trepidazione che il sentimento abbia a fal lire, la quale lo rende cosí attaccato ai soccorsi e conforti classici,... possiamo discorrerne con tutto il rispetto, perché tutte le sue qualità hanno una statura, una grandiosa statura regale, e noi, parlandone umanamente, non umiliamo né lui né noi. Non si tratta di noi ribatté lei, incrociando di nuovo le braccia. Non sarei donna se per amore di un uomo, un uomo di una certa statura, come dici tu, per il quale sono l'oggetto del sentimento e dell'ansia per il sentimento, non fossi pronta a sopportare anche umiliazioni. Perfettamente, Clavdia. Hai detto benissimo.

Allora anche l'umiliazione ha la sua statura, e dall'altezza della sua umiliazione la donna può parlare a chi non ha una statura regale con disprezzo, come hai fatto tu dianzi a proposito del francobollo, nel tono in cui hai detto: "Almeno precisi e fidati dovreste essere!". Sei permaloso? Lascia correre. Mandiamo al diavolo la scontrosità... sei d'accordo? Anch'io talvolta sono stata permalosa, lo ammetto, dato che questa sera stiamo qui seduti insieme. Mi sono seccata della tua flemma, anche perché hai allacciato cosí buoni rapporti con lui per amore della tua egoistica esperienza. Eppure ero contenta, ed ero grata che tu gli portassi rispetto... C'era molta lealtà nel tùo comportamento, e se anche vi s'insinuava un po' d'impertinenza, alla fine dovetti metterla a tuo credito. Molto gentile da parte tua. Lo guardò. Sei proprio incorreggibile. Ti dirò: sei un giovane scaltro. Non so se tu abbia spirito; ma la scaltrezza ce l'hai sicuramente. Niente di male, ci si può vivere. Si può essere amici. Vuoi che facciamo amicizia, che stringiamo un'alleanza "per" lui, come di solito si stringe un'alleanza "contro" qualcuno? Se vuoi, qua la mano!... Spesso vivo in ansia... Ho paura qualche volta di stare sola con lui, temo la solitudine interiore, tu sais... Lui è inquietante... Temo talvolta che non vada a finir bene... Provo un senso di raccapriccio... Mi piacerebbe sapere un'anima buona al mio fianco... Enfin, se proprio lo vuoi sapere, sono venuta apposta qui... Le loro ginocchia si toccavano, lei sulla panca, lui sulla sedia a dondolo abbassata davanti. Alle ultime parole dettegli sul viso lei gli aveva stretto la mano. Egli rispose: Da me? Oh, che bella cosa! Oh, Clavdia, è straordinario. Con lui sei venuta da me? E dici che la mia attesa è stata sciocca e illecita e vana? Sarei sommamente balordo se non apprezzassi la tua offerta di amicizia, l'amicizia tua per lui... A questo punto lei lo baciò sullè labbra. Fu un bacio molto russo, sul tipo di quelli che in quel vasto, spirituale paese vengono scambiati nelle solenni feste cristiane, quale suggello d'amore. Siccome però lo scambiavano un giovane notoriamente "scaltro" e una donna, pure ancora giovane, dal passo deliziosamente strisciante, ci sentiamo senza volere portati, mentre lo raccontiamo, a ricordare da lontano il dottor Krokowski e la sua elegante, anche se non ineccepibile maniera di parlare dell'amore in un senso leggermente ambiguo, di modo che nessuno era ben sicuro se fosse un che di timorato o di appassionato e carnale. Facciamo forse anche noi come lui, o fecero cosí Hans Castorp e Clavdia Chauchat col loro bacio russo? Che cosa si direbbe se ci rifiutassimo di andare in fondo a tale questione? A parer nostro, voler distinguere

"nettamente", in cose d'amore, fra timorato e appassionato, è bensí un'impresa analitica, ma - per ripetere le parole di Castorp - "sommamente balorda" e persino ostile alla vita. Che vuol dire nettamente? che cos'è il senso ambiguo? Noi francamente ce ne ridiamo. Non è forse un fatto grande e buono che la lingua possieda una parola sola per tutti gli aspetti che vi si possono comprendere - dal piú timorato al piú carnale e Concupiscente? Qui sta il perfetto univoco nell equivoco, perché l'amore non può essere non corporale nell'estrema timoratezza, né non timorato nell'estrema carnalità, esso è sempre se stesso; sia come scaltro attaccamento alla vita, sia come suprema passione, è il consenso col mondo organico, il commovente e voluttuoso abbraccio di ciò che è destinato a corrompersi, ... anche nella piú ammirevole e piú furiosa passione appare certamente la charitas. Senso ambiguo? Ma lasciate, Dio buono, che il senso dell'amore sia ambiguo! Se è ambiguo, vuol dire che c'è vita e umanità, e chi per questo stesse in pensiero, dimostrerebbe una desolata mancanza di scaltrezza. Mentre dunque le labbra di Castorp e della Chauchat s'incontrano nel bacio russo, oscuriamo il nostro teatrino per il cambiamento di scena. Ora infatti veniamo al secondo dei due colloqui che abbiamo promesso di riferire, e ritornata l'illuminazione, la fioca illuminazione di una cadente giornata di primavera, al tempo dello scioglimento delle nevi, vediamo il nostro protagonista, secondo la consuetudine acquisita, presso il letto del grande Peeperkorn, in amichevole e rispettosa conversazione. Dopo il tè delle 4 nella sala da pranzo, dove la signora Chauchat era comparsa sola, come già ai tre pasti precedenti, e mentre scendeva poi immediatamente a Platz per alcuni acquisti, Castorp si era fatto annunciare al l'olandese per una delle solite visite ai malati, sia per dimostrargli la sua attenzione e distrarlo un po', sia per godere a sua volta i benefici effetti della personalità,... insomma per ambigui motivi di vita. Peeperkorn mise da parte il Telegraaf; vi buttò gli occhiali di tartaruga che si era tolti dal naso prendendoli per l'archetto, e porse al visitatore la mano da comandante, mentre le sue labbra larghe e squarciate si movevano con una vaga espressione dolorosa. Come al solito, aveva a portata di mano vino rosso e caffè: il servizio del caffè sulla sedia accanto al letto, era macchiato di bruno,... mynheer aveva preso la bevanda pomeridiana, forte e bollente, con zucchero e panna, e ne era tutto sudato. La sua faccia regale, entro la bianca aureola lingueggiante, era arrossata, la fronte e il labbro superiore coperti di goccioline. Sono un po' sudato disse. Benvenuto, giovanotto. Al contrario, si accomodi! E' indizio di debolezza se, dopo aver preso una bevanda calda, súbito... Mi vuole...? Benissimo. Il fazzoletto. Grazie mille. Il rossore dileguò rapidamente, gli subentrò quel pallore giallognolo che sempre gli tingeva il viso dopo un attacco maligno. La febbre quartana era stata alta quella mattina, in tutti i tre stadi, il freddo, l'ardente, l'umido, e gli occhietti scialbi di Peeperkorn guardavano smorti di sotto alle rughe frontali da idolo. E disse: Ecco... senz'altro, giovanotto.

La parola "encomiabile" la vorrei... Assolutamente. Molto gentile di essere venuto da un vecchio malato... Ma no protestò Castorp. No, mynheer Peeperkorn. Tocca a me essere grato se posso stare un po' qui, io ne ricavo infinitamente piú di lei, io vengo per motivi egoistici. Poi, è del tutto errata la definizione che ha dato di sé: un vecchio malato! A nessuno verrebbe in mente che si tratti di lei. E' un'immagine del tutto sbagliata! Bene, bene borbottò l'olandese, e chiuse gli occhi per qualche secondo, la testa maestosa col mento sollevato appoggiata al guanciale, le dita unghiute incrociate sul largo petto regale che risaltava di sotto alla camicia di maglia. Sta bene, giovanotto, o meglio, lei lo dice a fin di bene, ne sono persuaso. E' stato un pomeriggio piacevole, ieri... sí, non piú in là di ieri... in quella località ospitale... ne ho dimenticato il nome... dove abbiamo trovato quell'eccellente salame con le uova strapazzate e quello schietto vino locale... Magnifico davvero! confermò Castorp. Abbiamo fatto una bisboccia scandalosa - il capocuoco del sanatorio, se avesse visto, si sarebbe offeso giustamenteinsomma, tutti, senza eccezione, abbiamo fatto man bassa. Era un salame di prima qualità, il signor Settembrini ne era commosso, lo mangiò, si può dire, con gli occhi umidi. E' un patriota, come lei saprà, un patriota democratico. Ha consacrato la sua picca borghese sull'altare dell'umanità affinché in avvenire il salame debba pagar dazio al confine del Brennero. Questo non è essenziale dichiarò Peeperkorn. E' un cavaliere, serenamente loquace, benché si veda che non ha modo di cambiare spesso il vestito. Mai! esclamò Castorp. Non ha modo mai! Lo conosco da un pezzo e siamo buoni amici, ossia lui si è preso cura di me nella maniera piú obbligante, perché aveva notato che sono un "pupillo della vita" - è un modo di dire tra di noi, l'espressione non è facile da capire, e si prende la briga di istruirmi e guidarmi. Ma io non l'ho mai visto, né d'estate né d'inverno, se non con quei calzoni a quadretti e il doppio petto sfilacciato, porta però quella roba vecchia con grande decoro, da cavaliere, in questo sono d'accordo con lei. E' la sconfitta della miseria, e anzi preferisco quella miseria all'eleganza del piccolo Naphta, che appare sempre sospetta ed è, per cosí dire, roba del diavolo,... i mezzì gli vengono per vie traverse, conosco un po' le condizioni. Persona cavalleresca e serena ripeté Peeperkorn, senza prendere nota dell'osservazione su Naphta, anche se - mi permetta questa limitazione - non priva di pregiudizi. Madame, la mia compagna di viaggio, non lo stima un gran che, come lei avrà notato; parla di lui senza simpatia, certo perché dal suo contegno verso di lei siffatti pregiudizi... Non una parola, giovanotto. Sono ben lontano dal... sí, tanto il signor Settembrini quanto i suoi amichevoli sentimenti verso di lui... Chiuso! Non penso affatto che in quanto alla cortesia dovuta da un cavaliere a una signora...

Perfetto, caro amico, ineccepibile. Ma c'è pure un limite, un ritegno, una certa ri-cu-sa-zio-ne che rende i sentimenti di madame verso di lui sommamente... Comprensibili. Li rende intelligibili. Giustamente giustificati. Mi scusi, mynheer Peeperkorn, se completo io la sua frase. Posso osare perché so di essere pienamente d'accordo con lei. Specialmente se si considera quanto le donne - lei sorriderà se alla mia tenera età parlo cosí delle donne in genere - quanto nel loro contegno verso l'uomo dipendono dal contegno dell'uomo verso di loro, ...sicché non c'è da stupirsi. Le donne, vorrei dire, sono creature reattive, senza libera iniziativa, indolenti, cioè passive... Mi consenta di svolgere meglio, anche se con fatica, questo pensiero. La donna, per quanto ho potuto capire, in faccende d'amore si considera in un primo tempo oggetto, lascia che l'amore le si accosti, non sceglie liberamente, diventa soggetto capace di scelta sol tanto in base alla scelta dell'uomo e anche allora - mi permetta di aggiungere - la sua libertà di scelta (presupposto che non si tratti proprio di un tizio troppo meschino, ma nemmeno questa è una condizione assoluta)... la sua libertà di scelta, dico, è pregiudicata e corrotta dall'essere stata scelta lei. Dio mio, saranno assurde le cose che dico, ma quando si è giovani, tutto pare nuovo, nuovo e stupefacente. Lei chiede a una donna: "Lo ami davvero?". "Lui mi ama tanto!" risponde alzando lo sguardo o magari abbassandolo. Ora si figuri una risposta cosí sulle labbra di uno di noi: scusi l'accostamento! Può darsi che ci siano uomini costretti a rispondere cosí, ma sono decisamente ridicoli, succubi dell'amore, per dirla con frase scultoria. Mi piacerebbe sapere quale stima di sé riveli questa risposta femminile. Crede la donna di dovere illimitata devozione all'uomo che con la sua scel ta amorosa fa una grazia a un essere umile come lei, o scorge nell'amore dell'uomo per lei un infallibile indizio della superiorità di lui? Questa è la domanda che mi sono posto talvolta nelle mie ore di riposo. Fatti primordiali, classici; con il suo abile discorsetto lei, giovanotto, tocca argomenti sacri rispose Peeperkorn. L'uomo è inebriato dalla bramosia, la donna desidera e aspetta d'essere inebriata dalla bramosia di lui. Di qui il nostro obbligo del sentimento. Di qui l'orrenda vergogna della mancanza di sentimento, dell'impotenza a destare la bramosia della donna. Vuole bere con me un bicchiere di vino? Io bevo. Ho sete. L'evaporazione di quest'oggi è stata notevole. Mille grazie, mynheer Peeperkorn. Non è il mio orario, ma sono sempre pronto a bere un sorso alla sua salute. Prenda dunque il calice. Ne ho qui uno solo. Io m'aggiusterò col bicchiere da acqua.

Penso di non far torto a questo frizzantino con un recipiente cosí modesto... Aiutato dall'ospite mescé con la mano da comandante leggermente tremula, e dal bicchiere senza stelo versò, assetato, il vino rosso nella gola statuaria, come fosse acqua di fonte. Questo ristora disse. Lei non beve piú? Allora permetta che ancora... Nel mescere di nuovo versò un po' di vino che macchiò di rosso cupo la candida federa della coperta. Ripeto soggiunse alzando le lance delle dita, mentre nell'altra mano gli tremava il bicchiere, ripeto: di qui il nostro obbligo, il nostro obbligo "religioso" del sentimento. Il nostro sentimento, capisce, è la forza virile che sveglia la vita. La vita è addormentata, vuol essere destata per le ebbre nozze col divino sentimento. Poiché, giovanotto, il sentimento è divino. L'uomo è divino in quanto sente, egli è il sentimento di Dio. Dio lo creò per sentire mediante lui. L'uomo non è che l'organo mediante il quale Dio celebra le sue nozze con la vita svegliata e inebriata. Se l'uomo vien meno nel sentimento, si scatena l'onta di Dio, la sconfitta della forza virile che viene da Dio, una catastrofe cosmica, un inimmaginabile orrore... E bevve. Permetta, mynheer Peeperkorn, che le tolga il bicchiere disse Castorp. Seguo il suo ragionamento dal quale ho molto da imparare. Lei espone una teoria teologica nella quale attribuisce all'uomo una funzione religiosa molto onorevole, anche se forse un po' unilaterale. C'è, se mi è lecito fare questa osservazione, nel suo modo di vedere un certo rigore che ha un che di opprimente,... mi scusi: ogni rigore religioso è beninteso opprimente per gente di statura modesta. Non che io la voglia correggere, per carità, vorrei soltanto riprendere il filo e riparlare di quei certi "pregiudizi" che, secondo le sue osservazioni, il signor Settembrini nutre verso madame, la sua compagna di viaggio. Io conosco il signor Settembrini da molto, molto tempo, da anni, e posso assicurare che i suoi pregiudizi, se pur li ha, non sono in nessun caso meschini o gretti,... sarebbe ridicolo pensarlo. Non si può trattare che di pregiudizi generalmente pedagogici, che egli francamente, nell'inculcarli a me come "pupillo della vita ... Ma questo mi porta troppo lontano. E' una faccenda lunga che in due parole non si può... E lei ama madame? domandò di punto in bianco l'olandese rivolgendo al visitatore la faccia regale con lo squarcio dolente delle labbra e gli occhietti scialbi sotto gli arabeschi frontali... Hans Castorp allibí e balbettò: Se io... Cioè... Io venero ovviamente la signora Chauchat non fosse altro in quanto è... Scusi! interruppe Peeperkorn stendendo la mano col gesto di chi argina. Permetta continuò dopo aver sgombrato lo spazio per quel che aveva da dire, mi lasci ripetere che sono ben lontano dal rimproverare a quel signore italiano una vera infrazione ai precetti della cavalleria...

Non faccio a nessuno questo rimprovero, a nessuno. Ma mi fa specie... In questo momento mi rallegro... Bene, giovanotto. Tutto bello e buono, senz'altro. Mi rallegro, non c'è dubbio, per me è un vero piacere. Tuttavia mi sto dicendo... dicendo, insomma: lei conosce madame da piú tempo di me, è stato qui già' durante il precedente soggiorno di lei. Oltre a ciò è una donna di qualità affascinanti, e io sono soltanto un vecchio malato. Come va che... Questo pomeriggio, dato che sto poco bene, è scesa al paese, a fare acquisti, sola, senza compagnia... niente di male ! nemmeno per sogno. Se non che senza dubbio... Devo ascriverlo ai (come ha detto?) princípi pedagogici del signor Settembrini se lei, in quanto a cavalleria, non... La prego di prendermi alla lettera... Alla lettera, mynheer Peeperkorn. No, no, assolutamente no. Io agisco di mia iniziativa. Anzi, il signor Settembrini qualche volta mi ha persino... Mi dispiace, ma vedo macchie di vino sulla sua coperta, mynheer Peeperkorn. Non dovremmo...? Noi ci versavamo il sale finché erano fresche... Questo non è essenziale ribatté l'olandese guardandolo fisso. Castorp impallidí. La situazione disse con un falso sorriso è qui un po' diversa dal solito. Lo spirito della località, direi, non è quello convenzionale. La precedenza spetta al malato, uomo o donna che sia. I precetti della cavalleria passano in seconda linea. Lei, signor Peeperkorn, soffre di un malessere passeggero, di un'indisposizione acuta, un'indisposizione di attualità. La sua compagna di viaggio è relativamente sana. Credo pertanto di agire secondo il pensiero di madame se nella sua assenza la sostituisco un po' presso di lei... se pure è lecito parlare di sostituzione, ah, ah: anziché sostituire lei presso madame e offrirle la mia compagnia fin giú al paese. Che cosa mi autorizza a imporre i miei servigi di cavaliere alla sua compagna di viaggio? Non ne ho alcun titolo né alcun mandato. Posso affermare di possedere assai yivo il senso del diritto positivo nei rapporti umani. Fatto è che il mio modo di agire mi sembra corretto, esso corrisponde alla situazione in genere e soprattutto ai sinceri sentimenti che nutro per la sua persona, signor Peeperkorn, e cosí credo di aver dato

alla sua domanda - lei mi ha rivolto una domanda, vero? - una risposta soddisfacente. Una risposta molto gradita dichiarò Peeperkorn. Ascolto con spontaneo piacere il suo agile discorsetto che procede a rompicollo e leviga le cose rendendole gradite. Ma non posso dire che sia soddisfacente. La sua risposta non mi soddisfa appieno,... mi scusi se con ciò le do una delusione. "Rigore", earo amico: lei ha usato dianzi questa parola a proposito di certe mie vedute. Anche nelle sue vedute c'è un certo rigore, una coercizione che non concorda, mi sembra, col suo carattere, benché in certo senso mi sia nota dal suo comportamento. La riconosco. E' la stessa costrizione che nelle nostre comuni iniziative, nelle nostre passeggiate, lei s'impone verso madame - verso nessun altro, - e di questo lei mi deve una... E' un dovere, è un debito, giovanotto. Io non m'inganno. Troppe volte ho visto confermata la mia osservazione, ed è improbabile che non abbia dato nell'occhio anche ad altri, con la differenza che questi altri - come è possibile, anzi probabile - possiedono la chiave del fenomeno. L'olandese parlava, quel pomeriggio, in uno stile insolitamente preciso e serrato, benché fosse spossato dal l'attacco maligno. Non si esprimeva quasi piú a frammenti. Col busto eretto, le spalle possenti e la gran testa rivolte al visitatore, teneva un braccio steso sopra la coperta, e la mano lentigginosa, ritta in fondo alla manica di lana, formava il cerchio dell'esattezza, cui sovrastavano le lance delle dita, mentre le sue labbra formavano le parole con una precisione cosí plastica che Settembrini non avrebbe potuto desiderare di meglio. Lei sorride riprese a dire, gira la testa di qua e di là ammiccando, pare che stia riflettendo senza costrutto. Ma senza alcun dubbio sa che cosa intendo e di che cosa si tratta. Non dico che lei non abbia rivolto mai la parola a madame o non le abbia risposto quando era necessario. Ma, ripeto, lo fa con una certa costrizione, o meglio cercando di schivare, di evitare e, a guardar bene, di scansare una data forma. Si ha l'impressione che lei abbia fatto una scommessa, che abbia concluso con la signora un patto e, secondo gli accordi, debba evitare l'allocuzione. Non le dice mai "lei". Ma, signor Peeperkorn... Di quale patto vuole... Se permette, le faccio notare, come lei stesso probabilmente non ignora, che in questo momento si è sbiancato fino alle labbra. Castorp non alzò lo sguardo. A capo chino si dedicava intensamente allo studio delle macchie sulla coperta. "A questo punto si doveva arrivare!" pensò. "Era anche lo scopo. Io stesso credo di aver contribuito perché ci si arrivasse. La cosa l'ho imbastita io fino a un certo punto, come mi rendo conto in questo momento. Sono impallidito davvero? Può darsi, perché ora o cosí o cosà bisogna risolverla. Che succederà? So ancora mentire? Si potrebbe, ma non voglio.

Per ora sto con queste macchie di sangue, macchie di vino rosso sulla coperta." Anche sopra di lui regnava il silenzio. Durò due o tre minuti,... facendo capire come, in tali circostanze, queste minime unità possano diventare lunghe. Fu Pieter Peeperkorn a riprendere il discorso. E' stato quella sera, quando ho avuto il piacere di conoscerla cominciò in tono quasi di canto, abbassando in fine la voce come fosse, quello, il primo periodo di un lungo racconto. Avevamo organizzato una festicciola, mangiato e bevuto e, in alto i cuori, lo spirito umanamente libero e ardito, a ora tarda ci avviavamo al riposo tenendoci a braccetto. Allora, al momento del commiato, qui fuori dalla mia porta, mi venne l'ispirazione di rivolgere a lei l'invito di toccare con le labbra la fronte della signora, che mi aveva presentato lei come buon amico fin da un precedente soggiorno, e la lasciai libera di contraccambiare davanti a me quel gesto allegro e solenne a conferma dell'ora elevata. Lei respinse nettamente l'invito, lo ripudiò con la motivazione che le sembrava assurdo scambiare con la mia compagna di viaggio baci sulla fronte. Non vorrà contrastare che quella spiegazione aveva a sua volta bisogno di una spiegazione: ma lei fino a questo momento non me l'ha data. E' disposto a saldare ora codesto debito? "Lo ha notato dunque'' ragionò Castorp avvicinandosi ancor piú alle macchie di vino, mettendosi anzi a grattarne una con la punta curva del dito medio. "In fondo, volevo allora che lo notasse e se lo ricordasse, altrimenti non l'avrei detto. E ora? Il cuore mi martella un poco. Scoppierà una collera regale di prima forza? Forse farei bene a girarmi per guardare il suo pugno che eventualmente è già teso sopra di me. Che situazione singolare e pericolosa !" A un tratto si sentí stringere il polso, il destro, dalla mano di Peeperkorn. "To', ora mi prende per il polso!" rifletté. "E' ridicolo, sto qui come un pulcino bagnato. Mi sono forse macchiato di una colpa di fronte a lui? Niente affatto. Prima avrebbe motivo di lamentarsi il marito nel Daghestan. E poi il tale e il tal altro. Poi io. E lui, per quant'io sappia, non ha ancora alcuna ragione di lagnarsi. Perché mi batte dunque il cuore cosí? E' ora di alzare la testa e di guardarlo in viso, in quel viso autorevole, con franchezza, anche se rispettosa." E cosí fece. Il viso autorevole era giallo, gli occhi scialbi sotto la contratta rigatura della fronte, l'espressione delle labbra squarciate amara. Si lessero negli occhi a vicenda, il vecchio grande e il giovane insignificante, mentre l'uno continuava a tener l'altro per il polso.

Infine Peeperkorn mormorò: Lei fu l'amante di Clavdia durante il suo precedente soggiorno. Castorp chinò di nuovo la testa, ma la risollevò subito e dopo un profondo respiro disse: Mynheer Peeperkorn, mi ripugna vivamente di mentirle e cerco la maniera di evitarlo. Non è facile. Sarebbe vanteria confermare la sua asserzione, menzogna negarla. Mi spiego: per molto, moltissimo tempo sono vissuto in questa casa insieme con Clavdia - perdoni! - con la sua attuale compagna di viaggio, senza conoscerla di persona. I rapporti sociali erano esclusi dalla nostra relazione o dalla mia relazione con lei, l'origine della quale, devo dire, è un mistero. Col pensiero non mi sono mai rivolto a Clavdia se non dandole del tu, e anche nella realtà è stato cosí. La sera infatti, in cui liberandomi dai ceppi pedagogici, ai quali si è brevemente accennato, mi avvicinai a lei - con un pretesto che risaliva al mio passato era una sera di carnevale, con maschere, una sera irresponsabile, una sera del tu, nel cui svolgimento il tu, come in sogno e fuori da ogni responsabilità, acquistò il suo pieno significato. Ma era anche la vigilia della partenza di Clavdia. Il suo pieno significato ripeté Peeperkorn. Con molto garbo lei... Lasciò il polso di Castorp e con le palme delle mani unghiute si diede a stropicciarsi la faccia, le orecchie, le guance, il mento. Poi giunse le mani sulla coperta lorda di vino e posò la testa su un lato, sul lato sinistro, verso l'ospite, e fu come se volgesse il viso altrove. Le ho risposto con la maggiore esattezza possibile, signor Peeperkorn conchiuse Castorp, e mi sono sforzato in coscienza di non dire troppo né troppo poco. Soprattutto ho tenuto a farle notare che quella sera del tu e del commiato la si può liberamente includere o no,... che fu una sera fuori del comune, quasi fuori del calendario, un hors d'oeuvre, per cosí dire, una serata extra, una sera bisestile, il ventinove febbraio,... e pertanto sarebbe stata soltanto mezza bugia se avessi negato la sua asserzione. Peeperkorn non rispose. Ho preferito riprese Castorp dopo una pausa dirle il vero a rischio di perdere la sua benevolenza, che, per dirla con tutta sincerità, per me sarebbe una grave perdita, potrei dire un colpo, una fiera botta, paragonabile al colpo che provai vedendo ritornare qui la signora Chauchat non sola, ma come sua compagna di viaggio. Ho corso questo rischio perché da un pezzo avevo il desiderio che tutto fosse chiaro tra noi - tra lei, per cui nutro sentimenti di profondo rispetto, e me, - m'è parso piú bello e umano (lei sa come Clavdia pronuncia questa parola, con quella voce velata e affascinante, stirando la vocale) che tacere e fingere, e perciò quando lei ha fatto quell'affermazione mi sono sentito levare un peso dal cuore. Nessuna risposta. Ancora una cosa, signor Peeperkorn proseguí Castorp. Anche un'altra cosa mi fece desiderare di dirle la schietta verità, cioè l'esperienza personale di quanto sia irritante l'incertezza, il dover ricorrere, in questi casi, a mezze supposizioni.

Ora lei sa con chi Clavdia - prima che si stabilisse la presente positiva situazione di diritto, che sarebbe pura follia non rispettare, - con chi visse, passò, celebrò... ecco, diciamo, celebrò un... un ventinove febbraio. Io invece prima non sono mai riuscito a chiarire questo punto, benché sapessi benissimo che chiunque venga a trovarsi nelle condizioni di doverci riflettere, deve tener conto di siffatti eventi, o dirò meglio predecessori, e benché sapessi altresí che il consigliere Behrens, il quale, come lei forse saprà, si diletta di pittura a olio, nel corso di numerose sedute aveva eseguito un eccellente ritratto di lei, di un'evidenza nel ridare la pelle che, detto fra noi, lasciava perplessi. Ciò mi procurò molti tormenti e rompicapi, e me ne procura ancora. Lei l'ama anCora? domandò Peeperkorn senza mutare posizione, cioè col viso rivolto altrove... Nell'ampia camera calava sempre piú il crepuscolo. Mi scusi, signor Peeperkorn rispose Castorp, ma i sentimenti che provo per lei, sentimenti di grandissima stima e ammirazione mi avvertono che non sarebbe decoroso parlarle dei sentimenti che nutro per la sua compagna di viaggio. E lei domandò ancora Peeperkorn con voce pacata ricambia ancora codesti sentimenti? Non dico rispose Castorp, non dirò che non li abbia mai ricambiati. Sarebbe poco credibile. Dianzi abbiamo toccato codesto argomento sul piano teorico, quando si parlò della natura reattiva della donna. In me naturalmente non c'è molto da amare. Che statura posso avere io? Giudichi lei! Se siamo potuti arrivare a un... a un ventinove febbraio, si deve ascriverlo unicamente al fatto che la donna si lascia sedurre dalla previa scelta dell'uomo,... e qui vorrei osservare che mi sembra essere privo di buon gusto e spaccone definendomi "uomo"... ma Clavdia è in ogni caso una donna. Ha seguito il sentimento mormorò Peeperkorn con le labbra squarciate. Come ha fatto nel caso suo con maggiore obbedienza, e come con tutta probabilità avrà fatto già parecchie volte, questo dev'esser-chiaro per chiunque venga a trovarsi in tali condizioni. Un momento! esclamò Peeperkorn, sempre guardando altrove, ma con un gesto della mano aperta verso l'interlocutore. Non sarebbe forse volgare parlare di lei come stiamo facendo? Certo che no, mynheer Peeperkorn. Su questo punto credo di poterla rassicurare. Si sta parlando di cose umane - intendo "umano" sotto la specie della libertà e della genialità, - mi perdoni l'espressione forse un poco manierata, ma recentemente mi sono trovato nella necessità di appropriarmela. Bene, continui! ordinò Peeperkorn sottovoce. Anche Castorp parlava piano, seduto sullo spigolo della sedia accanto al letto, chino verso il vecchio regale, le mani tra le ginocchia. E' infatti una creatura geniale disse, e quell'uomo al di là del Caucaso - lei sa, immagino, che al di là del Caucaso ha un marito - le accorda libertà e genialità, o per scempiaggine, o per intelligenza, non conosco l'uomo. In ogni caso fa bene ad accordargliela, perché chi gliela conferisce è la malattia, il principio geniale della malattia, al quale ella sottostà, e chiunque venga a trovarsi nelle stesse condizioni farà bene a seguire il suo

esempio e a non lagnarsi, né per il passato, né per l'avvenire... Lei non si lagna? domandò Peeperkorn rivolgendogli il viso... che appariva smorto nel crepuscolo; gli occhi erano pallidi e fiochi sotto le rughe frontali da idolo, la gran bocca era semiaperta come nelle maschere tragiche. Non pensavo rispose Castorp con modestia, che si trattasse di me. Le mie parole sono intese a che non si lagni lei, signor Peeperkorn, e lei, a causa di avvenimenti passati, non mi tolga la sua benevolenza. Eppure deve essere stato un grande dolore quello che le ho arrecato senza saperlo. Se codesta è una domanda disse Castorp, e se rispondo di sí, ciò non significa anzitutto che io non apprezzi l'enorme privilegio di aver conosciuto lei, poiché questo privilegio è indissolubilmente connesso con la delusione che lei dice. Grazie, giovanotto, grazie. Apprezzo il garbo del suo discorsetto. Ma prescindendo dalla nostra conoscenza... E' difficile prescinderne replicò Castorp, e per me non è neanche consigliabile prescinderne, per poter rispondere di sí alla sua domanda con tutta semplicità; poiché il fatto che Clavdia ritornava in compagnia d'una personalità della sua statura, non poteva che accrescere e complicare il mio disagio di vederla ritomare, in genere, insieme con un altro uomo. Mi ha dato parecchio da pensare, e me lo dà ancora, non lo nego, e mi sono aggrappato con intenzione al lato positivo della faccenda, vale a dire ai miei sinceri sentimenti di rispetto verso di lei, signor Peeperkorn, non senza una piccola malizia verso la sua compagna di viaggio: le donne infatti non vedono di buon occhio l'intesa tra i loro innamorati. Infatti... confermò Peeperkorn e nascose un sorriso passandosi il cavo della mano sulla bocca e sul mento, quasi ci fosse pericolo che la Chauchat lo vedesse sorridere. Questa piccola vendetta continuò Castorp mi si può concedere, poiché in quanto a me ho davvero qualche motivo di lagnarmi,... non di Clavdia, né di lei, signor Peeperkorn, ma di lagnarmi, sulle generali, della mia vita e del destino, e siccome ho l'onore di godere la sua fiducia e questa è un'ora crepuscolare del tutto speciale, tenterò di parlarne almeno per accenni. Prego disse Peeperkorn cortesemente, dopo di che Castorp riprese a dire. Sono quassú da molto tempo, da anni,... esattamente non lo so nemmeno io da quando, ma sono anni di vita, perciò ho parlato di "vita", e al momento opportuno ritornerò anche sul "destino". Mio cugino, al quale credevo di venire a fare una visita, un militare che la prendeva con bravura e onestà, ma non gli servì a nulla, mi è morto qui, e io ci sono ancora. Io non ero militare, avevo una professione civile, come avrà sentito dire, una professione solida e razionale che, a quanto dicono, serve persino a unire i popoli, ma io non mi ci sentii mai legato, lo ammetto, per motivi dei quali dico soltanto che sono un mistero: sono congiunti con le origini dei miei sentimenti verso la sua compagna di viaggio - la chiamo apposta cosí per far capire che non mi passa per la mente l'intenzione di scalzare la positiva situazione di diritto -, dei miei sentimenti per Clavdia Chauchat e del fatto che le do del tu, come non ho mai negato, da quando ho incontrato i suoi occhi che mi hanno ammaliato,... ammaliato irrazionalmente, capisce? Per amore di Clavdia e a dispetto del signor Settembrini mi sono sottomesso al principio dell'irrazionale, al principio geniale della malattia, al quale però sottostavo di lunga mano, anzi da sempre, e sono rimasto quassú,... non so piú precisamente quanto,

ho dimenticato tutti e rotto con tutti, coi miei parenti e con la mia professione di pianura, con tutto il mio avvenire. E quando Clavdia partí, l'ho aspettata, aspettata sempre quassú, sicché ora sono scomparso interamente dalla pianura e, ai suoi occhi, sono come fossi morto. Questo avevo in mente quando parlai di "destino" e mi permisi di accennare che a me spetterebbe lagnarmi della presente situazione di diritto. Una volta lessi una storia,... cioè no, l'ho vista a teatro, di un buon giovane - soldato anche lui come mio cugino - che s'impiccia con una bellissima zingara,... affascinante, con un fiore sull'orecchio, una donna scatenata, fatale, che lo ammalia talmente da fargli abbandonare la via retta, sicché le sacrifica tutto, diventa disertore, fugge con lei tra i contrabbandieri, e si disonora in tutti i modi. Arrivato a questo punto, lei non vuol piú saperne di lui e arriva con un matador, una imponente personalità con una splendida voce di baritono. Va a finire che il piccolo soldato, bianco come un cencio, con la camicia sbottonata, provocato addirittura da lei, la uccide davanti al circo con un coltello. E' una storia che c'entra poco, mi pare. Ma perché mi viene in mente? Mynheer Peeperkorn, udendo nominare il "coltello", aveva modificato un po' la sua posizione sul letto, s'era spostato brevemente sul fianco e aveva guardato in faccia l'ospite con un'occhiata indagatrice. Ora si sedette meglio e appoggiato al gomito disse: Giovanotto, ho udito e ora ci vedo chiaro. Mi consenta di fare, in base alle sue comunicazioni, una dichiarazione leale! Se non avessi i capelli bianchi e non fossi colpito da una febbre maligna, lei mi vedrebbe pronto a darle soddisfazione, da uomo a uomo, con l'arme in pugno, per il torto che le feci senza saperlo e insieme per quello che le fece la mia compagna di viaggio, della quale sono pure responsabile. Perfetto, signore,... lei mi vedrebbe pronto. Ma stando le cose come sono, mi permetta di sostituirvi una proposta. Che è la seguente. Ricordo un momento elevato, ci eravamo conosciuti da poco,... me ne ricordo, benché allora avessi fatto molto onore alle bottiglie,... un momento, dico, in cui, conquistato dal suo carattere, fui in procinto di offrirle il tu fraterno, ma poi non mi nascosi che sarebbe stato un passo alquanto precipitato. Bene, oggi mi riferisco a quel momento e lo rievoco, e dichiaro che la proroga allora decisa è scaduta. Giovanotto, noi siamo fratelli, io lo dichiaro. Lei accennò a un pieno significato del tu,... anche il nostro avrà un pieno significato, il significato della fraternità nel sentimento. La soddisfazione che non le posso dare a causa degli anni e dell'indisposizione, gliela offro sotto questa forma, sotto forma di un'alleanza fraterna, come la si stipula di solito contro terzi, contro il mondo, contro qualcuno, mentre noi nel sentimento la vogliamo stipulare "per" qualcuno.

Prenda il calice, giovanotto, mentre io riprendo il mio bicchiere da acqua, col quale non si fa alcun torto a questo frizzantino... E con la mano leggermente tremante empí i bicchieri, mentre Castorp con rispettosa costernazione gli era d'aiuto. Prenda! ripeté Peeperkorn. Incroci il braccio col mio, e beva in questo modo! Vuoti il calice!... Perfetto, giovanotto. Chiuso! Qua la mano! Sei contento? Non è la parola, mynheer Peeperkorn rispose Castorp cui era riuscito un po' difficile vuotare tutto il calice d'un fiato, e col fazzoletto si asciugò le ginocchia sulle quali si era versato un po' di vino. Sono, dirò invece, felicissimo, e non so ancora capacitarmi come mi sia potuto toccare,... sinceramente, mi sembra un sogno. E' un onore immenso per me,... non so come lo abbia meritato, tutt'al piú passivamente, non certo altrimenti, e non c'è da stupirsi se da principio mi pare bizzarro pronunciare con le mie labbra il nuovo tu, se v'inciamperò,... tanto piú alla presenza di Clavdia che forse, alla maniera delle donne, non sarà pienamente d'accordo con questa sistemazione... A questo ci penso. io ribatté Peeperkorn, e il resto verrà con l'esercizio e con la consuetudine. E ora va, giovanotto. Lasciami, figlio mio! E' buio, la sera è calata, la nostra diletta può rientrare da un momento all'altro, e un vostro incontro, proprio in questo momento, non sarebbe, credo, la cosa piú opportuna. Ti auguro di star bene, mynheer Peeperkorn! disse Castorp alzandosi. Come vede, vinco la mia giustificata soggezione e già mi esercito a pronunciare il tu temerario. Giusto, è ormai buio. Mi figuro che a un tratto potrebbe entrare il signor Settembrini e accendere la luce, affinché subentrino la ragione e la socievolezza... è il suo debole. A domani! Vado via di qui cosí contento e orgoglioso come non avrei mai sognato neanche lontanamente, ti auguro di guarire presto. Per lei vengono ora almeno tre giorni senza febbre, nei quali sarai pari a tutte le esigenze. Ne sono lieto come se fossi tu. Buona notte!

Mynheer Peeperkorn (conclusione). Una cascata è sempre un'attraente meta di escursioni, e non sapremmo quasi giustificare Castorp, il quale per l'acqua scrosciante aveva una particolare predilezione, di non essere mai andato a vedere la pittoresca cascata nel bosco di Val di Fluela. Per il periodo della sua convivenza conJoachim poteva servirgli di scusa il rigoroso senso del dovere di suo cugino che non era stato lassú per divertimento e la cui mentalità pratica aveva limitato il loro orizzonte agli immediati dintorni del Berghof, E dopo la sua dipartita... be', anche dopo, la posizione di Castorp

rispetto al paesaggio locale, se vogliamo prescindere dalle sue imprese con gli sci, aveva mantenuto un carattere di monotonia conservatrice, il cui contrasto con l'ampiezza delle sue esperienze interiori e degli obblighi di "governo" non era stato privo di una certa consapevole attrattiva per lui. Comunque fosse, il suo consenso fu spontaneo quando nella sua cerchia ristretta, in quel gruppo di sette amici (lui compreso) si ventilò il progetto di una scarrozzata a quella famosa località. Si era a maggio, il mese della delizia, secondo ingenue canzoncine della pianura,... assai fresco e poco allettante in quanto all'aria di lassú, ma il disgelo poteva considerarsi terminato. Era nevicato, è vero, piú volte a larghe falde negli ultimi giorni, ma senza che la neve rimanesse, soltanto il terreno era ancora bagnato; i cumuli invernali erano stati assorbiti dal suolo, dall'aria, tranne qualche piccolo residuo; il verde lungo le strade invitava alle piú svariate imprese. D'altro canto i contatti fra i membri del gruppo avevano sofferto nelle ultime settimane a causa dell'indisposizione del capo, del grande Pieter Peeperkorn, la cui maligna strenna tropicale non aveva voluto arrendersi né all'influsso del clima straordinario, né agli antidoti di un medico eminente come il consigliere Behrens. Aveva dovuto stare molto a letto, non soltanto i giorni nei quali la febbre quartana faceva valere i suoi malvagi diritti. Gli facevano male la milza e il fegato, come il consigliere accennò in disparte agli intimi del paziente; anche lo stomaco non era in condizioni classiche, e Behrens fece capire che, date le circostanze, anche per un fisico cosí robusto non era da escludere del tutto il pericolo di un'astenia cronica. In quelle settimane l'olandese aveva presieduto a un solo simposio serale, e anche le passeggiate in comune erano state sospese, tranne una non molto lunga. Castorp però, detto fra noi, trovava in quell'allentamento dei contatti personali nella brigata un certo sollievo, perché la fraterna bevuta col compagno di viaggio della signora Chauchat gli creava difficoltà; portava nelle sue pubbliche conversazioni con Peeperkorn quella stessa "costrizione", quello stesso desiderio di "scansare" e di "evitare" dovuto, per cosí dire, a una scommessa simile a quella che Peeperkorn aveva notato nei suoi rapporti con Clavdia: e coi piú strani ripieghi perifrasava l'allocuzione del tu, quando non era possibile sopprimerlo,... in quello stesso, o meglio rovesciato, dilemma che dominava la sua conversazione con Clavdia in presenza di altri, o anche alla sola presenza del suo signore, e grazie alla soddisfazione ricevuta da quest'ultimo si era trasformato in una doppia tagliola formale. Ora si stava dunque per attuare il progetto di una gita alla cascata. Peeperkorn stesso aveva indicato la meta e si sentiva di affrontare l'impresa. Era il terzo giorno dopo un attacco di quartana; ed egli fece sapere che desiderava sfruttarlo. Non era comparso ai primi pasti della giornata, nella sala da pranzo e, come accadeva molto spesso negli ultimi tempi, li aveva presi con la Chauchat nel suo salotto; ma già alla prima colazione Castorp aveva ricevuto, per il tramite del portiere zoppicante, l'ordine di tenersi pronto, un'ora dopo la colazione di mezzogiorno, per una scarrozzata, di trasmettere quest'ordine ai signori Ferge e Wehsal e di avvertire anche Settembrini e Naphta che si sarebbe passati a prenderli, e infine di ordinare due landò per le ore tre.

A quell'ora ci si incontrò davanti al portale del Berghof: Castorp, Ferge e Wehsal vi aspettarono i signori delle camere principesche e passavano il tempo carezzando i cavalli che con le labbra nere, umide e goffe prendevano loro le zollette di zucchero dalla palma della mano. I compagni di gita comparvero con lieve ritardo sulla scalinata. Peeperkorn, la cui testa regale pareva impicciolita, in piedi lassú, in un lungo ulster un po' frusto al fianco di Clavdia, sollevò il cappello tondo e floscio, e le sue labbra formarono un'impercettibile parola di saluto per tutti. Poi strinse la mano a ciascuno dei tre uomini che erano andati incontro alla coppia fino ai piedi della scalinata. Giovanotto disse allora a Castorp posandogli la sinistra sulla spalla, ... come va, figlio mio? Mille grazie ! E posso chiedere... replicò l'interrogato. Splendeva il sole, era una bella giornata limpida, ma avevano fatto bene a indossare il soprabito di mezza stagione: durante la corsa avrebbe fatto certamente fresco. Anche la signora Chauchat portava un caldo soprabito con cintura, d'una stoffa rada a grandi quadri, e persino un po' di pelliccia sulle spalle. Con un velo color oliva annodato sotto il mento aveva abbassato gli orli laterali del cappello di feltro che le stava cosí bene da far addirittura soffrire la maggior parte dei presenti,... tranne Ferge, l'unico che non fosse innamorato di lei; la conseguenza della sua imparzialità fu che nella distribuzione dei posti, provvisoria finché si fossero aggiunti i due esterni, gli toccò il sedile posteriore nel primo landò, di fronte a mynheer e madame, mentre Castorp, non senza aver accolto un ironico sorriso di Clavdia, montava con Wehsal nella seconda carrozza. Alla gita partecipava anche il gracile cameriere malese che, con una gran cesta, dal cui coperchio sbucava il collo di due bottiglie di vino, - egli la infilò sotto il sedile posteriore della prima carrozza, era comparso alle spalle dei suoi padroni; e aveva appena incrociato le braccia a fianco del cocchiere, quando i cavalli, ricevuto il comando, misero in moto le vetture, con la martinicca tirata, giú per la svolta. Anche Wehsal aveva notato il sorriso della signora Chauchat e, mostrando i denti guasti, ne parlò col suo compagno di gita. Ha visto domandò come se la rideva perché lei è costretto a viaggiare con me solo? Eh, chi ha il danno non gli mancano le beffe. Le dà proprio tanto fastidio e dispetto stare qui accanto a me? Metta giudizio, Wehsal, e non parli cosí: è una vergogna! lo redarguí Castorp. Le donne sorridono sempre per il solo piacere del sorriso; è inutile rompersi la testa ogni volta per scoprirne il motivo. Perché si contorce cosí? Anche lei, come tutti noi; ha i suoi pregi e i difetti. Lei, per esempio, suona benissimo i pezzi del Sogno d'una notte d'estate, non tutti ne sono capaci. Dovrebbe sonarli ancora prossimamente. Già, lei mi vuol consolare, cosí dall'alto in basso ribatté il poveraccio, e non capisce quanta impudenza contenga il suo conforto, non sa che cosí mi umilia peggio che mai. Facile per lei discorrere e confortare dall'alto, poiché anche se in questo momento fa una figura piuttosto ridicola, una volta ha avuto il suo turno e ha toccato il cielo col dito, santo Iddio, e ha sentito intorno al

collo le sue braccia, e tutto ciò, Dio buono, mi brucia la gola, quando ci penso, e la bocca dello stomaco,... e in piena coscienza di ciò che le fu concesso guarda ora i miei meschini tormenti. Bello non è, Wehsal, il suo modo di esprimersi. E' anzi molto ripugnante, non glielo voglio nascondere, visto che mi accusa d'impudenza, e ripugnante vuol essere, penso, lei fa addirittura apposta a mostrarsi antipatico, e continua a torcersi. E' davvero cosí follemente innamorato di lei? Spaventosamente! rispose Wehsal scotendo la testa. Non è possibile dire le pene che soffro per la mia sete e il mio desiderio di lei, vorrei poter dire che sarà la mia morte, ma cosí non posso né vivere né morire. Quando era lontana cominciai a stare un po' meglio, a poco a poco me la scordavo. Ma da quando è ritornata e l'ho tutti i giorni sotto gli occhi, mi avviene talvolta di mordermi un braccio, di abbrancare l'aria, e non so dove dar del capo. Una cosa simile non dovrebbe esistere, eppure non si può desiderare che scompaia,... chi ne è preso, non lo può desiderare, bisognerebbe desiderare che non ci sia la vita, con la quale è amalgamata, e proprio questo non è possibile,... che vantaggio ci sarebbe a morire? Dopo,... con piacere. Tra le sue braccia,... ben volentieri... Ma prima, no, è assurdo, perché la vita è desiderio, e il desiderio è vita, e non può andare contro se stesso, ecco la trappola maledetta. E se la chiamo maledetta, è soltanto un modo di dire, come se io fossi un altro, non può essere il parere mio. Ci sono svariate torture, Castorp, e chi è messo alla tortura, se ne vuole liberare, sfuggirle a tutti i costi, è la sua meta. Ma dalla tortura del desiderio carnale si cerca di liberarsi in un unico modo: a condizione che sia appagato,... altrimenti no, a nessun costo ! Cosí è congegnata questa istituzione, e chi non ne è preso, non ci fa caso, ma chi ne è vittima, impara a rivolgersi a nostro Signor Gesú Cristo e gli occhi gli si empiono di lacrime. Dio del cielo, che istituzione è mai questa, che la carne brami cosí la carne, soltanto perché non è la propria, ma appartiene a un'anima altrui!... Come è strano questo desiderio e, a guardar bene, anche modesto nella sua vereconda gentilezza! Si potrebbe dire: Se non vuole altro, ma sí, via, gli sia concesso! Che cosa voglio, Castorp, in fin dei conti? Voglio ammazzarla? voglio versare il suo sangue? No, voglio soltanto accarezzarla! Castorp, mi scusi, caro Castorp, se piagnucolo, ma, Dio buono, quella mi potrebbe accontentare. Ho anche qualcosa di piú elevato, non sono mica una bestia, alla mia maniera anch'io sono un uomo. Il desiderio carnale punta qui, punta là, non è legato né fisso, e perciò lo chiamiamo bestiale. Ma quando è fissato su una persona che ha un volto, allora noi diciamo che è amore. Io non bramo soltanto il suo torso, quella bambola di carne che è il suo corpo, e se il suo volto presentasse una sia pur minima diversità, forse non bramerei affatto il suo corpo, e cosí appare chiaro che amo la sua anima, che amo con l'anima. Poiché l'amore per il viso è amore dell'anima... Ma che le prende, Wehsal? Ha perso le staffe e mi canta una solfa che Dio solo sa... Ma questa appunto, questa è d'altro canto la disgrazia proseguí il poveretto,

che ha un'anima, che è fatta di corpo e d'anima! E la sua anima non ne vuol sapere della mia, né quindi il suo corpo del mio. Oh sciagura e miseria, e perciò il mio desiderio è condannato a fallire, e il mio corpo dovrà contorcersi in eterno. Perché non ne vuol sapere di me, col corpo e con l'anima? Perché, Castorp? Perché la mia brama le fa orrore? Non sono forse un uomo? Un uomo antipatico non è uomo? Io anzi lo sono in sommo grado. Le giuro che farei piú di quanto non si è mai visto, se mi aprisse il delizioso regno delle sue braccia che sono cosí belle perché appartengono al viso della sua anima. Le darei tutta la voluttà del mondo, Castorp, se si trattasse soltanto dei corpi e non anche dei volti, se non ci fosse quella sua anima maledetta che non ne vuol sapere di me, ma senza la quale, d'altro canto, non bramerei neanche il suo corpo,... ecco la schifosa trappola del diavolo, nella quale mi torco in eterno! Sst! Wehsal, parli piano! Il cocchiere comprende. Fa apposta a non girare la testa, ma vedo dalle sue spalle che sta ascoltando. Comprende e ascolta: ecco, vede, Castorp? Anche qui c'è l'istituzione con le sue qualità particolari. Se parlassi di palingenesi o di... idrostatica, non comprenderebbe, non ne avrebbe un'idea e non ascolterebbe e non s'interesserebbe. Non è roba per il popolo. La suprema e ultima e paurosamente segreta faccenda della carne e dell'anima, ecco, questa è la faccenda piú popolare, e tutti la comprendono e possono farsi beffe di colui che ne è preso, per cui il giorno diventa la tortura delle voglie, la notte l'inferno della vergogna. Castorp, caro Castorp, mi lasci frignare, sapesse che notti passo! Ogni notte la vedo in sogno, oh, quante cose sogno di lei, se ci penso mi sento ardere la gola e la bocca dello stomaco! E sempre va a finire che mi prende a schiaffi, mi percuote la faccia, talvolta mi sputa addosso,... col viso dell'anima, contratto per la nausea, mi sputa addosso, e allora mi sveglio coperto di sudore e di vergogna e di piacere... Bene, Wehsal, ora vogliamo tacere e proporci di non aprir bocca finché s'arriva dal droghiere e qualcuno non viene a sedersi accanto a noi. Questa è la mia proposta e la mia disposizione. Io non la voglio mortificare e riconosco che si trova in grandi angustie, ma a casa nostra si raccontava di uno che se parlava, gli uscivano dalla bocca rospi e serpenti, un serpente o un rospo a ogni parola. Nel libro non era detto come si regolava, ma io ho sempre supposto che avrà tenuto la bocca chiusa. Ma l'uomo protestò Wehsal querulo, l'uomo, caro Castorp, ha bisogno di parlare e di alleggerirsi il cuore quando è negli imbrogli come me. L'uomo, Wehsal, ne ha persino il diritto, se vogliamo. Ma, secondo il mio parere, ci sono diritti che in date circostanze è ragionevole non far valere. Stettero dunque zitti, seguendo le disposizioni di Castorp, e d'altronde le vetture arrivarono velocemente alla casetta del droghiere rivestita di pampini, dove non dovettero aspettare neppure un istante: Naphta e Settembrini erano già nella strada, questi con la logora giacca di pelo, l'altro invece in un soprabito primaverile giallobianchiccio tutto imbottito, da zerbinotto. Si scambiarono cerimoniali e saluti, mentre le carrozze voltavano, e gli uomini montarono: Naphta fu il quarto nel primo landò a fianco di Ferge, e Settembrini, che era di ottimo umore e spumeggiava di facezie,

si uní a Castorp e Wehsal, il quale gli cedette il posto sul sedile posteriore: Settembrini seppe occuparlo con la squisita noncuranza di chi partecipa al corso delle carrozze. Esaltò il piacere di andare in carrozza, quel modo di spostarsi stando comodamente fermi in un variare di scenari; si mostrò paternamente cortese con Castorp e carezzò persino una guancia a Wehsal, invitandolo a dimenticare il proprio io antipatico nell'ammirazione per il mondo luminoso che indicava con un largo gesto della destra chiusa nel logoro guanto di pelle. Il viaggio fu ottimo. I cavalli, vispi animali con la stella in fronte tutti e quattro, robusti, lustri e sazi, battevano con ritmO serrato la buona strada, non ancora polverosa. Frammenti di roccia, nelle cui crepe crescevano erbe e fiori, arrivavano qua e là fino al margine, pali telegrafici fuggivano all'indietro, foreste montane salivanò sui versanti, graziose curve, desiderate e raggiunte, alimentavano la curiosità dei viaggiatori, e nelle lontananze soleggiate s'intravedevano monti ancora in parte coperti di neve. Abbandonata l'usata zona della valle, lo spostamento della scena di tutti i giorni rinfrescava l'animo. Dopo non molto si fermarono sul limitare del bosco; da quel punto intendevano continuare la gita a piedi e arrivare alla meta,... una meta con la quale, senza averla avvertita in principio, già da un po' erano in contatto acustico, debole, ma via via piú intenso. Appena cessata la corsa tutti sentirono un rumore lontano, un lieve sussurro, che ogni tanto sfuggiva all'attenzione, una vibrazione, un rombo che l'uno invitava l'altro a distinguere e li faceva stare in ascolto a piè fermo. Ora disse Settembrini che c'era stato piú volte sembra titubante. Ma sul posto, in questa stagione, è brutale,... si preparino, non si riesce a udire la propria parola. Cosí si avviarono dentro al bosco, camminando su un umido strato di aghi, Peeperkorn in testa, appoggiato al braccio della sua compagna, il floscio cappello nero sulla fronte, con passo rollante; nel mezzo dietro a loro Castorp, senza cappello come tutti gli altri, le mani in tasca, guardando intorno con la testa reclinata e fischiettando sommesso; poi Naphta e Settembrini, indi Ferge e Wehsal, in coda il malese, solo, la cesta della merenda al braccio. Oggetto dei loro discorsi era il bosco. Non era un bosco come tanti altri, offriva un aspetto pittoresco singolare, quasi esotico, ma inquietante. Rigurgitava di una specie di licheni muscosi, penzolanti, ne era carico e tutto inviluppato, l'intrico infeltrito della pianta parassita dondolava, con lunghe barbe d'un brutto colore, dai rami rivestiti e ovattati, gli aghi non c'erano quasi piú, non si vedevano che festoni di musco,... una grave bizzarra deformazione, una scena stregata e morbosa. Il bosco non godeva buona salute, era malato di quel lichene vorace che minacciava di soffocarlo, questa era l'opinione di tutto il gruppo che procedeva per il sentiero coperto di aghi, avendo nelle orecchie il rumore della meta cui ci si avvicinava, quello strepito, quel sussurro che man mano diventò un fragore e promise di avverare la predizione di Settembrini. Una svolta del sentiero aprí la vista della gola boschiva e rocciosa, accavalcata da un ponte, nella quale precipitava la cascata; e con la vista anche l'effetto acustico toccò il culmine: era un frastuono infernale.

Le masse d'acqua cadevano a piombo in un'unica cascata, la cui altezza sarà stata di sette o otto metri, e la larghezza era pure notevole, e correvano via rimbalzando bianche sulle rocce. Precipitavano con uno strepito folle nel quale si mescolava ogni sorta di rumori e di suoni, tuoni e sussurri, urli e gridi, squilli, schianti, scrosci, rimbombi e scampanii,... da levare il sentimento. I visitatori si erano spinti sull'orlo del viscido fondo roccioso, e investiti da quel fiato umido, spruzzati dal polverio, avvolti in una nebbia di goccioline, le orecchie traboccanti di rumore e assordate, scambiandosi cenni e scotendo il capo con intimiditi sorrisi, osservavano lo spettacolo, la persistente catastrofe di spume e fragori, il cui rombo pazzo ed eccessivo li stordiva e li impauriva provocando illusioni acustiche. Pareva di udire dietro e sopra di sé e da ogni parte moniti e minacce, trombe e brutali voci umane. Raggruppati dietro a Peeperkorn- la signora Chauchat in mezzo agli altri cinque uomini - guardavano nel gorgo insieme con lui. Non ne scorgevano il viso, ma lo videro scoprirsi la bianca testa lingueggiante e allargare il petto alla frescura. Tra loro s'intendevano con sguardi e cenni, perché le parole, anche se gridate nelle orecchie, sarebbero state probabilmente sopraffatte dal tuono della cascata. Le loro labbra formavano parole di stupore e di amrnirazione, che però rimanevano senza suono. Castorp, Settembrini e Ferge s'intesero con cenni del capo per risalire la gola sul cui fondo si trovavano, e, giunti al ponticello superiore, osservare le acque dall'alto. Non era un'impresa scomoda; una ripida serie di brevi gradini scolpiti nella pietra portava, per cosí dire, al piano superiore del bosco; essi lo scalarono in fila indiana, arrivarono al ponte e dal centro di esso, sospesi sopra la curva dell'acqua, appoggiati al parapetto, salutarono con cenni gli amici di sotto. Poi passarono al di là, scesero faticosamente dall'altra parte e riapparvero alla vista dei rimasti sulla riva opposta del torrente, che là in basso era attraversato da un altro ponte. Il discorso mimico si riferí ora alla merenda e ai rinfreschi. Da varie parti si fece capire che era opportuno allontanarsi un po' dalla zona del rumore per godere il pasto all'aperto con le orecchie sgombre, non come i sordomuti. Ma si dovette notare che il volere di Peeperkorn era contrario. Egli scosse la testa, puntò alcune volte l'indice contro il suolo e staccando con uno sforzo le labbra squarciate formò la parola "Qui!". Che fare? In questioni logistiche era lui ilcapo e il comandante. Il peso della sua personalità avrebbe dato il tracollo anche se non fosse stato, come sempre, il maestro e organizzatore dell'impresa. Queste stature sono tiranniche e dispotiche da sempre e tali resteranno. Mynheer voleva far la merenda davanti alla cascata, nel fragore, questo era il suo sovrano capriccio e chi non voleva restare a bocca asciutta, doveva rimanere. La maggioranza fu scontenta. Settembrini che si vide troncata la possibilità di un colloquio umano, di una chiacchierata o magari di una disputa democratica e distinta, si portò la mano sopra la testa col suo disperato gesto di rassegnazione.

Il malese si affrettò a eseguire l'ordine del padrone. C'erano due sedie pieghevoli che egli collocò ai piedi della roccia per mynheer e madame. Poi distese davanti a loro su un panno il contenuto della cesta: tazze da caffè, bicchieri, thermos, panini e vino. Tutti si fecero avanti per la distribuzione. Seduti sui sassi, sul parapetto del ponticello, in mano la tazza col caffè bollente, il piatto col panettone sulle ginocchia, fecero merenda in silenzio nel frastuono. Peeperkorn, col bavero alzato, il cappello vicino a sé per terra, bevve il Porto da un bicchiere d'argento col monogramma, che vuotò piú volte. Poi, a un tratto, si mise a parlare. Che uomo bizzarro! Non poteva certo udire la propria voce, men che meno potevano udire gli altri una sillaba di ciò che manifestava senza che fosse manifesto. Tenendo il bicchiere con la destra, alzò l'indice, tese il braccio sinistro con la mano aperta sollevata obliquamente e con le labbra formò parole che rimasero senza suono come se fossero pronunciate in un vuoto d'aria. Guardandolo con sorrisi di sorpresa, tutti pensavano che avrebbe smesso subito quell'esercizio inutile... egli invece, nel frastuono che inghiottiva ogni cosa continuò a parlare accompagnandosi con gesti civili della sinistra, i quali, avvincenti com'erano, imponevano attenzione; e rivolgendo gli occhietti stanchi e pallidi, spalancati con sforzo sotto le tese rughe frontali, ora all'uno, ora all'altro degli spettatori, li costringeva a far cenni di approvazione con le sopracciglia sollevate e la bocca aperta, e a portarsi la mano cava al padiglione dell'orecchia, come se ciò potesse migliorare la disperata situazione. Ora si alzò persino in piedi! Il bicchiere in mano, in quel cappotto da viaggio sgualcito, lungo quasi fino ai piedi, col bavero alzato, a capo scoperto, l'alta fronte da idolo aureolata dai capelli bianchi, ritto davanti alla roccia, le dita ad anello sormontate dalle lance davanti al viso mobile, sembrava che fosse in cattedra e conferisse all'oscurità del suo sordo brindisi l'ammaliante segno della chiarezza. Dai gesti e dal movimento delle labbra si intuivano singole parole del suo repertorio: "perfetto" "chiuso", nient'altro'. Si vedeva la sua testa inclinarsi, l'amarezza lacerata delle labbra, l'immagine dell'Ecce homo. Poi si vide rifiorire la fresca fossetta, la scaltrezza sibaritica, la veste succinta nella danza, la sacra scostumatezza del sacerdote pagano. Egli alzò il bicchiere, lo spostò in semicerchio davanti agli occhi degli invitati e lo vuotò in due, tre sorsi, fino all'ultimo, fino a capovolgerlo col fondo in su. Poi lo porse col braccio teso al malese, che lo prese portandosi l'altra mano al petto, e diede il segnale della partenza. Tutti gli s'inchinarono ringraziando e accingendosi a obbedire. Chi era accoccolato per terra, balzò in piedi, chi era seduto sul parapetto del ponte, ne scese. Il gracile giavanese, col cappello duro e il bavero di pelliccia, raccolse i resti dello spuntino e le stoviglie. E nello stesso ordine, in cui erano venuti, ritornarono sugli aghi umidi del sentiero, attraverso il bosco, reso irriconoscibile dai festoni di licheni, fino alla strada dove aspettavano le carrozze.

Questa volta Castorp montò in quella del maestro e della sua compagna. Al fianco del buon Ferge, cui tutte le cose superiori erano inaccessibili, si sedette dirimpetto alla coppia. Peeperkorn, le mani posate sulla coperta da viaggio che avvolgeva le sue ginocchia insieme con quelle di Clavdia, stava con la mascella inferiore penzoloni. Settembrini e Naphta scesero e si accomiatarono prima che il landò attraversasse il binario e il torrente. Wehsal salí la svolta da solo nella seconda carrozza fino al portale del Berghof dove il gruppo si sciolse. Il sonno di Castorp,.quella notte, era forse tenuto leggero e fugace da qualche attesa che la sua anima ignorava, se la piú lieve deviazione dall'usata pace notturna del Berghof, un trambusto per quanto smorzato, l'appena percettibile vibrazione di una corsa lontana fu sufficiente a svegliarlo del tutto e a farlo balzare seduto sul letto? Di fatti fu sveglio molto tempo prima che bussassero alla sua porta; il che avvenne poco dopo le due. Egli rispose subito, non assonnato, con presenza di spirito ed energia. Era la voce alta e tremula d'un'infermiera della casa che, per incarico della signora Chauchat, lo pregava di scendere subito al primo piano. Con maggiore energia si dichiarò pronto a obbedire, balzò in piedi, s'infilò il vestito, si ravviò i capelli sulla fronte e scese, non in fretta, ma adagio, incerto piuttosto del modo che del fatto. Trovò aperto l'uscio del salotto di Peeperkorn, cosí pure quello della sua camera dove tutte le luci erano accese. Vi erano presenti i due medici, la superiora von Mylendonk, la Chauchat e il cameriere giavanese. Questi, vestito non come al solito, ma con una specie di foggia nazionale, una giacca simile a una camicia a larghe strisce, con le maniche ampie e lunghissime, una gonna colorata al posto dei calzoni e in testa un berretto a cono di panno giallo, sul petto un monile di amuleti, stava immobile, con le braccia conserte, a capo del letto, dove Pieter Peeperkorn giaceva supino con le mani distese. Castorp, pallido, abbracciò la scena con un'occhiata. La Chauchat gli volgeva le spalle: era seduta su una poltroncina bassa ai piedi del letto, il gomito appoggiato sulla trapunta, il mento sulla mano, le dita rattratte sul labbro inferiore, e guardava in viso il suo compagno di viaggio. Buona sera, giovanotto disse Behrens, che aveva parlato sottovoce col dottor Krokowski e con la superiora, e fece un cenno malinconico, coi baffetti bianchi arricciati. Era in camice clinico, dal cui taschino sporgeva lo stetoscopio, portava pantofole ricamate ed era senza colletto. Niente da fare bisbigliò. Opera compiuta. Si avvicini pure, e lo guardi con occhio esperto. Ammetterà che ha messo le mani avanti rendendo inutile ogni arte medica. Castorp si accostò al letto in punta di piedi, mentre gli occhi del malese ne sorvegliavano ogni movimento, lo seguivano senza girare la testa, sicché se ne vedeva il bianco. Con un'occhiata di fianco vide che la Chauchat non Si curava di lui, e assunse il tipico atteggiamento accanto al letto, col peso del corpo su una gamba, le mani incrociate sul ventre, la testa china su una spalla, in rispettosa e pensosa contemplazione.

Peeperkorn in camicia di maglia, giaceva sotto la coperta di seta rossa, come Castorp l'aveva visto tante volte. Le sue mani erano d'un livido nerastro, e cosí alcune parti del viso. Ciò lo deformava alquanto, anche se i suoi lineamenti regali erano immutati. La rigatura da idolo sull'alta fronte aureolata di bianco, su quattro o cinque linee orizzontali, poi piegate ad angolo retto in discesa verso le tempie, incise dall'abituale tensione di una vita intera, spiccava ed emergeva, anche a palpebre abbassate, a riposo. Le labbra amaramente squarciate erano un po' aperte. La cianosi era indizio di un ristagno improvviso, di un violento apoplettico arresto delle funzioni vitali. Castorp mantenne qualche istante il devoto silenzio di chi s'informa della situazione; esitava a cambiare atteggiamento in attesa che la "vedova" gli rivolgesse la parola. Poiché ciò non avvenne, desiderando di non disturbare, si voltò verso il gruppo dei presenti alle sue spalle. Con un cenno del capo il consigliere gli indicò il salotto: e Castorp lo seguí. Suicidio? domandò con voce sommessa, da esperto. Eccome! rispose Behrens con un gesto sprezzante, e aggiunse: In pieno. Superlativo. Ha mai visto un ninnolo cosí? domandò estraendo dalla tasca del camice un astuccio di forma irregolare e cavandone un oggettino che presentò al giovane... Io no. Ma mette conto di vederlo. Non si finisce mai d'imparare. Un capriccio ingegnoso. Gliel'ho tolto di mano: attento: se una goccia le cade sulla pelle, le viene una vescica. Castorp rigirò tra le dita il misterioso oggetto. Era fatto d'acciaio, avorio, oro e caucciú, stranissimo da vedere. Aveva due rebbi di lucido acciaio, ricurvi, con la punta acutissima, una parte centrale d'avorio, leggermente torta, con intarsi d'oro, nella quale i rebbi s'incastravano fino a un certo punto, quasi elastici, verso linterno, e terminava con un rigonfio a peretta di gomma nera semirigida. Il tutto misurava soltanto un paio di pollici. Che roba è? domandò Castorp. Questa rispose Behrens è una siringa da iniezione organizzata. O, vista sotto un altro aspetto, una copia meccanica dei denti del cobra. Ha capito?... pare di no soggiunse perché Castorp, perplesso, continuava a guardare il bizzarro strumento. Questi sono i denti. Non sono massicci, ma attraversati da un tubo capillare, da un canale sottilissimo; lei ne può vedere chiaramente l'uscita qui davanti, un po' sopra le punte. Naturalmente i tubetti sono aperti anche qui alla radice dei denti e in comunicazione con lo sbocco della borsa di gomma che s'interna nell'avorio dalla parte mediana.

All'atto di mordere i denti scattano verso l'interno, è chiaro, ed esercitano una pressione sul serbatoio che spinge il contenuto nei canali, di maniera che, appena le punte penetrano nella carne, la dose è già schizzata nel circolo sanguigno. Avendolo in mano, il congegno è molto semplice: ma bisogna averlo ideato. Probabilmente fu costruito su sue ordinazioni. Certamente! esclamò Castorp. La carica non può essere stata molto abbondante proseguí Behrens. Il difetto della quantità fu sostituita dalla... Potenza suggerí Castorp. Precisamente. Che cosa sia, scopriremo in seguito. Il risultato merita la nostra curiosità, ci sarà qualcosa da imparare. Scommettiamo che quel guardiano esotico laggiú, messosi cosí in ghingheri questa notte, saprebbe darci notizie precise? Io suppongo che sia una combinazione di sostanze animali e vegetali,... in ogni caso il meglio possibile, poiché l'azione dev'essere stata fulminea. Tutto fa pensare che il respiro sia cessato immediatamente, paralisi dell'apparato reSpiratorio, capisce, morte rapida per soffocazione, probabilmente senza strazi e dolori. Dio lo voglia! disse Castorp, pietoso; restituí al consigliere, con un sospiro, il raccapricciante aggeggio e ritornò nella camera. Vi erano rimasti soltanto il malese e la signora Chauchat. Questa volta Clavdia alzò la testa a guardare il giovane che si avvicinava al letto. Lei era in diritto che la facessi chiamare disse. Molto gentile da parte sua rispose lui. E ha ragione. Eravamo amici, e ci davamo del tu. Mi vergogno profondamente di essermene vergognato in pubblico e di aver usato scappatoie. Lei era presente nei suoi ultimi istanti? Il cameriere mi avvertí quando tutto era finito rispose lei. Era di una tale statura riprese a dire Castorp, che per lui il venir meno al sentimento di fronte alla vita era una catastrofe cosmica, un'onta di Dio. Egli, deve sapere, si considerava l'organo nuziale di Dio. Era una sciocchezza regale... Quando si è commossi si ha il coraggio di usare parole che suonano inaudite e senza rispetto, ma sono piú solenni delle meditazioni concesse. C'est une abdication disse lei. Lui era informato della nostra follia? Non mi fu possibile contestargliela, Clavdia. L'aveva indovinata dal mio rifiuto di baciare lei in fronte in sua presenza. La sua presenza, in questo momento, è piú simbolica che reale, ma mi vuol permettere di farlo adesso? Lei spostò brevemente la testa verso di lui, con gli occhi chiusi, come un invito. Egli posò le labbra sulla sua fronte. I bellissimi occhi castani del malese, girati da un lato in modo che se ne scorgeva il bianco sorvegliavano la scena. La grande stupidità. Ancora una volta udiamo la voce del consigliere Behrens... Stiamo bene attenti! Forse la sentiamo per l'ultima volta.

A un certo momento finisce persino questa storia; è durata un tempo massimo, o meglio: il tempo in essa contenuto si è messo a rotolare talmente che non c'è modo di fermarlo, e anche il suo tempo musicale va declinando, e forse non ci capiterà piú alcuna occasione di stare a sentire l'allegra cadenza del proverbiale linguaggio di Radamanto. Il quale disse a Castorp: Castorp, vecchio mio, lei si annoia. Sta con la testa ciondolone, lo vedo tutti i giorni, l'uggia le sta scritta in fronte. E' un bambolone disgustato, viziato dai fatti impressionanti, e se non le si offre ogni giorno qualcosa di eccezionale, mette il broncio e borbotta contro la stagione morta. Dico bene o no? Castorp tacque. E siccome taceva, nel suo cuore dovevano regnare davvero le tenebre. Dico bene, sí, come sempre rispose Behrens alla propria domanda. E prima che lei mi diffonda qui il veleno dell'uggia ufficiale, da quel cittadino malcontento che è, dovrebbe pur notare che non è affatto abbandonato da Dio e dagli uomini, che invece l'autorità la tiene d'occhio, senza batter ciglio, mio caro, e pensa continuamente a farle cambiare rotta. Il vecchio Behrens è ancora qui. Ora, bando agli scherzi, ragazzo mio ! Mi è venuta un'idea per lei, l'ho escogitata nelle mie notti insonni. E' stata, direi, un'ispirazione... Infatti mi riprometto molto da questa idea, né piú né meno che la sua disintossicazione e il trionfale ritorno piú presto che lei non si aspetti. Lei sgrana gli occhi continuò dopo una pausa d'effetto, benché Castorp non sgranasse un bel nulla, lo guardasse invece piuttosto assonnato e distratto, e non immagina come la intenda il vecchio Behrens. Ecco, io la intendo cosí. In lei, Castorp, c'è qualcosa che non va; non sarà sfuggito alla sua spettabile appercezione. Non va in quanto i suoi fenomeni tossici già da un pezzo non corrispondono piú alle sue condizioni locali, indubbiamente assai migliorate,... ci sto meditando, e non da ieri. Ecco qua la sua lastra recente... Vediamo un po il trucco contro luce! Non c'è cocciuto sofisticone o pessimista, come dice il nostro sovrano, che trovi gran che da ridire. Un paio di focolai sono riassorbiti, il nido è piú piccolo e meglio delimitato, la qual cosa (lei è abbastanza erudito per saperlo) è indizio di guarigione. Da questo reperto non si spiega la sregolatezza del suo bilancio termico, Capisce? Il medico si trova nella necessità di andare in cerca di nuove cause. Con un movimento del capo Castorp espresse una curiosità passabilmente cortese. Ora lei penserà, Castorp: ecco, il vecchio Behrens deve ammettere di aver sbagliato la cura. Ma prenderebbe un gambero madornale e farebbe torto alla realtà e al vecchio Behrens. La cura non era sbagliata, era semmai troppo unilaterale. Ho intuito l'eventualità che i suoi sintomi non fossero conseguenza esclusiva della tubercolosi e deduco questo fatto eventuale dalla probabilità che oggi, in genere, non ne siano piú la conseguenza. Ci dev'essere un'altra fonte di disturbo.

Secondo me lei ha dei cocchi. Secondo la mia intima convinzione ripeté il consigliere con forza dopo aver notato il cenno che Castorp aveva ormai dovuto fare, lei ha streptococchi... e non occorre che si spaventi. (Non era il caso di parlare di spavento. Il viso di Castorp esprimeva piuttosto una specie di approvazione ironica, sia della perspicacia alla quale si trovava di fronte, sia della nuova ipotetica dignità cui il consigliere lo elevava.) Non c'è motivo di panico variò quest'ultimo il suo avvertimento. Cocchi ne hanno tutti. Non c'è asino che non abbia gli streptococchi. Non creda di menar vanto. Soltanto da studi recenti sappiamo che uno può avere streptococchi nel sangue senza per questo manifestare cospicui fenomeni infettivi. Ci troviamo davanti alla scoperta, ancora ignota a numerosi colleghi, che il sangue può contenere anche tubercoli senza alcuna conseguenza. Siamo ormai a tre passi dal concetto che, a rigore, la tubercolosi sia una malattia del sangue. A Castorp il fatto sembrò molto notevole. Se dico dunque: streptococchi riprese Behrens, lei non deve pensare al noto e grave quadro clinico. L'esame batteriologico ci dirà se questi piccoli si sono annidati nel suo sangue. Ma se la sua febbre dipende da loro, ammesso che ci siano, lo sapremo soltanto dagli effetti dello streptovaccino, al quale ora dobbiamo ricorrrere. Questa è la via, caro amico, e da essa mi riprometto come dicevo, l'esito piú imprevisto. Mentre la tubercolosi va per le lunghe, malattie di questo genere si possono guarire piu rapidamente, e se lei reagirà alle iniezioni, tra sei settimane può essere sano come un pesce. Che ne dice ora? Il vecchio Behrens sa o non sa il fatto SUO? Per il momento è soltanto un'ipotesi osservò fiaccamente Castorp. Ipotesi ,dimostrabile! ipotesi fecondissima! ribatté il consigliere. Vedrà quanto sia feconda, quando i cocchi cresceranno nelle nostre culture. Domani nel pomeriggio ia spilliamo, le facciamo un salasso secondo tutte le regole della flebotomia paesana. E' uno scherzetto a parte e da solo può avere i piú benefici effetti per il corpo e per l'anima... Castorp si dichiarò disposto al cambiamento di rotta e ringraziò cordialmente dell'attenzione prestatagli. La testa piegata sulla spalla, seguí con lo sguardo il consigliere che s'allontanava remigando. Il discorsetto del principale era giunto in un momento critico; Radamanto aveva interpretato abbastanza bene l'espressione del viso e gli umori dell'ospite, e la sua nuova impresa aveva lo scopo - espresso e confessato - di superare il punto morto al quale l'ospite era giunto da poco, come si poteva argomentare dalla sua mimica che ricordava chiaramente quella di Joachim buon'anima, nel periodo in cui era andato preparando certe arbitrarie e ribelli risoluzioni. Diremo di piú.

Non soltanto lui, Castorp, pareva arrivato a quel punto morto, ma egli aveva anche l'impressione che il mondo, tutto insieme, fosse nelle medesime condizioni, ossia: pensava che fosse difficile distinguere il particolare dall'universale. Dopo la fine eccentrica della sua amichevole unione con una personalità; dopo i vari movimenti che quella fine aveva provocato e la nuova separazione di Clavdia Chauchat dalla comunità di quelli lassú , dopo l'addio che, oscurato dalla tragedia di un grande fallimento, lei e il sopravvissuto amico che dava del tu al suo signore, si erano scambiati nello spirito di un rispettoso riguardo,... dopo quella svolta il giovane sentiva che il mondo e la vita avevano un'aria piuttosto sospetta; come se fossero in una posizione stranamente falsa e sempre piú inquietante; come se fosse salito al potere un demone che, matto e cattivo, aveva già da un pezzo esercitato un considerevole influsso, ma ora aveva dichiarato il suo potere con una cosí sfrenata franchezza da poter certo incutere un segreto spavento e suggerire pensieri di fuga: il demone che si chiamava stupidità. Si dirà che il narratore usa tinte troppo cariche e romantiche accostando la stupidità al concetto del demoniaco e attribuendole l'effetto d'un orrore mistico. Eppure non stiamo fantasticando, ma ci atteniamo esattamente all'esperienza personale del nostro schietto eroe, la quale ci è nota per vie che, questo è vero, si sottraggono all'indagine, e dimostra che, in date circostanze, la stupidità può assumere quel carattere e incutere quei sentimenti. Hans Castorp si guardava intorno... E vedeva soltanto aspetti paurosi, maligni, e si rendeva conto di ciò che vedeva: la vita senza tempo, la vita senza preoccupazioni e senza speranze, la vita sciatta, affannosa e stagnante, la vita morta. Vi regnava molta operosità, attività d'ogni sorta vi si svolgevano parallele; ma di quando in quando una di esse degenerava in un furore di moda, in un fanatismo imperante. La fotografia dei dilettanti, per esempio, aveva avuto sempre molta importanza nel mondo del Berghof; ma già due volte - poiché chi soggiornava lassú a lungo riusciva a vedere il periodico ritorno di siffatte epidemie - quella passione era diventata per settimane e mesi una follia generale, sicché non c'era nessuno che con aria pensosa non chinasse la testa sopra una macchina fotografica premuta contro la bocca dello stomaco, facendo scattare l'otturatore, e a tavola non si finiva mai di far circolare le copie. Sviluppare di persona diventò a un certo momento un impegno d onore. La camera oscura disponibile non fu piú sufficiente alla domanda. Si mascherarono con tendìne nere le finestre e le porte delle camere che davano sul balcone; e alla luce rossa si manipolavano bagni chimici finché scoppiò un incendio e lo studente bulgaro della tavola dei "russi ammodo" fu a un pelo da ridursi in cenere, dopo di che la direzione del sanatorio emanò un divieto. Poco dopo la fotografia normale fu indizio di cattivo gusto; e vennero in voga le istantanee al lampo di magnesio e le fotografie a colori col sistema Lumière. Erano una delizia i ritratti di persone che, colpite dal lampo improvviso, la faccia pallida e contratta, guardavano con gli occhi fissi, come cadaveri di assassinati, messi là ritti con gli occhi aperti. E Castorp possedeva una lastra entro una cornice di cartone, che tenuta contro luce lo riproduceva su un prato verdeveleno in mezzo al bosco, tra la signora Stohr e l'eburnea Levi, delle quali la prima portava uno

sweater celeste, mentre l'altra ne aveva uno rosso sangue, entrambe col viso color rame, circondate da ranuncoli gialli come l'ottone, e uno di questi gli sfolgorava all'occhiello. C'era poi la filatelia che, coltivata sempre da singoli, ogni tanto diventava un'ossessione generale. Tutti scambiavano, trafficavano, appiccicavano. Si leggevano riviste filateliche, si era in corrispondenza con negozianti specializzati dell'interno e dell'estero, con associazioni del ramo e dilettanti privati, e per l'acquisto di valori rarissimi si impiegavano somme stupefacenti persino da parte di coloro le cui condizioni economiche consentivano a mala pena il soggiorno di mesi o anni nel sanatorio di lusso. Ciò durò fin quando non venne in auge un'altra balordaggine e, ad esempio, la raccolta, nonché l'incessante consumo di cioccolata di tutte le specie immaginabili, fece parte della buona educazione. Tutti avevano la bocca marrone, e le piú ghiotte portate della cucina del Berghof erano accolte con disgusto e critiche pedanti, perché gli stomachi erano guasti per essersi rimpinzati di Milka-Nut, di chocolat à la crème d'amandes, di Marquis-Napolitains e di lingue di gatto chiazzate d'oro. L'arte di disegnare il porcellino a occhi chiusi, inaugurata dalla suprema autorità in una passata sera di carnevale e da allora molto coltivata, aveva prolificato e condotto a giuochi di pazienza geometrici, i quali a momenti assorbivano la forza intellettuale di tutti gli ospiti del Berghof e persino gli ultimi pensieri e le ultime manifestazioni di energia dei moribondi. Per settimane tutto il sanatorio era sotto il dominio di una figura complicata, composta di non meno di otto cerchi grandi e piccoli e di alcuni triangoli inscritti l'uno nell'altro: il compito consisteva nel tracciare a mano libera quel complesso disegno in un sol tratto, il massimo, poi, nel farlo con gli occhi bendati,... la qual cosa, prescindendo equamente da qualche neo, riuscí infine soltanto al procuratore Paravant, che era il principale paladino di quella ingegnosa fissazione. Sappiamo che questi si dedicava alla matematica, lo sappiamo dal consigliere stesso e di quella passione conosciamo anche l'onesta molla della quale abbiamo sentito elogiare l'effetto refrigerante, capace di spuntare il pungolo della carne; e la cui larga imitazione avrebbe probabilmente reso superflue certe misure che si erano dovute prendere di recente: esse comportavano soprattutto lo sbarramento di tutti i passaggi sui balconi, lungo i tramezzi di vetro appannato che non arrivavano fino al parapetto, mediante porticine che il bagnino, con un sorrisetto plebeo, chiudeva per la notte. Da quel momento furono molto richieste le camere del primo piano sopra la veranda dove, scavalcata la balaustrata, si poteva passare da uno scomparto all'altro, lungo lo sporgente tetto di vetro, evitando le porticine. In quanto al procuratore però si sarebbe anche potuto fare a meno di quella innovazione disciplinare. La grave tentazione esercitata su Paravant dalla comparsa di quella Fatma egiziana era superata da un pezzo, ed era stata l'ultima aggressione alla sua parte naturale. Dopo di allora egli si era buttato con raddoppiato fervore tra le braccia della dea dagli occhi chiari, della cui efficacia sedativa il consigliere sapeva dire cose tanto morali, e il problema, al quale dedicava tutti i suoi pensieri, di giorno e di notte, al quale consacrava la perseveranza e tutta la tenacia sportiva con cui a suo tempo - prima della licenza, piú volte prorogata, che minacciava di trasformarsi in definitivo

collocamento a riposo - aveva cercato di provare la colpabilità dei poveri imputati,... era nientemeno la quadratura del circolo. Nel corso dei suoi studi lo sviato funzionario era arrivato alla convinzione che le prove, con le quali la scienza pretendeva di aver dimostrato l'impossibilità della costruzione, non erano valide, e la Provvidenza, nei suoi disegni, aveva allontanato dal basso mondo dei vivi e trasferito lassú lui, Paravant, perché lo aveva destinato a portare quel fine trascendente nell'ambito d'un'attuazione umanamente esatta. Cosí la pensava. Dovunque fosse, faceva calcoli e disegnava cerchi, empiva montagne di carta con figure, lettere, numeri, simboli algebrici, e la sua faccia abbronzata, di uomo apparentemente sanissimo, aveva la visionaria e accanita espressione del maniaco. I suoi discorsi si aggiravano sempre e con tremenda monotonia intorno al rapporto pi greco, a questa disperata frazione che l'umile genio di un calcolatore mentale di nome Zacharias Dase calcolò fino a duecento decimali,... ma per puro lusso, perché le possibilità di avvicinarsi all'irraggiungibile esattezza non si esaurirebbero neanche con duemila cifre, e anzi rimarrebbero tali e quali. Tutti scansavano il tormentato pensatore poiché chi gli capitava tra le grinfie era costretto a sorbirsi torrenti di parole infocate, miranti a destare la sua umana sensibilità per la vergogna che lo spirito umano sia contaminato dalla funesta irrazionalità di quel mistico rapporto. L'inutilità di moltiplicare in eterno il diametro per pi greco al fine di trovare la circonferenza, il quadrato del raggio per pi greco al fine di trovare la superficie del cerchio, procurava a Paravant attacchi del dubbio se dopo i giorni di Archimede l'umanità non si sia creata eccessive difficoltà e la soluzione del problema non sia invece puerile e semplicissima. Come? non si dovrebbe poter rettificare la circonferenza né pertanto piegare a cerchio qualunque retta? Certe volte il procuratore si credeva prossimo a una rivelazione. Spesso lo si vedeva, la sera tardi, nella sala da pranzo ormai deserta e scarsamente illuminata, ancora seduto alla sua tavola, sul cui piano sgombro disponeva accuratamente un pezzo di spago in forma di cerchio e poi, con gesto improvviso, lo stendeva formando una retta, e infine, con la testa fra le mani, si concentrava in amare riflessioni. Il consigliere gli dava talvolta una mano in quel malinconico trastullo e, in genere, incoraggiava il suo grillo. Anche a Castorp ricorse una volta il paziente col suo cruccio adorato, una e piú volte, perché aveva incontrato molta e amichevole comprensione nonché profonda simpatia per l'enigma del circolo. Illustrò al giovane la disperata situazione del pi greco presentandogli un disegno a tratti finissimi dove, con enorme fatica, era stato tracciato un cerchio tra due poligoni, l'uno inscritto e l'altro circoscritto, con innumerevoli piccolissimi lati, fino all ultima approssimazione umanamente possibile. Il resto invece, la curvatura che, su un piano etereo dello spirito, rifiuta di essere razionalizzata mediante la calcolabile circoscrizione,... quella, disse il procuratore con la mandibola tremante, quella è il pi greco! Castorp, per quanto ben disposto, si rivelò meno sensibile al pi greco di quanto non fosse il suo interlocutore.

Lo chiamò una burletta, consigliò il signor Paravant di non accalorarsi troppo nel giocare ad acchiapparlo e parlò dei punti senza dimensione, dei quali si compone il circolo dal non esistente principio alla fine non esistente, nonché della petulante malinconia insita nell'eternità in sé ricorrente senza direzione e durata: parlò con cosí pacati accenti religiosi da esercitare sul procuratore un transitorio influsso calmante. D'altro canto il buon Castorp, per il suo carattere, era destinato a fare il confidente di parecchi coinquilini che, ossessi da un'idea fissa, soffrivano di non trovare ascolto presso la frivola maggioranza. Un ex scultore, venuto dalle provincie austriache, persona già in età avanzata coi baffi bianchi, il naso aquilino e gli occhi azzurri, aveva concepito un piano di politica finanziaria - e l'aveva messo in bella copia segnando i passi piú importanti con pennellate color seppia all'acquerello; - secondo questo progetto ogni abbonato a un giornale doveva essere obbligato a consegnare il primo di ogni mese, una quantità di cartaccia in ragione di 40 grammi al giorno, che in un anno sarebbero in cifra tonda I4000 grammi e in vent'anni nientemeno che 280 chili, i quali calcolando un chilo a 20 pfennig rappresenterebbero un valore di 56 marchi tedeschi. Cinque milioni di abbonati, continuava il promemoria, darebbero in valore di carta straccia entro vent'anni l'enorme somma di 280 milioni di marchi, dei quali pur detraendo due terzi per il rinnovo degli abbonamenti, che venivano quindi a costare meno, il resto, un terzo, cioè quasi 100 milioni di marchi poteva essere devoluto a scopi benefici, a finanziare sanatori popolari per tubercolotici, a sovvenzionare ingegni in strettezze, e cosí via. Il progetto era elaborato fino alla rappresentazione grafica della colonna dei prezzi, sulla guale l'incaricato al ritiro della carta straccia trovava ogni mese il valore della quantità raccolta, e ai moduli forati per quietanzare i rimborsi. Era un piano giustificato e motivato in tutti i sensi. Lo sconsiderato spreco e la distruzione della carta di giornali che i non iniziati abbandonano alle acque di scolo o al fuoco sono, diceva, delitti d'alto tradimento contro le nostre foreste e contro l'economia nazionale; conservare e risparmiare carta significa conservare e risparmiare cellulosa, patrimonio forestale, materiale umano che invece si consuma nelle fabbriche di carta e cellulosa. Siccome poi il valore della carta di giornali, attraverso la produzione di carta da imballaggio e cartone aumenta del quadruplo, essa può diventare un coefficiente economico importante e una base di redditizie tassazioni statali e comunali, e alleggerire la pressione tributaria sui lettori di giornali. Insomma, il progetto era buono, anzi indiscutibile, e se sotto qualche aspetto appariva sinistramente ozioso, o anzi paurosamente folle, ciò era dovuto soltanto al balordo fanatismo col quale l'ex artista perseguiva e propugnava un'idea economica, e soltanto questa, prendendola però, nel suo intimo, cosí poco sul serio da non fare il ben che minimo tentativo di attuarla... Con la testa reclinata e approvando, Castorp ascoltava il brav'uomo che con parole alate e febbrili faceva propaganda per la sua feconda dottrina, e intanto esaminava la natura del disprezzo e del disgusto che pregiudicavano la sua simpatia per l'inventore contro il mondo fatuo e spensierato. Alcuni inquilini del Berghof studiavano Esperanto e a tavola riuscivano a conversare un po in quel gergo artificiale. Castorp li guardava bieco, ma tra sé era del parere che non fossero i peggiori.

Era arrivato da non molto un gruppo di inglesi i quali avevano introdotto un giuoco di società consistente soltanto in questo: un partecipante rivolgeva al vicino la domanda: Did you ever see the devil with a nightcap on? . L'interrogato rispondeva: No ! I never saw the devil with a night-cap on e a sua volta ripeteva la domanda al prossimo... e cosí via in circolo. Una cosa spaventevole. Il povero Castorp però si sentiva ancora peggio vedendo quelli che facevano il solitario, e ce n'erano da per tutto e a tutte le ore del giorno. La passione per questo divertimento era invalsa talmente da trasformare il sanatorio in una sentina di vizi, e Castorp aveva tanto piú motivo di esserne inorridito, in quanto egli stesso fu per qualche tempo vittima (forse la piú colpita) dell'epidemia. Lo aveva stregato il solitario dell'undici: si dispongono nove carte del whist su tre file e, quando due di esse fanno insieme undici oppure vi appaiono le tre figure, sulla combinazione se ne scoprono altrettante finché, se la fortuna assiste, il giuoco riesce. Non si crederebbe che da un procedimento cosí semplice possano emanare stimoli psichici capaci di portare all ossessione. Eppure Castorp, come tanti altri, ebbe modo di provare questa possibilità,... e la provò con occhi torvi, perché la sregolatezza non è mai serena. Soggetto ai capricci delle carte, sedotto dal loro favore fantasticamente volubile che talvolta, nella lieve aura della fortuna, fa ammucchiare fin dal principio le coppie degli unidici e il terzetto fante-donna-re, di modo che il giuoco è riuscito prima che arrivi il terzo cambio (trionfo fugace che pungola i nervi a fare subito altri tentativi), mentre altre volte rifiuta fino alla nona e ultima carta ogni possibilità di ricoprirla, o fa svanire la riuscita ormai apparentemente sicura con un arresto improvviso all'ultimo momento,... faceva solitari da per tutto e a tutte le ore del giorno, di notte sotto le stelle, al mattino in solo pigiama, e talvolta persino in sogno. Ne era inorridito, ma lo faceva. E cosí lo trovò un giorno Settembrini, venuto a "disturbare", come era stata sempre la sua missione. Accidenti ! disse. Ci diamo alla cartomanzia, ingegnere? Non precisamente rispose Castorp. Faccio solitari, mi accapiglio col caso astratto. Mi danno da pensare le sue smorfie capricciose, la sua servilità e poi la sua incredibile renitenza. Questa mattina, appena alzato, il solitario m'è riuscito benissimo tre volte consecutive, una di queste con due soli cambi, che è un primato. Vuol credere che ora sono trentadue volte che distribuisco le carte e non sono arrivato nemmeno una volta alla metà del giuoCo? Settembrini lo guardò, come già tante volte in quegli annetti, con gli occhi neri pieni di tristezza. In ogni caso la vedo impensierito disse. E non credo di trovare qui il conforto alle mie ansie, il balsamo per l'interno dissidio che mi assilla. Dissidio? ripeté Castorp continuando a disporre le carte... La situazione mondiale mi turba sospirò il frammassone. La lega balcanica si farà, ingegnere, le mie informazioni sono tutte positive.

La Russia si dà da fare con fervore, e la punta dell'unione è diretta contro la monarchia austro-ungarica, senza la cui distruzione non si può attuare nessun punto del programma russo. Comprende i miei scrupoli? Io odio Vienna, lei lo sa, con tutte le mie forze. Ma dovrei per questo concedere l'appoggio della mia mente al dispotismo sarmatico che sta per appiccare il fuoco al nostro nobilissimo continente? D'altra parte una collaborazione diplomatica, sia pure soltanto occasionale, del mio paese con l'Austria mi col pirebbe come un disonore. Sono questioni di coscienza che... Sette e quattro esclamò Castorp. Otto e tre. Fante, donna, re. Andiamo bene. Lei mi porta fortuna, signor Settembrini. L'italiano ammutolí. Castorp si sentí addosso i suoi occhi neri, lo sguardo della ragione e della morale profondamente triste, ma continuò ancora un po' il suo giuoco, finché, la guancia nella mano, con la falsa e caparbia espressione d'innocenza che hanno i ragazzi cattivi, alzò gli occhi verso il mentore che gli stava davanti. I suoi occhi osservò quest'ultimo cercano invano di nascondere che lei sa a che punto si trova. Placet experiri ebbe Castorp la sfacciataggine di rispondere, e Settembrini lo piantò lí,... dopo di che però, rimasto solo, la testa appoggiata alla mano, Castorp, senza toccare le carte, stette a lungo seduto al tavolino in mezzo alla candida camera, immerso in meditazione e preso d'orrore al pensiero delle condizioni false e poco rassicuranti del mondo, al ghigno del demone, della dea scimmiesca, sotto il cui sconsigliato e sfrenato dominio lo vedeva caduto e il cui nome era "la Grande Stupidità". Nome brutto, apocalittico, fatto apposta per incutere segrete inquietudini. Castorp si fregò la fronte e la regione del cuore con la palma delle mani. Ebbe paura. Gli parve che "tutto ciò" non potesse finir bene, che si sarebbe arrivati a una catastrofe, a una ribellione della natura paziente, a un temporale e una sgombrante bufera che avrebbe spezzato l'incanto del mondo, strappato la vita oltre il "punto morto" e preparato un terribile giorno del giudizio alla "stagione morta". Gli venne voglia di fuggire, l'abbiamo già detto... e fu fortuna che l'autorità lo "tenesse d'occhio", sapesse leggergli in viso e pensasse a fargli cambiar rotta con nuove, feconde ipotesi! Con linguaggio studentesco aveva dichiarato di essere sulle piste delle vere cause della sregolatezza del suo bilancio termico - cause che, secondo l'asserto della scienza, era cosí facile combattere da fare a un tratto apparire assai prossima la speranza della guarigione e del permesso di scendere legittimamente al piano. Quando porse il braccio per il salasso, il giovane, assalito da varie sensazioni, si sentí il cuore in tumulto. Strizzando gli occhi e impallidendo leggermente ammirò il bellissimo rubino del suo succo vitale che montava nel lucido recipiente e lo empiva. Il consigliere stesso, assistito dal dottor Krokowski e da una suora, eseguí l'operazione piccola, ma di grande portata. Passò poi una serie di giorni, dominati dalla curiosità che Castorp aveva di sapere quale prova avrebbe dato quel suo sangue, fuori di lui, sotto gli occhi della scienza. Nulla aveva potuto prosperare ancora, naturalmente, disse il consigliere da principio. Purtroppo nulla ancora aveva voluto prosperare, disse in seguito.

Ma venne la mattina in cui durante la colazione si avvicinò a Castorp che in questo periodo occupava un posto alla tavola dei "russi ammodo", al capo dove a suo tempo si sedeva il suo grande amico cui dava del tu; e tra auguri in gergo gli rivelò che il cocco a catena era stato finalmente accertato, fuori di ogni dubbio, in una delle colture predi0poste. Ora si trattava di risolvere un calcolo di probabilità per trovare se i fenomeni d'intossicazione andavano attribuiti alla piccola tubercolosi che in ogni caso sussisteva ancora o agli streptococchi che a loro volta erano presenti in quantità modesta. Lui, Behrens, doveva continuare le sue osservazioni: la coltura non era maturata. E nel laboratorio gliela fece vedere; una gelatina di sangue, rossa, nella quale si scorgeva qualche puntolino grigio. Erano i cocchi. (Ma non c'è asino che non abbia i cocchi, come anche i tubercoli, e se non ci fossero stati i sintomi, non sarebbe stato il caso di dar peso a quel reperto.) Fuori di lui, sotto gli occhi della scienza, il sangue coagulato continuò a dar buona prova. Venne la mattina in cui il consigliere con agitate parole in gergo riferí che non solo in una delle colture, ma anche in tutte le altre si erano sviluppati i cocchi, e in grande quantità. Non era certo che tutti fossero streptococchi; ma era piú che probabile che i fenomeni d'intossicazione provenivano di lí,... anche se beninteso non si poteva sapere quanta parte di essi fosse da attribuire alla tubercolosi, senz'alcun dubbio presente e non del tutto superata. Conseguenza da trarre? Una cura di streptovaccino. Prognosi? Straordinariamente favorevole... tanto piú che il tentativo non presentava alcun rischio; e in nessun caso poteva essere dannoso. Siccome infatti il siero veniva ricavato dal sangue dello stesso Castorp, l'iniezione non introduceva nell'organismo germi patogeni che non ci fossero già. Nel peggiore dei casi era inutile, senza effetto,... ma siccome il paziente doveva restare là lo stesso, si poteva definire quello un caso peggiore? Certo che no, e Castorp non voleva arrivare a tal punto. Si assoggettò alla cura, benché la considerasse ridicola e disonesta Quelle vaccinazioni con se stesso gli sembravano una diversione orribilmente triste, un mostruoso incesto tra l'io e l'io, di natura sterile e disperata. Cosí giudicava la sua ignoranza ipocondriaca che ebbe ragione (e piena ragione) nel punto della sterilità. La diversione si trascinò per settimane. Talvolta parve dannosa (e non poteva che dipendere da un errore), talvolta invece utile, ma anche in questo caso risultava frutto di un errore. Risultato: zero, senza che fosse proclamato espressamente. L'impresa finí in nulla e Castorp continuò a far solitari... guardando in faccia il demone il cui sfrenato dominio andava incontro, secondo lui, a una fine spaventosa.

Profusione di armonie. Quale conquista o innovazione del Berghof poté redimere il nostro vecchio amico dal giuoco delle carte e affidarlo a un'altra passione, piú nobile, anche se in fondo non meno strana? Stiamo per narrarlo, compresi come siamo del misterioso fascino dell'argomento e sinceramente desiderosi di comunicarlo. Si trattava di un'aggiunta all'attrezzatura dei divertimenti nel maggior locale di ritrovo, escogitata dall'instancabile assistenza e decisa dalla direzione amministrativa, acquistata dalla direzione del raccomandabilissimo sanatorio, con una spesa che non vogliamo calcolare, ma potremmo certo definire generosa. Un ingegnoso giocattolo, dunque, sul tipo della cassetta stereoscopica, del caleidoscopio in forma di canocchiale e del tamburo cinematografico? Forse sí... ma d'altro canto anche no. Infatti, l'impianto che una sera nel salotto del pianoforte si presentò agii sguardi degli ospiti - dei quali alcuni si presero la testa fra le mani, altri chinandosi giunsero le mani in grembo - non era un balocco visivo, bensí acustico; in secondo luogo, esso non era neanche da paragonare, per classe, grado e valore, a quelle leggere attrazioni. Questo non era una ciarlataneria puerile e monotona che venisse a nausea e non richiamasse piú l'attenzione di nessuno, non appena avesse tre sole settimane sul gobbo. Era invece una traboccante cornucopia di godimenti artistici, sereni o mesti. Era un apparecchio musicale. Era un grammofono. Qui siamo seriamente in pensiero perché non vorremmo che questa parola fosse fraintesa in un senso indegno e superato e richiamasse concetti rispondenti a una forma antecedente e prescritta della realtà che abbiamo in mente, anziché a questa verità sviluppata fino alla piú nobile perfezione attraverso instancabili prove e progressi d'una tecnica artistica. Quello, cari miei, non era la misera cassettina a manovella, con sopra il disco girevole e il braccio cui era attaccato un goffo megafono d'ottone a forma di tromba, che da una tavola d'osteria empiva orecchie senza pretese con un urlio nasale. Lo scrigno lucidato in nero opaco che, un po' piú fondo che largo, attaccato con un cordone di seta a una presa elettrica sulla parete stava semplice e distinto su un tavolino con cassetti, non assomigliava neanche piú a quel rozzo meccanismo antidiluviano. Si apriva il coperchio graziosamente rastremato, il cui puntello interno, sollevato dal fondo, lo fissava automaticamente in posizione obliqua e luccicante, e si vedeva, affondato e orizzontale, il piatto girante, foderato di panno verde, col margine di nichel e col cavicchio centrale, pure nichelato, sul quale bisognava adattare il foro del disco di ebanite. Si notava inoltre, a destra, davanti, un congegno con cifre simile a un orologio per regolare la velocità, e a sinistra la leva con la quale si poteva mettere in moto o arrestare la rotazione; dietro a sinistra, il braccio cavo di nichel, in forma di clava, agilmente mobile sulle sue giunture, con in cima il diaframma piatto e rotondo sul quale andava avvitata la puntina strisciante. Si aprivano anche i battenti della porta davanti e vi si scorgeva una specie di persiana con stecche oblique di legno verniciato di nero... e nient'altro.

E' il modello piú recente disse il consigliere che era entrato con gli altri. E' L'ultima trovata, ragazzi, prima qualità, squisitezza, non si trova di meglio in questo genere. Disse questa parola con pronuncia incredibile, arcibuffa, come la poteva pronunciare un venditore incolto che decanta la merce. Questo non è un apparecchio, e non è una macchina continuò prendendo una puntina da una scatoletta di latta che era sul tavolino e fissandola al suo posto, questo è uno strumento, uno Stradivario, un Guarneri, qui abbiamo rapporti di vibrazione e risonanza della piú meticolosa raffinatezza! Marca Polyhymnia, come possono vedere dalla scritta qui nel l'interno del coperchio. Fabbricazione tedesca, natural mente. Noi queste cose le sappiamo fare molto meglio degli altri. La fedeltà musicale sotto forma moderna e meccanica. L'anima tedesca up to date. Ed ecco qui il repertorio! soggiunse indicando un armadietto nel quale erano allineate cartelle col dorso largo. Consegno loro tutto l'incanto, per libero uso e divertimento, ma lo affido alla tutela del pubblico. Ne facciamo rombare una per prova? I malati lo pregarono vivamente di farlo, sicché Behrens prese uno dei muti ma densi libri magici, voltò le pesanti paginone, trasse da una delle buste di cartone, nei cui ritagli circolari si leggevano i titoli a colori, un disco e lo infilò al suo posto. Con uno scatto diede la corrente al piatto girevole, attese due secondi affinché i giri raggiungessero la velocità voluta e posò cautamente la sottile puntina d'acciaio sull'orlo del disco. Si udí un lieve fruscio. Calò il coperchio e nello stesso momento, dalla portina a due battenti, di tra le tende della persiana, anzi da tutto il corpo dello scrignetto, proruppe un tumulto musicale, un'allegra melodia fragorosa e incalzante, le prime sgambettanti battute di un'ouverture di Offenbach. Tutti stettero a sentire a bocca aperta, sorridendo. Non credevano alle proprie orecchie, tanto erano pure e naturali le fioriture dei legni. Un violino, solo, preludiò in modo fantastico - si distingueva l'arcata, il tremolo del dito, il dolce passaggio da una posizione all'altra, e trovò la sua melodia, il valzer, l"'Ahimè, io l'ho perduta". L'armonia orchestrale reggeva leggera l'insinuante melodia che, accolta con onore dall'insieme, era ripetuta dall'intera orchestra rombante. Certo, non era come se una vera orchestra avesse sonato nella stanza. Il suono, pur non deformato, presentava una diminuzione di prospettiva; se è lecito usare per l'udito un paragone tolto dal campo ottico, era come guardare un quadro attraverso un binocolo capovolto, sicché appare allontanato e impicciolito, senza che ci rimetta la precisione del disegno, la luminosità dei colori. Il brano musicale ingegnoso e frizzante si svolse col brio di tutta la sua spensierata invenzione. Il finale fu un'allegria sfrenata, un galoppo cominciato con un buffo indugio, uno sfacciato cancan che faceva pensare a cappelli a cilindro agitati in aria, a ginocchia vibranti, gonne sollevate, e non la finiva di finire in un comico trionfo. Poi il meccanismo si fermò con uno scatto automatico. Era la fine. Tutti applaudirono di cuore.

Chiesero dell'altro e lo ottennero: dallo scrigno sgorgò una voce umana, virile, morbida e potente insieme, accompagnata dall'orchestra, un baritono italiano dal nome famoso, ...e ora non era il caso di parlare di lontananza o velatura: la splendida voce squillava con tutto il suo volume e la sua potenza naturale, e quando specialmente ci si ritirava in una delle aperte stanze attigue donde non si vedeva l'apparecchio, era come se l'artista in persona stesse là nel salotto, col foglio di musica in mano, e cantasse. Cantava un pezzo di bravura da un'opera nella sua lingua: ..."per un barbiere di qualità, di qualità, di qualità. Figaro qua, Figaro là, Figaro, Figaro, Figaro!". Gli spettatori morivano dal ridere a quel "parlando" in falsetto, a quel contrasto tra la voce da orso e la sbrigliata scioltezza di parola. Gli esperti potevano seguire e ammirare l'arte del fraseggio, la tecnica del respiro. Maestro dell'irresistibile, virtuoso della passione meridionale per il bis, teneva la penultima nota, prima della tonica finale, avanzando, sembrava, verso la ribalta, certo con la mano alzata, in modo da far esplodere le grida di "bravo!" prima che avesse terminato. Un'esecuzione eccellente. C'era anche dell'altro. Un corno naturale eseguiva con bella cautela variazioni su una canzone popolare. Un soprano lanciava, con trilli e staccati, un'aria della Traviata con la piú graziosa calma e precisione. Lo spirito d'un violinista di fama mondiale sonava, come dietro a un velario, una romanza di Rubinstein, con l'accompagnamento di un pianoforte che sembrava secco come una spinetta. Dallo scrigno delle meraviglie dolcemente gorgogliante uscivano rintocchi di campane, glissando di arpe, squilli di trombe, rullo di tamburi. Infine vennero i ballabili: c'era persino qualche saggio di impostazione straniera, intonato ai gusti esotici di osterie portuali, il tango, chiamato a fare del valzer viennese una danza di nonni. Due coppie, pratiche del passo di moda, si esibirono sul tappeto. Behrens si era ritirato dopo aver raccomandato di usare ogni puntina una volta sola e di trattare i dischi "esattamente come uova crude". Castorp attendeva all'apparecchio. Perché proprio lui? Era andata cosí. Laconico e brusco, con voce smorzata, si era opposto a coloro che, uscito il consigliere, avevano voluto occuparsi del cambio della puntina e del disco, dell'innesto e dell'interruzione della corrente. Lasciate fare a me! aveva detto facendosi largo, e quelli si erano ritirati indifferenti, prima di tutto perché aveva l'aria di chi se n'intende da lunga mano, in secondo luogo perché tenevano assai poco a darsi da fare presso l'origine del godimento anziché farselo o£ frire comodamente e senza impegni finché non li annoiava. Non cosí invece, Castorp. Durante la presentazione del nuovo acquisto da parte del consigliere era rimasto quieto'nello sfondo, senza ridere, senza applaudire, ma seguendo attentamente le esecuzioni, mentre per occasionale consuetudine si torceva con due dita un sopracciglio.

Con una certa inquietudine aveva mutato posto alcune volte alle spalle del pubblico, era entrato nella stanza della biblioteca per ascoltare da là dentro; poi, con le mani dietro la schiena e taciturno, si era messo vicino a Behrens, con gli occhi fissi sulla cassetta, per studiarne il facile uso. Dentro di sé diceva: "Fermo ! Bada! Un'invenzione che fa epoca! Arrivata per me!". Il preciso presentimento d'una passione nuova, d'un incantesimo, d'un incarico amoroso gli empiva l'anima. Non è dissimile ciò che sente il giovane di pianura cui, alla prima vista d'una fanciulla, il dardo uncinato di Cupido si conficca inatteso nel cuore. I passi di Castorp furono tosto dominati dalla gelosia. Proprietà comune? La fiacca curiosità non ha né il diritto né la forza di possedere... "Lasciate fare a me !" disse fra i denti, e quelli furono d'accordo. Ballarono ancora un po' al ritmo di pezzi leggeri che egli faceva girare, chiesero ancora un pezzo di canto, un duetto d'opera, la barcarola dei Racconti di Hoffmann che accarezza le orecchie, e quando egli chiuse il coperchio, se ne andarono chiacchierando e momentaneamente agitati, allo sdraio, al riposo. Era quello che aspettava. Essi lasciarono là ogni cosa com'era, la scatoletta delle puntine e le cartelle aperte, i dischi sparpagliati. Disordine degno di loro. Egli finse di accodarsi a loro, abbandonò di nascosto il gruppo quando furono sulla scala, tornò indietro, chiuse tutte le porte del salotto e rimase là metà della notte, occupatissimo. Prese dimestichezza col nuovo acquisto, esaminò indisturbato l'allegata miniera di musiche, il contenuto dei pesanti albi. Ce n'erano dodici, di due diverse misure, con dodici dischi ciascuno; e siccome molti di quei dischi neri con le strettissime incisioni a spirale erano a due facce, non solo perché certi pezzi avevano bisogno anche del rovescio, ma anche perché parecchie di quelle superfici contenevano due pezzi diversi, l'insieme costituiva un territorio, poco perspicuo da principio, anzi intricato, da conquistarvi belle soddisfazioni. Egli ne sonò due decine e mezza usando, per non disturbare, per non essere udito nella notte, certe puntine piú leggere che davano un suono smorzato,... ma quello era forse un ottavo di quanto gli si offriva da ogni parte invitandolo all'esecuzione. Per quella notte dovette accontentarsi di scorrere i titoli e di inserire nello scrigno solo di quando in quando, per assaggio, un esempio della muta scrittura circolare per tramutarla in suono. All'occhio si distinguevano, quei dischi di ebanite, solo mediante l'etichetta colorata al centro, e nient'altro. Gli uni erano uguali agli altri, coperti, del tutto o quasi, di cerchi concentrici fino al l'etichetta; eppure la loro incisione di linee sottili celava tutta la musica immaginabile, le piú felici ispirazioni su tutti i livelli dell'arte, in riproduzione squisita. C'erano un'infinità di preludi e tempi nel campo del l'alta musica sinfonica, eseguiti da celebri orchestre, delle quali erano indicati i direttori. Poi una lunga serie di Lieder, cantati, con accompagnamento di pianoforte, da membri di grandi teatri d'opera: e precisamente canti che erano elevati e consapevoli prodotti d'un'arte personale, come pure

semplici canti popolari, nonché infine quelli che tra questi due generi stavano, per cosí dire, nel mezzo in quanto erano bensí prodotti di un'arte spirituale, ma genuini e schietti, sentiti e inventati secondo la mentalità del popolo; canti popolari artistici, se cosí si può dire senza che l'attributo "artistico" ne diminuisca la profonda sincerità: uno soprattutto che Castorp conosceva fin da ragazzo, per il quale però concepí ora un amore misteriosamente allusivo; ne riparleremo. - Che c'era ancora o, meglio, che cosa non c'era? C erano pezzi d'opera a bizzeffe. Un coro internazionale di cantanti, uomini e donne, accompagnato da un'orchestra in sordina, metteva a disposizione l'addestrato dono divino delle sue voci per l'esecuzione di arie, duetti, scene d'insieme delle diverse regioni ed epoche del teatro musicale: dal settore della bellezza meridionale, d'un rapimento nobile e insieme gaio, al mondo popolare tedesco della furbizia e dello spirito demoniaco, ai grandi francesi e all'opera buffa. E finiva qui? No, tutt altro. Seguiva infatti la serie delle musiche da camera, dei trii e quartetti, degli a solo strumentali per violino, violoncello, flauto, dei pezzi di canto con violino e flauto obbligato, dei pezzi per pianoforte solo,... senza dire dei meri divertimenti, dei couplets, dei dischi utilitari nei quali le orchestrine da ballo avevano inciso le loro melodie, e questi richiedevano puntine piú ordinarie. Castorp vagliò e ordinò tutto questo e, operando in solitudine, ne affidò una piccola parte allo strumento affinché la destasse a vita sonora. Con la testa in fiamme andò a dormire a ora tarda, press'a poco come dopo il primo simposio con Pieter Peeperkorn di maestosa e tueggiante memoria, e dalle due alle sette sognò la cassetta magica. In sogno vedeva il piatto girevole rotare intorno al piuolo centrale, veloce fino a diventare invisibile, e anche silenzioso, con un movimento che non consisteva soltanto nella vorticosa rotazione, ma anche in un caratteristico ondeggiamento laterale che al braccio armato di puntina, sotto il quale passava, comunicava quasi un oscillante elastico respiro... molto giovevole, si doveva pensare, al vibrato e al portato degli archi e delle voci umane; ma inspiegabile restava, nel sogno come nella veglia, in che modo mai il semplice passaggio lungo una linea capillare sopra una cassa armonica col solo aiuto della vibrante membrana del diaframma acustico, si potessero riprodurre i compositi complessi di suoni che empivano l'orecchio ideale del dormente. La mattina per tempo, prima ancora di far colazione, era di nuovo nel salotto e, seduto a mani giunte su una poltrona, fece cantare dallo scrigno al suono d'un'arpa un magnifico baritono: "Nel rimirar quest'adunanza eletta...". Il suono dell'arpa era perfettamente naturale; il suono che oltre alla voce umana, gonfia o sussurrata, articolata, usciva dallo scrigno, era un suono d'arpa genuino e integro... da sbalordire. E al mondo non c'è nulla di piú tenero del duetto d'un'opera italiana moderna che Castorp fece seguire,... in quel modesto e intimo accostamento sentimentale fra la famosa voce del tenore, cosí spesso presente in quegli albi, e il dolce, cristallino, piccolo soprano,... di quel "Dammi il braccio, mia piccina" e la semplice, soave, succinta, melodiosa frasetta, con la quale lei gli risponde... Castorp si riscosse udendo la porta aprirsi alle sue spalle.

Era il consigliere che veniva a dare un'occhiata; ...in camice bianco, lo stetoscopio nella tasca superiore, stette un istante con la maniglia in mano e salutò con un cenno l'assistente. Questi rispose con un cenno al di sopra della spalla, dopo di che la faccia del principale, dalle guance paonazze, dai baffetti alzati da una parte sola, scomparve tirandosi dietro l'uscio e Castorp ritornò alla sua invisibile e melodiosa coppietta d'innamorati. Piú tardi, nella stessa giornata, dopo la colazione di mezzogiorno, dopo la cena, ebbe un pubblico di ascol tatori,... se non si vuol considerare anche lui come tale, ma come dispensatore del godimento. Per parte sua tendeva a questa interpretazione, e la brigata degli ospiti gliela concedeva, avendo accondisceso facilmente fin da principio alla sua autonomia di amministratore e custode di quella pubblica istituzione. A loro non costava nulla; infatti nonostante il superficiale entusiasmo che dimostravano quando l'idolatrato tenore sgranava le note deliziose e sfolgoranti, quando la voce beatificante si spandeva in cadenze e in sublimi impeti di passione,... nonostante questo entusiasmo proclamato a gran voce erano senza amore e pertanto pienamente d'accordo di lasciare la briga a chi se la voleva prendere. Cosí Castorp teneva in ordine il patrimonio di dischi, scriveva il contenuto degli albi nell'interno delle copertine, di modo che ogni pezzo fosse pronto a ogni chiamata, a ogni desiderio, e maneggiava lo strumento; lo si vide presto occuparsene con mano esercitata, con gesti brevi e guardinghi. Che ne avrebbero fatto gli altri? Avrebbero sconciato i dischi adoperando puntine usate, li avrebbero lasciati aperti sulle sedie qua e là, avrebbero combinato burlette facendo girare un brano classico con la velocità centodieci o puntando le lancette sullo zero, ricavando un trillo isterico o un gemito ingorgato... Tutte cose che avevano già fatte. Erano malati, sí, ma rozzi. Perciò dopo un po' Castorp tenne addirittura in tasca la chiave dell'armadietto che conteneva gli albi e le puntine, sicché desiderando musica bisognava chiamare lui. A tarda ora, dopo il ritrovo serale, allontanatasi la brigata, veniva per lui il tempo migliore. Restava nel salotto o vi ritornava di soppiatto e faceva musica, solo, fino a notte fonda. Temeva meno di quanto non avesse temuto da principio di turbare la quiete degli ospiti, perché la portata della sua musica spettrale gli si era rivelata esigua: mentre vicino all'origine le vibrazioni producevano effetti stupefacenti, piú lontano infiacchivano, deboli e di potenza illusoria come tutto ciò che è spettrale. Castorp si trovava solo con le meraviglie dello scrigno entro le quattro pareti,... con la fiorita produzione di quella breve bara di legno prezioso, di quel tempietto d'un nero opaco, davanti ai cui battenti egli se ne stava seduto, a mani giunte, la testa sulla spalla, la bocca aperta, e si tuffava nei fiumi della melodia. I cantanti, uomini e donne, che ascoltava, non erano visibili, la loro umanità tangibile si trovava in America, a Milano, a Vienna, a Pietroburgo,... poco male, ci stesse pure, perché ciò che egli possedeva era la loro parte migliore, la voce, ed egli sapeva apprezzare questa purificazione o astrazione, che appariva abbastanza ingegnosa per consentirgli un buon controllo umano, escludendo tutti gli svantaggi dell'eccessiva vicinanza personale, soprattutto fin dove si trattava di connazionali, di tedeschi.

Si poteva distinguere la pronuncia, il dialetto, la nazionalità degli artisti, il tipo della voce informava intorno alle singole stature psichiche, spiegava come sfruttavano o trascuravano le varie possibilità di effetti spirituali, rivelava il grado della loro intelligenza. Castorp s'indispettiva quando in questo punto lasciavano molto a desiderare. Soffriva anche e si mordeva le labbra dalla vergogna quando trovava imperfezioni nella riproduzione tecnica, stava sui carboni accesi quando, nello svolgimento di un disco spesso richiamato, una nota riusciva stridula o sbraitata, come avviene spesso alle delicate voci femminili. Ma prendeva anche questo in blocco, poiché non c'è amore senza sofferenza. Talvolta si chinava sullo strumento dal respiro rotante come sopra un mazzo di serenelle, entro una nube di suoni; o stava davanti allo scrigno aperto assaporando la sovrana felicità del direttore in quanto con la mano alzata dava a una tromba il segnale dell'attacco. Aveva i suoi beniamini in quel deposito, alcuni pezzi vocali è strumentali che non si stancava di ascoltare. Non mancheremo di indicarli. Un gruppetto di dischi offriva le scene finali dell'opera pomposa, traboccante di geniali melodie, che un grande compaesano di Settembrini, l'anziano maestro di musica drammatica meridionale, aveva creato nella seconda metà del secolo scorso, per incarico di un sovrano orientale, in una occasione solenne, quando cioè fu consegnato all'umanità un lavoro della tecnica, mirante all'unione tra i popoli. Castorp era abbastanza colto da conoscere a grandi linee il destino di Radames, di Amneris e di Aida che dallo scrigno gli cantavano in italiano, sicché capiva discretamente il loro canto,... quello dell'incomparabile tenore, del sovrano contralto dalla stupenda mutazione delle note medie e dell'argentino soprano,... non capiva tutte le parole, ma una qua, una là, aiutandosi con la conoscenza delle situazioni e con la sua simpatia per queste situazioni, una simpatia confidenziale che aumentava ogni volta che faceva girare quei quattro o cinque dischi, ed era diventato ormai un perfetto amore. Prima di tutto si viene a una spiegazione fra Radamès e Amneris: la figlia del re fa condurre al suo cospetto l'uomo incatenato, l'uomo che ama e desidera ardentemente di salvare, benché per amore della schiava barbara egli abbia tradito la patria e l'onore,... mentre però, a sentir lui, "il suo pensiero e l'onor suo" sono restati puri. Questa purezza del suo cuore ad onta della grave colpevolezza poco gli giova, perché a causa del suo palese delitto egli è nelle mani del tribunale religioso, il quale non tiene conto dei rapporti umani e certo non farebbe tante storie se all'ultimo momento egli si decidesse a rinunziare al la schiava e a gettarsi fra le braccia del contralto regale che, sotto l'aspetto acustico, lo meriterebbe pienamente. Amneris fa tutti gli sforzi per convincere il tenore dalla bella voce, ma tragicamente accecato e ormai lontano dalla vita, il quale non fa che cantare "Nol posso!" ed "E' vano" quando lei lo prega disperata di rinunziare alla schiava, perché ne va la vita. "Nol posso!" "Anco una volta a lei rinunzia!" "E' vano. La mente ottenebrata dal desiderio di morire e la piú calda pena d'amore si uniscono in un duetto straordinariamente bello, ma senza speranza. Poi Amneris accompagna con le sue grida di dolore le formule paurose del tribunale che risuonano cupe nel sotterraneo, mentre l'infelice Radamès non vi prende neanche parte.

"Radamès, Radamès" canta con insistenza il gran sacerdote rinfacciandogli aspramente il delitto di tradimento. "Discolpati!" chiedono in coro tutti i sacerdoti. E siccome il loro capo nota che Radamès tace, tutti unanimi lo dichiarano colpevole di fellonia. "Radamès, Radamès" riprende il capo. "Tu disertasti il campo il dí che precedea la pugna." "Discolpati!" gli ripetono. "Egli tace..." fa notare la seconda volta il presidente del dibattimento, già molto prevenuto, sicché anche questa volta tutti i giudici uniscono la loro voce alla sua nel verdetto: "Traditor !". "Radamès, Radamès!" chiama l'inesorabile accusatore per la terza volta. "Tua fe' violasti, alla patria spergiuro, al re, all'onor." "Discolpati!" risuona ancora. E: "Traditor!" delibera definitivamente e con orrore il collegio dei sacerdoti, dopo l'avvertimento che Radamès continua a tacere. Cosí non si può evitare l'inevitabile, che il coro, con le sue voci sempre unite, annunci al malfattore che il suo fato è deciso, che avrà "degli infami la morte", che "sotto l'ara del Nume sdegnato" dovrà scendere vivo nell'avello. Qui bisogna sforzarsi di immaginare l'indignazione di Amneris per quella durezza pretesca, poiché a questo punto la riproduzione era interrotta e Castorp dovette cambiare disco; lo fece con gesti brevi e pacati, quasi ad occhi bassi, e quando si risedette per ascoltare, fu già all'ultima scena del melodramma: il duetto finale fra Radamas e Aida, cantato in fondo alla tomba sotterranea, mentre sopra le loro teste i sacerdoti bigotti e crudeli celebrano nel tempio il loro culto, allargando le braccia, in un cupo borbottare... "Tu... in questa tomba!" squilla la voce indicibilmente simpatica, dolce a un tempo ed eroica, di Radamès, tra l'orrore e l'estasi... Sí, ella è venuta da lui, la donna amata per la quale egli perde l'onore e la vita, lo ha aspettato qui, si è fatta rinchiudere con lui per morire con lui, e i canti che, interrotti dai cupi suoni della cerimonia al piano superiore, essi si scambiano con questo argomento, o nei quali si uniscono... affascinavano dal profondo dell'anima il solitario ascoltatore notturno: sia per le circostanze, sia per l'espressione musicale. Si parla del cielo in questi canti, ma essi stessi erano celesti ed eseguiti in modo celestiale. La linea melodica che le voci di Radamès e Aida, singole e poi unite, disegnano insaziabili, quella curva semplice e beata che si aggira sulla tonica e sulla dominante. dalla nota fondamentale ascende a un ritardo portato, un semitono sotto l'ottava, e dopo aver toccato fugacemente quest'ultima ripiega sulla quinta, era per l'ascoltatore la musica piú trasfigurata, piú ammirevole che gli fosse mai capitato di udire. Ma dei suoni sarebbe stato meno innamorato senza la situazione di base che rendeva l'animo suo piú che mai pronto ad accogliere la conseguente dolcezza. E' tanto bello che Aida si ritrovi col perduto Radamès per condividere in eterno il funereo destino! Giustamente il condannato protesta contro il sacrificio d'una vita cosí amabile, ma nel suo tenero e disperato "No, no, troppo sei bella" si nota il rapimento della definitiva unione con lei che egli non pensava di rivedere mai piú. Per intendere chiaramente questo rapimento, questa gratitudine, Castorp non aveva bisogno di ricorrere alla fantasia.

Ma ciò che infine provò, comprese e godette - mentre a mani giunte fissava la persianetta nera, di fra le cui stecche sbocciava tutto questo - era l'aerea idealità della musica, dell'arte, dell'animo umano, l'alto e irrefrenabile abbellimento che essa dona all'orrenda volgarità delle cose reali. Basta rendersi conto, a mente fredda, di ciò che qui avviene! Due sepolti vivi moriranno insieme o, peggio ancora, l'uno dopo l'altro, nei crampi della fame, i polmoni gonfi di metano, dopo di che la putrefazione compirà la sua opera indicibile fino a lasciare nel sotterraneo due scheletri insensibili, a ciascuno dei quali sarà proprio indifferente trovarsi là solo o in due. Questo è il lato reale e oggettivo delle cose... lato e oggetto a sé che l'idealismo del cuore non prende affatto in considerazione, e lo spirito della bellezza e della musica trascura. Per la mente teatrale di Radamès e di Aida non esiste l'imminente realtà. Le loro voci ascendono all'unisono fino al beato ritardo dell'ottava assicurando che ora "si schiude il cielo" e alla loro brama risplende "il raggio dell'eterno dí". La confortante potenza di questo abbel limento faceva un gran bene all'ascoltatore e contribuí certamente a fare di questo numero del suo programma preferito il pezzo che piú gli toccava il cuore. Dall'orrore di questo e dalla sua trasfigurazione Castorp voleva riposare con un secondo pezzo, breve, ma di un fascino concentrato,... di un contenuto molto piú pacifico di quel primo, un idillio, ma un idillio raffinato, dipinto e composto con i mezzi modesti e ad un tempo complicati dell'arte recentissima. Era un brano per sola orchestra, senza canto, un preludio sinfonico di autore francese, costruito con un'attrezzatura esigua secondo i concetti contemporanei, ma con tutte le astuzie della tecnica sonora moderna e scaltramente atto a cullare l'anima nel sogno. Il sogno che Castorp vi sognava era il seguente: giaceva supino su un prato disseminato di asteri d'ogni colore, sotto i raggi del sole, la testa sopra un piccolo rialto di terra, una gamba un po' piegata, l'altra sovrapposta,... ma quelle gambe accavallate erano gambe di caprone. Per esclusivo divertimento suo, perché la solitudine sul prato era perfetta, le sue dita giocherellavano con uno zufoletto di legno che teneva in bocca, un clarinetto o piffero che fosse, dal quale cavava tranquille note nasali, l'una dopo l'altra come venivano, ma in riuscite sequenze, e cosí la spensierata melodia nasale saliva al cielo turchino, sotto il quale, leggermente mosso dal vento luccicava al sole il fogliame di singole betulle e di qualche frassino. Ma quella contemplativa tiritera, irresponsabile e semimelodica, non rimaneva a lungo l'unica voce della solitudine. Il ronzio degli insetti sopra l'erba nella cocente aria estiva, la luce stessa del sole, il venticello, l'ondeggiare delle cime, lo scintillio delle foglie: tutta la pace estiva dolcemente mossa diventava un insieme di suoni che conferiva al suo ingenuo zufolío un'interpretazione armonica sempre cangiante, sorprendente ed eletta. L'accompagnamento sinfonico si affievoliva ogni tanto e ammutoliva; ma Hans dalle gambe di caprone continuava a soffiare e con la semplice monotonia dei suoni risuscitava la magia sonora della natura con i suoi timbri squisiti,... la quale, dopo un'altra interruzione, superando dolcemente se stessa e con l'aggiunta di sempre nuove e piú alte voci strumentali che entravano rapidamente l'una dopo l'altra,

acquistava tutta la pienezza disponibile e fin lí tenuta da parte, della durata di un attimo fuggevole il cui delizioso e perfetto appagamento però coinvolgeva l'eternità. Il giovane fauno su quel prato estivo era molto felice. Là non c'era né un "discolpati!" né una responsabilità, non c'era un sacro tribunale di guerra contro uno che fosse dimentico dell'onore e scomparisse dal mondo. Là regnava l'oblio, la beata quiete, l'innocenza fuori del tempo: era la trascuratezza in piena coscienza, l'ideale apoteosi di ogni negazione della comandata attività occidentale, e la conseguente distensione rendeva questo disco molto piú caro di altri al musicante notturno. Ce n'era un terzo... O, meglio anche qui, piú di uno, tre o quattro che formavano gruppi e si susseguivano, perché l'aria del tenore ivi registrata occupava da sola una facciata di anelli incisi fino al centro. Anche questa era musica francese, di un'opera che Castorp conosceva bene per averla vista e udita ripetutamente a teatro; e una volta, conversando - anzi in una conversazione decisiva, - vi aveva fatto persino un'allusione... Si era al secondo atto, nell'osteria spagnola, una spaziosa bettola, col pavimento di legno, ornata di panni, costruita in un logoro stile moresco. La voce di Carmen, calda, un po' rude, ma di razza e seducente, dichiara di voler ballare davanti al sergente e già si odono le sue nacchere. Ma nello stesso istante squillano di lontano trombe, chiarine, un segnale militare ripetuto che scuote le membra del giovane. "Attends un peu!" esclama e drizza le orecchie come un cavallo. E siccome Carmen domanda: "Et pourquoi, s'il te plait?" egli chiede a sua volta: "Ne les entends-tu pas?" meravigliato che non comprenda come comprende lui. Sono, dice, le trombe della caserma che suonano la ritirata: è ora di ritornare al quartiere. Ma la zingara non riesce a capire e soprattutto non vuole. Tanto meglio, osserva tra sciocca e sfacciata, vuol dire che non occorrono nacchere, il cielo stesso manda loro la musica per danzare e pertanto: La la la la!... Egli è fuori di sé. Il proprio dolore per la delusione è sopraffatto dallo sforzo per spiegarle di che cosa si tratta, che nessun amore al mondo la può spuntare contro quel segnale. Possibile che non capisca un fatto cosí fondamentale e assoluto? "Ilfaut que moi, je rentre au-quartier, pour I appel esclama, disperato di tanta incomprensione che gli stringe il cuore piú di quanto non sia già stretto. Bisogna sentire Carmen in questo momento! Furibonda, indignata in fondo al l'anima, la sua voce è tutta amore tradito e offeso... o almeno finge che sia cosí. "Au quartier! Pour l'appel!" E il suo cuore? Il suo cuore buono e tenero che nella sua debolezza - sí, lei lo riconosce: nella sua debolezza! - era disposto a farlo divertire col canto e con la danza! "Taratatà!" e con feroce ironia si porta alle labbra la mano a imbuto per imitare la tromba. "Taratatà!" Basta cosí. E quello sciocco balza in piedi e vuol andar via. Bene, se ne vada! Ecco qua l'elmo, la sciabola, la cintura! Vada, vada pure, ritorni in caserma!...

Egli chiede pietà. Ma lei continua il bruciante sarcasmo e finge di essere lui che allo squillo delle chiarine ha perduto il suo po' di cervello. Taratatà, all'appello! Gran Dio, finirà con l'arrivare in ritardo! Via, via, chiamano all'appello, e lui naturalmente scatta come uno stupido, nel momento in cui lei, Carmen, voleva danzare per lui. Questo, questo, questo è il suo amore per lei!... Situazione penosa! Lei non capisce. La donna, la zingara non può, non vuole capire. Non vuole... poiché, senza alcun dubbio, nel suo furore, nel suo sarcasmo c'è qualcosa che va oltre l'istante e la persona, un odio, una primordiale ostilità al principio che mediante quelle chiarine francesi - o corni spagnoli - chiama il soldatino innamorato, e del quale lei ha la suprema, innata, ultrapersonale ambizione di trionfare. A tal fine possiede un mezzo molto semplice: asserisce che, se va, egli non la ama; ed è esattamente ciò che José, là dentro nella cassettina, non tollerava di sentire. La scongiura di ascoltarlo, ma lei non vuole. Allora la costringe... è un momento maledettamente serio. Note fatali sorgono dall'orchestra, un motivo tetro e minaccioso che, come Castorp sapeva, percorre tutta l'opera fino alla catastrofe finale e fa anche da introduzione all'aria del soldatino, nel nuovo disco che bisognava infilare. "La peur que tu m'avais jetée"; José lo cantava meravigliosamente. Spesso Castorp faceva girare il disco anche a parte, fuori dal familiare contesto, e lo ascoltava sempre con attenta simpatia. Il contenuto dell'aria non è una gran cosa, ma il suo sentimento implorante desta una profonda commozione. Il soldato parla del fiore che Carmen gli ha dato quando si sono conosciuti, e nella prigione, dove fu rinchiuso per causa sua, è stato il suo tesoro. Molto commosso egli confessa di aver maledetto, in certi momenti, il destino che gli ha fatto incontrare Carmen; ma tosto si è amaramente pentito della bestemmia e in ginocchio ha pregato il Signore di fargliela rivedere. Car - e questo car è sulla stessa nota alta con la quale un momento prima è cominciato il suo "Te revoir, a Carmen",... car - e nell'accompagnamento si apre tutta la magia strumentale che in qualche modo possa servire a dipingere il dolore, il desiderio, la perduta tenerezza, la dolce disperazione del piccolo soldato, poiché ella era apparsa ai suoi occhi con tutto il suo fascino fatale, ed egli aveva capito chiaramente che per lui era finita, era bastato uno sguardo: un regard sur moi, con la singhiozzante appoggiatura d'un intero tono su quel sur. "Pour t'emparer de tout mon etre" canta disperato con una figura ripetuta e ripresa dall'orchestra come un lamento, la quale sale di due gradi dalla nota fondamentale e di lí ripiega con fervore sulla quinta sotto. "O ma Carmen!" canta, servendosi della stessa figura e percorre poi la scala musicale fino al sesto grado per aggiungere "Et j'étais une chose à toi!".

Con la voce scende poi d'una decima e dichiara commosso, benché sia superfluo, il suo "Carmen, je t'aime!" la cui ultima nota è tenuta sospesa, con dolore, da un ritardo insolitamente armonizzato prima di fondersi nell'accordo fondamentale. Sí, sí! esclamò Castorp con tristezza e gratitudine e inserí ancora il finale dove tutti sono lieti che l'incontro con l'ufficiale abbia tagliato a José la via del ritorno, sicché ora diventa disertore, come con suo spavento Carmen aveva già preteso. Suis-nous à travers la campagne, viens avec nous dans la montagne, gli cantano in coro. Se ne capivano benissimo le parole: Le ciel ouvert, la vie errante pour pays l'univers; et pour loi, sa volonté! Et surtout, la chose enivrante; la liberté, la liberté ! Sì, sí! ripeté e passò a un quarto pezzo, a una musica molto gentile e buona. Era di nuovo un pezzo francese, ma non è colpa nostra, come non va imputato a noi se vi regna ancora uno spirito militare. Era un inserto, un a solo di canto, una "preghiera" dell'opera faustiana di Gounod. Entrava in scena un personaggio arcisimpatico, di nome Valentino, che però Castorp tra sé chiamava diversamente, con un nome piú familiare, malinconico, e lo identificava largamente con la persona la cui voce - molto piú bella però usciva dallo scrigno. Era un baritono caldo e forte, e il canto constava di tre parti: di due strofe estreme molto affini tra loro, tenute in tono religioso, quasi nello stile dei corali protestanti, e di una strofa centrale dal contenuto ardito e cavalleresco, guerriero, spensierato, ma anch'esso devoto: e questo è il suo vero lato militare e francese. L'invisibile canta: Nel lasciare il patrio suol... e in queste circostanze rivolge la sua preghiera al "Dio possente, Dio d'amor", perché nel frattempo protegga "il casto fior" di sua sorella. Egli parte per la guerra, il ritmo cambia, diventa intraprendente, crucci e preoccupazioni vadano all'inferno, lui, l'invisibile, vuol lanciarsi contro il nemico con audacia, con cuore pio e francese, dove piú ferve la battaglia, dove è maggiore il pericolo. Ma se Dio lo chiamerà in cielo, di lassú "ti guardo io". Con questo "ti" allude alla sorella; Castorp ne era profondamente commosso, e la sua commozione perdurava sino alla fine, fin quandc il valoroso là dentro cantava accompagnato da possenti accordi: A te affido, in tanto duol di mia suora il casto fior Di questo disco non c'è altro da dire. Abbiamo creduto di doverne parlare brevemente perché a Castorp piaceva moltissimo, ma anche perché in seguito, in una singolare occasione, doveva avere una certa parte. Per ora arriviamo a un quinto e ultimo pezzo tra i piú favoriti,... che non è affatto francese, anzi particolarmente ed esemplarmente tedesco, né è tolto da un'opera, ma è una canzone, uno di quei Lieder patrimonio popolare e opera d'arte insieme, che appunto da questo insieme riceve la sua particolare impronta spirituale e culturale. A che le ambagi?... Era la Canzone del Tiglio di Schubert, nient'altro che il notissimo Am Brunnen vor dem Torel.

Lo cantava al pianoforte un tenore, un giovane pieno di tatto e di buon gusto, che sapeva trattare il soggetto, semplice a un tempo e altissimo, con molta accortezza, con sottile senso musicale e con sagacia di dicitore. Sappiamo tutti come sulle labbra del popolo e dei fanciulli la stupenda canzone sia un po' diversa che nella sua forma artistica. Là viene cantata di solito semplificata, strofa per strofa secondo la melodia principale, mentre nell'originale questa linea popolare modula in minore già con la seconda delle strofe di otto versi, per ritornare al maggiore, con magnifico effetto, già nel quinto verso, ma risolversi drammaticamente nei successivi lialte Winde, venti freddi, quando essi portano via il cappello, e ritrovarsi soltanto agli ultimi quattro versi della terza strofa, i quali vengono ripetuti, affinché la melodia possa concludersi. La vera e propria svolta travolgente della melodia compare tre volte e precisamente nella sua seconda metà modulante, la terza volta dunque alla ripresa dell'ultima semistrofa: "Nun bin ich manche Stunde''. Questa svolta prestigiosa, che non vorremmo sciupare con parole, coincide con le frasi "So manches liebe Wort", "Als riefen sie mir zu", "Entfernt von jenem Ort' Z, e la voce del tenore limpida e calda, educata al respiro e tendente a un moderato singhiozzare, la cantava sempre con senso cosí intelligente della sua bellezza da toccare il cuore dell'ascoltatore in modo inopinato, tanto piú che l'artista sapeva rinforzare l'effetto mediante note in falsetto straordinariamente sentite nei versi "Zu ihm mich immerfort", "Hier findst du deine Ruh". Nella ripetizione dell'ultimo verso però, "Du fandest Ruhe dort" cantava il fandest la prima volta a pieni polmoni, con ardente desiderio, e soltanto la seconda volta col piú tenero flautato. Questo volevamo dire del Lied e del modo di cantarlo. Vorremmo lusingarci di essere riusciti in casi precedenti a ispirare ai nostri ascoltatori un'approssimativa comprensione dell'intima simpatia che Gastorp provava per i numeri preferiti dei suoi concerti notturni. Ma quella di far capire che cosa significasse per lui quest'ultimo numero, la vecchia Canzone del Tiglio, è certo un'impresa assai scabrosa e qui occorre essere sommamente guardinghi nell'intonazione se non si vuol sciupare piuttosto che giovare. Porremo l'argomento in questi termini: un oggetto spirituale, cioè rilevante, è appunto "rilevante ' in quanto trascende se stesso, in quanto è espressione ed esponente di un fatto spirituale piú largo, di tutto un mondo di sentimento e di pensiero che in esso ha trovato il suo simbolo piú o meno perfetto,... col quale si misura pertanto il grado della sua importanza. Oltre a ciò l'amore per un siffatto soggetto è esso stesso, a sua volta, "rilevante"; esprime un giudizio sul conto di chi coltiva quest'amore, caratterizza il rapporto tra lui e quell'universale, tra lui e quel mondo che l'oggetto rappresenta e in esso, coscientemente o no, è insieme amato. Ci si vorrà credere se affermiamo che il nostro modesto eroe, dopo tanti annetti di evoluzione ermeticopedagogica, si era addestrato nella vita dello spirito fino al punto da essere "cosciente" della "importanza" del suo amore e dell'oggetto di esso? Noi raccontiamo e asseriamo che sí. Il Lied era molto rilevante per lui, significava un mondo intero, e precisamente un mondo che egli doveva amare, poiché altrimenti non si sarebbe cosí pazzamente innamorato del simbolo che lo sostituiva.

Siamo consci di quel che diciamo quando - forse un po' oscuramente - aggiungiamo che la sua sorte sarebbe stata diversa se l'animo suo non fosse stato accessibilissimo alle bellezze sentimentali, all'atteggiamento spirituale in genere che il Lied riassumeva in modo cosí intimo e misterioso. Ma proprio quella sorte aveva creato sviluppi, avventure, intenzioni, gli aveva posto problemi di governo che l'avevano maturato a un'intuitiva critica di quel mondo, di quel suo simbolo assolutamente ammirevole, di quel suo amore, ed erano tali da sottoporre tutti e tre ai dubbi della sua coscienza. Ora, chi credesse che questi dubbi rechino pregiudizio all'amore, dovrebbe non intendersi affatto di cose d'amore. Al contrario, ne sono il condimento. Essi soltanto conferiscono all'amore un pungolo della passione, sicché si potrebbe dire che la passione è amore dubbioso. Ma in che consistevano i dubbi della coscienza e del governo di Castorp circa la superiore liceità del suo amore per l'a£ fascinante canzone e il suo mondo? Qual era stato questo mondo retrostante, che secondo il presentimento della sua coscienza doveva essere un mondo d'amore proibito? Era la morte. Palese follia! Come? Una canzone cosí meravigliosa? Un puro capolavoro, sorto dalle estreme e piú sacre profondità dell'anima popolare; un sublime tesoro, il prototipo dell'intimità, l'incarnazione della gentilezza! Quale odioso vilipendio! Già, già, benissimo, onestamente non si può dire che cosí. Eppure dietro a questo soave lavoro sta la morte. Esso mantiene relazioni con la morte, che si possono anche amare, ma non senza rendersi conto, nei presentimenti d'uno che vuol governare, di una data non liceità di questo amore. Secondo la sua originaria natura può non essere simpatia per la morte, bensí qualcosa di molto popolare e vitale, ma la relativa simpatia spirituale è simpatia per la morte,... pura religiosità, del tutto sensata al suo principio, non lo si dovrebbe minimamente contestare; ma al suo seguito si trovano prodotti delle tenebre. Ma che cosa si metteva in mente? Da voi non se lo sarebbe lasciato togliere dalla testa. Prodotti delle tenebre. Tenebrosi prodotti. Mentalità da aiutanti del boia e misantropia in nero alla spagnola con la gorgiera pieghettata, e piacere invece di amore... quale prodotto di sincera religiosità. Ecco, Settembrini, il letterato, non era proprio uomo di assoluta fiducia; ma Castorp ricordò certi insegnamenti che il lucido mentore gli aveva impartito una volta, al principio della sua carriera ermetica, intorno al "ritorno, al ritorno spirituale in determinati mondi, e reputò consigliabile riferire con cautela quell'ammaestramento al proprio soggetto. Il fenomeno di quel ritorno Settembrini lo aveva definito "malattia", al suo senso pedagogico l'aspetto del mondo, l'epoca spirituale in cui si applicava quel ritorno, doveva apparire "morboso". E ora? Il soave canto della nostalgia, l'atmosfera cordiale cui apparteneva, e l'amorosa inclinazione verso quell'atmosfera dovevano forse essere... "sintomi di malattia"? Niente affatto. Erano quanto di piú sano e cordiale esiste al mondo.

Ma questo è un frutto che, fresco e splendente e sano in questo istante o un momento fa, tende nettamente a decomporsi e marcire, e, purissimo conforto dell'animo se gustato al momento giusto, dal successivo momento non giusto diffonde putredine e rovina nell'umanità che lo gusta. E' un frutto di vita, generato dalla morte e di morte pregno. Un miracolo dell'anima,... il piú sublime forse al cospetto della bellezza incosciente e da essa benedetto, ma per motivi plausibili considerato con diffidenza dall'occhio dell'amicizia per la vita, governante con responsabilità, dell'amore per il mondo organico, e oggetto del superamento di sé in base all'ultimo responso della coscienza. Sí, superamento di sé poteva essere la natura del superamento di questo amore,... di questa magia dell'anima con tenebrose conseguenze! I pensieri o presaghi semipensieri di Hans Castorp prendevano voli sublimi, mentre nella solitudine notturna se ne stava davanti al piccolo feretro musicale,... volavano piú alto del suo intelletto, erano pensieri potenziati per alchimia. Oh, è potente la magia dell'anima! Noi tutti siamo figli suoi, e grandi cose possiamo compiere sulla terra se la vogliamo servire. Non occorre piú genio, ma soltanto assai piú ingegno di quanto non avesse l'autore della Canzone del Tiglio, per conferire, come mago dell'anima, proporzioni gigantesche alla canzone e con essa assoggettare il mondo. Probabilmente vi si possono fondare addirittura regni, regni terreni-troppo terreni, molto vigorosi e progressivi e, a rigore, niente affatto nostalgici,... nei quali la canzone si sciupa diventando musica da grammofono elettrico. Ma il suo figlio migliore deve essere colui che nel superamento di sé consuma la vita e muore, con sulle labbra la nuova parola dell'amore che non sa ancora pronunciare... Merita, la magica canzone, che per essa si muoia! Ma chi per essa muore, non muore già piú per essa ed è un eroe soltanto perché, in fondo, muore per il nuovo, avendo in cuore la nuova parola dell'amore e dell'avvenire... Questi dunque erano i dischi che Castorp preferiva.

Settore oltremodo problematico. Le conferenze di Edhin Krokowski avevano preso nel corso degli annetti una piega inaspettata. I suoi studi, dedicati all'analisi psichica e alla vita umana nel sogno, avevano sempre avuto un carattere sotterraneo, da catacomba; recentemente però, con blanda transizione, appena avvertita dal pubblico, si erano diretti verso una zona magica, assolutamente misteriosa, e le conferenze quindicinali nella sala da pranzo, attrattiva principale della casa, orgoglio dei foglietti pubblicitari,... quelle conferenze, tenute in giacca da passeggio e sandali, a un tavolino coperto, con accenti esotici strascicati, davanti al pubblico attento e immobile del Berghof, non descrivevano piú camuffate attività amorose né ritrasformazioni della malattia in affetti resi consapevoli, bensí abissali stranezze dell'ipnotismo e del sonnambulismo,

fenomeni della telepatia, del sogno chiaroveggente e della seconda vista, le meraviglie dell'isterismo, con la cui trattazione l'orizzonte filosofico si allargava talmente che davanti agli occhi degli ascoltatori balenavano all'improvviso enigmi come quello del rapporto tra la materia e la psiche, persino quello della vita stessa, che, a quanto pareva, si avevano piú speranze di svelare per la via quanto mai inquietante della malattia che per quella della salute... Diciamo queste cose perché consideriamo nostro dovere far arrossire quei leggeroni i quali pretendevano di sapere che soltanto per il timore di preservare le sue conferenze da una disperata monotonia, per puri scopi emotivi dunque, il dottor Krokowski si era dato alla scienza occulta. Cosí affermavano le lingue sacrileghe che non mancano mai. E' vero che alle conferenze del lunedí gli uomini si schiarivano le orecchie per sentir meglio, e la signorina Levi somigliava, se possibile, ancor meglio di una volta, alla figura di cera col congegno motore nel petto. Ma questi effetti erano legittimi come lo era l'evoluzione che aveva percorsa la mente dello scienziato, il quale per essi rivendicava non soltanto la coerenza logica, ma persino la necessità. Il suo campo di studio erano state sempre quelle oscure e lontane regioni dell'anima umana che si definiscono il subcosciente, mentre forse si farebbe meglio a chiamarle il sopraccosciente, perché da quelle regioni affiora talvolta un magico sapere che supera di molto il cosciente sapere dell'individuo e suggerisce l'idea che tra le regioni piú basse e tenebrose dell'anima individuale e un'anima universale onnisciente sussistano comunicazioni e legami. Il territorio del subcosciente, "occulto" secondo il vero e proprio significato della parola, si rivela assai presto anche occulto nel senso piú ristretto di essa e costituisce una delle fonti donde sgorgano i fenomeni che chiamiamo cosí per ripiego. E non è tutto. Chi nel sintomo organico della malattia scorge un'opera derivante dalla cosciente vita psichica di emozioni represse e isterizzate, riconosce la facoltà creatrice della psiche nel campo materiale,... una facoltà che si è costretti a considerare come seconda fonte dei fenomeni magici. Idealista del fatto patologico, per non dire idealista patologico, egli si vedrà all'inizio di ragionamenti che sfociano molto rapidamente nel problema dell'essere in genere, vale a dire nel problema dei rapporti tra spirito e materia. Il materialista, figlio di una filosofia del mero vigore fisico, non potrà mai fare a meno di dichiarare che i fatti spirituali sono fosforescenti prodotti della materia. L'idealista, invece, prendendo le mosse dal principio dell'isterismo creatore, sarà incline e presto risoluto a dare al quesito del primato una risposta nettamente inversa. Tutto sommato, qui ci troviamo nettamente di fronte alla vieta questione del "chi ci fu prima, l'uovo o la gallina?" ...controversia che porta a un'immensa confusione col duplice fatto che non è pensabile un uovo, il quale non sia stato deposto da una gallina, né una gallina che non sia uscita da un uovo presupposto. Questi erano dunque gli argomenti delle conferenze del dottor Krokowski negli ultimi tempi. Vi era arrivato per via organica, legittima, logica, non ci stancheremo di metterlo in rilievo, e soltanto per soprappiú aggiungiamo che aveva cominciato a dedicarvisi molto tempo prima che, in seguito alla comparsa di Ellen Brand, si entrasse in una fase empirico-sperimentale.

Chi era Ellen Brand? Per poco non dimenticavamo che i nostri ascoltatori non lo sanno, mentre a noi questo nome è, naturalmente, familiare. Chi era dunque? Alla prima occhiata quasi nessuno. Un caro cosino di diciannove anni che chiamavano Elly, una danese biondo-stoppa, e nemmeno di Copenaghen, bensí di Odense nell'isola di Fionia, dove suo padre esercitava un commercio di burro. Lei stessa era già entrata nella vita pratica da un paio d'anni e, la soprammanica sul braccio destro, era impiegata nella filiale di provincia d'una banca, dove stava seduta su uno sgabello girevole, con grossi libroni davanti... e là aveva avuto un aumento di temperatura. Un caso irrilevante, piú che altro un sospetto, anche se Elly era realmente di costituzione delicata, fragile ed evidentemente clorotica,... ma davvero simpatica, di modo che le si sarebbe posato volentieri la mano sui capelli biondi, come il consigliere faceva regolarmente quando parlava con lei nella sala da pranzo. Era fasciata di una freddezza nordica, da una atmosfera casta, vitrea, verginale, infantile, veramente amabile, come il chiaro e puro sguardo dei suoi occhi azzurri e come il suo modo di parlare, acuto e fine, in un tedesco impreciso con tipici difetti di pronuncia. I suoi lineamenti non avevano niente di notevole. Il mento era troppo corto. Mangiava alla tavola della Kleefeld che le faceva un po' da mamma. Questa giovinetta dunque, questa Elly, la gentile danesina, ciclista e scritturale normalmente legata allo sgabello girevole, possedeva qualità che nessuno, vedendo la prima e la seconda volta la sua chiara personcina, avrebbe mai immaginate, che però, dopo solo qualche settimana del suo soggiorno lassú, cominciarono a rivelarsi, finché il dottor Krokowski si assunse il compito di metterle a nudo in tutta la loro stranezza. Le comuni conversazioni nei ritrovi serali offrirono al dotto la prima occasione di rizzare le orecchie. Era invalso l'uso di presentare ogni sorta di indovinelli; poi si trattava di trovare oggetti nascosti con l'aiuto del pianoforte, il cui suono diventava sempre piú forte quanto piú uno si avvicinava al nascondiglio, piú piano quando prendeva vie sbagliate; e in seguito si arrivò a pretendere da chi durante le intese aveva dovuto stare fuori della porta che eseguisse esattamente determinate azioni complesse, come, per esempio, scambiare gli anelli di due persone prefissate, invitare qualcuno alla danza con tre inchini, togliere dalla biblioteca un dato libro e consegnarlo al tale, e simili. Va notato che giuochi di questo genere non si erano mai fatti fra gli ospiti del Berghof In seguito non si riuscí a stabilire chi ne fosse stato il promotore. Certo non era stata Elly. Eppure l'idea era nata soltanto dopo il suo arrivo. In quegli esperimenti i partecipanti - erano quasi tutti nostri vecchi conoscenti, e anche Castorp tra loro si rivelarono piú o meno adatti e docili oppure del tutto refrattari. L'idoneità di Elly Brand però risultò straordinaria, sorprendente, eccessiva. La sua sicurezza nel cercare nascondigli poteva ancora passare tra applausi e risate ammirative; ma alle azioni complesse si cominciò a restare a bocca aperta.

Lei eseguiva qualunque cosa le si fosse segretamente prescritta, la eseguiva appena rientrava, con un dolce sorriso, senza esitare, persino senza che la musica la guidasse. Una volta andò in sala da pranzo a prendere un pizzico di sale, lo sparse sulla testa del procuratore Paravant, che prese poi per mano per condurlo davanti al pianoforte dove con l'indice di lui suonò il principio della canzoncina Kommt ein Vogel gevogen. Poi lo riaccompagnò al suo posto, gli fece un inchino, andò a prendere un poggiapiedi e vi si sedette infine davanti a lui,... esattamente come avevano escogitato di farle fare. Dunque aveva origliato? Elly arrossí; e col sollievo di vederla umiliata, si misero a rimproverarla tutti in coro, mentre lei assicurava che no, no, non dovevano pensarlo! non là fuori, non alla porta aveva ascoltato, no davvero. Non là fuori? non alla porta? No, no, scusate! Ascoltava lí dentro, nel salotto, appena entrava, non ne poteva fare a meno. Non poteva farne a meno? Lí, nel salotto? Qualcuno glielo sussurrava, rispose. Le sussurrava ciò che doveva fare, piano, ma in modo chiaro e intelligibile. Era evidentemente una confessione. In un certo senso Elly si sentiva colpevole, aveva ingannato. Doveva dire che non era adatta a quel giuoco se tutto le veniva suggerito! Una gara non ha senso quando uno dei concorrenti gode vantaggi soprannaturali. In linguaggio sportivo Elly si trovò improvvisamente squalificata, non senza che qual cuno, alla sua confessione, si sentisse scorrere un brivido lungo la schiena. Alcune voci, tutte insieme, invocarono il dottor Krokowski. Corsero a chiamarlo, ed egli venne, tozzo e robusto, col suo sorriso, subito orientato, invitando con tutta la persona a una serena fiducia. Gli avevano riferito, col fiato mozzo, che stavano succedendo cose anormali, inaudite, che si era presentata una onnisciente, una fanciulla che udiva voci. Oh guarda! E poi? calma, amici, calma ! Si vedrà. Era sul suo terreno,... cedevole, malsicuro come sabbia mobile, per tutti, ma solido per lui che vi si moveva con sicura simpatia. Chiese notizie, si fece raccontare. Oh, guarda un po'! Questo le succede, figlia mia? e come facevano tutti, le pose una mano sul capo. Non c'era nessun motivo di spaventarsi, anche se il fatto era degnissimo di considerazione. Egli fissò gli esotici occhi castani in quelli celesti di Ellen Brand, mentre le passava la mano dai capelli alla spalla e giú lungo il braccio. Lei restituí lo sguardo sempre più devotamente, cioè sempre piú dal basso, mentre chinava adagio la testa sul petto e sulla spalla. Quindi i suoi occhi cominciarono a spegnersi, lo scienziato con un gesto lento sollevò una mano davanti al visetto di lei, dichiarò che tutto era in regola e mandò i presenti al riposo serale, eccettuata Elly, con la quale desiderava "chiacchierare" ancora. Chiacchierare! Era facile immaginare come. Era una parola che mise tutti a disagio, una parola fatta apposta per il gaio camerata Krokowski.

Tutti si sentirono toccare il cuore da una mano gelida, anche Castorp, allorché andò in ritardo ad occupare la sua eccellente sedia a sdraio e ricordò come alle eccessive prove di Elly e alla timida spiegazione che ne aveva data si fosse sentito tremare il terreno sotto i piedi e avesse provato un certo malessere, un'angoscia fisica, un lieve mal di mare. Non aveva mai fatto l'esperienza del terremoto, ma pensò che doveva essere certo accompagnato da simili e inconfondibili sensazioni di spavento,... prescindendo dalla curiosità che oltre a ciò gli ispiravano le fatali facoltà di Ellen: curiosità che conteneva il sentimento della sua superiore disperazione, cioè la coscienza che il territorio al quale tendeva le antenne era inaccessibile allo spirito, e quindi anche il dubbio se fosse curiosità soltanto vana o anche peccaminosa, il che non le toglieva di rimanere ciò che era, cioè curiosità. Castorp, come tutti, nel corso degli anni aveva già sentito parlare di misteri della natura, di fatti soprannaturali; infatti abbiamo già menzionato la profetica prozia, la cui malinconica tradizione era arrivata fino a lui. Ma quel mondo, al quale egli non aveva negato un riconoscimento teorico e disinteressato, non aveva mai coinvolto la sua persona, non era mai entrato nella cerchia delle sue esperienze pratiche, e la sua ripugnanza per siffatte esperienze, un vero disgusto, una riluttanza estetica, una resistenza di orgoglio umano - se ci è lecito usare espressioni cosí pretenziose a proposito del nostro eroe cosí privo di pretese, era quasi pari alla curiosità che esse suscitavano in lui. Sentiva in partenza, sentiva chiaramente che quelle esperienze, comunque si sviluppassero, non si sarebbero mai presentate se non insulse, incomprensibili e umanamente prive di dignità. Eppure ardeva dal desiderio di farle. Capiva che "vano o peccaminoso", alternativa già brutta in sé, non era affatto un'alternativa, ma una coincidenza e che la disperazione spirituale era soltanto la amorale forma espressiva del divieto. Il placet experiri però, istillatogli da uno che non poteva non disapprovare fermissimamente siffatti esperimenti, era radicato nella mente di Castorp; la sua moralità si identificò a poco a poco con la sua curiosità, e forse era sempre stato cosí: la curiosità assoluta di chi viaggia per imparare, la quale, appena assaggiato il mistero della personalità, non era forse stata piú tanto lontana dal territorio al quale ora si affacciava, e siccome non scansava le cose vietate quando le si offrivano, denotava una specie di carattere militare. Castorp decise pertanto di rimanere sul posto e di non trarsi da parte, qualora Ellen Brand avesse dato l'avvio ad altre avventure. Il dottor Krokowski aveva vietato rigorosamente di fare ulteriori esperimenti da profani con le doti segrete della signorina Brand. Aveva messo la ragazza sotto sequestro scientifico, teneva sedute con lei nel suo carcere analitico, la ipnotizzava, a quanto si diceva, e mirava a sviluppare e disciplinare le sue riposte possibilità e a indagarne la precedente vita psichica. Lo faceva d'altro canto anche Hermine Kleefeld, la sua materna amica e protettrice, la quale sotto il sigillo della segretezza venne a sapere parecchi particolari che poi, sotto il medesimo sigillo, diffuse in tutta la casa, fin nello sgabuzzino del portiere.

Apprese, per esempio, che l'essere il quale durante quei giuochi aveva fatto da suggeritore alla fanciulla si chiamava Holger - era il giovane Holger, uno spirito a lei familiare, un essere etereo e defunto, qualcosa come un angelo custode della piccola Ellen. Questi dunque le aveva palesato il trucco del pizzico di sale e dell'indice di Paravant? - Sí, era stato lui a suggerirglielo accostando le labbra umbratili al suo orecchio come una carezza che le faceva il solletico e la stimolava a sorridere. - Doveva essere stato divertente, a scuola, sentirsi suggerire le risposte da Holger, quando lei ci andava impreparata. - A questa osservazione Ellen aveva taciuto. Dopo però aveva risposto che probabilmente Holger non aveva il permesso di farlo; gli era vietato immischiarsi in questioni cosí serie, e le risposte di scuola non le sapeva probabilmente nemmeno lui. Oltre a ciò si venne a sapere che Ellen fin da piccola, sia pure a lunghi intervalli, aveva avuto apparizioni: visibili e invisibili. - Come sarebbe a dire visioni invisibili? Ecco, per esempio: a sedici anni era stata una volta sola nel salotto dei suoi genitori, seduta alla tavola rotonda con un lavoro di cucito, in un pomeriggio luminoso, e sul tappeto accanto a lei era accucciato l'alano di suo padre, la cagna Freia. Sulla tavola era stesa una tovaglia colorata, uno di quegli scialli turohi triangolari, come li portavano le donne; era messo di traverso con le cocche penzoloni. A un tratto Ellen aveva visto la cocca di fronte a lei arrotolarsi fin verso il centro della tavola formando infine un rotolo piuttosto lungo; e intanto Freia si era alzata di scatto, puntando le zampe anteriori, con pelo irto, si era accosciata, poi era corsa ululando nella stanza attigua a rintanarsi sotto il divano e per un anno intero non ne aveva voluto sapere di mettere piede nel salotto. Era stato Holger, domandò la signorina Kleefeld, ad arrotolare lo scialle? - La piccola Brand non lo sapeva. E che cosa si era immaginata a quella scena? - Siccome era assolutamente impossibile immaginare qualcosa, Elly non vi aveva fatto alcuna riflessione. - Ne aveva parlato coi suoi genitori? - No. - Strano! Benché fosse impossibile pensare a una spiegazione, Elly però aveva avuto l'impressione, in questo caso e in altri simili, di dover tenere la cosa per sé, di doverne fare un rigoroso segreto. - Ne aveva sofferto? - No, non molto. Una tovaglia che si arrotola può essere causa di sofferenze? Altre volte invece aveva sofferto parecchio. Per esempio: Un anno prima, sempre a Odense, nella casa paterna, la mattina per tempo, al fresco, era uscita dalla sua camera, situata al pianterreno, con l'intenzione di salire, attraverso l'anticamera, al primo piano, nella sala da pranzo, per preparare, come al solito, il caffè prima che arrivassero i suoi genitori. Giunta quasi al pianerottolo, dove la scala girava, aveva visto sul margine di esso, presso i gradini, la sua sorella maggiore Sofia, che era maritata in America... Era lí in piedi reale e tangibile. Vestita di bianco portava stranamente sulla testa una corona di ninfee gialle, di gigli d'acqua, e, le mani intrecciate contro una spalla, le aveva fatto un cenno. Ma, Sofia, sei proprio tU? aveva esclamato Ellen, come inchiodata, tra lieta e atterrita. Sofia aveva fatto un altro cenno con la testa e si era dileguata. Era diventata trasparente; poi era stata ancora visibile come può essere una corrente d'aria calda, e infine era scomparsa lasciando via libera a Ellen.

In seguito si era saputo che a quella stessa ora mattutina la sorella Sofia era morta di endocardite a New Jersey. Be', osservò Castorp quando la Kleefeld glielo raccontò, la faccenda era ancora ragionevole, credibile. L'apparizione da una parte, il decesso dall'altra: un certo nesso lo si può anche trovare. E accettò di partecipare a un giuoco spiritico di società, lo spostamento del bicchiere, che per impazienza si era deliberato di fare con Ellen Brand, eludendo di nascosto il geloso divieto del dottore. Soltanto certe persone furono ammesse in confidenza alla seduta che doveva aver luogo nella camera della Kleefeld: oltre alla invitante, a Castorp e alla piccola Brand c'erano soltanto le signore Stohr e Levi, il signor Albin, il ceco Wenzel e il dottor Ting-Fu. La sera, alle dieci in punto, si adunarono senza far rumore ed esaminarono bisbigliando, i preparativi fatti da Hermine: su un tavolino di media grandezza, rotondo, senza tovaglia, nel mezzo della camera, c'era un calice rovesciato, col piede all'insú, e sul margine della tavola, torno torno, a opportuna distanza erano disposte lastrine d'osso, di quelle che normalmente fanno da gettoni, sulle quali erano segnate con l'inchiostro le ventun lettere dell'alfabeto. Per cominciare la Kleefeld serví il tè, accettato con gratitudine, perché le signore Stohr e Levi, nonostante la puerile innocuità dell'impresa, si lagnarono di avere le estremità fredde e il batticuore. Presa la calda bevanda, tutti si sedettero intorno al tavolino e a una fioca luce rosata, poiché la ospitante aveva voluto creare l'atmosfera, spegnendo la lampada del soffitto e lasciando accesa soltanto la lampadina schermata del comodino, ognuno posò leggermente un dito della destra sul piede del bicchiere. Esigenza del metodo. E attesero il momento in cui il calice si sarebbe spostato. Ciò poteva avvenire con facilità, perché il piano del tavolino era liscio, l'orlo del bicchiere molato e la pressione esercitata dalle dita, per quanto posate leggermente e tremanti - essendo beninteso diseguale, qui piuttosto dall'alto in basso, là piú lateralmente, - doveva essere, a lungo andare, abbastanza forte da indurre il bicchiere a spostarsi dal centro. Alla periferia del campo d'azione avrebbe urtato le lettere, e se quelle che toccava, messe insieme, davano parole e un significato, ciò avrebbe costituito un fenomeno intimamente complicato fino alla sozzura, un misto di elementi inconsci, consci del tutto e consci per metà, dell'aiuto di singoli, mosso dal loro desiderio - ammettessero costoro o non ammettessero questa loro azione, - e dal segreto consenso di tenebrosi strati psichici di tutti i presenti, di una collaborazione sotterranea per ottenere risultati apparentemente nuovi, nei quali le oscurità dei singoli avessero piú o meno parte, soprattutto, s'intende, quella dell'amabile piccola Elly. In fondo tutti lo sapevano in precedenza, e Castorp a suo modo lo spifferò persino, mentre tutti stavano in attesa con le dita tremanti. Anche il freddo delle estremità e il batticuore delle donne e la falsa allegria degli uomini derivavano appunto dal fatto che lo sapevano, dal fatto cioè che nel silenzio notturno si erano radunati per giocare un lurido giuoco con la loro natura, per un trepido e curioso assaggio di parti ignote del loro io, e ora aspettavano quelle mezze o apparenti oggettività che chiamiamo magiche.

E soltanto per dare una forma all'impresa, cioè per convenzionalità, si asseriva che mediante il bicchiere avrebbero parlato all'assemblea gli spiriti dei defunti. Albin si offrí di fare il portavoce e di trattare con le intelligenze che si fossero annunciate, dato che già altre volte aveva partecipato a sedute spiritiche. Passarono cosí venti e piú minuti. La materia dei discorsi fatti sottovoce si esaurí, la prima tensione si allentò. Alcuni sostennero il braccio destro con la sinistra sotto il gomito. Il ceco Wenzel stava per appisolarsi. Ellen Brand, col ditino appoggiato, teneva i grandi e puri occhi di fanciulla fissi, al di sopra delle cose vicine, sulla lampadina da notte. A un tratto il bicchiere si rovesciò, batté sulla tavola e scappò via sotto alle mani degli astanti i quali durarono fatica a seguirlo con le dita. Esso slittò fino al margine del tavolino, ne percorse l'orlo per un tratto e ritornò poi in linea retta fin quasi al centro dove batté ancora un colpo e si fermò. Lo spavento di tutti era un po' lieto, un po' angosciato. La signora Stohr avvertí piagnucolando che era meglio smettere, ma le fu risposto che doveva pensarci prima e ora era necessario che stesse zitta. L'impresa parve avviata bene. Si stabilí che per rispondere sí e no non era necessario che il bicchiere ricorresse alle lettere, bastava che battesse una o due volte. E' presente uno spirito? domandò Albin nel vuoto, al di sopra dei compagni, con severo cipiglio... Seguí una pausa. Poi il bicchiere batté confermando. Come ti chiami? domandò Albin quasi brusco e rafforzò l'energia dell'allocuzione scotendo la testa. Il bicchiere si mosse e corse risoluto a zig zag da un gettone all'altro, ritornando ogni tanto un tratto verso il centro della tavola: toccò l'h, l'o, la l, poi sembrò stanco, confuso, incapace di andare avanti, ma si riprese e trovò anche la g, la e e la r. Era da prevedere! Si trattava di Holger in persona, dello spirito Holger, quello che aveva saputo la faccenda del pizzico di sale ecc. ma non si era immischiato in questioni scolastiche. Era presente, fluttuava nell'aria, si librava sopra la riunione. Che se ne doveva fare? Il circolo era un po' perplesso. Ci si consultò sottovoce e quasi di soppiatto intorno ai quesiti da porre. Albin si risolse a domandare quali fossero le condizioni e l'attività di Holger quando era vivo. E lo fece, come prima, in tono da inquisitore, con severità, aggrottando le sopracciglia. Per un po' il bicchiere tacque. Poi traballando e zoppicando andò a toccare la p, si spostò e indicò là o. Come avrebbe continuato? L'attenzione era vivacissima. Ting-Fu opinò ridacchiando che Holger doveva aver fatto il poliziotto.

La Stohr scoppiò in una risata isterica senza perciò arrestare la fatica del bicchiere che, sia pure claudicante, si trascinò fino alla e, alla t. E là si fermò trascurando evidentemente l'ultima lettera. Aveva compitato la parola 'poeta". Che diamine? Holger era stato poeta? - Per soprappiú e soltanto (cosí sembrò) per orgoglio il bicchiere s'inclinò e confermò con un colpo. - Poeta lirico? domandò la Kleefeld raddoppiando la r con indignato dispetto di Castorp... Holger non parve disposto a fare distinzioni. Non diede altra risposta. Compitò di nuovo la precedente, con precisione e senza intoppi, aggiungendo la a che prima aveva dimenticato. Bene, dunque, poeta. L'imbarazzo aumentò,... uno strano imbarazzo che si poteva imputare alle manifestazioni di incontrollate regioni del proprio io, ma, data la ipocrita e semioggettiva presenza di queste manifestazioni, faceva pensare anche a una realtà esteriore. Holger nelle sue condizioni si sentiva bene e felice? fu la successiva domanda. - Il bicchiere segnò trasognato la parola "placido". Placido? Ecco, nessuno l'avrebbe pensato, ma se lo diceva il bicchiere, doveva essere giusto e verosimile. E da quanto tempo si trovava in quelle placide condizioni? - Anche qui la risposta non sarebbe venuta in mente a nessuno, era come una confessione fatta in sogno: "Quiete nella fretta". - Benissimo. Poteva anche dire "fretta nella quiete", era una ventriloqua asserzione di poeta, dall'esterno, che specialmente Castorp reputò eccellente. La quiete nella fretta era il tempo in cui stava Holger, il quale doveva sbrigare gli interroganti con sentenze, perché aveva certo disimparato a usare parole terrene e l'esattezza delle misure di quaggiú. - Che cosa si voleva sapere ancora da lui? La Levi confessò che era curiosa di apprendere da Holger quale aspetto avesse, o avesse avuto in passato. Era un bel giovane? - Albin, considerando questo desiderio al di sotto della sua dignità, ordinò che glielo chiedesse lei. E lei chiese, dandogli del tu, se Holger aveva i capelli biondi. Bei riccioli castani, castani rispose il bicchiere dilungandosi a compitare due volte la parola "castani". La brigata ne fu lieta e contenta. Le donne si mostrarono innamorate e gettarono baci verso il soffitto. Ting-Fu osservò ridendo che mister Holger doveva essere piuttosto vanitoso. In quella il bicchiere montò sulle furie; pareva ammattito! Si mise a correre furiosamente, all'impazzata, per la tavola, si ribaltò, cadde e rotolò in grembo alla Stohr che, pallida dallo spavento, allargò le braccia e lo stette a guardare. Con cautela e con molte scuse lo riportarono al suo posto. Il cinese fu colmato di rimproveri. Come mai aveva osato? Ecco dove si arriva con l'impertinenza! E se ora Holger, nell'ira, se la fosse svignata e non dicesse piú una parola? Al bicchiere furono rivolti i migliori incoraggiamenti.

Gli fu domandato se non volesse poetare. Non era stato poeta quando si trovava nella sua frettolosa quiete? Oh, quanto desideravano, tutti, un po' di poesia! L'avrebbero goduta con gioia. Ed ecco, il buon bicchiere rispose di sí. Nel suo modo di battere c'era davvero un'espressione bonaria e conciliante. Poi Holger, lo spirito, si mise a poetare, con cura minuta, prolissa, senza soste, e continuò, continuò,... pareva che non lo si sarebbe mai piú ridotto al silenzio! Era una poesia sorprendente da cima a fondo, quella che recitò da ventriloquo, mentre gli astanti la ripetevano ammirati, una fattura magica, sconfinata come il mare del quale trattava particolarmente,... Rifiuti marini a mucchi lungo la stretta riva della baia ampia e curva nel paese delle isole con le ripide dune sulle coste. Guardate! D'un verde morente l'immensità svanisce nell'eterno, dove sotto larghe strisce di nebbia e veli cremisi e teneri lattei bagliori il sole estivo indugia nel tramonto! Nessun labbro saprebbe dire come e quando l'argenteo e tremulo riverbero dell'acqua si tramuti in un cangiare di madreperla, in un ineffabile giuoco di colori pallidi, opalini, come lo splendore della selenite che si stende su ogni cosa... Ahi, furtiva, come era sorta, la silente magia si dileguò. Il mare si addormiva. Ma laggiú, là fuori rimasero le soavi vestigia del solare commiato. Né scende il buio se non a notte fonda. Una semiluce spettrale regna nel bosco di pinastri sulle dune e fa brillare come neve la scialba rena del fondo. Illusoria foresta invernale nel silenzio, percorsa dal volo grave di una nottola! Sii il nostro ric-vero a quest'ora! Tenero il passo, alta e mite la notte. E lento respira laggiú infondo il mare e strascica il suo murmure nel sogno. Brami di rivederlo? Esci allora sul pendio della duna, smorto ghiacciaio, e sali per la morbida sabbia che entra fresca nei calzari. Irta di cespugli e ripida la terra scende al lido sassoso, e ancora al margine della vanente lontananza fluttuano i resti del giorno... Posa qui in alto sulla sabbia! Mortalmente fresca, farinosa, come seta. Dal tuo pugno scorre con getto sottile e incolore e, sotto, ecco si forma una tenera collina. Lo riconosci questo scorrere sottile? E' il fine fluire silente attraverso l'orificio della clessidra, il severo fragile oggetto che orna la dimora dell'eremita. Un libro aperto, un teschio, e sul trespolo, entro una cornice sottile, la leggera doppia fiala, in cui un po' di sabbia, tolta dall'eterno, diventa tempo e vive di vita segreta, sacra, conturbante... Cosí lo spirito Holger, con la sua improvvisazione "lirrica", per una singolare fuga del pensiero, era giunto dal mare patrio a un eremita e allo strumento delle sue contemplazioni; trattò anche altri argomenti, umani e divini, con parole ardite e sognanti, compitandole sillaba per sillaba, e non lasciava quasi il tempo d'intercalare gli entusiastici applausi: tanto era veloce il suo zigzagare di palo in frasca, e via, a non finire,... dopo un'ora non si scorgeva la fine di quella poesia che descriveva le doglie materne e il primo

bacio degli amanti, e la corona del dolore e la severa bontà paterna di Dio, e senza accennare ad esaurirsi, affondava nella vita del creato, si smarriva in evi e paesi e negli spazi siderali, a un certo punto menzionò persino i caldei e lo Zodiaco e certo sarebbe durata per tutta la notte, se gli evocatori non avessero infine staccato il dito dal bicchiere e dichiarato, con i piú sentiti ringraziamenti, che per questa volta doveva bastare, era stata una bellezza insospettata, e un vero peccato che nessuno avesse messo in carta la poesia, che pertanto sarebbe caduta immancabilmente nell'oblio, anzi, purtroppo, in gran parte era già dimenticata, a causa di quella instabilità che hanno i sogni. La prossima volta si sarebbe dato per tempo l'incarico a un segretario, per vedere come la poesia si presentava conservata nero sul bianco e recitata di seguito; per il momento però, e prima che ritornasse nella placidità della sua frettolosa quiete, Holger avrebbe fatto bene e sarebbe stato molto gentile se avesse voluto rispondere ancora a qualche domanda concreta,... non era ancora deciso quale, ma in linea generale e per sua particolare cortesia era eventualmente disposto a farlo? La risposta fu "sí". Ma si vide che tutti erano incerti sulla domanda da fare. Era come nelle fiabe, quando la fata o il nano consente di fare una domanda e si corre il rischio di sprecare inutilmente la preziosa possibilità. Molte cose meritava sapere del mondo e dell'avvenire, e scegliere significava assumersi una grave responsabilità. Poiché nessuno si decideva, Castorp, con un dito sul bicchiere, la guancia sinistra nella mano, disse che gli sarebbe piaciuto sapere, quanto doveva durare il suo soggiorno lassú invece delle tre settimane preventivate in origine. Bene, non trovando di meglio, si chiese che lo spirito attingesse alla miniera- delle sue cognizioni la risposta a questa domanda improvvisata. Dopo un momento d'esitazione il bicchiere si mosse, e indicò una cosa molto strana, che parve senza riferimenti e nessuno riuscí a capire. Compilò la sillaba "va", poi la parola "traverso", e non si indovinava che cosa volesse dire, poi accennò alla camera di Castorp, sicché l'istruzione era questa: che Castorp attraversasse di sbieco la sua camera. Attraversare la camera? Attraverso il numero 34? Che significava? Mentre stavano almanaccando e scotendo la testa, si udí a un tratto un forte colpo col pugno dato contro la porta. Tutti allibirono. Un'aggressione? Era forse Krokowski, venuto a disperdere la vietata riunione? Perplessi, aspettavano che l'ingannato entrasse. In quella risonò un altro pugno vibrato nel mezzo della tavola come per spiegare che anche il primo colpo era stato dato dall'interno, non da fuori. Doveva essere stato uno scherzo di cattivo gusto da parte di Albin! - No, egli negò e diede la sua parola d'onore, ma tutti, anche senza la sua parola, erano, si può dire, sicuri che nessuno di loro aveva dato quella botta. Era stato dunque Holger? Guardarono Elly, la cui calma aveva richiamato l'attenzione di tutti.

Stava seduta, coi polsi abbandonati e le dita sull'orlo del tavolino, appoggiata alla spalliera, la testa china sulla spalla, le sopracciglia alzate, la boccuccia ancora afflosciata in un lievissimo sorriso che aveva però un che di recondito e di innocente, e con i puerili occhi azzurri che non vedevano nulla guardava di sotto in su, nel vuoto. La chiamarono, ma lei non diede segno di essere presente. In quell'istante la lampadina del comodino si spense. Si spense? La Stohr non sapendo piú contenersi si mise a strillare che aveva udito lo scatto dell'interruttore. La luce non era mancata, ma era stata interrotta, da una mano che era già molto riguardoso considerare estranea. Era quella di Holger? Fino a quel momento era stato cosí buono, cosí disciplinato, cosí poeta; ora invece il suo carattere aveva cominciato a fare brutti tiri e a degenerare in canagliate. Chi garantiva che una mano capace di menar pugni contro porte e mobili non prendesse qualcuno alla gola? Al buio si chiesero fiammiferi, una lampadina tascabile. La Levi gridò che l'avevano tirata per i capelli. Dallo spavento la Stohr non si vergognò di pregare il Signore ad alta voce. Oh, Dio mio, soltanto questa volta ancora ! piagnucolando implorò clemenza, benché avesse tentato l'inferno. Infine il dottor Ting-Fu ebbe la sana idea di accendere la lampada del soffitto, sicché la camera ne fu tutta illuminata. Mentre si stabiliva che la lampadina sul comodino non si era spenta per caso, ma la corrente era stata interrotta, e, per riaccenderla bastava ripetere umanamente lo scatto clandestino, Castorp ebbe a sua volta e nel silenzio una sorpresa che poté prendere per un'attenzione personale delle oscure puerilità che là si stavano manifestando. Si trovò sulle ginocchia un oggetto leggero, il "souvenir" che una volta aveva sbalordito suo zio, il quale lo aveva preso dal comodino del nipote: la diapositiva di vetro che ridava il ritratto interiore di Clavdia Chauchat e che certamente non era stato lui, Castorp, a introdurre in quella camera. Senza far chiasso lo intascò. Gli altri stavano intorno a Ellen Brand che, sempre nell'atteggiamento descritto, era al suo posto con lo sguardo cieco e con un'espressione stranamente leziosa. Albin le Soffiò in faccia e imitò il gesto sventagliante che aveva fatto Krokowski alzando la mano davanti al suo visetto, dopo di che lei si destò e - non si capiva perché - pianse un poco. Le fecero carezze e la consolarono, le diedero baci sulla fronte e la mandarono a letto. La Levi si disse disposta a passare la notte con la signora Stohr, perché la poveraccia non trovava il coraggio di andare a dormire. Castorp, l'apfoto nel taschino, non ebbe niente in contrario a concludere la mal riuscita serata insieme con gli altri nella camera di Albin con un cognac, perché si era accorto che avvenimenti come quelli non esercitano influssi né sul cuore né sulla mente, ma piuttosto sui nervi gastrici... anzi influssi persistenti, simili a quelli di chi ha sofferto il mal di mare, quando già a terra ha l'impressione di sentire ancora a lungo le oscillazioni che sconcertano lo stomaco.

Per il momento la sua curiosità era appagata. La poesia di Holger non era stata, lí per lí, nemmeno da buttar via, ma la presentita disperazione interiore e l'insulsaggine di tutta la serata gli erano imposte cosí chiaramente da indurlo a pensare che quelle poche falde di fuoco infernale, dalle quali era stato investito, gli potevano bastare. Settembrini, come si può immaginare, lo confortò con tutte le sue forze in questo proposito, allorché Castorp lo mise al corrente delle sue esperienze. Ci mancava anche questa! esclamò. O sventura, sventura! E suidue piedi dichiarò che la piccola Elly era una imbrogliona matricolata. Il suo alunno non disse sí, non disse no. Stringendosi nelle spalle osservò che la parte della realtà non sembrava chiarita fino alla certezza, e quindi neanche la parte della frode. Poteva darsi che il confine fosse fluido. O forse c'erano transizioni fra l'una e l'altra, vari gradi di realtà entro la natura lontana dalla parola e dalla valutazione, i quali si sottraevano a una decisione che, secondo lui, aveva una tinta profondamente morale. E che pensava il signor Settembrini della "ciarlataneria", concetto nel quale elementi di sogno ed elementi di realtà formano una miscela che forse è meno estranea alla natura che al nostro grossolano pensiero corrente? Il mistero della vita è, disse, letteralmente senza fondo, sicché non c'è da stupirsi se all'occasione ne affiorano ciarlatanerie le quali... e cosí via, alla maniera cortese, conciliante e abbondantemente fiacca del nostro protagonista. Settembrini gli diede la dovuta lavata di capo e ottenne persino una momentanea resipiscenza e una specie di impegno a non partecipare mai piú a quegli orrori. Abbia rispetto, ingegnere lo invitò, dell'uomo che è in lei! Confidi nel pensiero limpido e umano e detesti le storture del cervello, il pantano dello spirito! Ciarlataneria? Mistero della vita? Caro mio, dove il coraggio morale di prendere decisioni e di fare distinzioni, come quella tra frode e realtà, si disgrega, la vita è bell'e tramontata, il giudizio, il valore, l'azione riparatrice finiscono, e il processo di putrefazione dello scetticismo morale inizia la sua orribile azione. L'uomo, aggiunse, è la misura delle cose. Il suo diritto di conoscere e giudicare il bene e il male, la verità e la mendace apparenza, è inalienabile, e guai a chi osa minare la sua fede in questo fattivo diritto! Meglio sarebbe che con una macina al collo affogasse nel piú profondo dei pozzi. Castorp approvò e di fatto cominciò con l'astenersi da quelle imprese. Sentí che nel suo sotterraneo analitico il dottor Krokowski organizzava sedute con Ellen Brand, alle quali erano ammessi soltanto ospiti eletti. Ma con indifferenza rifiutò di parteciparvi,... naturalmente non senza apprendere notizie intorno ai risultati degli esperimenti dalla bocca dei collaboratori e dello stesso Krokowski. Manifestazioni di energia sul tipo di quelle che erano accadute violente e spontanee nella camera della Kleefeld; colpi cioè contro la tavola e le pareti, lo scatto dell'interruttore e altri fatti, che non si fermavano lí, si ottenevano e provavano sistematicamente in quelle riunioni, con la maggior possibile garanzia di autenticità, dopo che il camerata Krokowski aveva ipnotizzato secondo tutte le regole dell'arte la piccola Elly mettendola in uno stato di dormiveglia.

Si era notato che l'accompagnamento musicale facilitava gli esercizi, e perciò in quelle serate il grammofono mutava posto, sequestrato dal magico circolo. Siccome però il boemo Wenzel che lo faceva funzionare in siffatte occasioni era un intenditore di musica, che non avrebbe mai bistrattato o danneggiato lo strumento, Castorp lo poteva consegnare con relativa tranquillità. Per questo particolare servizio toglieva dalla discoteca e metteva a disposizione un albo, nel quale aveva raccoltò ogni sorta di musica leggera, ballabili, brevi preludi, e simili cantafere che rispondevano perfettamente allo scopo; dato che Elly non pretendeva certo musiche piú elevate. A quei suoni dunque - apprendeva Castorp - un fazzoletto era salito dal pavimento spontaneamente o, meglio, guidato da una "granfia" nascosta tra le sue pieghe; il cestino del dottore si era sollevato fino al soffitto e vi era rimasto sospeso; il pendolo di un orologio appeso al muro era stato piú volte fermato e rimesso in moto... "da nessuno"; un campanello da tavola era stato "preso" e agitato, e simili torbide frivolezze. Il dotto dirigente era nella fortunata condizione di poter dare a quei risultati un nome greco, carico di dignità scientifica. Erano, come si esprimeva nelle sue conferenze e conversazioni, fenomeni "telecinetici", casi di movimento a distanza; e li incasellava in una categoria di fenomeni che la scienza chiamava materializzazioni, e a queste miravano in particolare i suoi sforzi e gli esperimenti con la fanciulla danese. Nel suo linguaggio si trattava di proiezioni biopsichiche di complessi subcoscienti sul piano oggettivo, di avvenimenti la cui origine va ricercata nella costituzione mediale, nello stato di sonnambulismo, e possono considerarsi visioni di sogno oggettivate in quanto vi si manifesta un potere ideoplastico della natura, una facoltà, spettante in certe condizioni al pensiero, di attirare materia e di lasciarvi un'impronta di effimera realtà. Questa materia emanerebbe dal corpo del medium per plasmarsi transitoriamente, fuori di esso, in estremità biologicamente vive, in organi prensili, in mani, che eseguiscono appunto gli stupefacenti e trascurabili atti, ai quali si poteva assistere nel laboratorio del dottor Krokowski. Quegli organi erano eventualmente visibili e tangibili e potevano lasciare la loro forma nella paraffina o nel gesso. In altri casi invece non era necessario che lasciassero impronte. Teste, visi umani precisati, fantasmi a figura intera si realizzavano davanti agli occhi degli sperimentatori ed entravano in limitati rapporti con loro... e qui la dottrina del dottore cominciò a eccedere, a sbavare, ad assumere un carattere oscillante e ambiguo simile a quello che avevano i suoi sfoghi intorno all"'amore". Ora infatti non si trattò piú, fuori di equivoco e salvando la faccia scientifica, di elementi soggettivi del medium e della sua cerchia passiva, riverberati nella realtà; ora entrarono in campo, almeno per metà, almeno eventualmente, esseri dal di fuori e dal di là; si trattava - forse, non per esplicita ammissione - di elementi non vitali, di esseri che approfittavano dell'ingarbugliato e segreto favore del momento per ritornare alla materia e manifestarsi a chi li chiamava,... insomma, della spiritica evocazione di persone defunte.

A questi risultati aspirava in fin dei conti il dottor Krokowski, mediante il lavoro che compiva insieme coi suoi. Tarchiato e vigoroso, sorridente, invitante a una lieta fiducia, vi aspirava, sentendosi come a casa propria nella palude sospetta del subumano, vero condottiero quindi persino dei tentennanti e dubbiosi. Inoltre, grazie alle straordinarie doti della Brand che egli si era preso la briga di sviluppare e accrescere, sembrava, da tutte le notizie che giungevano a Castorp, che il successo gli arridesse. Si erano avuti contatti tra mani materializzate e singoli partecipanti. Il procuratore Paravant aveva ricevuto dal mondo trascendente uno schiaffo massiccio e ne aveva dato conferma con scientifica serenità, anzi dalla smania aveva porto anche l'altra guancia,... ad onta delle sue qualità di cavaliere, giurista e membro anziano di un'associazione goliardica combattiva, le quali lo avrebbero costretto a ben altro contegno se il ceffone fosse stato di origine vitale. Una sera A. K. Ferge, il sempliciotto paziente cui i concetti superiori non erano accessibili, aveva tenuto in mano una di quelle estremità spettrali e al tatto ne aveva certificato l'esattezza e la completezza delle forme, finché senza che sapesse descrivere come, era sfuggita alla sua presa che si era tenuta entro i limiti d'un cordiale rispetto. Ci volle parecchio tempo, forse due mesi e mezzo con due sedute la settimana, perché una mano di siffatta provenienza ultraterrena, colpita dalla luce rosata di una lampadina avvolta di carta rossa - la mano di un giovanotto, pareva - si mostrasse sul piano della tavola agitando le dita davanti a tutti e lasciasse la sua impronta in una scodella di coccio piena di farina. Ma soltanto otto giorni dopo un gruppo di collaboratori del dottore, Albin, la Stohr, i coniugi Magnus comparvero verso mezzanotte, con tutti i segni del piú estatico e ardente entusiasmo, sul balcone di Castorp per riferirgli in grande fretta e confusione, mentre se ne stava là al gelo pungente, che Holger di Elly si era fatto vedere, che la sua testa era apparsa sopra la spalla della sonnambula, che aveva davvero "bei riccioli castani, castani" e prima di sparire aveva sorriso, dolce e malinconico, in modo indimenticabile! Come concordava, pensò Castorp, quella nobile stezza col resto del comportamento di Holger, con le ragazzate prive di fantasia e le ingenue birbonate, col tutt'altro che malinconico ganascione, per esempio, che il procuratore si era preso da lui? Qui, si capiva, non era il caso di esigere una logica coerenza di carattere. Forse si trattava di uno stato d'animo simile a quello del gobbino della canzone, alla sua tribolata malizia, bisognosa di intercessione. Ma, a quanto pareva, gli ammiratori di Holger non si stillavano il cervello per questo. Essi tenevano a convincere Castorp di rompere la sua astensione, considerando i magnifici risultati; doveva assolutamente intervenire alla prossima riunione; Elly infatti aveva promesso in sogno che la prossima volta avrebbe presentato qualunque defunto designato dai presenti. Qualunque? Ciò nonostante Castorp mantenne il rifiuto. Il fatto però che potesse essere qualsiasi defunto, gli diede da pensare talmente che nel corso dei tre giorni successivi arrivò alla decisione opposta. A rigore non furono quei tre giorni, ma soltanto alcuni minuti di essi a suggerirgli questa risoluzione.

Il suo cambiamento di opinione avvenne una sera mentre, nella deserta sala di musica, ascoltava di nuovo il disco, nel quale era impressa l'arcisimpatica personalità di Valentino,... mentre là seduto porgeva l'orecchio alla preghiera marziale del soldato in procinto di partire per il campo dell'onore, cantando: E se in ciel mi chiama Iddio, di lassú ti guardo io Margherita ! Come sempre, quando lo udiva, ma questa volta rafforzata da certe possibilità e tramutatasi in desiderio, una grande commozione agitò il cuore di Castorp, il quale pensò: "Vano e peccaminoso o no, sarebbe però molto strano, sarebbe una ben cara avventura. Lui, se pur c'entra, non se ne avrà a male, per quanto lo conosco". E ricordò il generoso e imperturbabile "figurati!" che un giorno, nel buio laboratorio radiologico, aveva ricevuto in risposta, allorché aveva creduto di dover chiedere il permesso per certe indiscrezioni ottiche. La mattina dopo comunicò che avrebbe partecipato alla seduta prevista per quella sera, e mezz'ora dopo il pranzo si uní a coloro che, chiacchierando tranquillamente da assidui frequentatori delle riunioni sospette, si avviavano verso il seminterrato. Erano tutte persone che vi avevano messo le radici o almeno erano introdotte da un pezzo, come il dottor Ting-Fu e il boemo Wenzel, che incontrò sulla scala e poi nello studio di Krokowski: Ferge dunque e Wehsal, il procuratore, le signorine Levi e Kleefeld, per non dire di quelli che gli avevano comunicato l'apparizione di Holger, e la mediatrice Elly Brand. Quando Castorp passò la soglia della porta fregiata dal biglietto di visita, la fanciulla nordica era già sotto la sorveglianza del dottore. Al fianco di Krokowski il quale, indossato il solito camice nero, le cingeva paternamente le spalle con un braccio, aspettava gli ospiti e insieme con lui li salutava ai piedi dei gradini che dal piano del sotterraneo scendevano nell'abitazione dell'assistente. Tutti rispondevano al saluto con una cordialità gaia e spensierata. Pareva che si facesse apposta per togliere dall'atmosfera ogni circostanza solenne o deprimente. I discorsi s'incrociavano, a voce alta, in tono scherzoso, ci si scambiava qualche incoraggiante colpetto nei fianchi e in tutti i modi si cercava di darsi un'aria disinvolta. Sotto i baffi del dottore balenavano continuamente i denti gialli, con quella sua espressione vigorosa e invitante alla fiducia, mentre egli salutava con la solita pronuncia esotica, e piú che mai lampeggiarono quando diede il benvenuto a Castorp, incerto e taciturno. "Coraggio, amico mio !" pareva dicesse il movimento beccheggiante della testa di Krokowski, il quale strinse quasi rudemente la mano al giovane. "Non è il caso di stare con le penne basse! Qui non regna l'ipocrisia, né la devozione, ma soltanto la virile serenità della scienza spregiudicata." Il giovane istruito cosí dalla mimica non per questo si sentí meglio. Nei suoi proponimenti gli abbiamo fatto ricordare il laboratorio radiologico, ma questa associazione d'idee non è sufficiente a definire il suo stato d'animo. Questo invece gli rammentò con molta vivacità le condizioni di spirito, quel misto singolare e indimenticabile di spavalderia e nervosismo, di desiderio d'imparare, di disprezzo e raccoglimento in cui si era trovato quando, un po' brillo, con i suoi compagni si era accinto la prima volta a entrare in un bordello di Sankt Pauli.

Visto che c'erano tutti, il dottor Krokowski con due assistenti - a tal compito erano state designate questa volta la signora Magnus e l'eburnea Levi - si ritirò nella stanza attigua per la perquisizione personale del medium, mentre Castorp con gli altri nove partecipanti, aspettava la fine di quell'atto di rigore scientifico, ripetuto regolarmente e sempre senza risultato nell'ambulatorio del dottore. La stanza gli era nota fin da certe conversazioni che per qualche tempo, a insaputa di Joachim, vi aveva tenuto con l'analista. Con la scrivania accompagnata dalla sedia a braccioli e dalla poltrona per i visitatori in fondo a sinistra presso la finestra, con la biblioteca personale ai due lati della porta di fianco, con la sedia a sdraio di tela incerata, messa di sbieco nello sfondo a destra e separata dal gruppo della scrivania mediante un paravento pieghevole, con la bacheca degli strumenti in quell'angolo, il busto di Ippocrate in un altro, e l'incisione della lezione di anatomia di Rembrandt sopra il caminetto a gas alla parete a destra, era un comune ambulatorio medico come tanti altri; si notavano però nell'arredamento alcune modificazioni adottate per lo scopo particolare. Il tavolino rotondo, di mogano, che con le sedie intorno stava di solito nel mezzo, sotto il lampadario elettrico, sul tappeto rosso che copriva quasi tutto il pavimento, era spostato nell'angolo davanti, a sinistra, dov'era collocato il busto di gesso, e pure fuori centro, verso il caminetto acceso che mandava un calore secco, c'era un tavolino piú piccolo, coperto da una tovaglietta leggera, con una lampadina schermata di rosso, sopra la quale pendeva dal soffitto un'altra lampadina, pure avvolta in un velo rosso e, oltre a questo, in un velo nero. Sopra e accanto al tavolino c'erano alcuni oggetti famigerati: il campanello, anzi ce n'erano due, di diversa fattura, uno da agitare e uno a pressione, da batterci su, poi la scodella con la farina, il cestino. Circa una dozzina di seggiole di vario tipo era disposta intorno al tavolinetto formando un semicerchio, un capo del quale arrivava ai piedi della sedia a sdraio, l'altro quasi esattamente al centro della stanza, sotto il lampadario. Lí, nei pressi dell'ultima sedia, a mezza via tra il centro e la porta di fianco, era stato messo lo scrigno musicale. L'albo della musica leggera stava su una sedia accanto. Questa la disposizione. Le lampade rosse non erano ancora accese, quelle del soffitto mandavano una luce bianca, diurna. La finestra, cui la scrivania antistante volgeva il lato breve, era oscurata da una tenda nera, davanti alla quale pendeva ancora un cosí detto store color crema, traforato a guisa di merletto. Dopo dieci minuti il dottore ritornò dallo stanzino con le tre donne. L'aspetto della piccola Elly non era piú quello di prima. Ora non portava lo stesso abito, ma una specie di costume da seduta, una veste di crespo bianco simile a una vestaglia da camera che, stretta alla vita da un cordoncino che faceva da cintura, lasciava le esili braccia nude. Siccome il seno di fanciulla vi si disegnava tenero e libero, si capiva che sotto quella veste portava poco o nulla.

Un coro di saluti la accolse. Evviva Elly ! Com'è sempre bella! Una vera fata! Brava, angelo mio! Lei sorrise alle acclamazioni, sorrise al proprio abbigliamento che sapeva quanto le stesse bene. Primo controllo negativo segnalò il dottore. All'opera dunque, camerati! soggiunse con la sua pronuncia esotica; Castorp sgradevolmente colpito da questa frase, mentre gli altri tra chiacchiere e manate sulle spalle cominciavano ad accomodarsi sul semicerchio di seggiole, stava cercando un posto per sé, quando l'assistente gli rivolse la parola. A lei, amico mio (nemico mio) disse, che è, dirò cosí,- ospite o novellino tra noi, vorrei riservare un onore speciale. Le affido il controllo del nostro medium. Le spiego come si fa. E pregò il giovane di mettersi a un capo del semicerchio, quello vicino alla sedia a sdraio e al paravento, dove Elly, il viso rivolto piú alla porta d'ingresso e ai gradini che al centro della stanza, occupava una comune seggiola di canna, si sedette su un'altra sedia uguale davanti a lei e le prese le mani stringendo le ginocchia di lei tra le proprie. Faccia altrettanto! ordinò cedendo il posto a Castorp. Ammetterà che il sequestro è perfetto. Per soprappiú avrà un aiuto. Signorina Kleefeld, permette? E costei invitata con tanta cortesia, si unì al gruppo e strinse fra le mani i fragili polsi di Elly. Non era possibile evitare del tutto che Castorp guardasse il viso, cosí vicino al suo, della fanciulla prodigio che teneva stretta e imprigionata. I loro sguardi s'incontrarono, ma quelli della ragazza scivolarono via e s'abbassarono denotando un pudore comprensibile in quelle circostanze; poi abbozzò un sorriso un po' lezioso, piegando la testa e facendo il bocchino, come poco tempo prima alla seduta del bicchiere. Quella muta smorfietta fece venire in mente al suo sorvegliante anche un altro ricordo lontano: cosí press'a poco - rammentò - aveva sorriso Karen Karstedt quando aveva sostato con lui e con Joachim davanti alla fossa non ancora aperta nel cimitero di Dorf... Il semicerchio era tutto occupato, presenti tredici persone, senza contare il boemo Wenzel che era solito riservare la sua persona ai servigi di Polinnia e accanto al l'apparecchio, pronto per l'uso, si era seduto su quello sgabello alle spalle di coloro che stavano verso il centro della stanza. Aveva con sé anche la chitarra. Sotto il lampadario dove terminava la curva della fila, si sedette Krokowski dopo aver acceso con uno scatto le due luci rosse e spento con un altro la luce bianca del soffitto. Un'oscurità vagamente luminosa regnò ora nella stanza le cui zone e i cui angoli piú lontani erano diventati inaccessibili allo sguardo. Illuminati erano, a rigore, d'un barlume rossastro, soltanto il piano del tavolinetto e le vicinanze immediate. Nei primi minuti si riusciva appena a scorgere il proprio vicino. Gli occhi si adattarono man mano al buio e impararono a sfruttare la luce concessa che riceveva un po' di rinforzo dalle fiammelle davanti al caminetto. Il dottore dedicò alcune parole all'illuminazione, ne scusò la deficienza scientifica.

Disse che bisognava guardarsi dall'interpretarla come mistificazione e propaganda psicologica. Purtroppo, con la migliore buona volontà non si era ottenuto, per il momento, la concessione di una luce piú forte. La natura delle energie operanti, che ci si accingeva a studiare, faceva sí che alla luce bianca esse non potessero svilupparsi né manifestare la loro efficacia. Era una condizione di fatto alla quale era necessario rassegnarsi... Castorp ne fu contento. Il buio faceva bene, mitigava la singolarità della situazione. Oltre a ciò, a giustificazione della tenebra ricordò quella del gabinetto radiologico, nella quale era entrato con soggezione e con la quale si era lavato gli occhi diurni prima di "vedere". Il medium, continuò Krokowski la sua introduzione, rivolta evidentemente in modo particolare a Castorp, non aveva piú bisogno, per addormentarsi, che lui, il medico, intervenisse. Come il controllore avrebbe notato, cadeva in trance da sola, dopo di che da lei parlava il suo spirito custode, il noto Holger, al quale pertanto, e non a lei, andavano rivolte le richieste dei presenti. D'altro canto era un errore (che poteva anche compromettere la buona riuscita) credere che fosse necessario concentrare con forza la volontà e il pensiero sul presente fenomeno. Al contrario, si consigliava un'attenzione mezzo distratta e loquace. Badasse Castorp soprattutto a tenere sotto precisa sorveglianza le estremità del medium. Si formi la catena! conchiuse il dottore. E cosí fecero, ridendo quando nell'oscurità non riuscivano a trovare subito la mano del vicino. Ting-Fu, seduto vicino a Hermine Kleefeld, le pose la destra sulla spalla e porse la sinistra a Wehsal che veniva dopo di lei. Accanto al dottore erano il signore e la signora Magnus, cui seguiva Ferge, il quale, se Castorp non s'ingannava, teneva con la destra la mano dell'eburnea Levi,... e cosí via. Musica! ordinò Krokowski: e il ceco alle spalle del dottore e dei suoi vicini, diede l'avvio al disco e vi appoggiò la puntina. Conversazione! comandò ancora il dottore, mentre si diffondevano le prime battute d'una ouverture di Millocker; e tutti obbedienti si diedero da fare per accendere una conversazione che non trattava di nulla, qui delle condizioni della neve in quell'inverno, là del l'ultima lista delle vivande, piú oltre di un arrivo e di una partenza legittima o arbitraria; mezzo coperta dalla musica, troncata e ripresa, la conversazione cercava di vivacchiare per forza. Cosí passarono alcuni minuti. Il disco non era ancora terminato allorché Elly ebbe una scossa violenta. Tutta percorsa da un fremito sospirò, piegò in avanti il busto fino a toccare con la fronte quella di Castorp, e nello stesso tempo le sue braccia cominciarono a eseguire con quelle dei suoi sorveglianti strani movimenti di va e vieni, come una pompa. Trance! annunciò la Kleefeld esperta. La musica tacque. La conversazione fu interrotta. Nell'improvviso silenzio si udí la strascicata voce baritonale del dottore che domandava: E' qui Holger?.

Elly tremò di nuovo, e si agitò sulla sedia. Poi Castorp sentí che con ambo le mani stringeva forte e brevemente le sue. Ella mi stringe le mani comunicò. Lui corresse il dottore. E' stato lui a stringerle. Dunque è presente. Ti salutiamo, Holger continuò con unzione. Benvenuto, caro compagno. Permetti che ti rammentiamo: l'ultima volta che sei stato fra noi hai promesso di convocare e far vedere ai nostri occhi mortali qualsiasi defunto, fosse un umano fratello o una sorella, che ti fosse indicato da uno di noi. Sei ancora disposto e ti senti di mantenere oggi la tua promessa? Di nuovo Elly rabbrividí. Sospirò e tardò a rispondere. Lentamente si portò le mani insieme a quelle dei suoi assistenti alla fronte dove le tenne qualche tempo. Poi sussurrò all'orecchio di Castorp un ardente "sí". Il soffio nell'orecchio provocò al nostro amico quel brivido epidermico che popolarmente chiamiamo "pelle d'oca", la cui natura gli era stata spiegata un giorno dal consigliere. Noi diciamo brivido per distinguere il mero fatto fisico da quello psichico, poiché di orrore non è certo il caso di parlare. Egli pensò all'incirca: "Be', costei dimentica se stessa abbondantemente!". Ma nello stesso tempo, provò una commozione, un sussulto, una scossa sconcertante, nata dal turbamento, cioè dall'illusoria circostanza che una giovinetta, che egli teneva per le mani, gli aveva bisbigliato un "sí" all'orecchio. Ha detto di sí trasmise e ne provò vergogna. Bene, Holger! esclamò Krokowski. Ti prendiamo in parola. Tutti abbiamo fiducia che farai del tuo meglio. Il nome del caro che desideriamo veder apparire ti sarà indicato subito. Camerati si rivolse ai convenuti, dite la vostra! Chi ha pronto un desiderio? Chi ci dovrà mostrare l'amico Holger? Seguí un silenzio. Ognuno aspettava che parlasse l'al tro. Negli ultimi giorni ciascuno si era bensí chiesto a chi doveva rivolgere il pensiero; ma il ritorno di un defunto, o meglio il fatto che questo ritorno sia desiderabile, è pur sempre una faccenda complicata e scabrosa. In fondo e per dirla schietta questo fatto non esiste; è un errore; a ben pensarci, è altrettanto impossibile quanto la cosa stessa, e ciò apparirebbe evidente se la natura a un certo punto annullasse l'impossibilità di questa; e quello che chiamiamo lutto è forse non tanto il dolore causato dall'impossibilità di veder ritornare alla vita i nostri morti quanto quello di non poterlo neanche desiderare. Questo era l'oscuro sentimento di tutti, e benché qui non si trattasse di un serio e pratico ritorno alla vita, ma di una manifestazione puramente sentimentale e teatrale dove il defunto lo si doveva soltanto vedere, sicché il caso non presentava alcun pericolo per la vita, temevano però la faccia di colui al quale pensavano, e ciascuno avrebbe lasciato volentieri al prossimo il diritto di esprimere un desiderio.

Anche Castorp, quantunque dalla notte gli giungesse alle orecchie quel bonario e generoso "Figurati!", si peritava e all'ultimo momento era alquanto disposto a dare ad altri la precedenza. Ma come la cosa andava troppo per le lunghe, si rivolse al presidente della riunione e si decise a dire con voce velata: Io vorrei vedere il mio defunto cugino Joachim Ziemssen. Fu la liberazione per tutti. Di tutti i presenti soltanto il dottor Ting-Fu, il ceco Wenzel e il medium non avevano conosciuto il desiderato. Gli altri, Ferge, Wehsal, Albin, il procuratore, i coniugi Magnus, la Stohr, la Levi, la Kleefeld espressero con gioia e a gran voce la loro approvazione, e persino Krokowski si mostrò soddisfatto, benché i suoi rapporti con Joachim fossero stati sempre gelidi, perché quest'ultimo era stato poco compiacente. Molto bene disse il dottore. Hai sentito, Holger? Nella vita il suddetto ti fu estraneo. Lo conosci ora nel mondo di là e sei disposto a condurcelo qua? Grande attesa. La dormente si agitò, gemette, rabbrividí. Pareva che cercasse e lottasse, mentre abbandonandosi di qua e di là bisbigliava parole incomprensibili ora all'orecchio di Castorp, ora a quello della Kleefeld. Final mente ricevette dalle mani di lei la stretta che significava "sí." Comunicò il fatto e... Bene, dunque! esclamò Krokowski. Holger, all'opera. Musica! Conversazione! E ripeté l'avvertimento che non il pensiero convulso né la forzata raffigurazione dell'atteso, bensí soltanto un'attenzione vaga e senza sforzo poteva giovare all'esperimento. Seguirono le ore piú singolari che la giovane vita del nostro eroe avesse registrate fino allora; e benché la sua sorte successiva non ci sia tutta palese, benché a un dato punto della nostra storia lo perderemo di vista, vorremmo supporre che fossero, in genere, le piú singolari che egli abbia mai vissute. Furono ore - piú di due, lo diciamo subito, ivi compresa una breve interruzione dell"'opera" allora incominciata da Holger o, a rigore, dalla fanciulla Elly,... opera che andò paurosamente per le lunghe, sicché tutti furono infine sul punto di disperare del risultato e oltre a ciò per pura pietà si sentirono tentati di abbreviarla e di rinunciare, perché sembrava davvero miserevolmente difficile e superiore alle fragili forze alle quali era imposta. Noi maschi, quando non scansiamo le vicende umane, conosciamo, per aver assistito a una data circostanza della vita, questa insopportabile compassione che nessuno ammette (ed è ridicolo) e forse è anche fuori posto, quell'indignato "basta!" che vuol prorompere dal nostro petto, benché non si voglia e non si debba fermarsi al "basta" e in un modo o nell'altro l'evento deva essere portato a termine. Il lettore ha capito che alludiamo alla nostra qualità di mariti e padri, all'atto della nascita, cui la lotta di Elly somigliava effettivamente in maniera cosí inequivocabile e inconfondibile che la doveva riconoscere anche chi non ne aveva ancora fatto l'esperienza, come il giovane Castorp, il quale, non avendo scansato la vita nemmeno lui, conobbe dunque l'atto colmo di misticismo organico sotto quell'aspetto... e quale aspetto! e per quale scopo! e in quali circostanze! Non si possono definire altro che scandalosi i contrassegni e i particolari di quel parto alla luce rossa, in quanto riguarda sia la vergine puerpera, in fluente veste da camera, con le braccia nude, sia le altre condizioni, l'incessante, fatua musica del grammofono, l'artificioso chiacchierio che il semicerchio cercava, per ordine superiore, di tener vivo, gli allegri appelli incoraggianti che venivano rivolti senza posa alla partoriente: Forza, Holger! Coraggio.

Quasi ci siamo! Non mollare, Holger, se insisti, ci riesci. Né vogliamo qui eccettuare la persona e la situazione del "marito" - se è lecito considerare tale Hans Castorp che aveva espresso il desiderio, - il marito che teneva le ginocchia della "madre" tra le sue, e le mani di lei tra le sue, quelle manine che erano bagnate come a suo tempo quelle della piccola Leila, sicché doveva continuamente rinnovare la stretta perché non gli sfuggissero. Infatti il caminetto a gas che i convenuti avevano alle spalle emanava un gran calore. Misticismo e solennità? Tutt'altro: ciarle rumorose e di cattivo gusto empivano la tenebra rossa alla quale gli occhi si erano avvezzati a poco a poco fino a distinguere abbastanza bene quanto era nella stanza. La musica e il vocio rammentavano i metodi d'incoraggiamento del l'Esercito della salvezza, li rammentavano anche a chi, come Castorp, non aveva mai assistito a una festa religiosa di quegli allegri zelatori. La scena faceva un effetto mistico, esoterico, tale da invogliare le persone sensibili alla devozione, non però in qualche senso spettrale, ma unicamente in senso naturale, organico... e abbiamo già detto per quale sua intima affinità. Gli sforzi di Elly si susseguivano come le doglie con intervalli di riposo, durante i quali lei si afflosciava sulla sedia in condizioni di insufficienza che Krokowski definiva "trance profondo". Poi si riscoteva, gemeva, si dibatteva e affannava, lottava coi sorveglianti, mormorava alle loro orecchie parole ardenti e insensate, pareva che con le sue spinte a destra e a sinistra volesse espellere qualcosa, digrignava i denti e a un certo punto morse persino la manica a Castorp. Cosí passò un'ora e anche piú. Poi il dirigente, nell'interesse di tutti, reputò opportuno inserire un intervallo. Il ceco Wenzel che per cambiare e recare sollievo aveva lasciato un po' da parte l'apparecchio musicale e pizzicato la chitarra con molta abilità, depose lo strumento. Tra sospiri di sollievo la catena delle mani si sciolse. Il dottore andò verso la parete per accendere il lampadario. La luce si accese bianca e abbagliante di modo che tutti strinsero i fiochi occhi notturni. Elly dormiva curva e cascante, il viso quasi sul grembo. La si vedeva stranamente affaccendata, in un'occupazione che agli altri pareva familiare, mentre Castorp la osservava attento e stupefatto: per alcuni minuti passò con la mano cava sulla regione dell'anca,... allontanava poi la mano da sé e la ritirava col gesto di chi attinge o rastrella, come se stesse raccogliendo qualcosa. Poi rinvenne con ripetuti guizzi convulsi, batté le palpebre anche lei, guardando la luce con i fiochi occhi assonnati e sorrise. Sorrise... leziosa e un po' ermetica. La pietà per le sue pene pareva davvero sprecata. Non appariva particolarmente esaurita, forse non ricordava piú le doglie. Stava sulla poltrona del dottore al lato breve della scrivania, vicino alla finestra, tra lui e il paravento che nascondeva la sedia a sdraio; aveva girato la poltrona in modo da poter appoggiare il braccio sul piano della scrivania e guardava la stanza.

Stava là, sfiorata da sguardi commossi, incoraggiata ogni tanto da qualche cenno, in silenzio durante tutto l'intervallo che durò quindici minuti. Fu una vera pausa,... un rilassamento con la tranquilla soddisfazione per la fatica fino allora sostenuta. I portasigarette degli uomini scattavano. Si fumava beatamente e, in piedi qua e là, si discorreva del modo in cui si stava svolgendo la riunione. Nessuno pensava a scoraggiarsi, a prendere in considerazione un fallimento definitivo. C'erano indizi sufficienti a combattere lo scoramento. Quelli che erano stati seduti accanto al dottore, al capo opposto del semicerchio, erano d'accordo nell'affermare di aver avvertito piú volte e chiaramente quel soffio freddo che di regola emanava dal medium in una data direzione, quando un fenomeno stava per avverarsi. Altri pretendevano di aver notato fenomeni luminosi, macchie bianche, trascorrenti condensazioni di energia che erano apparse in varie forme contro il paravento. Non era quindi il caso di mollare! Né di disanimarsi! Holger aveva dato la parola, nessuno aveva diritto di sospettare che non la mantenesse. Il dottor Krokowski diede il segnale della ripresa. Mentre tutti ritornavano ai loro posti, egli stesso riaccompagnò Ellen alla sedia della tortura, accarezzandole i capelli. Tutto procedette come prima; Castorp propose le sue dimissioni dal posto di primo controllore, ma il direttore della seduta le respinse. Teneva, disse, a offrire a colui che aveva espresso il desiderio la diretta e concreta garanzia che ogni subdola manomissione del medium era particolarmente impossibile. Castorp riprese perciò il suo posto di fronte a Elly, la luce sprofondò nella tenebra, la musica ricominciò e dopo alcuni minuti Elly manifestò di nuovo le improvvise contrazioni e i suoi movimenti pompanti, sicché fu Castorp questa volta ad annunciare: Trance! . Il parto scandaloso seguitò. Ma con quale paurosa difficoltà si svolse! Pareva che non volesse progredire,... ma ne aveva la possibilità? Quale follia! Donde veniva quella maternità? Un parto,... ma frutto di quale concepimento? Aiuto! aiuto! gemeva la fanciulla, mentre le sue doglie minacciavano di trasformarsi in quelle svantaggiose e pericolose convulsioni che i ginecologi eruditi definiscono eclampsia. Tra l'altro chiamò il dottore perché le imponesse le mani. Egli eseguí con energici incoraggiamenti. La magnetizzazione, se tale era, le diede forza di continuare la lotta. Cosí trascorse la seconda ora, mentre il tintinno della chitarra si alternava al suono del grammofono che diffondeva le melodie dell'albo leggero nella stanza, alle cui condizioni di luce gli occhi divezzati dal giorno si erano abbastanza riassuefatti. E qui si ebbe un incidente,... fu Castorp a provocarlo. Egli presentò un suggerimento, espresse un desiderio, un'idea che gli era venuta in mente da un pezzo, anzi fin da principio, e forse avrebbe dovuto esporla prima.

In quel momento Elly, il viso posato sulle sue mani imprigionate, era in trance profondo e Wenzel stava per voltare il disco, allorché il nostro amico prese a parlare risolutamente annunciando che aveva da fare una proposta,... insignificante, certo, ma, se accettata, poteva forse essere utile. Egli possedeva... cioè: nella discoteca del sanatorio c'era un pezzo: della Margherita di Gounod, la preghiera di Valentino, baritono e orchestra, molto interessante. Era del parere di fare un tentativo con quel disco. Perché mai? domandò il dottore nelle tenebre rosse... Questione di atmosfera, fatto sentimentale rispose il giovane. Lo spirito di quel pezzo, spiegò, è speciale. Si trattava di fare una prova. Non era da escludere che quello spirito-caratteristico potesse, secondo lui, abbreviare il procedimento in corso. E' qui il disco? s'informò il dottore. No, non c'era: ma Castorp poteva senz'altro andarlo a prendere. Che le viene in mente? Krokowski oppose un netto rifiuto. Come? Castorp voleva uscire e rientrare, andare a prendere un oggetto e ripigliare il lavoro interrotto? Si vedeva che era inesperto. No, no, impossibile. Si distruggeva tutto. Si sarebbe dovuto cominciare da capo. Anche la precisione scientifica vietava di pensare a quell'arbitrario andirivieni. La porta era chiusa e lui, il dottore, teneva la chiave in tasca. Insomma, se il disco non II48 era a portata di mano, bisognava... Stava ancora parlando allorché il ceco dietro al grammofono intervenne: Il disco è 'qui. Qui? domandò Castorp. Sí, c'era. Margherita, Preghiera di Valentino. Ecco. Eccezionalmente era infilato nell'albo di musica leggera anziché in quello verde delle arie, numero 2, dove doveva essere secondo l'ordinamento. Per caso, per anomalia, per trascuratezza, per fortuna era andato a finire tra le quisquilie e non occorreva che metterlo a punto. Che ne disse Castorp? Non disse nulla. Fu il dottore a dire Tanto meglio , e altri lo ripeterono. La punta grattò, il coperchio fu chiuso. E con note da corale si udí: Nel lasciare il patrio suol... Tutti stavano zitti, in ascolto. Il canto era appena cominciato quando Elly riprese la sua fatica. Si era riscossa, tremò, gemette, pompò e si portò di nuovo le mani fradice alla fronte.

Il disco girava. Venne la parte di mezzo, col cambiamento del ritmo, il passo della battaglia e del pericolo, ardito, pio e francese. Passato questo seguí il finale, con la ripresa del principio, accompagnato piú poderosamente dall'orchestra: Dio possente, Dio d'amor... Castorp aveva il suo da fare con Elly, la quale s'impennò, aspirò l'aria dalla gola stretta; si afflosciò poi sospirando e rimase immobile. In apprensione egli si chinò su di lei e in quell'istante udí la voce pigolante, piagnucolosa, della Stohr: Ziem-ssén -! Castorp non si rialzò. In bocca sentí un sapore amaro. Udí un'altra voce profonda e fredda: Lo vedo da un pezzo. Il disco era finito, l'ultimo accordo dei fiati dileguato, ma nessuno fermò l'apparecchio. Nel silenzio la puntina continuò a grattare a VUOtO sul cerchio del centro. Allora Castorp alzò la testa e i suoi occhi, senza star a cercare, presero la via giusta. Nella stanza c'era uno piú di prima. In disparte, nello sfondo lontano della brigata, dove l'ultimo barlume rosso quasi si perdeva nella notte, tra il lato largo della scrivania e il paravento, sulla poltrona del dottore, girata verso la stanza, dove nella pausa era stata Elly, stava seduto Joachim. Era il Joachim con le ombre nelle guance incavate e la barba guerriera dei suoi ultimi giorni, le cui labbra s'incurvavano tumide e orgogliose. Stava appoggiato allo schienale e teneva le gambe l'una sopra l'altra. Sul viso consunto, benché all'ombra di un copricapo, recava di nuovo le impronte del dolore e anche l'espressione di serietà e rigore che l'aveva reso cosí virilmente bello. Aveva due rughe sulla fronte in mezzo agli occhi profondamente infossati nelle occhiaie ossute, ma senza che ciò pregiudicasse la dolcezza dello sguardo di quei begli occhi grandi e scuri, muto e cordiale, rivolto a Castorp, a lui solo. Il suo lieve rammarico di una volta, le orecchie a ventola, era visibile anche sotto il copricapo, uno strano copricapo che non si capiva che cosa fosse. Il cugino Joachim non era in borghese; la sua sciabola era appoggiata allá gamba accavallata, le mani stringevano l'elsa, e alla cintura pareva di poter distinguere una specie di fondina. Ma quella che portava non era una vera e propria giubba militare. Non vi si notava nulla di lucido o colorato, aveva un bavero rovesciato, da uniforme, e tasche laterali, e piuttosto in basso vi era appuntata una croce. I piedi sembravano grandi e le gambe molto sottili, strette nelle fasce, piú alla maniera sportiva che alla militare. E quel copricapo che cos'era? Sembrava che Joachim si fosse messo in testa una piccola marmitta da campo, una pentola rovesciata e l'avesse fissata col soggolo sotto il mento. Ma tutto ciò gli conferiva, stranamente, un'aria antiquata, soldatesca, da lanzichenecco, e gli stava bene. Castorp sentí sulle mani il respiro di Ellen, accanto a sé quello della Kleefeld, accelerato.

Non si udiva nient'altro, tranne l'incessante raspio del disco esaurito che, senza essere fermato da alcuno, continuava a rotare sotto la puntina. Castorp non si volse a guardare nessuno dei suoi compagni, non voleva saperne né vederli. Di sotto in su, al di sopra delle mani, fissava, proteso nel rosso barlume, il visitatore sulla poltrona. A un certo punto gli parve che gli si dovesse rovesciare lo stomaco. Si sentí stringere la gola e quattro o cinque singhiozzi lo scossero. Perdona! mormorò tra sé; poi gli occhi gli si empirono di lacrime e non vide piú nulla. Udí sussurrare: Gli parli! . Udí la voce baritonale di Krokowski che, lieta e solenne, lo chiamava per nome e gli ripeteva l'invito. Invece di obbedire ritrasse le mani di sotto il viso della ragazza e si alzò. Di nuovo il dottore disse il suo nome, questa volta in tono severo e ammonitore. Castorp invece fu in pochi passi presso i gradini della porta d'ingresso e con breve gesto girò l'interruttore della luce bianca. La Brand era crollata in un grave collasso e tremava convulsa tra le braccia della Kleefeld. La poltrona era vuota. Castorp si avvicinò a Krokowski che, in piedi, protestava, e gli si piantò davanti. Volle parlare, ma dalle sue labbra non uscí una parola. Fece un brusco movimento del capo e tese la mano chiedendo la chiave. Avutala, lanciò un'occhiata minacciosa in faccia al dottore, si volse e uscí.

La grande irritazione. Come gli annetti si avvicendavano, nel Berghof cominciò ad aggirarsi qualcosa, uno spirito, del quale Castorp intuí la diretta discendenza dal demone, di cui abbiamo menzionato il nome maligno. Con l'irresponsabile curiosità di chi viaggia per imparare aveva studiato quel demone, trovando persino dentro di sé sospette possibilità di partecipare largamente al mostruoso servizio che i contemporanei gli dedicavano. Dato il suo carattere, era poco adatto a favorire l'andazzo dilagante, che d'altronde, proprio come quello precedente, c'era sempre stato in germe e in sporadici accenni. Ciò nonostante notò con spavento che anche lui, appena si lasciava andare, era, nell'aspetto, con la parola, nel contegno, vittima di un'infezione alla quale intorno a lui nessuno sfuggiva. Di che si trattava? Che còsa aleggiava nell'aria? - Smania di risse. Irritazione con minaccia di crisi. Indicibile impazienza. Tendenza generale a battibecchi velenosi, a scoppi di collera, persino alla zuffa.

Litigi accaniti, incontrollati diverbi sbottavano ogni giorno tra individui o interi gruppi, ed era significativo il fatto che i non implicàti, invece di essere nauseati dallo stato dei furiosi e di interporsi, partecipavano invece con simpatia, e mentalmente si lasciavano prendere dal delirio. Impallidivano e tremavano. I loro occhi mandavano lampi aggressivi, le labbra si torcevano con furore. Invidiavano agli scatenati il diritto, l'appiglio di gridare. Una trascinante voglia di imitarli torturava il corpo e l'anima, e chi non aveva la forza di rifugiarsi nella solitudine era irrimediabilmente tratto nel vortice. I vani conflitti, le reciproche accuse al cospetto delle autorità, affannate a metter pace, ma anch'esse paurosamente facili all'urlante villania, si accumulavano nel Berghof, e chi ne usciva con l'anima passabilmente sana non poteva mai sapere in quali condizioni di spirito vi sarebbe ritornato. Una commensale della tavola dei "russi ammodo", una elegantissima dama dalla provincia di Minsk, ancora giovane e soltanto leggermente malata - tre mesi, non piú le avevano aggiudicato - scese un giorno in paese per fare acquisti nella camiceria francese. Là litigò talmente con la negoziante che ritornò a casa agitatissima, ebbe uno sbocco di sangue e da quel momento fu inguaribile. Il marito accorso apprese che lei doveva rimanere lassú in perpetuo. Questo è un esempio di ciò che avveniva. A malincuore ne citiamo altri. L'uno o l'altro ricorderà lo scolaro o ex scolaro dagli occhiali rotondi che sedeva alla tavola della signora Salomon, quello squallido giovinetto che aveva la consuetudine di tagliuzzare tutti i cibi sul piatto facendo un miscuglio e di ingozzare ogni cosa puntando i gomiti, mentre talvolta si passava il tovagliolo dietro le grosse lenti. Cosí, sempre scolaro o ex scolaro, era vissuto là tutto quel tempo ingozzandosi e forbendosi gli occhi, senza offrire motivi di farsi notare se non di sfuggita. Ora invece, una mattina, alla prima colazione, di sorpresa e per cosí dire, a ciel sereno ebbe un accesso di rabbia, un raptus, che attirò l'attenzione di tutti e mise in moto l'intera sala da pranzo. Nel settore dov'era seduto si udí vociare; egli era pallido e gridava, contro la nana che stava in piedi vicino a lui. Lei mente! stril lava dando sul falsetto. Il tè è freddo! Gelato è il tè che mi ha messo davanti, lo assaggi lei prima di mentire, senta se non è tiepida risciacquatura, non è roba che un individuo per bene possa mandare giú! Chi le permette di'portarmi un tè gelato? come le è venuta l'idea? come può illudersi di potermi presentare questo tiepido intruglio con un barlume di speranza che io lo beva? Non lo bevo! non lo voglio! gridò e si mise a battere i pugni sulla tavola facendo tintinnare e sobbalzare le stoviglie. Voglio il tè caldo! Bollente lo voglio, ne ho il diritto davanti a Dio e agli uomini! Non lo voglio, voglio che scotti, preferisco morire all'istante piuttosto che... un sorso che è un sorso... Maledetta storpia! inveí abbandonando, per modo di dire, l'ultimo freno con uno strappo e esaltandosi fino all'estrema licenza del furore. E alzando i pugni contro Emerentia le mostrò letteral mente i denti schiumosi. Poi continuò a stamburare, a pestare i piedi e a urlare il suo voglio, non voglio ,...

mentre la sala si comportava secondo l'uso ormai invalso. Lo scolaro infuriato era oggetto di una paurosa e tesa simpatia. Alcuni erano balzati in piedi e lo guardavano anch'essi coi pugni stretti, digrignando i denti, gli occhi in fiamme. Altri stavano seduti, pallidi, con gli occhi bassi, e tremavano. E cosí continuarono quando lo scolaro, crollato e sfinito, aveva già da un pezzo davanti a sé il tè sostituito, e non lo beveva. Che succedeva? Un tale entrò nella comunità del Berghof, un ex commerciante, trentenne, febbricitante da lunga pezza, che da anni girava da un sanatorio all'altro. Costui era antisemita, nemico degli ebrei, lo era per principio e con spirito sportivo, con giuliva fissazione,... la negazione accattata era l'orgoglio e il contenuto della sua vita. Aveva fatto il commerciante, non lo faceva piú, non era nessuno in questo mondo, ma nemico degli ebrei era rimasto. Era malato molto seriamente, tormentato da una voce cavernosa e ogni tanto faceva come se starnutisse con i pol moni: era uno starnuto alto, breve, isolato, pauroso. Ma egli non era ebreo; e questo era il suo lato positivo. Si chiamava Wiedemann, cognome cristiano, non impuro. Era abbonato a una rivista, La lampada ariana e teneva discorsi di questo tenore: Arrivo al sanatorio X ad A... Mentre sto per accomodarmi sulla sedia a sdraio, chi ti vedo coricato alla mia sinistra? Il signor Hirsch! Chi alla mia destra? Il signor Wolf! Naturalmente sono partito subito ecc. "Degno di te" pensò Castorp con ripugnanza. Wiedemann aveva lo sguardo breve, insidioso. Di fatto e fuori di metafora era come se davanti al naso gli pendesse una nappa, sulla quale fissava gli sguardi loschi senza veder nulla piú in là. L'idea balorda della quale era invasato era divenuta una diffidenza pruriginosa, un'assidua mania di persecuzione che lo aizzava a tirar fuori l'impurità eventualmente nascosta o mascherata nelle sue vicinanze, e a farne uno scandalo. Dovunque fosse, punzecchiava, sospettava, sputava veleno. Breve, la smania di mettere alla gogna ogni vita che non avesse quel pregio che, secondo lui, era l'unico, empiva le sue giornate. Ora, le circostanze interiori, alle quali stiamo appunto accennando, peggiorarono enormemente il male di costui; e siccome non poteva mancare che anche lí si imbattesse in persone che presentavano lo svantaggio, del quale egli era esente, ecco che per effetto di quelle circostanze si arrivò a una scena disgustosa, alla quale Castorp dovette assistere, mentre per noi è un altro esempio di ciò che vogliamo descrivere. C'era là infatti, anche un altro,... del quale non c'era niente da smascherare, il caso era lampante. Costui si chiamava Sonnenschein, e siccome non poteva darsi nome piú sporco di questo, lui, Sonnenschein, fu fin dal primo giorno la nappa davanti al naso, sulla quale Wiedemann fissava gli sguardi

brevi e loschi e alla quale dava manate, non tanto per allontanarla, quanto piuttosto per imprimerle un moto pendolare affinché gliene derivasse maggior fastidio. Sonnenschein, commerciante in origine come l'altro, era anche lui molto seriamente malato e morbosamente suscettibile. Persona cortese, non sciocco e persino di carattere gioviale, odiava a sua volta Wiedemann per le sue punzecchiature e per i colpi alla nappa fino a soffrirne, e un pomeriggio tutti accorsero nel vestibolo perché Wiedemann e Sonnenschein senza discrezione e bestial mente si erano presi per i capelli. Fu una scena d'orrore da far pietà. Si accapigliarono come ragazzini, ma con la disperazione degli adulti quando giungono a tanto. Si ficcavano le unghie nella faccia a vicenda, si prendevano per il naso e per la gola, mentre si picchiavano, si avvinghiavano, si rotolavano per terra con terribile e profonda serietà, si sputavano addosso, si scambiavano calci, pugni, strattoni, botte, schiumanti di rabbia. Il personale accorso durò fatica a separarli, tanto erano accanitamente avvinghiati. Wiedemann, sputando saliva e sangue, la faccia istupidita dal furore, offrí lo spettacolo dei capelli ritti. Castorp non l'aveva mai visto e non credeva che avvenisse realmente. Coi capelli ritti Wiedemann fuggí a precipizio, mentre Sonnenschein, con un occhio gonfio e blu, una chiazza sanguinante nella corona dei riccioli neri che gli cingeva il cranio, veniva accompagnato negli uffici, dove si lasciò andare su una sedia e col viso tra le mani pianse amaramente. Cosí avvenne lo scontro fra Wiedemann e Sonnenschein. Tutti i presenti tremarono ancora per ore. E' relativamente un piacere narrare, in contrasto con quella miseria, la storia di una vertenza cavalleresca che appartiene al medesimo periodo e meritava il suo nome fino a diventare ridicola a causa della solennità formale in cui si svolse. Castorp non assistette alle singole fasi, ma apprese i complicati e drammatici sviluppi soltanto da documenti, dichiarazioni e verbali ché, a questo proposito, nel Berghof e fuori, cioè non solo nel paese, nel cantone, nello stato, ma anche all'estero e in America erano smerciati in copie e spediti a scopo di studio anche a persone, delle quali si era ben certi che alla questione non potevano né volevano dedicare neanche un briciolo di simpatia. Era una faccenda polacca, una questione d'onore sorta in grembo al gruppo polacco convenuto ultimamente al Berghof, una piccola colonia che occupava la tavola dei "russi ammodo"... (Castorp, per inserire anche questa notizia, non stava piú là, ma col tempo era trasmigrato alla tavola della Kleefeld, poi a quella della Salomon e infine a quella della signorina Levi.) Era una compagnia cosí elegante e tirata cavallerescamente a lucido che bastava alzare le ciglia per aspettarsi da loro qualunque cosa,... due coniugi, una signorina che era in relazioni amichevoli con uno degli uomini, e cavalieri tutti gli altri. Si chiamavano von Zutawski, Cieszynski, von Rosinski, Michael Lodygowski, Leo von Asarapetian e anche altrimenti. Ora nel ristorante del Berghof, allo sciampagna, un certo Japoll, alla presenza di due altri cavalieri, aveva parlato della moglie di von Zutawski, e anche della signorina amica di Lodygowski, certa Krylow, dicendo cose irripetibili.

Ne derivarono passi, atti e formalità che costituirono il contenuto dei documenti destinati a essere distribuiti e spediti. Castorp lesse: "Dichiarazione, tradotta dall'originale polacco. "Il 27 marzo 19... Il Signor Stanislao von Zutawski rivolse ai Signori Dr. Antoni Cieszynski e Stefan von Rosinski la preghiera di recarsi a suo nome dal Signor KasimirJapoll a chiedergli soddisfazione seguendo le norme del codice cavalleresco, per 'la grave calunnia e offesa che il Signor Kasimir Japoll, in un colloquio col Signor Janusz Teofil Lenart e Leo von Asarapetian, ha recato alla di lui consorte Jadwiga von Zutawska'. "Allorché alcuni giorni sono il Signor von Zutawski venne indirettamente a conoscenza del menzionato col loquio, che ebbe luogo la fine di novembre, intraprese subito i passi opportuni per ottenere l'assoluta certezza dello stato di fatto e della natura dell'offesa arrecata. Ieri, 27 marzo 19... per bocca del Signor Leo von Asarapetian, testimone diretto del colloquio, nel quale furono pronunciate le parole offensive e le insinuazioni, la calunnia e l'offesa sono state accertate; ciò indusse il signor Stanislaw von Zutawski a rivolgersi senza indugio ai sottoscritti per affidare loro il mandato di iniziare il procedimento cavalleresco contro il signor Kasimir Japoll. "I sottoscritti dichiarano quanto segue: "1. Con riferimento al verbale stilato da una delle parti il 3 aprile 19..., e steso a Leopoli dai Signori Zdzistaw Zygulski e Tadeusz Kadyi nella vertenza del signor Ladislaw Goduleczny contro il signor Kasimir Japoll; con riferimento, inoltre, alla dichiarazione del giurí d'onore in data 18 giugno 19..., pure steso a Leopoli nella medesima vertenza, i quali due documenti stabiliscono concordemente che, in seguito al suo ripetuto contegno, non conciliabile col concetto dell'onore, il Signor Kasimir Japoll non può essere considerato un gentiluomo, ,"2. i sottoscritti traggono le conseguenze da quanto sopra, in tutta la loro portata, e stabiliscono l'assoluta impossibilità che il Signor Kasimir Japoll possa in qualche modo dare ancora soddisfazione; "3. personalmente essi reputano inammissibilel'incarico di dirigere la vertenza o di intervenire contro un uomo che sta fuori del concetto dell'onore. "In considerazione di questo stato di cose i sottoscritti fanno notare al Signor Stanislaw von Zutawski che è inutile cercare di far valere i suoi diritti mediante un procedimento cavalleresco e gli consigliano di adire le vie penali per impedire che da una persona cosí incapace di dare soddisfazione come è il Signor Kasimir Japoll possano derivare ulteriori danni. - (Data e firma) Dr. Antoni Cieszynski, Stefan von Rosinski." Castorp lesse inoltre: "Verbale "dei testi intorno all'incidente tra il Signor Stanislaw von Zutawski, il Signor Michael Lodygowski "e i Signori Kasimir Japoll e Janusz Teofil Lenart nel bar della Casa di cura a D. il 2 aprile 19..., tra le 7.12 e le 7.14 pom. "Poiché, in base alla dichiarazione dei suoi padrini, i Signori dr. Anton Cieszynski e Stefan Rosinski, nella vertenza contro il signor Kasimir Japoll il 28 marzo 19.... il Signor Stanislaw von Zutawski, dopo matura riflessione, si era convinto che il proposto procedimento giudiziario contro il Signor Kasimir Japoll per 'la grave calunnia e offesa' recata alla sua consorte Jadwiga, non gli potrà dare soddisfazione alcuna, perché: "1. sussisteva il giustificato sospetto che il Signor Kasimir Japoll, al momento opportuno, non si sarebbe presentato in tribunale e la prosecuzione del procedimento

sarebbe non solo piú difficile, ma addirittura impossibile, in considerazione che è cittadino austriaco, "2. perché, oltre a ciò, la punizione giudiziaria del signor Japoll non potrebbe lavare l'offesa, con la quale il Signor Kasimir Japoll tentò di infamare calunniosamente il nome e la casa del Signor Stanislaw von Zutawski e della sua consorte Jadwiga, "il Signor Stanislaw von Zutawski, avendo indirettamente appreso che il signor Kasimir Japoll aveva intenzione di lasciare l'indomani questa località, ha scelto la via piú breve e, secondo la sua convinzione, piú radicale, nonché, in considerazione delle circostanze, piú adeguata, "e il 2 aprile 19... tra le 7.12 e le 7'14 pom., alla presenza di sua moglie Jadwiga e dei Signori Michael Lodygowski e Ignaz von Mellin, ha ripetutamente schiaffeggiato il Signor Kasimir Japoll che, in compagnia del Signor Janusz Teofil Lenart e di due ragazze sconosciute, stava prendendo bibite alcooliche nell'American Bar della locale Casa di cura. "Subito dopo il signor Michael Lodygowski schiaffeggiò il Signor Kasimir Japoll aggiungendo che ciò gli spettava per le gravi offese recate alla signorina Krylow e a lui. "Immediatamente dopo di ciò il Signor Michael Lodygowski schiaffeggiò il Signor Janusz Teofil Lenart per l'inqualificabile torto fatto al Signore e alla Signora von Zutawski, dopo di che, "senza perdere un istante, anche il Signor Stanislaw von Zutawski schiaffeggiò ripetutamente il Signor Janusz Teofil Lenart per il calunnioso oltraggio recato tanto alla sua consorte quanto alla signorina Krylow. "Durante il fatto i Signori Kasimir Japoll e Janusz Teofil Lenart rimasero del tutto passivi. (Data e firma) Michael Lodygowski, Ign. von Mellin." Le circostanze interiori non permisero a Castorp di ridere davanti a questo tiro rapido di schiaffi, come probabilmente avrebbe fatto in altri momenti. Mentre leggeva. si mise a tremare, e l'ineccepibile metodo d'una delle parti nel regolare i conti, il perfido e fiacco contegno disonorante dell'altra, come risultavano dai documenti, lo eccitarono profondamente con la loro stracca, ma impressionante antitesi. Lo stesso accadeva a tutti gli altri. La vertenza cavalleresca dei polacchi era da per tutto oggetto di studi appassionanti e di discussioni a denti stretti. Una liéve doccia fredda fu un manifestino diramato in sua difesa da Kasimir Japoll, il quale asseriva che von Zutawski era perfettamente a conoscenza del fatto che a suo tempo a Leopoli certi bellimbusti pieni di sé avevano dichiarato lui, Japoll, incapace di dare soddisfazione, sicché tutti i passi da lui intrapresi senza indugio erano stati una pagliacciata bell'e buona: egli sapeva già che non avrebbe dovuto battersi. E poi von Zutawski aveva rinunciato a sporgere querela contro di lui unicamente perché tutti e anche lui stesso sapevano benissimo che sua moglie Jadwiga gli aveva procurato un'intera collezione di corna, e lui, Japoll, ne poteva fornire le prove con la massima facilità, come d'altra parte anche il contegno della Krylow le avrebbe fatto poco onore in tribunale. In quanto all'incapacità di dare soddisfazione, soltanto la sua, di Japoll, era accertata, non già quella del suo interlocutore Lenart, mentre von Zutawski si era trincerato dietro la prima per non correre alcun rischio. Della parte che Asarapetian aveva nella faccenda preferiva non parlare. In quanto poi alla scena nel bar, lui, Japoll, aveva sí, la lingua forcuta e l'inclinazione a far dello spirito, ma era molto mingherlino, sicché von Zutawski con gli amici e con la eccezionalmente robusta Zutawska era

fisicamente in vantaggio, tanto piú che le due damigelle al fianco suo e di Lenart erano personcine allegre, sí, ma paurose come galline; per evitare quindi una volgare zuffa e un pubblico scandalo aveva indotto Lenart, già pronto alla difesa, a star quieto e a sopportare in santa pace i fugaci contatti sociali dei signori von Zutawski e Lodygowski, poiché non avevano fatto male e dagli astanti erano stati presi per celie amichevoli. Fin qui Japoll che, è chiaro, non aveva molto da salvare. Le sue rettifiche poterono scalfire soltanto in superficie la bella antitesi fra onore e miseria, risultante dalle costatazioni della parte avversaria, tanto piú che egli non possedeva mezzi tecnici di moltiplicazione, dei quali disponevano gli altri, e dovette limitarsi a diffondere tra la gente alcune copie a macchina della sua replica. I verbali invece erano nelle mani di tutti, anche di gente lontana. Anche Naphta e Settembrini per esempio li avevano ricevuti,... Castorp li vide nelle loro mani e con sua sorpresa notò che anch'essi li leggevano con la faccia irritata e stranamente assorta. La gaia ironia, che egli stesso non poteva esprimere a causa delle vigenti circostanze interiori, se l'aspettava almeno da Settembrini. Ma il dilagante contagio che Castorp stava osservando esercitava anche sulla limpida mente del massone un potere che gli toglieva la voglia di ridere e gli hceva accogliere con serietà gli sferzanti stimoli della gara di schiaffi; oltre a ciò l'assertore della vita era depresso dal suo stato di salute che adagio e con burlevoli ritorni verso il miglioramento, ma irresistibilmente, volgeva al peggio; egli lo malediceva e se ne vergognava con rabbia e disprezzo di se stesso, ma ormai a brevi intervalli gli toccava restare a letto. Naphta, il suo coinquilino e antagonista, non stava meglio di lui. Anche nel suo organismo progrediva quella malattia che era stata il motivo fisico - o dobbiamo dire il pretesto? - perché la sua carriera nell'Ordine venisse cosí precocemente interrotta, e le alte e sottili condizioni nelle quali viveva non potevano impedire che essa guadagnasse terreno. Anche lui era spesso costretto a letto; l'incrinatura della sua voce era piú evidente quando egli parlava, e col salire della febbre parlava piú di prima, con maggiore asprezza e mordacità. Quelle resistenze ideali alla malattia e alla morte, la cui sconfitta da parte della perfida natura addolorava anche Settembrini, dovevano essere ignote al piccolo Naphta, e la sua maniera di considerare il peggioramento delle proprie condizioni fisiche non era infatti tristezza e cruccio, bensí un'allegria beffarda e un'aggressività senza pari, una smania di mettere in dubbio, di negare, di ingarbugliare che irritava quanto mai la malinconia dell'altro e inaspriva ogni giorno piú le loro controversie intellettuali. Castorp, beninteso, poteva parlare soltanto di quelle alle quali assisteva. Ma era quasi sicuro di non perderne alcuna, perché la sua presenza di oggetto pedagogico era necessaria per provocare colloqui importanti. E se anche non risparmiava a Settembrini il dolore di considerare degne di ascolto le malignità di Naphta, doveva pur riconoscere che man mano passavano ogni misura e fin troppo spesso i limiti della sanità di mente.

Questo malato non possedeva la forza o la volontà di elevarsi al di sopra della malattia, ma vedeva il mondo sotto l'insegna di essa. Con grande stizza di Settembrini che avrebbe voluto mandar via l'alunno in ascolto o tappargli le orecchie, dichiarava che la materia è una sostanza troppo meschina da potervi attuare lo spirito. Aspirare a questo, diceva, è pazzia. Che cosa se ne ricava? Una smorfia! Il risultato reale della tanto decantata rivoluzione francese è lo stato capitalistico borghese: bella roba! che si spera di migliorare universalizzando questo orrore. La repubblica mondiale sarà la felicità. Certo! Il progresso? Ahimè, si tratta del famigerato infermo che muta lato continuamente perché spera di trarne sollievo. Il non confessato, ma in segreto universalmente diffuso desiderio di guerra ne è una manifestazione. Verrà, questa guerra, ed è bene, anche se recherà conseguenze diverse da quelle che se ne ripromettono i suoi organizzatori. Naphta non aveva che disprezzo per lo stato di sicurezza borghese. Colse l'occasione di parlarne una volta che in autunno passeggiavano per la via principale ed essendosi messo a piovere, a un tratto, come a un comando, tutti aprirono l'ombrello. Per lui fu un simbolo di vigliaccheria, di volgare effeminatezza: frutto della civiltà. Un incidente e cattivo presagio come l'affondamento del transatlantico Titanic aveva provocato effetti atavici, ma confortanti. Erano seguite insistenti invocazioni di una maggiore sicurezza del "traffico". Indignazione, sempre, non appena fosse minacciata la "sicurezza". Quale meschinità! bellamente concordante, nella sua fiacchezza umanitaria, con la belluina crudeltà e l'infamia del campo di battaglia economico che lo stato borghese rappresenta. Guerra, guerra! Egli era d'accordo, e la smania che ne aveva tutto il mondo gli pareva relativamente onorevole. Ma non appena Settembrini introduceva nella conversazione la parola"'giustizia" e raccomandava questo elevato principio come rimedio profilattico contro catastrofi di politica interna ed estera, si vedeva che Naphta - il quale poco prima aveva ancora reputato il mondo dello spirito troppo buono perché la sua attuazione terrena possa e debba mai riuscire - cercava di mettere in dubbio e di vilipendere proprio quel mondo dello spirito. La giustizia ! Era forse un concetto adorabile? divino? un concetto di prim'ordine? Dio e la natura, diceva, sono ingiusti, hanno i loro preferiti, parteggiano per la predestinazione, decorano l'uno con distinzioni pericolose, assegnano all'altro una sorte tenue e volgare. E l'uomo dotato di volontà? Per lui la giustizia è, sotto un aspetto, una debolezza paralizzante, è il dubbio... e, sotto un altro aspetto, una fanfara che chiama ad azioni prive di scrupoli. Siccome l'uomo, per restare entro i limiti della morale, deve correggere sempre la giustizia in questo senso mediante la giustizia in quello, si può forse affermare l'assolutezza e il radicalismo di questo concetto? D'altronde si è giusti con un aspetto oppure con l'altro. Il resto è liberalismo, col quale oggi non si caverebbe un ragno da un buco.

Va da sé che la giustizia è il vano guscio verbale della retorica borghese, e per giungere all'azione occorre anzitutto sapere quale giustizia si debba intendere: quella che mira a dare a ognuno il suo, o quella che vuol dare a ognuno la parte uguale. Qui abbiamo pescato nel mare magnum soltanto un esempio a casaccio per mostrare come costui procedesse per offuscare la ragione. Peggio fu quando prese a parlare della scienza,... nella quale non credeva. Non ci credeva, spiegò, perché l'uomo è liberissimo di crederci o no. Essa è una fede come un altra, soltanto peggiore e piú stupida di qualunque altra, e lo stesso vocabolo "scienza" è l'espressione del piú sciocco realismo che non si vergogna di prendere o spendere per moneta sonante le immagini più che problematiche degli oggetti riflessi nell'intelletto umano, e di ricavarne il piú insulso e sconsolante dogmatismo che si sia mai tentato di far digerire all'umanità. O non è il concetto d'un mondo sensibile esistente in e per sé la piú ridicola di tutte le autocontraddizioni? La fisica moderna invece, in quanto dogma, vive esclusivamente del presupposto metafisico che le forme gnoseologiche della nostra mente, spazio, tempo e causalità, nelle quali si svolge il mondo fenomenico, siano condizioni reali, esistenti indipendentemente dalla nostra conoscenza. Questa tesi monistica è la piú palese impudenza che sia mai stata ammannita allo spirito. Spazio, tempo e causalità, in linguaggio monistico: evoluzione,... ecco il dogma centrale della pseudoreligione degli atei e liberi pensatori, con la quale si crede di abolire il primo libro di Mosè e di contrapporre a una favola cretina un sapere illuminante, come se Haeckel fosse stato presente alla formazione della Terra! L'empirismo! L'etere universale sarebbe esatto? L'atomo, questo grazioso scherzo matematico della "piú piccola particella indivisibile"... è forse dimostrato? La dottrina dell'infinità dello spazio e del tempo è certo fondata sull'esperienza, no? Infatti, presupponendo un po' di logica, si arriverà a esperienze e risultati allegri col dogma dell'infinità e realtà dello spazio e del tempo: cioè al risultato del nulla, cioè alla comprensione che il realismo è il vero nichilismo. Perché? Per la semplice ragione che il rapporto tra qualsiasi grandezza e l'infinito è uguale a zero. Non ci sono grandezze nell'infinito né durata né mutamento nell'eternità. Nel l'infinito spaziale, dato che ogni distanza vi è matematicamente uguale a zero, non ci possono essere nemmeno due punti attigui, men che meno corpi, meno ancora il moto. Lo asseriva lui, Naphta, per combattere l'improntitudine con cui la scienza materialistica spaccia per conoscenza assoluta le sue frottole astronomiche, le sue frivole ciance intorno all"'universo". Da compiangere, questa umanità, che da una boriosa accolta di numeri inconcludenti si è lasciata sospingere al sentimento della propria nullità e privare della patetica certezza della propria importanza. Sarebbe ancora passabile se la ragione umana si tenesse sul livello terreno e in quell'ambito considerasse reali le sue esperienze con gli oggetti soggettivi. Se invece va oltre e tocca l'enigma eterno dedicandosi alla cosí detta cosmologia e cosmogonia, non c'è piú da scherzare, e la presunzione sale al vertice della sua mostruosità. Assurdità sacrilega, in fondo, quella di calcolare la distanza di una qualunque stella dalla Terra in trilioni di chilometri o anche in anni-luce, e di presumere che con queste fanfaronate di cifre si possa portare lo spirito umano a comprendere l'essenza dell'infinito e dell'eternità,... mentre l'infinito non ha

assolutamente nulla a che fare con la grandezza, né l'eternità con la durata e gli intervalli di tempo, anzi, queste, ben lontane dall'essere concetti di scienza naturale, sono addirittura la negazione di quella che chiamiamo natura! In verità, la semplicità del fanciullo convinto che le stelle siano buchi nel firmamento, dai quali traspare la luce eterna, gli pareva mille volte preferibile a tutte le vacue, assurde e presuntuose ciarle delle quali si rende colpevole la scienza monistica dell"'universo" ! Settembrini gli chiese se in quanto alle stelle era anche lui di quel parere. E quello rispose che si riservava ogni umiltà e libertà di scepsi. Donde ancora una volta si poté desumere che cosa intendesse per "libertà" e dove un siffatto concetto di essa poteva condurre. E almeno Settembrini non ne avesse tratto motivo di temere che a Castorp tutto ciò sembrasse degno d'ascolto! La malizia di Naphta stava in agguato cercando di scoprire le debolezze del progressivo assoggettamento del la natura e di contestare ai suoi rappresentanti e battistrada le umane ricadute nell'irragionevole. Gli aviatori, diceva, sono per lo piú individui malvagi e sospetti, e soprattutto superstiziosi. Prendono a bordo un maialino o una cornacchia come portafortuna, sputano tre volte a destra, tre volte a sinistra, s'infilano i guanti di piloti fortunati. Come si accorda un'irrazionalità cosí primitiva con la concezione del mondo sulla quale si fonda la loro professione? - La contraddizione che stava esponendo lo divertiva, gli procurava soddisfazione; e vi si trattenne a lungo... Ma qui attingiamo da un mare inesauribile prove e saggi dell'ostilità di Naphta, mentre abbiamo fatti assai concreti da raccontare. Un pomeriggio di febbraio il gruppo convenne di fare un'escursione a Monstein, una località a un'ora e mezza di slitta dalla loro sede: erano Naphta e Settembrini, Castorp, Ferge e Wehsal. In due slitte a un cavallo, Castorp con l'umanista, Naphta con Ferge e Wehsal, il quale occupava il posto accanto al conducente, partirono bene imbacuccati, alle 3, dal domicilio degli esterni, e col tintinnio dei sonagli che si diffonde cosí gentile nel tacito paesaggio nevoso, presero verso sud la strada del versante di destra, passando da Frauenkirch e Glaris. Da quella parte avanzò rapidamente una cortina di neve, di modo che dopo un po' non rimase che una sola striscia di celeste pallido sopra la catena del Rhatikon. Il gelo era pungente, la montagna nebbiosa. La strada, per la quale passavano, uno stretto ripiano tra la parete e l'abisso, senza parapetto, si levava alta in un'abetaia sel vaggia. Procedevano a passo d'uomo. Incontravano spesso slittini in discesa i cui occupanti, all'incontro, erano costretti a smontare. Dietro alle svolte tintinnava il delicato avvertimento di sonagli altrui, s'incontravano slitte con due cavalli, l'uno dietro all'altro, e si doveva usare molta cautela nel sorpasso. Vicino alla meta si aprí la bella veduta di un tratto roccioso sulla strada di ZUgen. Si liberarono dalle coperte davanti alla piccola locanda di Monstein e, lasciate le slitte, fecero ancora alcuni passi per ammirare, verso sud-est, la vista dello Stulsergrat.

La gigantesca parete, alta tremila metri, era avvolta nella nebbia. Soltanto qualche guglia emergeva dai vapori contro il cielo, ultraterrena, inaccessibile, lontana e sacra come un Walhalla. Castorp espresse la sua ammirazione e invitò anche gli altri a farlo. Era stato lui a pronunziare, con un sentimento di sottomissione, la parola "inaccessibile" offrendo a Settembrini il destro di far notare che quella roccia era stata naturalmente già scalata. In genere, si può dire, che l'inaccessibilità non esiste piú, né ci sono posti in natura dove l'uomo non abbia messo piede. Piccola esagerazione e smargiassata, rimbeccò Naphta. E nominò il Monte Everest che fino a quel momento aveva opposto all'impertinenza dell'uomo il suo gelido rifiuto e pareva volesse insistere nel riserbo. L'umanista s'indispettí. Il gruppo ritornò alla locanda, davanti alla quale accanto alle proprie c'erano in sosta altre slitte senza i cavalli. Là si poteva anche trovare alloggio. Al piano superiore c'erano camere d'albergo numerate, e vi si apriva la sala da pranzo, rustica e ben riscaldata. I gitanti ordinarono alla servizievole padrona uno spuntino: caffè, miele, pane bianco e pane con pere, la specialità del luogo. Ai conducenti mandarono del vino rosso. Alle altre tavole erano seduti ospiti svizzeri e olandesi. Stavamo per dire che a quella dei nostri cinque amici il calore dato dall'ottimo caffè bollente diede la stura a una conversazione elevata. Ma non avremmo detto bene, perché quella conversazione fu, a rigore, un monologo di Naphta, il quale, dopo alcune parole proferite dagli altri, lo sostenne da solo,... un monologo svolto in maniera molto strana e urtante sotto l'aspetto sociale, perché l'ex gesuita, montáto amabilmente in cattedra, si rivolgeva sempre e soltanto a Castorp, voltava le spalle a Settembrini che aveva all'altro suo fianco, e trascurava del tutto gli altri due. Sarebbe difficile dare un nome all'argomento della sua improvvisazione che Castorp seguí annuendo tra il sí e il no. A dire il vero, non svolse un tema unico, ma si aggirò senza rigore nel mondo dello spirito, sfiorando vari punti e, in sostanza mirando a dimostrare in modo scoraggiante l'ambiguità dei fenomeni spirituali della vita, la natura iridescente e l'inutilità polemica dei grandi concetti che se ne desumono, e a far rilevare in quale veste cangiante si presenti l'assoluto su questa terra. Semmai si potrebbe ridurre la sua lezione al problema della libertà, che egli presentò come causa di confusione. Tra altro parlò del romanticismo e dell'affascinante doppio senso di questo movimento europeo al principio del secolo XIX, di fronte al quale i concetti di reazione e rivoluzione sfumerebbero, se non si unissero in un concetto superiore.

E' quanto mai ridicola, s'intende, la pretesa di collegare il concetto di rivoluzione esclusivamente col progresso e col vittorioso e aggressivo illuminismo. Il romanticismo europeo fu anzitutto un moto di libertà: anticlassico, antiaccademico, volto contro il vecchio gusto francese, contro la vecchia scuola della ragione, di cui beffava i paladmi chiamandoli parrucconi incipriati. E Naphta venne a parlare delle guerre di liberazione, degli entusiasmi fichtiani, di quella ebbra e canora sol levazione popolare contro un'insopportabile tirannide,... che purtroppo incarnò soltanto, eh, eh, la libertà, vale a dire le idee della rivoluzione. Divertente: cantando a gran voce si era partiti per abbattere. la tirannide rivoluzionaria in favore della spada reazionaria dei sovrani, e lo si era fatto per la libertà. Il giovane ascoltatore notava certamente la differenza e anche il contrasto fra la libertà esteriore e l'interna... nonché la scabrosa questione quale mancanza di libertà si possa conciliare piú che mai, eh, eh, meno che mai con l'onore di una nazione. Libertà, disse, è forse ancora un concetto romantico piuttosto che illuministico, poiché il romanticismo ha in comune l'inestricabile intreccio di umanitarie tendenze espansionistiche e della appassionata e restrittiva affermazione dell'io. L'aspirazione individualistica alla libertà ha prodotto il culto storico-romantico della nazionalità, il quale è bellicoso, mentre il liberalismo umanitario lo definisce tenebroso, benché anche questo insegni l'individualismo,-ma soltanto per vie un po' diverse. L'individualismo è romantico-medievale perché convinto della infinita, cosmica importanza del singolo, donde derivano la dottrina dell'immortalità dell'anima, la teoria geocentrica e l'astrologia. D'altro canto l'individualismo è parte dell'umanesimo liberaleggiante il quale tende all'anarchia e in ogni caso deve proteggere il caro individuo afiinché non sia sacrificato alla comunità. Questo sarebbe l'individualismo, una cosa ma anche l'altra, un vocabolo solo per piú concetti. Ma, continuò, bisogna concedere che il pathos della libertà ha prodotto i piú brillanti nemici della libertà, i piú intellig'enti cavalieri del passato nel conflitto con l'irrispettoso e disgregante progresso. E qui Naphta citò Anche che maledice l'industrialismo ed esalta la nobiltà, citò Gorres che scrisse Il misticismo cristiano. E il misticismo non ha forse niente a che vedere con la libertà? Non è stato forse antiscolastico, antidogmatico, antisacerdotale? Certo siamo costretti a riconoscere nella gerarchia un potere di libertà, perché ha eretto un argine contro la monarchia assoluta. Il misticismo del tardo medioevo, però, confermò il suo spirito di libertà in quanto precursore della Riforma,... della Riforma, eh, eh, che a sua volta è inscindibile tessuto di libertà e reazione medievale... L'azione di Lutero... Eh, sí, ha il pregio di dimostrare con la piú cruda evidenza la problematica natura dell'azione stessa, dell'azione in genere. Sapeva l'ascoltatore di Naphta che cosa sia un'azione? Un azione, spiegò quest'ultimo, è stata per esempio l'assassinio del consigliere di stato Kotzebue da parte dello studente Sand.

Che cosa, per dirla col linguaggio criminologico, "armò la mano" del giovane Sand? L'entusiasmo per la libertà, ovviamente. Ma, chi guardi meglio, non fu questo, bensí il fanatismo morale e l'odio contro la frivolezza antipopolare. Vero è d'altro canto che Kotzebue era al servizio dei russi, cioè della Santa Alleanza; e perciò Sand vibrò davvero il colpo per la libertà,... la qual cosa diventa poi inverosimile per il fatto che tra i suoi migliori amici cerano dei gesuiti. Breve: qualunque cosa sia, l'azione è in ogni caso un brutto mezzo di farsi notare, e a chiarire problemi spirituali contribuisce ben poco. Permette che m'informi se conta di finirla presto con le sue scurrilità? La domanda era stata formulata da Settembrini, con asprezza. Era stato lí a tamburellare con le dita sulla tavola e ad arricciarsi i baffi. Ora non ne poteva piú, la sua pazienza era esaurita. Era seduto col busto ritto, piú che ritto: pallidissimo, si era rizzato, per cosí dire, sulla punta dei piedi, sicché soltanto le cosce toccavano il sedile, e cosí, col lampo degli occhi neri affrontò l'avversario che con finto stupore si era voltato a guardarlo. Scusi, cosa si è compiaciuto di dire? domandò Naphta a sua volta... Mi sono compiaciuto rispose l'italiano mandando giú la saliva, mi compiaccio di avvertirla che sono deciso a impedirle di molestare ancora con le sue ambiguità un giovane inerme! Signore, la invito a misurare le parole! Di un simile invito, signor mio, ncn c'è bisogno. Sono avvezzo a misurare le mie parole, e la mia parola risponde esattamente ai fatti se dico che la sua maniera di turbare nello spirito, sedurre e svigorire sul piano morale la gioventú già vacillante è un'infamia, e non ci sono parole abbastanza severe per castigarla... Alla parola "infamia" Settembrini batté la mano aperta sulla tavola e, spingendo indietro la sedia, si alzò del tutto: segnale per tutti gli altri a fare altrettanto. Dalle altre tavole, in ascolto, si lanciarono occhiate,... o anzi da una sola, perché gli svizzeri erano già partiti, e i soli olandesi ascoltavano sconcertati l'incipiente battibecco. Tutti stavano dunque ritti, in piedi, intorno alla nostra tavola: Castorp e i due avversari e, di fronte a loro, Ferge e Wehsal. Tutti e cinque erano pallidi, avevano gli occhi sbarrati, le labbra tremanti. I tre non interessati non avrebbero potuto fare il tentativo di intervenire a pacificare gli animi, a ottenere la distensione con una parola scherzosa, a volgere tutto in bene con qualche sollecitazione umana? No, non lo fecero, questo tentativo. Ne erano impediti dalle circostanze interiori. Ritti, tremavano, e istintivamente le loro mani formavano il pugno. Persino A. K. Ferge, cui nella sua dichiarazione i concetti superiori erano inaccessibili, sicché fin dall'inizio aveva del tutto rinunciato a valutare la portata della lite,... persino lui era convinto che lí si trattava di romperla o spuntarla, e lui stesso, travolto, nulla poteva fare se non lasciare che le case andassero per la loro china..Il ciuffo dei suoi baffi bonari andava rapidamente in su e in giú.

Nel silenzio si udirono stridere i denti di Naphta. Per Castorp fu un'esperienza simile a qúella che aveva fatto coi capelli ritti di Wiedemann: aveva creduto che fosse soltanto un modo di dire senza rispondenza nella realtà. Ora invece Naphta digrignava davvero i denti nel silenzio: un rumore terribilmente sgradevole, selvaggio e bizzarro che però era pur sempre indizio di un pauroso dominio di sé, talché invece di gridare egli parlò a voce bassa, soltanto con una specie di mezza risata ansimante: Infamia? Castigare? O che gli asini puritani diventano suscettibili? La pedagogica polizia della civiltà è arrivata al punto da sguainare la spada? Un bel successo, direi, per cominciare,... ottenuto senza difficoltà, aggiungo con disprezzo, perché è bastato un modico motteggio per far saltare la mosca al naso alla sentinella della virtú! Il resto si vedrà, egregio signore! Anche il castigo, anche questo. Spero che i suoi princípi civili non le impediscano di sapere che cosa mi deve, altrimenti sarei costretto a mettere alla prova codesti princípi con mezzi che... L'atteggiamento impettito di Settembrini lo fece proseguire: Ah, vedo che non sarà necessario. Io sono di ostacolo a lei, lei a me: bene, accomoderemo questa piccola differenza a suo luogo. Per il momento una sola cosa: il suo bigotto timore per lo stato scolastico della rivoluzione giacobina scorge nel mio metodo di far dubitare la gioventú, di mandare a catafascio le categorie e di togliere alle idee la loro dignità accademica, un delitto pedagogico. Codesto timore è fin troppo giustificato, perché il suo spirito di umanità, stia sicuro, è spacciats)... spacciato e liquidato. Già oggi non è che un atteggiamento codino, un'assurdità classicistica, una noia dello spirito che provoca soltanto sbadigli convulsi; a sgomberarla penserà, signor mio, la nuova, la "nostra" rivoluzione. Se noi in quanto educatori poniamo il dubbio, piú in fondo di quanto il vostro modesto illuminismo abbia mai sognato, sappiamo molto bene quel che facciamo. Soltanto dalla scepsi radicale, dal caos etico sorge l'assoluto, il sacro terrore di cui il nostro tempo ha bisogno. Questo a mia giustificazione e sua istruzione. Il resto non c'entra. Le farò avere mie nuove. Saranno ascoltate, signore! gli gridò dietro Settembrini, mentre quello lasciava la tavola e correva all'attaccapanni per ritirare la pelliccia. Il frammassone si abbandonò sulla sedia e si premette le mani sul cuore. Distruttore ! Cane arrabbiato ! Bisogna ammazzarlo ! proruppe col fiato-corto. Gli altri erano ancora presso la tavola. I baffi di Ferge continuavano ad andare in su e in giú. Wehsal aveva la mandibola storta. Castorp si reggeva il mento imitando suo nonno, perché gLi tremava la cervice. Tutti pensavano quanto poco si fossero previsti quegli sviluppi alla partenza. Tutti, compreso Settembrini, pensarono che era una gran fortuna essere venuti con due slitte e non tutti insieme: ciò facilitava almeno il ritorno. Ma poi? lei ha lanciato la sfida disse Castorp angosciato.

Direi rispose Settembrini alzando gli occhi verso il giovane che era in piedi accanto a lui, poi distolse subito lo sguardo e si prese la testa fra le mani. Accetta? volle sapere Wehsal. E me lo chiede? domandò Settembrini guardando un istante anche lui. Signori continuò alzandosi rincorato, deploro l'esito della nostra gita, ma nella vita l'uomo deve aspettarsi di questi incidenti. In teoria disapprovo il duello, sono per le vie legali. La pratica invece è un altro paio di maniche; ci sono situazioni alle quali,... contrasti che,... sono insomma a disposizione di quel signore. Meno male che in gioventú ho tirato di scherma. Alcune ore di esercizio mi snoderanno il polso. Andiamo ! Sui particolari ci metteremo d'accordo. Suppongo che quel signore avrà già dato ordine di attaccare. Castorp, durante il viaggio di ritorno e dopo, ebbe momenti nei quali si sentí venire le vertigini al pensiero della mostruosità incombente, specie quando apprese che Naphta non ne voleva sapere di spada o stocco, ma pretendeva il duello alla pistola,... e toccava a lui scegliere l'arme, perché, secondo i concetti del codice cavalleresco, era l'offeso. Momenti, ripetiamo, nei quali il giovane riuscí, fino a un certo punto, a svincolare lo spirito dall'intrico generale e dall'offuscamento prodotto dalle circostanze interiori, e a rendersi conto che era una follia e che era necessario scongiurarla. Se ci fosse una vera e propria offesa! esclamò discorrendo con Settembrini, Ferge e Wehsal, il quale ultimo già nel viaggio di ritorno era stato impegnato da Naphta a fare da latore del cartello di sfida e da mediatore fra le due parti. Un'ingiuria borghese, sociale! Se uno avesse trascinato nel fango il nome dell'altro, se ci fosse di mezzo una donna, una fatalità tangibile, senza possibilità di accomodamento! Be', in questi casi il duello è l'espediente estremo, e quando l'onore è soddisfatto, quando si arriva in fondo senza guai, e ci si sente dire che gli avversari si sono riconciliati, si può persino argomentare che è una buona istituzione, salutare e pratica in certi casi imbrogliati. Ma quello che cosa ha fatto? Non che io voglia prenderne le difese, domando soltanto categorie. Ha, come si suol dire, spogliato i concetti della loro dignità accademica. E lei se ne è sentito offeso,... magari a ragione, vogliamo insinuare... Insinuare? ripeté Settembrini e lo guardò... A ragione, a ragione! Sí, è stata un'offesa, ma non un'ingiuria! C'è una bella differenza, mi scusi! Si tratta di cose astratte, spirituali. Con cose spirituali si può offendere, ma non si può insultare. E' una massima che qualunque giurí d'onore approverebbe, gLiel'assicuro io. Perciò quella "infamia" e quella "severità del castigo" nella sua risposta non sono ingiurie, anch'esse erano intese in senso spirituale, tutto rimane sul piano dello spirito e non ha affatto un valore personale, il solo che può determinare un'ingiuria. Le cose dello spirito non possono essere mai personali, lo dico per completare e commentare la massima, e perciò...

Lei sbaglia, amico mio ribatté Settembrini a occhi chiusi... lei sbaglia prima di tutto con l'ipotesi che le cose dello spirito non possano acquistare carattere personale. Lei non lo dovrebbe pensare disse con un sorriso singolarmente fine e doloroso. Ma sbaglia soprattutto con la valutazione delle cose dello spirito in genere, che lei considera troppo deboli da suscitare conflitti e passioni della durezza di quelli che sorgono nella vita reale e non lasciano altra soluzione che quella delle armi. Al contrario! L'astratto, il ripulito, l'ideale è a un tempo anche l'assoluto, il rigoroso, e contiene molto piú profonde e radicali possibilità d'odio, di incondizionata e irreconciliabile ostilità, che la vita sociale. Si stupisce che conduca addirittura, piú direttamente e ineluttabilmente di questa, alla situazione del tu o io, alla vera situazione radicale, a quella del duello, della battaglia corporale? Il duello, amico mio, non è una "istituzione" come tante altre. E' il punto estremo, è il ritorno allo stato primordiale della natura, soltanto un po' addolcito da un certo regolamento cavalleresco, che poi è molto superficiale. L'essenza della situazione è sempre quella dell'origine, la lotta a corpo a corpo, e ogni uomo ha il dovere di tenersi pari a questa situazione, per quanto stia lontano dalle condizioni naturali. Egli vi si può trovare ogni giorno. Chi non è in grado di farsi garante dell'ideale con la propria persona, col suo braccio, col suo sangue, ne è indegno, e ciò che importa è che, nonostante tutta la spiritualità, egli sia uomo. Cosí Castorp si prese la ramanzina. Che poteva repliCare? Tacque depresso e immerso nelle sue meditazioni. Le parole di Settembrini ostentavano fermezza e logica, eppure gli uscivano dalle labbra estranee e innaturali. I suoi pensieri non erano pensieri suoi - come infatti all'idea del duello non era arrivato da sé, ma l'aveva derivata dal piccolo Naphta terrorista; - erano espressioni del laccio in cui l'avevano stretto le universali circostanze interiori, delle quali il bell'ingegno di Settembrini era diventato schiavo e strumento. Come? La spiritualità, essendo rigorosa, deve condurre inesorabilmente alla bestialità, all'accomodamento mediante la lotta personale? Castorp vi si ribellava, o almeno tentò di farlo,... e con suo spavento scoprí che nemmeno lui ne era capace. Erano troppo potenti anche in lui, le circostanze interiori, egli non era uomo, neanche lui, tale da svincolarsene. Paurosa e definitiva lo investí l'onda del ricordo, in cui Wiedemann e Sonnenschein si avvoltolavano nella zuffa sconsigliata e bestiale, e con orrore comprese che alla fine di tutto rimane soltanto il corpo, le unghie, i denti. Sí, sí, era proprio necessario battersi, cosí era salvo almeno quell'addolcimento dello stato primordiale grazie alle regole cavalleresche... Castorp si offrí a Settembrini per padrino. L'offerta fu respinta. No, non era adatto, non era una soluzione conveniente, gli fu risposto,... anzitutto dallo stesso Settembrini con un sorriso fine e doloroso, poi, dopo breve riflessione, anche da Ferge e Wehsal, i quali

senza indicare i motivi furono del parere che la presenza di Castorp allo scontro in quella veste non stava bene. Poteva eventualmente intervenire sul campo come arbitro... poiché anche la presenza di una persona imparziale era uno dei prescritti addolcimenti cavallereschi della bestialità. Persino Naphta, per bocca del suo portavoce Wehsal, si disse d'accordo, e Castorp ne fu contento. Testimone o arbitro, in ogni caso acquistava il potere di influire sulla determinazione delle modalità, e ciò si rivelò duramente necessario. Naphta infatti faceva proposte dissennate. Pretese cinque passi di distanza e, all'occorrenza, l'uso di tre pallottole. La sera stessa della rottura pose queste folli condizioni, per il tramite di Wehsal che si era fatto portavoce e cieco rappresentante dei suoi sbrigliati interessi, e parte per l'incarico ricevuto,' parte per suo gusto personale, insisteva su quelle condizioni. Settembrini naturalmente non trovò nulla da ridire, ma Ferge, quale secondo, e l'imparziale Castorp erano fuori di sé quest'ultimo fu persino villano col misero Wehsal. Non si vergognava, gli domandò, di tirar fuori quelle fastidiose balordaggini trattandosi di un duello meramente astratto, senza il fondamento d'un'ingiuria reale? Non bastava l'atrocità delle pistole? occorrevano anche quei crudeli particolari? Non era piú cavalleria, quella! Tanto valeva spararsi attraverso un fazzoletto. Certo, non toccava a lui, Wehsal, farsi sparare addosso da quella distanza, per questo aveva cosí facile la parola sanguinaria... e cosí via, Wehsal si strinse nelle spalle alludendo senza parole alla situazione radicale e disarmando, per cosí dire, la parte avversaria che tendeva a dimenticarsene. Comunque fosse, nelle trattative del giorno seguente questa riuscí anzitutto a ridurre le pal lottole a una sola e a regolare la distanza in modo che i duellanti si dovessero affrontare a quindici passi, col diritto di avanzare di cinque prima di sparare. Ma anche questo accordo fu raggiunto in cambio dell'assicurazione che non si sarebbero fatti tentativi di riconciliazione. D'altro canto non c'erano le pistole. Ne aveva il signor Albin. Oltre al piccolo lustro revolver col quale si divertiva a spaventare le signore, possedeva due pistole da ufficiale, gemelle, adagiate nel velluto di un astuccio comune, provenienti dal Belgio: browning automatiche con l'impugnatura di legno marrone, nella quale era allogato il caricatore, col meccanismo d'acciaio azzurrino e la lucida canna tornita, sulla cui bocca era fissata la breve mira. Una volta Castorp le aveva viste nella camera del fanfarone e ora, contro la sua convinzione, per mera imparzialità, si offrí di chiedergliele in prestito. Cosí fece senza nascondere lo scopo, ma coprendolo di segreto sulla parola d'onore e appellandosi, con facile successo, al senso cavalleresco di quello sventato. Albin lo istruí persino nel caricare e in presenza sua all'aperto sparò con entrambe le armi colpi di prova a salve. Tutto ciò richiese del tempo, sicché prima dell'appuntamento passarono due giorni e tre notti.

La località dello scontro fu una trovata di Castorp che aveva proposto il luogo pittoresco, dall'estiva fioritura azzurra, del suo sovrano ritiro. Là, la terza mattina dopo il litigio, appena la luce era sufficiente, si sarebbe risolta la vertenza. Sol tanto la vigilia, a tarda ora, Castorp, che era molto agitato, ricordò che era necessario avere anche un medico sul terreno dello scontro. Discusse subito con Ferge questo punto particolare che presentava molte difficoltà. Radamanto da studente era stato iscritto a una corporazione, ma non si poteva certo chiedere al direttore del sanatorio l'assistenza in una simile illegalità, tanto piú che si trattava di suoi pazienti. In genere c'era poca speranza di trovare un medico disposto a intervenire in un duello alla pistola tra due malati gravi. In quanto a Krokowski non si era nemmeno sicuri che quel pensatore fosse molto pratico di chirurgia. Wehsal, interpellato, comunicò che Naphta si era già pronunciato su quel punto: non voleva il medico, non si recava lassú per farsi ungere e fasciare, ma per battersi, e molto seriamente. Del dopo non gliene importava nulla, e si poteva regolarsi secondo le circostanze. Era una comunicazione sinistra, ma Castorp si sforzò d'interpretarla come se Naphta fosse tacitamente dell'opinione che il medico sarebbe stato superfluo. Non aveva mandato a dire anche Settembrini per il tramite di Ferge che si poteva sopprimere il problema perché non lo riguardava? La speranza che, in fondo, i due avversari fossero uniti nel proposito di non arrivare allo spargimento di sangue, non era del tutto irragionevole. Dopo quel diverbio avevano dormito due volte e ne dovevano dormire una terza: un fatto che fa sbollire i calori, che chiarisce; uno stato d'animo non resiste immutato al volgere delle ore. L'indomani mattina, con l'arme in mano, nessuno dei combattenti sarebbe stato lo stesso del giorno del litigio. Agivano, semmai, macchinalmente, costretti dallo spirito cavalleresco, non già secondo il libero arbitrio del momento, come avrebbero invece agito allora, per smania e convinzione; e un siffatto rinnegamento del loro io attuale in favore di quello che erano stati una volta, si doveva poter evitare in qualche modo! Castorp non aveva tutti i torti con la sua considerazione,... purtroppo però soltanto in un modo che non si sarebbe mai figurato. Aveva persino pienamente ragione per quanto riguarda Settembrini. Se però avesse sospettato in che senso Naphta avrebbe mutato il suo proposito fino al momento decisivo, o in quel momento stesso, nemmeno le circostanze interiori, dalle quali tutto ciò proveniva, lo avrebbero indotto a permettere ciò che si preparava. Alle 7 il sole era ben lontano dallo sbucare di dietro alla sua montagna, ma l'alba sorgeva faticosamente tra i vapori quando Castorp dopo una notte inquieta lasciava il Berghof per recarsi all'appuntamento. Le donne di servizio che facevano pulizia nel vestibolo alzarono gli occhi dal lavoro e lo guardarono meravigliate. Ma trovò che il portone principale non era chiuso: Ferge e Wehsal, insieme o isolati, dovevano essere già passati, l'uno per andare a prendere Settembrini, l'altro Naphta, e accompagnarli al luogo dello scontro. Castorp s'avviò da solo perché la sua qualità di arbitro non gli consentiva di unirsi a una delle due parti.

Camminava macchinalmente e costretto dallo spirito cavalleresco, sotto il peso delle circostanze. Che egli assistesse allo scontro era ovvia necessità. Impossibile sottrarsi e aspettare a letto il risultato, in primo luogo perché... ma non tradusse in parole il "primo luogo" e passò subito al "secondo luogo": che non era lecito abbandonare le cose a se stesse. Non era ancora successo nulla di grave, grazie al Cielo, e non era necessario che succedesse, anzi era poco probabile. Aveva dovuto alzarsi alla luce della lampada e, senza far colazione, a quell'ora mattutina cruda e gelida, doveva incontrarsi con gli altri: cosí era convenuto. Ma poi, per effetto della sua presenza, tutto senza dubbio si sarebbe risolto in bene, serenamente,... in qualche modo, in un modo che non si poteva prevedere ed era opportuno astenersi dal voler indovinare, perché l'esperienza insegna che anche il fatto piú modesto si svolge diversamente da come si è tentato di immaginarlo in precedenza. Eppure quella era la piú, spiacevole mattina che gli fosse dato di ricordare. Fiacco e insonnolito, stava quasi battendo i denti dal nervosismo e dentro di sé, non molto, in fondo, era tentato di diffidare degli argomenti coi quali cercava di acquietare se stesso. Erano tempi insoliti... La signora Minsk, distrutta dal litigio, lo scolaro furioso, Wiedemann e Sonnenschein, gli schiaffi della vertenza polacca gli ripassavano per la mente. Non riusciva a figurarsi che davanti ai suoi occhi, alla sua presenza, due potessero spararsi addosso e conciarsi a sangue. Ma se considerava che cosa davanti a quei suoi occhi era avvenuto di Wiedemann e Sonnenschein, diffidava di sé e del suo mondo e rabbrividiva nella giacca di pelo,... mentre, d'altro canto e nonostante tutto, il sentimento di quella situazione straordinaria e patetica, insieme con gli elementi corroboranti dell'aria mattutina, lo elevava e animava. Tra sensazioni e pensieri cosí misti e alterni salí, nella mezza tenebra che lentamente si andava diradando, da Dorf, dall'inizio della pista di bob, per uno strettissimo sentiero sul versante, raggiunse il bosco carico di neve, valicò i ponti di legno sopra la pista, e per una viottola che pareva tracciata piú dai piedi che dalla pala, proseguí in mezzo agli alberi. Siccome saliva in fretta, raggiunse presto Settembrini e Ferge, il quale portava l'astuccio delle pistole sotto la mantellina. Castorp non si fece scrupoli di accompagnarsi a loro e, appena fu al loro fianco, scorse anche Naphta e Wehsal che erano poco piú avanti. Mattina fredda, almeno diciotto gradi disse con buone intenzioni, ma restò sconcertato dalla frivolezza delle sue parole e soggiunse: Signori, sono convinto... . Gli altri tacquero. Ferge faceva ballare i baffi bonari in su e in giú. Dopo un po' Settembrini si fermò, prese una mano di Castorp, vi posò anche l'altra e disse: Amico mio, io non ucciderò. Non lo farò.

Mi offrirò alla sua pallottola, è tutto quanto l'onore mi può chiedere. Ma io non ucciderò, ci conti! . Lasciò andare la mano e si rimise in cammino. Castorp ne fu profondamente commosso, ma fatti alcuni passi osservò: Molto bello da parte sua, signor Settembrini, se non che, per contro... Se lui per parte sua... Settembrini si limitò a scuotere la testa. Riflettendo che se l'uno non sparava, non era possibile che l'altro avesse il coraggio di farlo, Castorp si convinse che tutto prometteva bene e le sue ipotesi cominciavano ad avverarsi, e si sentí sollevato. Superarono il ponticello che attraversava la gola, nella quale in estate precipitava la cascata ora ammutolita nel ghiaccio che tanto contribuiva al carattere pittoresco del luogo. Naphta e Wehsal passeggiavano nella neve, in su e in giú davanti alla panca imbottita di grossi cuscini bianchi, sulla quale una volta Castorp, tra ricordi insolitamente vivi, aveva dovuto aspettare la fine dell'epistassi. Naphta stava fumando una sigaretta e Castorp si domandò se anche lui avesse voglia di farlo, ma non trovando dentro di sé il minimo desiderio conchiuse che in quell'altro, e piú che mai, doveva essere un segno d'affettazione. Col compiacimento che provava sempre lassú si guardò in giro nell'ardita intimità del suo recesso che in quelle gelide circostanze non era meno bello di quando vi brillavano i fiori azzurri. Il tronco e la ramaglia dell'abete obliquo nel quadro erano carichi di neve. Buon giorno! augurò con voce gaia desiderando di recare subito tra i convenuti un suono naturale, che doveva contribuire a dissipare il male,... ma ebbe poca fortuna, perché nessuno gli rispose. I saluti che si scambiarono erano muti inchini, rigidi fino a non farsi notare. Ciò nonostante rimase risoluto a usare senza indugio per il buon fine la commozione dell'arrivo, la cordiale accelerazione del respiro, il calore che gli aveva messo addosso la veloce passeggiata nel mattino invernale, e cominciò: Signori, sono convinto... Le sue convinzioni le esporrà un'altra volta lo rimbeccò freddamente Naphta. Le armi, per favore soggiunse con la stessa alterezza. E Castorp, zittito, dovette vedere come Ferge tirava di sotto al mantello il fatale astuccio e come Wehsal che gli si era avvicinato prendeva in consegna una delle pistole per passarla a Naphta. Settembrini prese l'altra dalle mani di Ferge. Poi si dovette far largo secondo il mormorato invito di Ferge il quale si mise a tracciare e segnare le distanze: il limite esterno segnando col tacco brevi linee nella neve, le barriere interne piantandovi due bastoni, il suo e quello di Settembrini. Ma che cosa stava facendo quel paziente bonaccione? Castorp non credeva ai propri occhi. Ferge aveva le gambe lunghe e le usava, sicché almeno i quindici passi diedero una distanza cospicua, anche se c'erano quelle maledette barriere che in realtà non distavano molto l'una dall'altra. Certo, le sue intenzioni erano oneste. Ma quale nebbia lo offuscava costringendolo ad agire mentre prendeva quei mostruosi provvedimenti? Naphta che aveva buttato la pelliccia nella neve sicché se ne vedeva la fodera di visone, con la pistola in

mano mise il piede su una delle righe esterne non appena fu tracciata, mentre Ferge continuava le misurazioni. Quando ebbe finito, anche Settembrini, con la logora giacca di pelo sbottonata, si mise ai suo posto. Castorp si scrollò di dosso il suo intontimento e si fece avanti di nuovo. Signori disse in orgasmo, non precipitiamo! Nonostante tutto è mio dovere... Stia zitto lei! esclamò Naphta, reciso. Voglio il segnale. Ma nessuno diede il segnale. Non avevano preso tutti gli accordi. Si doveva dare il "Via!" ma non vi si era pensato e in ogni caso non si era menzionato che toccava all'arbitro impartire quello spaventoso comando. Castorp stette zitto e nessuno lo sostituí. Noi cominciamo! dichiarò Naphta. Venga avanti, signore, e spari! gridò all'avversario e cominciò a procedere con la pistola in pugno e il braccio teso contro Settembrini, all'altezza del petto,... uno spettacolo incredibile. Settembrini fece altrettanto. Al terzo passo l'altro senza sparare era già arrivato alla barriera - alzò la pistola molto in alto e premette il grilletto. Lo sparo secco destò molti echi. I monti si rimandarono il tuono e il rimbombo, la valletta fu piena di fragore e Castorp pensò che la gente sarebbe accorsa. Lei ha sparato in aria disse Naphta dominandosi e abbassando l'arma. Settembrini rispose: Io tiro dove mi pare. Lei sparerà un'altra volta! Nemmeno per sogno. Ora tocca a lei. Con la testa sollevata a guardare il cielo, Settembrini si era messo un po' di fianco rispetto all'altro; non di faccia: commovente da vedere. Era chiaro, doveva aver sentito dire che non bisogna offrire all'avversario la persona quant'è larga, e si atteneva a questa istruzione. Vigliacco ! gridò Naphta ammettendo cosí che ci vuol piú coraggio a sparare che a farsi sparare addosso; e alzata la pistola in un modo che non aveva piú nulla a che fare col conflitto, si sparò alla tempia. Scena miseranda, indimenticabile! Mentre i monti giocavano alla palla col fragore del suo misfatto, barcollò o precipitò alcuni passi all'indietro, mandando avanti le gambe, descrisse con tutto il corpo una violenta svolta a destra e cadde con la faccia nella neve. Lí per lí tutti rimasero di sasso. Settembrini, buttata lontano la pistola, fu il primo ad accorrere. Disgraziato! esclamò. -Che cosa fai, per amor di Dio? Castorp lo aiutò a voltare il corpo. Videro il buco rossonero accanto alla tempia. Videro un viso che conveniva coprire col fazzoletto di seta del quale una cocca sporgeva dal taschino di Naphta.

Il colpo di tuono. Sette anni rimase Castorp tra quelli lassú,... che non è un numero tondo per i seguaci del sistema decimale, eppure è un buon numero, maneggevole a modo suo, un pezzo di tempo, si potrebbe dire, mitico-pittoresco, di maggiore soddisfazione per lo spirito che, poniamo, un'arida mezza dozzina. Aveva mangiato a tutte le sette tavole della sala da pranzo. Circa un anno a ciascuna. Per ultimo stava alla tavola dei "russi incolti" insieme con due armeni, due finlandesi, un buchariano e un curdo. Stava là con la barbetta che nel frattempo si era lasciata crescere, una barbetta a punta, biondiccia, di forma non ben definibile che siamo costretti a considerare indizio di una certa indifferenza filosofica per il suo aspetto esteriore. Ora, dobbiamo fare un passo avanti e mettere questa idea di una personale tendenza a trascurare se stesso in relazione con un'analoga tendenza del mondo esterno rispetto a lui. L'autorità superiore aveva smesso di escogitare distrazioni per lui. Oltre alla domanda mattutina se aveva dormito bene, la quale però era retorica e sommaria, il consigliere non gli rivolgeva piú molto spesso la parola, e nemmeno Adriatica Mylendonk (a quell'epoca aveva un orzaiolo molto maturo) lo faceva a intervalli di pochi giorni. A guardar meglio, gli capitava di rado o mai. Lo lasciavano in pace... un po' come lo scolaro che gode il privilegio singolarmente allegro di non essere piú interrogato, di non avere piú nulla da fare, perché la sua bocciatura è ormai decisa e nessuno lo prende piú in considerazione - una forma orgiastica di libertà, aggiungiamo noi chiedendoci se la libertà può mai essere di forma e natura diverse da questa. In ogni caso là c'era uno che l'autorità non aveva piú bisogno di tener d'occhio e curare, perché era ormai certo che nel suo petto non sarebbero piú maturate arbitrarie e caparbie risoluzioni,... una persona sicura e definitiva che da un pezzo non sapeva dove mai andare e non era neanche in grado di concepire il pensiero del ritorno al piano... E una certa noncuranza nei suoi riguardi non si manifestava forse già nel fatto che era stato trasferito alla tavola dei "russi incolti"? Ma con ciò non vogliamo assolutamente parlar male di quella tavola! Non esistevano preferenze o svantaggi tangibili fra le sette tavole. Quella, per dirla con parole ardite, era una democrazia di tavole d'onore. Gli stessi sontuosi pasti erano serviti a questa come a tutte le altre; Radamanto stesso talvolta, secondo il turno, vi incrociava le mani davanti al piatto; e le popolazioni che vi pranzavano erano onorevoli componenti dell'umanità, anche se non sapevano il latino e ai pasti non si comportavano con garbo eccessivo. Il tempo che non è come quello degli orologi alle stazioni, la cui lancetta grande scatta di cinque in cinque minuti, ma piuttosto come quello degli orologi piccolissimi, nei quali il moto delle lancette è impercettibile alla vista, o come l'erba che nessun occhio vede crescere, benché in segreto cresca, come un bel giorno non si può negare; il tempo, una linea composta tutta di punti senza dimensione (e qui l'infelice

e defunto Naphta avrebbe chiesto probabilmente come facciano tante non esistenti dimensioni a formare una linea); il tempo, diciamo, alla sua maniera strisciante, impercettibile, segreta e tuttavia laboriosa, aveva continuato a produrre mutamenti. Il ragazzo Teddy, per portare un esempio, un giorno - ma beninteso non "un giorno", bensí non si sa bene da quale giorno in poi - non fu piú un ragazzo. Le signore non poterono piú prenderselo in grembo, quando si alzava e ritornava dopo aver indossato, al posto del pigiama, l'abito sportivo. Insensibilmente si era voltato pagina, in quelle occasioni era lui a prenderle sulle ginocchia, e ciò faceva a tutte e due le parti molto, anzi piú piacere. In lui era, non diremo sbocciato, ma cresciuto il giovinotto: Castorp non se n'era accorto, ma lui sí. D'altro canto il tempo e la crescita non fecero bene al giovinotto Teddy, non vi era tagliato. Il tempo non lo favorí; a ventun anni morí del male, al quale aveva avuto la predisposizione, e la sua camera fu disinfettata. Noi lo raccontiamo con voce calma, perché non c'era molta differenza tra le sue nuove condizioni e quelle di prima. Ma si ebbero decessi piú gravi, decessi di pianura, che toccavano piú da vicino il nostro protagonista, o almeno l'avrebbero toccato da vicino in altri tempi. Alludiamo alla dipartita, avvenuta poco prima, del vecchio console Tienappel, il prozio di Hans Castorp e suo tutore di sbiadita memoria. Aveva evitato meticolosamente i nocivi sbalzi di pressione e lasciato allo zio James la briga di farvi brutta figura; ma a lungo andare non aveva potuto sfuggire all'apoplessia, e la notizia telegraficamente breve, ma gentile e riguardosa, del suo decesso - gentile e riguardosa piú per il defunto che per il destinatario della notizia - era salita un giorno fino all'eccellente sedia a sdraio di Castorp, dopo di che, acquistata della carta listata di nero, egli aveva scritto agli zii-cugini che, due volte orfano, ora doveva considerarsi orfano una terza volta, e ne era tanto piú rattristato in quanto gli era negato e vietato di interrompere il suo soggiorno lassú e di recare al prozio l'estremo saluto. Parlare di lutto e tristezza significherebbe abbellire il fatto, in quei giorni però gli occhi di Castorp avevano un'espressione piú pensosa del solito. Quel decesso, il cui peso sentimentale non sarebbe stato mai cospicuo e col passare di avventurosi annetti nell'indifferenza si era quasi ridotto a zero, equivalse però allo strappo di un legame superstite, di un'ultima relazione col mondo di laggiú, conferí la rifinitura a quella che Castorp giustamente chiamava libertà. Infatti, negli ultimi'tempi dei quali stiamo parlando, ogni contatto tra lui e la pianura era cessato. Egli non vi mandava piú lettere e non ne riceveva. Non si faceva piú mandare da laggiú i "Maria Mancini". Aveva trovato sul posto una sorta che gli piaceva, alla quale era altrettanto fedele come già a quell'altra: un prodotto che persino agli esploratori polari sul ghiaccio sarebbe stato d'aiuto a superare i peggiori strapazzi; e con esso era come stare coricati in riva al mare e si poteva resistere,... un sigaro di foglia bassa, particolarmente accurato, detto "Giuramento sul Rutli", un po' piú tozzo del "Mancini", color topo, con

una fascetta azzurrina, di carattere molto docile e mite, che si struggeva in cenere candida, resistente, conservando le venature della foglia esterna, con regolarità uniforme, al punto che al fumatore avrebbe potuto servire da clessidra e tale era di fatto per quel tanto che gli occorreva, poiché non portava piú l'orologio addosso. Era fermo, un giorno gli era caduto dal comodino, ed egli si era astenuto dal fargli rimisurare il tempo col moto rotante,... per le stesse ragioni che da lunga pezza lo avevano indotto a rinunciare ai calendari, sia a quelli col foglietto quotidiano da strappare, sia a quelli che insegnano preventivamente la sequenza dei giorni feriali e festivi: per ragioni, dunque, di "libertà", in onore della passeggiata sulla spiaggia, del costante "in perpetuo", della magia ermetica alla quale il rapito si era mostrato accessibile, e che aveva costituito la fondamentale avventura della sua anima, il piano sul quale si erano svolte tutte le alchimistiche avventure di questa sostanza semplice. Cosí stava coricato, e cosí, in piena estate - l'epoca del suo arrivo - si compí, senza che egli ci pensasse, un'altra volta l'anno, il settimo. In quella rimbombò... Vergogna e timore ci trattengono però dal menar vanto, in questo racconto, di ciò che rimbombò e accadde. Per carità, niente vanterie, niente spacconate! Moderiamo la voce nell'annunciare che, dunque, rimbombò il colpo di tuono che tutti sappiamo, l'assordante scoppio dello sciagurato miscuglio di stupidità e irritazione, accumulato da molto tempo,... un tuono storico, per dirla con attenuato rispetto, il quale scrollò le fondamenta della terra, per noi, invece, il tuono che spacca la montagna magica e mette bruscamente alla porta il dormiglione. Sbalordito si trova seduto sull'erba e si stropiccia gli occhi come quello che nonostante parecchi ammonimenti ha tralasciato di leggere i giornali. Il suo amico e mentore mediterraneo aveva cercato sempre di porvi qualche riparo e si era preso a cuore il compito di istruire il pupillo della sua educazione intorno agli avvenimenti di laggiú, almeno a grandi linee, ma aveva trovato poco ascolto nell'alunno, il quale pur avendo intravisto qua e là, sul suo piano di governo, l'ombra spirituale delle cose, aveva trascurato le cose stesse, e precisamente per l'altezzosa inclinazione a prendere le ombre per cose, ma a vedere in queste soltanto ombre,... e perciò non lo si può nemmeno redarguire con troppa durezza, perché questo rapporto non è definitivamente chiarito. Non era piú come una volta quando Settembrini, prodotta la chiarità improvvisa, si sedeva accanto al letto dell'orizzontale Castorp e cercava d'influire su di lui rettificando i concetti della morte e della vita. Ora, per contro, questi sedeva, le mani tra le ginocchia, presso il letto dell'umanista nella cameretta o accanto al suo giaciglio diurno nello studio separato e intimo, nella mansarda con le seggiole del carbonaro e la bottiglia dell'acqua; gli faceva compagnia e ascoltava cortesemente le sue dissertazioni sulla situazione mondiale, perché ormai il signor Lodovico stava raramente alzato. La inaudita fine di Naphta, l'atto terroristico del disperato ragionatore aveva inferto un duro colpo al suo carattere sensibile, egli non se ne capacitava, e da allora andava soggetto a esaurimenti e debolezza.

La sua collaborazione alla Patologia sociologica subí un arresto, l'enciclopedia di tutte le opere letterarie che hanno per oggetto la sofferenza umana non faceva piú un passo avanti, quella lega aspettava invano il relativo volume della sua enciclopedia. Settembrini si vide costretto a ridurre il suo contributo all'organizzazione del progresso limitandolo alla propaganda orale, e le amichevoli visite di Castorp gliene offrivano un'occasione alla quale senza di esse avrebbe ugualmente dovuto rinunciare. Parlava con voce fievole, ma con bella eloquenza e col cuore, dell'autoperfezionamento dell'umanità sul piano sociale. I suoi discorsi arrivavano, per cosí dire, con zampe di colomba, ma tosto, quando toccavano l'unione dei popoli liberi per la felicità universale, vi si mescolava (forse senza che egli stesso lo volesse e sapesse) come un frusciare d'ali d'aquila, che senza dubbio era effetto della politica, il retaggio del nonno che insieme con l'eredità umanistica del padre si era fuso in Lodovico a foggiare il letterato,... èsattamente come umanità e politica si fondevano nell'idea dell'evviva e del brindisi alla civiltà, idea costituita dalla mitezza della colomba e dall'audacia dell'aquila, in attesa del suo giorno, dell'aurora delle genti, quando il principio dell'inerzia sarà sgominato e la santa alleanza della democrazia borghese avrà preso l'avvio... Qui, insomma, c'erano contraddizioni. Settembrini era umanitario, ma nello stesso tempo e appunto per questo, detto sottovoce, era anche per la guerra. Nel duello con l'incredibile Naphta si era comportato con senso di umanità, ma in complesso, quando il senso umano si fondeva entusiasta con la politica nell'idea della vittoria e del dominio dell'incivilimento e la picca del borghese era consacrata sull'altare dell'umanità, sorgeva il dubbio che egli obiettivamente fosse ancora del parere di astenersi dal sangue;... anzi, le circostanze interiori fecero sí che nei bei sentimenti di Settembrini l'audacia dell'aquila s'imponesse sempre piú sulla mitezza della colomba. Ben di rado la sua posizione rispetto alle grandi costellazioni del mondo era discorde, turbata da scrupoli, imbarazzata. Recentemente, due annetti o uno e mezzo addietro, la collaborazione diplomatica del suo paese con l'Austria in Albania aveva reso inquieta la sua conversazione: quell'azione concorde lo esaltava perché era diretta contro la mezza Asia ignara di latino, contro il knut e la Schlusselburg, e lo tormentava perché era un'alleanza innaturale col nemico ereditario, col principio dell'inerzia e dell'asservimento dei popoli. Nell'autunno precedente il grande prestito della Francia alla Russia per la costruzione di una rete ferroviaria in Polonia aveva suscitato in lui altrettali sehtimenti contrastanti. Settembrini infatti aderiva al patto francofilo del suo paese, e non c'è da stupirsene se si pensa che suo nonno aveva considerato le giornate della rivoluzione di luglio pari a quelle della creazione del mondo; ma l'accordo fra la repubblica illuminata e la Scizia bizantina gli creò un imbarazzo morale,... un'oppressione fisica che però, all'idea del valore strategico di quella rete ferroviaria, stava per tramutarsi in un accelerato respiro di gioia e di speranza. Poi venne l'assassinio del principe che per tutti, meno che per i dormiglioni tedeschi, fu il segnale della bufera, avvertimento ai coscienti, tra i quali dobbiamo giustamente annoverare Settembrini.

Castorp lo vide bensí inorridire, come persona privata, a quel pauroso misfatto, ma notò anche il suo sollievo al pensiero che era un gesto popolare, di liberazione, diretto contro la rocca del suo odio, anche se d'altro canto andava valutato come frutto di mene moscovite: e ciò lo depresse, ma non gli impedí di definire, tre settimane dopo, l'ultimatum della monarchia alla Serbia un'offesa all'umanità e un orrendo delitto, in considerazione delle conseguenze che, da iniziato, era già in grado di vedere e che approvava col respiro accelerato... In breve, i sentimenti di Settembrini erano compositi come la fatalità che egli vedeva addensarsi rapidissima all'orizzonte e cercava di far vedere al suo alunno, mentre una specie di cortesia nazionale e di compassione lo tratteneva dal parlare senza ritegno. Nei giorni delle prime mobilitazioni, della prima dichiarazione di guerra aveva preso l'abitudine di porgere al visitatore tutt'e due le mani e di stringere le sue, la qual cosa a quel tonto toccava il cuore, ma non giungeva fino al cervello. Amico mio! esclamava l'italiano. La polvere da sparo, la stampa... è innegabile, le avete inventate voi! Ma se lei crede che marceremo contro la rivoluzione... caro mio... Nei giorni della piú opprimente attesa, quando un vero tormento tese i nervi dell'Europa, Castorp non vide Settembrini. Le gravi notizie salivano direttamente dal basso al suo balcone, guizzavano per la casa, empivano del loro soffocante odore di zolfo la sala da pranzo e persino le camere dei gravi e moribondi. Erano i secondi nei quali il dormiglione nell'erba, senza capire in che mondo fosse, si rizzò adagio adagio per mettersi a sedere e stropicciarsi gli occhi... Qui però vogliamo disegnare tutta la scena per giudicare rettamente le sue emozioni. Ritirò le ginocchia, si alzò in piedi, guardò intorno a sé. Si vide disincantato, redento, liberato,... non di sua iniziativa, come dovette riconoscere con vergogna, ma messo alla porta da potenze elementari esterne per le quali la sua liberazione era un fatto secondario in mezzo a tanti altri. Ma anche se il suo piccolo destino scompariva di fronte a quello generale,... non vi si manifestava un tantino di bontà, di giustizia personale e quindi divina? Se la vita riaccoglieva ancora una volta il suo pupillo peccatore,... non a buon mercato, ma proprio cosí, in quel modo serio e severo, come tribolazione, la quale per lui, peccatore, poteva significare non già la vita, ma in questo caso tre salve in suo onore, facesse pure! E cosí cadde in ginocchio, le mani e il viso alzati a un cielo che era buio e sulfureo, ma non piú il soffitto speleo della montagna del peccato. Settembrini lo trovò in quella posizione,... detto, s'intende, con ardita metafora; poiché in realtà, lo sappiamo, il carattere ritroso del nostro eroe escludeva siffatti atteggiamenti teatrali. Nella brusca realtà il mentore lo trovò che stava facendo le valigie,... poiché dal momento del risveglio Castorp si era buttato nel vorticoso subbuglio delle partenze arbitrarie, suscitate nella valle dal tuono dirompente. La "patria" somigliava a un formicaio preso dal panico. Da cinquemila piedi di altezza il popoluccio degli ospiti di lassú scese a precipizio nella pianura della tribolazione, occupando i predellini del trenino preso d'assalto, all'occorrenza anche senza i bagagli

accatastati sui marciapiedi della stazione,... della stazione brulicante, alla cui altezza pareva si sollevasse lingueggiando dal basso un'afa che sapeva di bruciaticcio,... e Castorp precipitò con loro. Nel trambusto Lodovico lo abbracciò,... letteralmente, lo strinse fra le braccia e lo baciò come un meridionale (o anche come un russo) sulle due guance, la qual cosa nonostante la commozione mise alquanto in soggezione il nostro non autorizzato partente. Ma per poco non perdeva la bussola allorché all'ultimo momento Settembrini lo chiamò per nome, cioè "Gianni" e abbandonando la forma di cortesia consueta in Occidente gli diede del tu! E cosí in giú disse,... in giú finalmente! Addio, Gianni mio ! Diversamente mi auguravo di vederti partire, ma sia pure, gli dei hanno stabilito cosí e non diversamente. Speravo di rilasciarti perché tu andassi a lavorare, ora invece combatterai.nelle file dei tuoi. Dio mio, a te era destinato, non al nostro tenente. Come scherza la vita... Combatti da valoroso, là dove sono i tuoi legami di sangue! Oggi nessuno può fare piú di cosí. Ma perdona a me se impegno il resto delle mie forze per trascinare nella lotta anche il mio paese, dalla parte che gli indicano lo spirito e il sacro egoismo. Addio! Castorp insinuò la testa fra dieci altre che empivano il vano del finestrino... Al di sopra di esse salutò con la mano. Anche Settembrini fece un cenno con la destra, mentre col polpastrello dell'anulare sinistro si toccava un occhio. Dove siamo? Che è questo? Dove ci ha sbalestrati il sogno? Penombra, pioggia e fango, rossi bagliori d'incendio nel cielo bigio, che rimbomba senza posa di tuoni e boati, empiendo l'aria umida, lacerata da sibilanti ronzii, dall'arrivo di furiosi latrati da cane infernale, che terminano il loro percorso fra schegge, spruzzi, schianti e fiammate, da gemiti e gridi, da squilli d'una tromba che sta per scoppiare, da rulli d'un tamburo che spinge, spinge alla fretta... Ecco un bosco dal quale si riversano frottè grigie che corrono, cadono, saltano. Ecco una catena di colli che si allunga davanti al lontano incendio, la cui bragia si condensa ogni tanto in vampe lingueggianti. Intorno a noi si stendono i campi ondulati, sconvolti, sterrati. Una strada maestra li attraversa fangosa, coperta di rami spezzati, simile al bosco; una viottola di campagna, solcata, senza fondo, porta ad arco fino ai colli, tronchi si ergono nella pioggia, umidi, scamozzati... Qui c'è un cartello indicatore,... inutile interrogarlo; l'aria quasi buia lo nasconderebbe, anche se un colpo non l'avesse sbrandellato a frastagli. Oriente o Occidente? E' la pianura, è la guerra. E noi siamo timide ombre lungo la via, vergognose nell'ombra, al sicuro, senza nessuna voglia di vanterie e spacconate, condotti qua dallo spirito del racconto per cercare tra i grigi camerati che escono a frotte dal bosco, correndo, cadendo, incalzati dal rullo del tamburo, uno che conosciamo, il compagno di viaggio di tanti annetti, il bonario peccatore, del quale tante volte abbiamo udito la voce, e guardarlo ancora una volta nel viso schietto, prima di perderlo di vista.

Li hanno fatti venire, i camerati, per dare l'ultima spinta al combattimento che è già durato l'intera giornata e ha lo scopo di riconquistare quelle posizioni sui colli e, dietro, i villaggi in fiamme, perduti due giorni sono. E' un reggimento di volontari, sangue giovane, studenti la maggior parte, da poco tempo al campo. Ricevuto l'allarme durante la notte, hanno viaggiato in treno fino al mattino e marciato sotto la pioggia fino al pomeriggio per strade cattive,... senza strade, perché le vie erano intasate, e si dovette prendere per campi e acquitrini, sette lunghe ore, con la mantella imbevuta d'acqua, con lo zaino affardellato, e non è stata una passeggiata di diporto; non volendo perdere gli stivali, bisognava chinarsi quasi a ogni passo, infilare il dito nel cignolo e ritirare cosí il piede dal terreno ammollato. Cosí ci hanno messo un'ora per attraversare un praticello. Ora sono arrivati, il sangue giovane ha sopportato tutte le fatiche, il corpo eccitato e oramai sfinito, ma teso e sostenuto dalle piú profonde riserve di vita, non reclama il sonno negato, né il cibo. Il viso bagnato, lordo di fango, incorniciato dal soggolo, arde sotto l'elmo rivestito di grigio, spostato da una parte. Arde per lo sforzo e per lo spettacolo delle perdite subite nell'attraversare i pantani del bosco. Il nemico infatti, sapendo della loro avanzata, ha diretto sulla loro strada un fuoco d'interdizione di shrapnell e granate di grosso calibro che ha già colpito il gruppo scheggiando il bosco e ora frusta ululando e spruzzando e incendiando l'ampia distesa dei campi arati. Devono passare, i tremila ragazzi febbricitanti, sono di rinforzo, con le loro baionette devono decidere le sorti dell'assalto alle trincee davanti e dietro la linea dei colli e ai villaggi in fiamme, appoggiare l'avanzata fino a un determinato punto, indicato nell'ordine che il loro comandante tiene in tasca. Sono tremila, affinché rimangano in duemila quando saranno presso i colli e i villaggi; questo è il significato del loro numero. Essi sono un corpo predisposto, anche dopo gravi perdite, ad agire e vincere e a poter salutare la vittoria ancora con un urrà di migliaia di voci,... senza tener conto di quelli che si sono appartati cadendo. Parecchi si sono già separati, sono caduti durante la marcia forzata, per la quale si sono dimostrati troppo giovani e fragili. Si fecero sempre piú pallidi, barcollanti, vollero fare ancora uno sforzo ostinato, ma finirono col restare indietro. Si trascinarono ancora un tratto a fianco della colonna in marcia e, sorpassati da una squadra dopo l'altra, scomparvero dove non era bello giacere. Poi era giunto il bosco straziato. Ma i giovani che sbucano in ordine sparso sono ancora numerosi; tremila possono reggere a un salasso e ciò nonostante rimangono un'unità formicolante. Già allagano la nostra zona molle e battuta, la strada, la viottola di campagna, i campi limacciosi; noi ombre vigili, al margine, siamo in mezzo a loro. Sul limitare del bosco si continua a inastare la baionetta, con maneggio addestrato, la tromba chiama d'urgenza, il tamburo rulla entro il piú profondo rotolio dei tuoni, ed essi avanzano a precipizio, come

vien viene, con grida scomposte, coi piedi pesanti come in un sogno tormentoso, perché le zolle del campo si attaccano plumbee ai goffi stivali. Si buttano a terra all'urlo dei proiettili in arrivo, per poi rialzarsi e correre avanti, con esclamazioni di giovanile coraggio, perché non sono stati colpiti. Vengono col piti, cadono agitando le braccia, con uno sparo in fronte, nel cuore, nelle viscere. Giacciono col viso nel fango, non si muovono piú. Giacciono, la schiena sollevata dallo zaino, la nuca affondata nel terreno, e adunghiano l'aria. Ma il bosco ne manda degli altri che si buttano a terra e saltano e, muti o urlanti, procedono incespicando tra i caduti. Oh, quei giovani con zaino e baionetta, con mantella e stivali insudiciati! Alla maniera beatamente umanistica potremmo osservarli sognando anche altre visioni. Potremmo figurarceli nell'atto di guazzare cavalli alla cavezza in una insenatura marina, di passeggiare con l'innamorata lungo la spiaggia, con le labbra all'orecchio della tenera sposa, o anche nel felice e amichevole compito d'insegnarsi a vicenda a tirare con l'arco. Invece giacciono qui col naso nel fango. Che lo facciano con gioia, sia pure in angosce infinite e nell'inenarrabile nostalgia della mamma, è un'altra questione, sublime e umiliante, e non dovrebbe essere motivo di portarli a questo sbaraglio. Ed ecco il nostro conoscente, ecco Hans Castorp! Già da lontano lo abbiamo riconosciuto dalla barbetta che si è lasciato crescere alla tavola dei "russi incolti". E' tutto bagnato e arde, come tutti. Corre coi piedi appesantiti dalle zolle, bilanciando il fucile nella mano abbassata. Ecco, calpesta la mano di un camerata caduto, con lo stivale chiodato preme quella mano dentro al terreno pantanoso, coperto di rami scheggiati. Ciò nonostante è lui. Canta persino! Come nell'eccitazione intontita, senza pensiero, si canta a fior di labbra senza saperlo, cosí egli usa il respiro strapazzato per cantare tra sé, a mezza voce: Ich schnitt in seine Rinde so manches liebe Wort... Cade. No, si è buttato ventre a terra, perché un cane infernale arriva ululando, una grossa granata dirompente, un ributtante pan di zucchero dell'abisso. Giace con la faccia nel fango freddo, le gambe divaricate, i piedi distorti, coi tacchi all'ingiú. Il prodotto d'una scienza abbrutita, carico del peggio, affonda nel terreno a trenta passi di fianco a lui come il diavolo in persona, ed esplode laggiú con orrenda strapotenza, sollevando nell'aria una fontana, alta come una casa, di terriccio, fuoco, ferro, piombo, e brani di carne umana. Là infatti stavano coricati due amici, si erano buttati giú insieme nel pericolo: ora sono mischiati e scomparsi. Oh vergogna della nostra sicurezza nell'ombra! Via, via! Questo non lo vogliamo narrare! E' stato colpito il nostro conoscente? Un istante ha creduto di esserlo. Una grossa zolla l'ha preso allo stinco, gli ha fatto male, sí, ma è roba da ridere.

Egli si rialza, prosegue barcollando, zoppiconi, coi piedi pesanti di terra, cantando incosciente: Und seine Zweige rauschten, Als riefen sie mir zu... E cosí nel trambusto, nella pioggia, nel crepuscolo, lo perdiamo di vista. Addio, Hans Castorp, schietto pupillo deUa vita! La tua storia è terminata. L'abbiamo narrata sino alla fine; non fu né divertente né noiosa, fu una storia ermetica. L'abbiamo raccontata per se stessa, non per amor tuo, poiché tu eri semplice. Ma in fin dei conti era la storia tua; siccome è toccata a te, devi aver avuto una certa accortezza, e noi non neghiamo la simpatia pedagogica che ci prese nel narrarla e potrebbe anche indurci a passare delicatamente un polpastrello sull'angolo d'un occhio al pensiero che non ti vedremo e non ti ascolteremo in avvenire. Addio,... sia che tu sopravviva o muoia! Le tue probabili sorti sono brutte; la mala danza nella quale sei trascinato durerà ancora qualche anno, e noi non ci sentiamo di scommettere forte che ne uscirai salvo. Francamente non ci preoccupiamo gran che se la questione rimane aperta. Avventure della carne e dello spirito che hanno potenziato la tua semplicita, ti hanno permesso di superare nello spirito ciò che difficilmente potrai sopravvivere nella carne. Ci sono stati momenti in cui nei sogni che governavi sorse per te, dalla morte e dalla lussuria del corpo, un sogno d'amore. Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt'intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l'amore? Appendice. LA MONTAGNA INCANTATA ,, Lezione per gli studenti dell'università di Princeton. Gentlemen, è certamente un caso straordinario che ai vostri studi letterari l'autore sia presente e consideri con voi la sua opera. Senza alcun dubbio avreste preferito ascoltare qualche osservazione personale di Monsieur de Voltaire o del Senor Cervantes sui loro libri famosi. Ma la legge del tempo e della contemporaneità esige ormai che dobbiate contentarvi di me, dell'autore della Montagna incantata, il quale è non poco confuso vedendo il suo libro inserito come oggetto di studio nel novero delle grandi opere della letteratura mondiale. La generosità del vostro egregio insegnante ha reputato equo che nel ciclo di queste lezioni si legga e analizzi anche un'opera moderna, e se naturalmente sono ben lieto che la sua scelta sia caduta su uno dei miei libri, non m'illudo che questa possa essere una classificazione definitiva. Spetta ai posteri giudicare se sia lecito considerare La montagna incantata un "capolavoro" pari alle altre opere classiche dei vostri studi. Comunque sia, questi posteri vi scorgeranno probabilmente un documento della psicologia europea e dei problemi spirituali nei primi trent'anni del secolo XX; vi giungano pertanto gradite alcune comunicazioni dell'autore circa l'origine del libro e le esperienze che gliene derivarono. Il fatto che io debba farvi questo discorso in inglese non aumenta le difficoltà, anzi eccezionalmente rappresenta per me una facilitazione. E qui penso subito al protagonista del mio racconto, al giovane ingegnere Hans Castorp, il quale alla fine del primo libro, (in origine l'opera era divisa in due volumi. (N. d. T.) fa a madame Chauchat, la donna

dagli occhi chirghisi, una strana dichiarazione d'amore, che egli può avvolgere nel velo d'una lingua straniera, la francese. Ciò torna utile al suo pudore e lo incoraggia a dire cose che gli riusci- rebbe difficile pronunciare in tedesco. "Parler francais" dice, "c'est parler sans parler, en quelque manière." Gli giova insomma a superare le sue inibizioni, ... e cosí le inibizioni che l'autore prova dovendo discorrere del proprio libro vengono smorzate dal trasferimento in un'altra lingua. Esse d'altronde non sono le uniche che si facciano sentire. Ci sono autori il cui nome è legato al titolo di un'unica grande opera e quasi vi si identifica, e la cui natura si esprime completamente in quell'unica opera. Dante... è la Divina Commedia. Cervantes... è il Don Chisciotte. Ce ne sono invece altri (e tra essi devo annoverare anche me) la cui singola opera non è affatto cosí significativa né atta a rappresentarli, ma rimane frammento d'un complesso maggiore, del lavoro d'una vita, anzi della vita e della persona stessa; essi tendono bensí ad annullare la legge del tempo e della successione provandosi ad essere interamente presenti in ciascuna produzione, ma soltanto nella maniera in cui il romanzo della Montagna incantata si prova esso stesso e per suo conto ad annullare il tempo, cioè mediante il motivo conduttore, mediante la magica formula che anticipa il futuro e richiama il passato, ed è l'accorgimento per cui la totalità interiore è presente ad ogni istante. Cosí anche il lavoro d'una vita nel suo complesso ha i suoi motivi conduttori che favoriscono il tentativo di creare un'unità, di far sentire l'unità e tener presente il tutto nell'opera singola. Ma appunto perciò non si giudica rettamente il singolo lavoro quando lo si considera a sé stante, senza tener conto dell'opera complessiva e del sistema di rapporti nel quale si trova. E' molto difficile, per esempio, e quasi impossibile parlare della Montagna incantata senza ricordare le relazioni che ci sono tra essa e (all'indietro) il mio romanzo giovanile I Buddenbrook, il trattato criticopolemico considerazioni di un apolitico e La morte a Venezia e (in avanti) i romanzi di Giuseppe. Ciò che ho detto, gentlemen, per accennare alle inibizioni che provo di fronte al compito di parlare di questo mio libro, ci porta già molto addentro nella struttura di esso e in quella fra tutte le prove artistiche della mia vita, delle quali è parte ed esempio, ... piú addentro di quanto oggi, a rigore, mi sia lecito penetrare. Sarà meglio che vi esponga, per puri aneddoti storici, un po' della concezione e dell'origine del romanzo, come risultarono dalla mia vita. Nel 1912 (è passata quasi una generazione, e quelli che oggi sono studenti, allora non erano neanche nati) mia moglie si era ammalata d'una (d'altronde non grave) affezione ai polmoni che però la costrinse a passare sei mesi in alta montagna, in un sanatorio della stazione climatica di Davos, in Svizzera. Io intanto rimasi coi figlioli a Monaco e nella nostra casa di campagna a Tolz sull'Isar; ma nel maggio e giugno di quell'anno stetti alcune settimane lassú con mia moglie, e se al principio della Montagna incantata leggete il capitolo intitolato "L'arrivo", dove l'ospite Hans Castorp cena con Ziemssen, il suo cugino malato, nel ristorante del sanatorio, e riceve i primi assaggi non solo dell'eccellente cucina del Berghof, ma anche dell'atmosfera locale e della vita di "lassú", ... se leggete questo capitolo, vi trovate una

descrizione abbastanza esatta del nostro incontro in quell ambiente e delle mie strane impressioni d'allora. Queste alquanto particolari impressioni si rafforzarono e approfondirono nelle tre settimane che passai tra i pazienti di Davos facendo compagnia a mia moglie. Sono le tre settimane che in origine Castorp intende di passare lassú, mentre poi diventano i sette favolosi anni del suo incantamento. Io ero certo in grado di parlarne perché poco mancò che l'avventura toccasse a me. Almeno una delle sue esperienze (e proprio la fondamentale) è l'esatta attribuzione d'un'esperienza personale dell'autore al suo protagonista: la visita medica cioè, dell'ospite estraneo, venuto dalla pianura, donde risulta che egli stesso è malato. Mi trovavo lassú da una decina di giorni quando sul balcone, con un tempo umido e freddo, mi buscai un molesto catarro delle vie respiratorie. Siccome in casa c'erano due specialisti, il primario e il suo assistente, nulla era piú ovvio che farmi esaminare i bronchi, per regolarità e sicurezza sicché seguii mia moglie che era appunto invitata alla visita. Il primario che, come potete immaginare, somigliava un poco, nei modi esteriori, al mio consigliere Behrens, mi percosse e auscultò e sui due piedi trovò una cosí detta smorzatura, un punto malato nei miei polmoni che, se fossi stato Hans Castorp, avrebbe forse segnato una svolta per tutta la mia vita. Il medico mi assicurò che avrei agito da persona saggia mèttendomi in cura lassú per sei mesi, e se avessi seguito il suo consiglio, chi sa, forse sarei ancora lassú. Preferii scrivere La montagna incantata, nella quale utilizzai le impressioni ricevute là in tre brevi settimane, ma sufficienti a farmi un'idea dei pericoli che i giovani (e la tubercolosi è una malattia dei giovani) vi potevano correre. Quel mondo di ammalati è chiuso in sé e tenacemente avviluppante, come vi sarete un po' accorti leggendo il mio romanzo. E' una specie di surrogato della vita che in un tempo relativamente breve estrania del tutto i giovani dalla vita reale, attiva. Tutto vi è (o era) lussuoso, anche il concetto di tempo. Quel tipo di cure impegna sempre molti mesi, che spesso diventano anni. Dopo sei mesi però il giovane non ha in mente altro che la sua temperatura e il flirt. E dopo altri sei mesi non potrà, in numerosi casi, avere in testa mai altro che questo. Sarà diventato definitivamente inetto a vivere nel piano. Quelle case di cura sono (o erano) un fenomeno tipico del mondo d'anteguerra, pensabili soltanto in una forma di economia capitalistica ancora intatta. Soltanto in tali condizioni era possibile che i pazienti facessero quella vita, a spese delle loro famiglie per anni o magari per sempre. Oggi è finita o quasi. La montagna incantata è diventata il canto del cigno di quel modo di vita, e forse è quasi la norma che le narrazioni descrittive conchiudano una forma di esistenza, la quale dopo di esse scompare.

Oggi la terapia polmonare segue per lo piú altre vie, e la maggior parte dei sanatori svizzeri in alta montagna si sono trasformati in alberghi sportivi. L'idea di fare delle mie impressioni ed esperienze di Davos un racconto mi si radicò subito nella mente. Ecco la mia situazione letteraria di allora: terminato il romanzo Altezza Reale mi ero imbarcato nella bizzarra impresa di scrivere le memorie di un cavaliere d'industria e topo d'albergo, un romanzo che sotto aspetti criminali e antisociali, era, in fondo, anche la storia d'un artista come quella del piccolo principe in Altezza Reale. Lo stile di quello strano libro, del quale sussiste soltanto un cospicuo frammento, era una specie di parodia delle "memorie" che si scrivevano nel secolo XVIII e persino del goethiano Poesia e verità, e non era certo facile mantenere a lungo il tono. S'imponeva pertanto la necessità di una sosta stilistica in altre zone del linguaggio e del pensiero; interruppi quindi il romanzo e scrissi la "long short story" La morte a Venezia. L'avevo quasi terminata all epoca della mia visita a Davos, e il progettato racconto - al quale diedi subito il titolo di Montagna incantata - non doveva essere altro che un riscontro umoristico alla Morte a Venezia, un riscontro anche per la mole, cioè una short story un po' ampia. Era inteso come un dramma satiresco dopo la tragica novella che stavo ultimando. La sua atmosfera doveva essere quel misto di morte e divertimento che avevo saggiato in quello strano luogo lassú. Il fascino della morte, il trionfo di un ebbro disordine su una vita votata al massimo ordine, com'è descritto nella Morte a Venezia, doveva essere trasferito su un piano umoristico. Un protagonista semplice, il comico conflitto tra avventure macabre e rispettabilità borghese: ecco ciò che mi proponevo. La conclusione era incerta, ma l'avrei trovata; l'insieme pareva facile e divertente da eseguire e non avrebbe occupato molto spazio. Ritornato a Tolz e a Monaco cominciai a scrivere il primo capitolo. Ben presto mi colse un vago presentimento dei pericoli che presentava l'ampiezza del racconto, la tendenza della materia a diventare importante e a spaziare in un mare senza rive. Non potevo nascondermi che stava in un pericoloso centro di rapporti. Quella di sottovalutare un'impresa è forse, non soltanto per me, un'esperienza ricorrente. Nel momento di concepirlo, un lavoro appare sotto una luce innocua, semplice, pratica. Sembra che non richieda gran fatica di esecuzione. Il mio primo romanzo I Buddenbrook era ideato sul modello dei racconti scandinavi - storie di commercianti o d'una famiglia -, doveva essere un libro di 250 pagine e ne vennero due grossi volumi. La morte a Venezia doveva diventare una short story per la rivista monacense "Simplicissimus". Lo stesso vale per i romanzi di Giuseppe che da principio immaginavo come una novella della mole su per giú della Morte a Venezia. Né fu diverso il caso della Montagna incantata: si tratta, penso, di un autoinganno necessario e produttivo.

Se si avesse, in partenza, la chiara visione di tutte le possibili difficoltà d'un'opera e si conoscesse la sua volontà, che spesso è ben diversa da quella dell'autore, forse ci cascherebbero le braccia e non si avrebbe neanche il coraggio di cominciare. Un'opera può avere una sua propria ambizione, la quale magari supera di molto quella dell'autore, ed è bene che sia cosí. L'ambizione infatti non dev'essere un'ambizione personale, non deve precedere l'opera, ma questa la deve produrre dal proprio seno e costringere l'autore ad averla. Cosí, penso, sono nate le opere grandi, non già da un'ambizione che comincia col proporsi di creare una grande opera. Mi accorsi subito, insomma, che la storia di Davos aveva un suo valore e un concetto di sé assai diverso da quello che ne avevo io. Ciò era vero persino esteriormente, poiché lo stile abbondante, da umorista inglese, nel quale trovavo ristoro dopo il rigore della Morte a Venezia, richiedeva spazio e il tempo relativo. Venne poi la guerra, il cui scoppio mi suggerí subito, è vero, la fine del romanzo e le cui esperienze arricchirono il libro in misura incalcolabile, ma m'interruppero per anni nella stesura. In quegli anni scrissi le Considerazioni di un apolitico, un faticoso esame di coscienza e un faticoso superamento delle antitesi e controversie europee, un libro che fu la mia immane, annosa preparazione all'opera d'arte, la quale poté diventare appunto opera d'arte, giuoco, sia pure un giuoco molto serio, soltanto in grazia dello sgravio materiale che le era derivato dalla precedente fatica polemicaanalitica. "Questi scherzi molto seri", dice Goethe a proposito del suo Faust, ed è la definizione di ogni arte, anche della Montagnna incantata. Ma io non avrei potuto scherzare e giocare senza averne vissuto prima i problemi nella loro sanguinosa umanità, sopra i quali poi mi elevai da libero artista. Il motto delle Considerazioni dice: "Que diable allait ilfaire dans cette galère?". Risposta: "La montagna incantata". I primi tentativi di muovere i passi dell'arte dopo lo spirituale servizio militare cui mi ero assoggettato durante la guerra, furono due idilli, il Canto della bambina e la storia d'un animale, Cane e padrone, dopo di che ripresi finalmente La montagna incantata, la quale però fu continuamente interrotta da saggi critici che l'accompagnarono: i tre piú importanti furono, per il contenuto, diretti polloni e propaggini del grande romanzo corrente, cioè: Goethe e Tolstoi, Della repubblica tedesca e Esperienze occulte. Infine, nell'autunno 1924 apparvero i due volumi, nati dalla short story che avevo concepito, i quali tutto sommato mi tennero impegnato non sette, ma dodici anni: e se l'accoglienza che ebbero fosse stata anche meno favorevole, avrebbe pur superato la mia attesa fino a sbalordirmi. Sono avvezzo a licenziare un lavoro finito con una scrollata di spalle rassegnata, senza la minima fiducia nella pubblica riuscita. Le attrattive che ha avuto per me, suo curatore, si sono logorate da un pezzo, il portarlo a termine è stata una questione di etica bravura produttiva, di puntiglio, insomma, come è stato, in genere, il puntiglio a determinare fin troppo i lunghi anni di accanimento, sicché lo considero troppo un problematico

divertimento personale per arrischiarmi a contare sulla partecipazione di numerosi lettori all'orma lasciata dalle mie singolari mattinate. Io "cado dalle nuvole" quando - come mi è toccato piú volte nella vita - questa partecipazione avviene tuttavia in misura quasi turbinosa, e tale piacevole caduta fu nel caso della Montagna incantata particolarmente profonda e inattesa. Era forse lecito pensare che un pubblico affamato, in angustie economiche, trovasse la voglia di seguire i sognanti intrecci di questa composizione intellettuale estesa su mille e duecento pagine, "Il gigantesco tappeto del tuo poema duecentomila versi": queste parole del Firdusi di Heine erano la mia citazione preferita durante il lavoro, insieme con quella di Goethe: "Il fatto che non puoi terminare ti rende grande". Si sarebbero trovate, in quelle circostanze, piú di un paio di migliaia di persone disposte a sborsare il prezzo di sedici o venti marchi per un cosí curioso discorso che non ha quasi niente a che vedere con quella che di consueto si chiama "lettura di romanzi". Certo è che anche soltanto dieci anni prima i due volumi non si sarebbero potuti scrivere né avrebbero trovato lettori. Era stato necessario fare esperienze che l'autore aveva in comune con la sua nazione, e per tempo egli aveva dovuto portarle a maturaziOne artistica per presentare il suo arrischiato prodotto, come già un'altra volta, nel momento favorevole. I problemi della Montagna incantata per la loro natura non erano adatti alle masse, ma assillavano la massa delle persone colte, e le universali angustie avevano imposto alla facoltà ricettiva del gran pubblico quell'''incremento'' alchimistico che aveva costituito la vera e propria avventura del piccolo Hans Castorp. Certo, il lettore tedesco si riconobbe nel semplice, ma "scaltro" eroe del romanzo; poteva seguirlo e ne aveva la voglia. Di fatto La montagna incantata è un libro molto tedesco, lo è al punto che giudici stranieri ne sottovalutarono in pieno la fortuna nel mondo. Un eminente critico svedese dichiarò risolutamente in pubblico che non si sarebbe mai osato tradurre questo libro in una lingua straniera, perché non vi si presterebbe affatto. La profezia era sbagliata. La montagna incantata fu tradotta in quasi tutte le lingue europee e, per quanto posso giudicare, nessuno dei miei libri ha suscitato tanto interessamento nel mondo in genere e (lo noto con gioia) soprattutto in America. Che devo dire ora del libro stesso e del modo in cui lo si dovrebbe leggere? Comincio con una richiesta molto arrogante: che lo si deve, cioè, leggere due volte. Questa richiesta va beninteso ritirata subito, qualora la prima volta il lettore si sia annoiato. L'arte non dev'essere un compito di scuola, una fatica, 'occupazione contre coeur, ma vuole e deve procurare gioia, divertire, animare, e chi non sente quest'effetto dell'opera d'arte, gli conviene lasciarla lí e volgersi ad altro.

A chi invece è arrivato in fondo alla Montagna incantata, do il consiglio di leggerla una seconda volta, poiché la sua particolare fattura, il suo tipo di composizione fa sí che la seconda volta il piacere del lettore sarà maggiore e piú profondo.... come d'altronde anche la musica bisogna conoscerla già per goderla appieno. Non a caso ho detto composizione, parola che di solito è riservata alla musica. Ora, la musica ha sempre agito sul mio lavoro, contribuendo largamente a formare lo stile. Per lo piú gli scrittori sono "a rigore" qualcos'altro, sono pittori spostati o incisori o scultori o architetti o che so io. In quanto a me, devo annoverarmi tra gli scrittori-musicisti. Per me il romanzo è sempre stato una sinfonia, un lavoro di contrappunto, un tessuto di temi dove le idee fanno la parte dei motivi musicali. Si è accennato talora - io stesso l'ho fatto - all'influsso che l'arte di Riccardo Wagner ha esercitato sulle mie opere. Non nego certo quest'influsso, anzi ho particolarmente seguito Wagner nell'uso del leitmotiv che trasferii nel racconto, non già, come fecero ancora Tolstoi e Zola e anch'io nel mio romanzo giovanile I Buddenbrook, sol tanto a modo di contrassegno naturalistico, in maniera, dirò cosí, meccanica, bensí seguendo il modo simbolico della musica. Un primo tentativo di questo genere lo feci nel Tonio Kroeger. La tecnica ivi adottata è applicata, entro una cornice molto piú ampia, alla Montagna incantata in un modo complicatissimo e onnipresente. E a ciò appunto si riferisce la mia presuntuosa richiesta che si legga La montagna incantata due volte. Si può afferrare esattamente e gustare il suo ideale e musicale complesso di rapporti solo quando se ne conoscono i temi e si è in grado d'interpretare l'allusione simbolica delle formule non solo come riferimento al passato, ma anche come anticipazione del futuro. Cosí ritorno a un punto, cui ho già accennato, cioè al mistero del temp-o, del quale il romanzo si occupa più volte. Questo è un romanzo del tempo in due sensi: anzitutto sul piano storico, in quanto cerca di delineare l'interiore immagine di un'epoca, quella dell'anteguerra europeo; in secondo luogo, però, perché suo argomento è il tempo puro, e questo oggetto è trattato non solo come esperienza del protagonista, ma anche in e per se stesso. Il libro stesso è ciò che narra; mentre infatti descrive l'ermetico incantamento del suo giovane eroe verso un mondo fuori del tempo, aspira a sua volta, con i suoi mezzi artistici, all'annullamento del tempo mediante il tentativo di conferire, in ogni istante, piena presenza al mondo ideale e musicale che esso abbraccia e di stabilire un magico nunc stans. Ma la sua ambizione di far concordare pienamente contenuto e forma, essenza e fenomeno e di essere sempre, ad un tempo, ciò che espone e di cui parla - questa ambizione va ancora piú in là: essa riguarda anche un altro tema fondamentale, quello del l"'incremento" cui si accompagna spesso l'aggettivo "alchimistico". Voi ricordate: il giovane Castorp è un sempliciotto, un amburghese figlio di papà e mediocre ingegnere.

Ma nel febbrile ermetismo della montagna magica questo semplice soggetto riceve un incremento il quale lo rende capace di avventure morali spirituali e sensuali, che nel mondo detto sempre ironicamente "pianura", egli non avrebbe mai osato sognare. La sua storia è la storia di un incremento, ma è incremento anche in se stessa, in quanto storia e racconto. Procede bensí coi mezzi del romanzo realistico, ma non è tale, va di continuo oltre il reale, poiché lo potenzia a simbolo e ne fa trasparire il lato spirituale e ideale. Lo fa già nel modo di trattare i personaggi che al lettore danno l'impressione di essere piú di quanto non paiano: sono tutti esponenti, rappresentanti e messaggeri di territori, princípi e mondi spirituali. Spero che non siano per questo ombre e allegorie ambulanti. Al contrario, mi rassicura l'esperienza che questi personaggi, Joachim, Clavdia Chauchat, Peeperkorn, Settembrini e via via, sono per il lettore creature reali che egli ricorda come conoscenze incontrate nella realtà. Per accrescimento, dunque, questo libro ha oltrepassato di molto, nello spazio e nello spirito, le iniziali intenzioni dell'autore. La short story è diventata un volumone in due tomi... un malanno che non sarebbe capitato se La montagna incantata fosse rimasta ciò che molta gente vi scorgeva da principio e anche oggi vi scorge: una satira della vita nei sanatori per malati di polmoni. A suo tempo fece non poco scalpore nel mondo dei medici, vi suscitò sia approvazioni, sia indignazione, una piccola burrasca nelle gazzette professionali. Sennonché la critica della terapia sanatoriale è il suo primo piano, uno dei primi piani del libro, la cui natura è tutta di sfondo. Il 'dottrinale invito a guardarsi dai pericoli morali della cura a sdraio e di tutto il sinistro ambiente è, a rigore, affidato a Settembrini, il loquace razionalista e umanista, che è un personaggio come tanti altri, una figura umoristica e simpatica, talvolta anche il portavoce dell'autore, ma non certo l'autore stesso. Per questo infatti la morte, la malattia e tutte le macabre avventure che egli attribuisce al suo protagonista sono appunto il mezzo pedagogico per ottenere un enorme "incremento" e progresso del semplice eroe al di là delle sue primitive condizioni; hanno, proprio in quanto mezzi educativi, un ampio valore positivo, anche se Castorp, nel corso delle sue esperienze, oltrepassa la sua innata devozione alla morte e comprende una mentalità umana che non ignora razionalmente né disdegna, è vero, l'idea della morte né i lati oscuri e misteriosi della vita, ma li include senza lasciarsene dominare nello spirito. Egli impara a comprendere che ogni sanità superiore dev'essere passata attraverso la profonda esperienza della malattia e della morte, come anche la conoscenza del peccato è premessa necessaria della redenzione. "Ci sono due strade" dice a un certo punto Hans Castorp a madame Chauchat "che conducono alla vita: una è la solita, diretta, onesta. L'altra è brutta, porta attraverso la morte ed è la strada geniale." Questa concezione della malattia e della morte come passaggio obbligato al sapere, alla salute e alla vita fa della Montagna incantata un romanzo di iniziazione (initiation story). Non è una definizione mia. Mi fu suggerita, in seguito, dalla critica, e io l'adotto poiché vi devo parlare della Montagna incantata.

Accetto volentieri gli aiuti della critica altrui, perché è errore credere che l'autore sia colui che meglio conosce e può commentare la propria opera. Lo è forse fin tanto che vi indugia e vi sta lavorando. Ma un'opera compiuta e lascìata alle spalle gli diventa sempre piú estranea, distaccata, e col tempo gli altri ne sono informati e vi si raccapezzano meglio di lui, sicché possono rammentargli molte cose che egli ha dimenticate o forse non ha neanche sapute mai con chiarezza. In genere, si ha bisogno di essere ricordati a se stessi. Non sempre si è in possesso di sé, la nostra autocoscienza è debole in quanto le cose nostre non sempre ci sono presenti. Sol tanto in momenti di rara chiarezza, di raccoglimento e perspicuità sappiamo veramente chi siamo, e può darsi che questa sia in buona parte l'origine della sorprendente modestia dei grandi uomini: per lo piú essi sanno poco di sé, non sono presenti a se stessi e a buon diritto si sentono uomini comuni. Comunque sia, è pur sempre attraente ricevere dalla critica chiarimenti dell'essere nostro, ottenere istruzioni su opere del nostro passato e farci riportare ad esse, mentre di rado mancherà la sensazione che meglio di tutto possiamo esprimere in francese: "Possible que j'ai eu tant d'esprit?". La mia costante frase di ringraziamento per siffatte gentilezze è questa: "Le sono molto obbligato di avermi cosí amichevolmente ricordato a me stesso". Cosí ho certo scritto anche al professor Hermann J. Weigand della Yale University quando mi mandò il suo libro sulla Montagna incantata, il piú ampio e profondo studio critico che sia mai stato dedicato a questo romanzo. A coloro tra voi che vi si interessano piú da vicino vorrei raccomandare caldamente questo commento davvero geniale. Poco tempo fa mi è giunto un manoscritto in inglese, dovuto alla penna di un giovane studioso della Harvard University. S'intitola: The Quester Hero. Myth as Universal Symbol in the Works of Thomas Mann e la lettura mi è servita non poco a rinfrescare il ricordo e la coscienza di me stesso. L'autore còlloca la Magic Mountain e il suo semplice eroe entro una grande tradizione,... non solo tedesca, ma mondiale; la inquadra in un tipo letterario che egli chiama "The Quester Legend" e che risale lontano nella letteratura. La sua piú famosa manifestazione tedesca è il Faust di Goethe. Ma dietro a Faust, l'eterno cercatore, sta quel gruppo di opere che portano il nome generico di "Sangraal" o "Holy Grailromances". Il loro protagonista, si chiami Gavain o Galahad o Perceval, è appunto il Quester, colui che cerca e interroga, che percorre il cielo e l'inferno, che tiene testa al cielo e all'inferno e stringe un patto col mistero, con la malattia, col male, con la morte, con l'altro mondo, con l'occulto, con quel mondo che nella Montagna incantata è detto "problematico"... alla ricerca del "Gral", cioè del supremo, del sapere, di conoscenza e iniziazione, della pietra filosofale, dell'aurum potabile, della bevanda di vita. Un siffatto Quester, dichiara l'autore - e non lo dichiara forse a ragione? - è anche Hans Castorp.

Il Quester del Gral, in particolare, Perceval, all'inizio delle sue peregrinazioni è spesso definito "Fool", "Great Fool", "Guil less Fool": cioè corrisponde alla "semplicità", alla "schiettezza" che viene di continuo attribuita all'eroe del mio romanzo... come se un oscuro senso della tradizione mi avesse costretto a insistere su questa qualità. Non è forse anche il Wilhelm Meister goethiano un "Guilless Fool", certo largamente identico allautore, ma sempre anche oggetto della sua ironia? Ed ecco che anche il grande romanzo di Goethe, il quale è tra gli alti ascendenti della Montagna incantata, s'inserisce nella serie tradizionale delle "Questerlegends". E che cos'è in realtà il "Bildungsroman" tedesco, al cui tipo appartengono tanto il Guglielmo Meister quanto La montagna incantata, se non la sublimazione e spiritualizzazione del romanzo d'avventure? Prima di raggiungere il sacro monte il cercatore del Gral deve sobbarcarsi a una sequela di prove tremende e misteriose in una cappella lungo il cammino, chiamata "Atre périlleux". Probabilmente queste prove avventurose erano in origine riti iniziatici, condizioni per avvicinarsi al mistero esoterico, e l'idea del sapere, della conoscenza, è sempre collegata con l"'other world", con la morte e la notte. Nella Montagna incantata si parla a lungo di una pedagogia ermetico-alchimistica, di "transustanziazione"; ed ecco che io stesso, Guilless Fool" anch'io, ero guidato da una tradizione segreta, perché quelle sono le stesse parole che si usano di continuo a proposito dei misteri del Gral. Non per nulla c'entrano nella Montagna incantata la massoneria e i suoi misteri, poiché questa è la diretta discendente dei vecchi riti iniziatici. La "montagna magica è, insomma, una variazione del tempio d'iniziazione, una sede della pericolosa ricerca del mistero della vita, e Hans Castorp, il"viaggiatore in cerca di cultura", ha un ben nobile e mistico-cavalleresco albero genealogico: è il tipico neofito, quanto mai curioso, che volontariamente - fin troppo volontariamente abbraccia la malattia e la morte, perché già il primo contatto con esse gli promette una comprensione straordinaria, un avventuroso progresso... congiunto beninteso a un congruo rischio. E' un commento molto bello e intelligente, quello a cui sono ricorso per istruire voi (e me) intorno al mio romanzo,... questo tardo, modernamente ingarbugliato, cosciente e a un tempo incosciente anello di una lunga catena tradizionale. Castorp cercatore del Gral - non lo avrete pensato quando leggevate la mia storia, e se io stesso lo pensai, fu piú e meno che un pensiero. Fate il favore di rileggere il libro sotto questo angolo visuale: troverete allora che cosa sia il Gral, il sapere, l'iniziazione, quel "supremo" che non solo l'ingenuo protagonista, ma anche il libro stesso vanno cercando. Lo troverete soprattutto nel capitolo intitolato "Neve" dove Castorp, smarrito in altitudini mortali, sogna il suo onirico poema dell'uomo. Il Gral che egli, anche se non lo trova, intuisce nel suo sogno quasi mortale prima di essere trascinato dalla sua altezza nella catastrofe europea, è l'idea del l'uomo, la concezione di un'umanità futura, passata attraverso la piú profonda conoscenza della malattia e della morte. Il Gral è un mistero, ma tale è anche l'umanità: poiché l'uomo stesso è un mistero, e ogni umanità è fondata sul rispetto del mistero umano.

Thomas Mann, Princeton, maggio 1939.